Curiosità di Storia di Fermo e del Fermano nei secoli XI- XIII di Nepi Gabriele

1046 – Clemente II a Fermo di passaggio   p.

1055 – I Normanni e la Marchia Firmana   p.

1080 – Un tributo da versare il giorno di Pasqua      p.

1087 -Gioiello poco valorizzato: antichissima chiesina di Madonna Manù   p.

1116 – I doni portati dai Castelli   p.

1149 – Del palio si parla già in un documento del XII secolo   p.

1149 – Il Palio, espressione della potenza fermana   p.

1170 – La Casula di S. Tommaso Becket, Fermo e la massima benedizione di Allah    p.

1175 – Fermo distrutta dall’Arcivescovo Cristiano   p.

1176 – Fermo distrutta e poi riabilitata   p.

1176 – Barbarossa la chiamò Porto San Giorgio   p.

1182 – Il drappo dei Castelli   p.

1211 – Dal Potenza al Tronto lungo la costa sventolava il vessillo di Fermo   p.

1221 – Mal di denti e Pellegrino da Falerone   p.

1229 – Quanti privilegi per Montegiorgio   p.

1240 – Federico II e S. Elpidio con due diplomi l’imperatore concesse privilegi alle città   p.

1240 – Il privilegio concesso da Federico II imperatore   p.

1240 – La Vallata del Tronto e Federico II   p.

1242 – Epilogo di una Lega di sette secoli fa   p.

1242 – Il panno di Federico   p.

1245 – La Marca Fermana nominata nel Concilio di Lione   p.

1253 – Ranieri Zeno potestà di Fermo eletto doge   p.

1250 – I privilegi di Federico II a favore di Torre di Palme   p.

1266 – G. 7 a Moresco – Il Doge Tiepolo   p.

1267 – La Rocca di Porto S. Giorgio   p.

1268 – Una complicata Riforma elettorale, sette secoli fa   p.

1272 – Un privilegio ai mercanti Fermani   p.

1280 – 16 febbraio 1280: Fermo compera una parte del castello di S. Benedetto   p.

1281 – Santa Maria a Mare   p.

1288 – Ben dieci i Papi Marchigiani   p.

1288 – Ancora di Nicolò IV, Papa   p.

1289 – Nicolò IV   p.

1292- Quel “crudo sasso” reso famoso dal fermano Beato Giovanni    p.

1292-I due Gentili da Mogliano    p.

1294- La tradizione dei focaracci nelle pagine e nei versi di scrittori e poeti    1294- Le coordinate: Ancona e Fermo!   p.

Anno 1046 – Clemente II: a Fermo di passaggio

     Continuando negli stelloncini (non natalizi) ed aspettando Papa Giovanni Paolo II, sottolineamo oggi che le Marche in genere, ebbero a che fare con Papi, i secondi delle serie relative: Clemente II, Urbano II, Pio II, Giulio II ed ora Giovanni Paolo II. Fermo a sua volta ebbe a che fare con Urbano II, Pio II e Giulio II.

    Non era facile né semplice nel 1046 essere Papa. Clemente II, ebbe molto da fare a Roma e nell’Italia meridionale. Passò per le Marche, ma dovette fermarsi a Pesaro a causa una violentissima febbre; qui morì nel monastero di S. Tommaso in Foglia.

     Ma nonostante tutto, lo ricordiamo in questi giorni con i nostri auguri, perché proprio la Notte di Natale ricorrono 942 anni dalla sua elezione a Pontefice. Vescovo di Bamberga in Sassonia, anche da Papa mantenne tale vescovado. Incoronò imperatore Enrico III e lo accompagnò a Salerno, Benevento ed in Germania.

    Clemente II fu da noi solo di passaggio; vedremo Urbano II che fu a Fermo nel 1195; quest’anno ricorrono novecento anni della sua elezione a Papa (1088-1099).    

     Clemente sebbene morto in terra marchigiana, fu riportato, secondo suo desiderio, a Bamberga ed ivi sepolto.

     Nel 1237 gli venne eretto, in quella Cattedrale, un degno monumento sepolcrale. È l’unico Papa sepolto in Germania.

Anno 1055 – I Normanni e la Marchia Firmana

     In questi giorni tra le mostre che ciclicamente vengono allestite a Roma, una spicca per importanza ed interesse: quella sui Normanni. Lo documentano le lunghe code di attesa, composte da amatori curiosi, ma anche da qualificati studiosi. I Normanni, questo popolo del nord, che nel secolo VIII per mare e per terra invase l’Europa spingendosi fino alla Groenlandia, si stanziò anche in Francia, occupando per ben tre volte Parigi e dando il nome a quella Regione che da loro prese il nome di Normandia. Da qui invasero l’lnghilterra, sconfiggendo gli abitanti nella famosa battaglia di Hasting (14 ottobre 1066). Si spinsero poi a sud occupando anche tra il 1043 e il 1098 l’Italia meridionale. Sono noti nella storia i nomi di Tancredi d’Altavilla, di Ruggero, di Roberto il Guiscardo, di Boemondo fondatore del principato di Antiochia. Ma nella storia dei Normanni vi è una “connotazione” fermana o meglio della Marca Fermana. Gli abitanti di questa, combatterono a fianco delle truppe papali, allorché Papa Leone IX dichiarò loro guerra per aver occupato terre su cui la Roma papale avanzava diritti. Tremendo fu lo scontro a Civitate in Puglia (18 giugno 1055) e l’esercito pontificio in cui militavano anconetani, fermani, spoletini, venne sconfitto. Tuttavia si verificò qui quanto affermato da Orazio (Epist. 11,1,56). “Grecia capta ferum victorem coepit et artes intulit agresti Latio” (La Grecia pur vinta vinse il rude vincitore e insegnò le arti all’agreste Lazio).

     Infatti, il Papa, pur sconfitto, impose la sua autorità e la sua forza morale, talché i Normanni obbedirono ai suoi desiderata.

     Guglielmo di Puglia narra che “il biondo Roberto dall’alta ed im-ponente statura, glorioso per tante battaglie, si inginocchiò davanti al Papa e gli baciò il piede. Gregorio (è Gregorio VII) lo fece alzare e lo invitò a sedere accanto a lui”.

     Riecheggiando Orazio, uno storico coevo (come ci narra il Muratori) dice che il Papa, pur vinto dai Normanni, dettò legge ai vincitori e vinse con la religione, coloro che non era riuscito a sottomettere con le armi (A Normannis victus leges dedit victoribus et quos armis superare non potuit, religione fregit).

     Latino facile di cui il lettore ci perdonerà, ma che abbiamo dovuto citare, perché più splendido apparisse il parallelo con Orazio.

     Vi fu poi un’intesa tra Papa Gregorio VII (il famoso Ildebrando, alleato di Matilde di Canossa) e Roberto il Guiscardo. Gregorio gli conferisce l’investitura di parte dell’Italia meridionale “della terra che ti concessero i miei antecessori di santa memoria, cioè Nicola ed Alessandro, Amalfi e parte della Marca Firmana, per il momento ti tollero, fidando in Dio e nella sua bontà, col patto che tu in seguito debba comportarti verso di me come richiede l’onore di Dio e di S. Pietro”. Si noti quella precisazione di “parte della Marca Fermana”. Ruggero, infatti, col suo esercito l’aveva occupata, tutta cioè dal Musone fino al sud di Vasto. Ma poi aveva restituito al Papa la parte a nord del Tronto, tenendosi per sé quella a sud di tale fiume. Così il nome “Marchia Firmana” , già apparso in precedenza sia nel “Chronicon Farfense”, sia in diplomi imperiali, brilla ora in un atto giuridico tra Papa e imperatore, dopo essere apparso anche nella bolla di scomunica che il Papa, in precedenza, aveva lanciato contro i Normanni “videlicet Marchiam Fir-manam universis abbatibus et episcopis in Marchia Firmana, etc.”.

1080 – Un tributo da versare il giorno di Pasqua

     Nella storia d’Italia, spesso la data della Pasqua serviva per ricordare la consegna di doni, di regalie, di omaggi, di tributi e di censi… “Nel giorno della Pasqua di Resurrezione offra alla chiesa, tot. numero di polli, di uova, tanti agnelli” etc.    

     Prosaicità che adombra lo splendore di vita nuova!

E proprio nel giorno della Pasqua di Resurrezione, un condottiero normanno, Roberto il Guiscardo, sin dall’anno 1080 prometteva ad Ildebrando di Soana, o meglio a Papa Gregorio VII, famoso per la vicenda di Enrico IV a Canossa e per la Contessa Matilde, vindice del papato, di versargli un tributo o censo di dodici denari di moneta di Pavia per ogni paio di buoi.

     Tale censo era il corrispettivo per avere il Guiscardo invaso Salerno, Amalfi e la Marca fermana. Infatti, in un primo tempo, Roberto il Guiscardo era contro il Papa; poi passò a difenderlo. Era pendente l’occupazione delle due città e della Marca Fermana a sud del Tronto. In un primo tempo l’aveva occupata quasi tutta, ma poi restituì a Gregorio VII la parte a nord del Tronto, tenendo per sé Amalfi, Salerno e la Marca Fermana sud.

     Passato dalla parte del Papa Gregorio VII, Roberto riceve l’investitura di terre pontificie. “Io Gregorio papa, conferisco a Te, duca Roberto, l’investitura della terra che ti concessero i miei predecessori di santa memoria Nicolo’ ed Alessandro (sono i Papi Nicolo’ II (1061) e Alessandro II (1071) – ndr). In quanto all’altra terra che tieni ingiustamente, cioè Salerno, Amalfi e parte della Marca Fermana, per il momento ti tollero, fidando in Dio e nella sua bontà in modo che tu debba in seguito comportare verso di me come richiede l’onore di Dio e di S. Pietro senza pericolo dell’anima tua e della mia….”.

     A questa investitura fa eco “Roberto, per grazia di Dio e di S. Pietro Duca della Puglia, Calabria e Sicilia…” promettendo a Gregorio e successori “a nome proprio, degli eredi o successori l’annuo tributo di cui sopra da pagarsi in die Resurrectionis Domini”, nel giorno cioè della Resurrezione del Signore. Roberto fu fedele alla promessa e salvò anche Papa Gregorio dall’assedio posto a Castel Sant’Angelo dallo spegiuro Enrico IV che aveva assolto dalla scomunica. Da quella Pasqua ne sono trascorse ben 912!

     Oggi gli abitanti di quella che fu la Marca Fermana dovrebbero elevare un pensiero memore e grato verso Gregorio, figura che giganteggia nella storia, quale vindice dei diritti della Chiesa e della libertà della Marca Fermana.

Anno 1087 – Gioiello poco valorizzato, l’antichissima chiesina di Madonna Manù

    “Salve chiesetta del mio canto!”, così Carducci nell’ode “La Chiesa di Polenta”; così chi scrive, con minore autorità, ma con non minore affetto, saluta la chiesina di Madonna Manù. Etimologia ebraica: Manù = cos’è questo?

     Affonda le sue origini all’alto Medioevo. Risalente il secolo X, come la chiesa di Polenta; è detta anche Madonna delle Noci, perché fino a poco tempo fa, dopo la Messa, vi si giocava a castelletti di noci.

     Qualcuno dei “miei venticinque lettori” si domanderà subito dove sorge tale chiesina. Chi imbocca la strada che dall’Adriatica porta a Lapedona (Camping Mirage) a metà strada, in posizione incantevole preceduta da un duplice filare di cipressi, scorge S. Maria de Manù.

     Fu donata da Raimburga, badessa del monastero Leveriano presso il fiume Aso, all’Abbazia di Montecassino. Piccola e sconosciuta la chiesetta; grande e celebre la sua storia. Con la chiesa e il castello di S. Biagio in Barbolano, siti in territorio di Altidona (sopra il Camping Mirage) è nominata nelle porte di bronzo della Basilica di Montecassino, fuse al tempo dell’abate Oderisi (1087-1105).

     Recitano nell’originale latino… “Nel Fermano abbiamo il castello di Barbolano con la chiesa di S. Maria e S. Biagio con gli annessi pos-sedimenti”. Le lamine che ne parlano, sono la sesta e la settima del battente di destra, miracolosamente indenni nel tremendo bombardamento alleato che distruse il Cenobio e le altre lamine (1944).

Se altre chiese avessero tale privilegio e una documentazione così splendida e bronzea (Aere perennius) lo griderebbero ai quattro venti. Invece, per la nostra chiesetta, si è fatto ben poco.

     Romanica, come le “sorelle maggiori” quali S. Maria a Pié di Chienti, S. Claudio a Corridonia, Ss. Stefano e Vincenzo a Monterubbiano, S. Quirico e Lapedona, etc. è un vero gioiello d’arte.

     Abbiamo accennato a Lapedona, nel cui territorio sorge, ma la giurisdizione spirituale di essa, è del pievano di Altidona, a cui passarono i beni dell’Abbazia di Montecassino.

     Ogni anno, da secoli, l’8 settembre vi si recano pievano e fedeli di Altidona; vi si celebra la Messa e poi si gioca a castelletti di noci.

     Semplice e spoglia nelle linee purissime del romanico classico, è stata restaurata nel 1942 per iniziativa del pievano Petroselli di Altidona e riportata alla primigenia bellezza. Fiancheggiata da “ardui cipressi”, campeggia in un’area agreste e campestre di “profondissima quiete”. Fino al 1926 vi si ammirava uno stupendo polittico attribuito in un primo tempo a Pietro da Montepulciano; ora, dopo approfonditi studi, a Cristoforo Cortese (fine secolo XV). Tale polittico spicca ora nell’altare maggiore della parrocchiale di Altidona, alla cui giurisdizione spirituale, come detto, appartiene.

     Se Carducci l’avesse celebrata, come la chiesa di Polenta, sarebbe ora su tutte le Guide ed i Baedeker del mondo. Oggi chi canta a lei, è un povero menestrello: “Vixere ante Agamennona multi, sed illacri mabiles… carent quia vate sacro” e cioè “Vissero molti famosi, prima di Agamennone, ma sono ignorati, perché manca un sacro vate”.

Così canta Orazio! “Salve chiesetta del mio canto!”.

Secolo XI – I doni portati dai castelli

  Si ha notizia che sin dal secolo XI i signorotti dei castelli soggetti a Fermo dovevano portare per l’occasione della festività dell’Assunta, le loro offerte ed i loro doni.

     Il signore (meglio: gastaldo) di Corridonia, allora Montolmo, doveva portare un maiale e cento meloni; quello di Monturano, un maiale; quello di Civitanova (Marche), sei polli e cento uova; Campofilone doveva tre soldi e mille denari; il Monastero di S. Donato al Tronto, pure tre soldi e mille denari. Tutte le località soggette a Fermo da Poggio S. Giuliano alle porte di Macerata, alle località della foce del Tronto, contribuivano con prosciutti, maiali, polli, soldi, cera, uova, ecc.

      Fermo partecipava alla novena di preparazione, con vistose offerte in denaro ed in natura. Cospicue le offerte dei macellai, calzolai, osti, albergatori. Gli agricoltori davano tre bolognini a testa per il cero; i bottai ne offrivano due. Osti ed albergatori, oltre al cero, offrivano una taberna in miniatura ricolma di doni; ogni famiglia dei castelli soggetti doveva dare al proprio “scindico” 12 denari e ciascun “scindico” con tali somme, doveva approntare un cero maestoso che sfilasse con i rappresentanti del castello (unum cerum prò quolibet castro).

     A loro volta il Podestà, il capitano e gli altri Officiali, offrivano un cero ciascuno come pure il Gonfaloniere di giustizia, i Priori e le altre autorità cittadine, le famiglie di Fermo, ad eccezione di quelle povere, dovevano offrire un cero alla Cattedrale insieme ai componenti della propria contrada.

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Anno 1149 – Il Palio, espressione della potenza fermana

     Il documento più antico delle Cavalcate e del Palio risale al 1182, anno in cui Monterubbiano, Cuccure e Montotto (da non confondere con Montottone) si impegnavano a portare ogni anno a Fermo il Palio, in occasione della Festa dell’Assunta.

     Da meticolose ricerche nell’Archivio di Stato di Fermo abbiamo rinvenuto un atto del 1449. In tale anno, Fermo lamenta che Monterubbiano non ha portato il palio, cosa che “ha sempre fatto da trecento anni”. Possiamo quindi dedurre che tale usanza risale al 1149, anticipando così di quasi tre lustri il documento del 1182.

     La festa dell’Assunta a Fermo ha radici lontane. Risale al 998 un atto con il quale il Vescovo della sede fermana, Uberto, concede un ap-pezzamento di terra sulla strada per Cossignano, in cambio di 400 soldi annui da pagarsi appunto in occasione della festa dell’Assunta. La festa aveva il suo culmine nella Cavalcata, risalente, come detto, al 1182 o meglio al 1149. Essa partiva dalla chiesa di Santa Lucia, passava per Campoleggio, risaliva il colle e faceva sosta nella attuale Piazza del Popolo tra una folla plaudente, lo squillo delle chiarine, lo scampanìo festoso di tutte le campane della città, il rullo dei tamburi, lo sparo dei cannoni della rocca. Le vie e la piazza pavesate a festa, in una gloria di so¬le e di colori, conferivano alla sfilata una nota di policroma festività. Era la festa in onore dell’Assunta, la Patrona di Fermo, ma anche la rassegna della potenza e della grandezza dello Stato Fermano. Tutti quelli che partecipavano alla sfilata dovevano essere elegantemente vestiti, sfoggiare i più ricchi e sontuosi paludamenti come si conviene in una rassegna alla quale partecipavano le autorità fermane, quelle dei castelli dipendenti, ambasciatori, giudici, il Podestà, il Capitano di giustizia, il Gran Gonfaloniere, i Priori, i Regoli, i Cancellieri, i Notai.

     Coll’andare del tempo, si apportarono alcune modifiche: alla offerta del tempo (cera, polli, maiali, uova), come già accennato si sostituì l’offerta in denaro; i cittadini di Porto S. Giorgio (allora Porto di Fermo), vestiti di broccato conducevano con sé le loro donne ornate di gioielli e vestite splendidamente; essi potevano introdurre in Cattedrale la tipica loro barca. I mugnai ed i macellai, facevano portare dai loro val¬letti una guantiera d’argento con una rilevante somma di monete d’oro. Chiudevano il corteo gli “scindici” e vicari dei castelli, in groppa a cavalli riccamente bardati. Alcuni giovani (dopo l’invenzione della armi da fuoco) sparavano colpi a salve durante lo snodarsi del corteo, scandendo così le varie fasi della cerimonia.

     La cavalcata ebbe vita gloriosa fino ai primi del ’600 e, dopo un periodo di decadenza, venne riportata al primitivo splendore da Mons. Amedeo Conti. Tale Cavalcata abolita nel 1808 durante il Regno Napoleonico (Fermo in tale epoca era capoluogo del Dipartimento del Tronto da cui dipendevano le vice prefetture di Ascoli e Camerino), tornò in vita dopo il Congresso di Vienna, ma senza il primitivo splendore; condusse poi vita grama fino al 1860, anno in cui cessò.

Tornata a rivivere dopo otto secoli, nel 1982, con la sola edizione del Palio, sta riprendendo il primigenio splendore e l’antica fama.

Anno 1149 – Del Palio si parla già in un documento del XII secolo

     Quanti sono i documenti che parlano del Palio?

     Nel 1182, nei patti di pace tra Fermo e Monterubbiano, quest’ultimo promette di “portare ogni anno un bel palio ornato di tutto punto per la festa dell’Assunta”. È questo il documento ufficiale inequivocabile. Però, la notte prima della Festività dell’Assunta del 1449, i cittadini di Monterubbiano effettuarono una scorreria contro Petritoli, prendendo due prigionieri e rubando quindici buoi.

Fermo per appianare tali “differenze” (così venivano allora chiamate le liti fra paesi) manda un suo delegato impartendogli alcuni ordini. Fra essi c’era il seguente (ovviamente in latino) che recitava: “…in secondo luogo ti lamenterai degli abitanti di Monterubbiano perché quest’anno non ci hanno inviato il palio di seta, cosa che hanno fatto e fanno da trecento anni. Dagli stessi cittadini di Monterubbiano, abbiamo saputo che nella notte precedente la festa dell’Assunta (cioè 15 agosto n.d.r.) il podestà di Monterubbiano e 15 uomini, entrarono nel castello di Petritoli, rubarono quindici buoi… e prelevarono due uomini accusando uno di essi di una colpa già scontata. Comunque noi, per togliere ogni motivo di astio, eravamo contenti di ricevere il palio, vedere libe¬rati i prigionieri e restituiti i buoi, sperando nella mediazione di Ser Andrea, giudice dei malefici…” etc.

     Come si vede, qui si parla di trecento anni… Se presi alla lettera, ti portano al 1149, che sarebbe la prima data ora conosciuta del palio. Se presi in maniera indeterminata cioè circa 300 anni sono un’ulteriore conferma del palio che viene nominato e nel patto di pace del 1182 e nella vicenda della scorreria di Monterubbiano contro Petritoli. Una cosa è certa: si parla del palio già nel secolo XII. Come si vede da un furto (nel nostro caso quello del bestiame) possono scaturire elementi storici di altro interesse ed illuminare anni di “silenzio e tenebre”.

     Il Palio quest’anno segue il percorso indicato negli Statuti di Fermo, risalenti al trecento.

     Con tutto il rispetto per il Palio di Siena (più famoso e più conosciuto ma non più antico) il nostro vanta più di otto secoli di vita.

Anno 1170 – La casula di S. Tommaso Becket, Fermo e la benedizione di Allah

     Un mese fa il Prof. Donald King in occasione della presentazione del volume sul piviale di Nicolò IV avvenuta in Ascoli, quando seppe che eravamo di Fermo, ci disse nel suo impeccabile inglese: “You at Fermo have a reai treasury” (avete un autentico tesoro). Il professore alludeva alla casula di S. Tommaso Becker Arcivescovo di Canterbury martirizzato nel 1171 sotto Enrico IL

     Tutti ricordano l’opera di T.S. Eliot “Assassinio nella Cattedrale”. Essa narra proprio l’uccisione di Tommaso Becket. Dopo tale misfatto, i seguaci di Tommaso vennero perseguitati e si dispersero. Tuttavia cercarono di mettere in salvo le suppellettili preziose della Cattedrale e lo fecero attraverso Dublino. Da Dublino la casula finì a Fermo (from there it was taken to thè town of Fermo in Italy) Becket aveva avuto a Bologna come compagno di Università Presbitero, che poi diverrà Vescovo di Fermo. La casula finì nelle sue mani ed egli la donò alla cattedrale, dove da secoli è conservata.

Opera di eccezionale bellezza, è composta da 40 medaglioni ricamati in seta ed oro, ognuno del diametro di cm. 20. Tema ricorrente, tra le raffigurazioni di pavoni d’oro, grifoni, leoni alati etc. sono le aquile di chiaro richiamo alle stoffe di Bagdad. Larga m. 5,41, lunga m. 1,60, fu ricamata ad Almeria nell’anno 1116 dell’era cristiana. Il Prof. David Rice dell’università di Londra, la studiò a lungo ed intensamente e non ha esitato di affermare che è il più antico ricamo arabo che si conosca nel mondo.

     Inizialmente di forma rettangolare, costituiva una specie di mantello regale. Sebbene conservata da secoli in Cattedrale sul Girfalco, tuttavia essa costituì quasi una rivelazione allorché fu tolta dall’antica cassa che la conservava ed esposta al pubblico e ciò per suggerimento del Card. Merry del Val nel 1925. Stupenda “nelle bizzarre cadenze del giuoco lineare, nelle contrapposizioni ritmiche, nello sfavillìo delle colorazioni quasi illuminate da riflessi magici”, fu ammiratissima nell’esposizione di Roma del 1937; indi in quella di Parigi del 1951; fu esposta nel 1973 a Londra, per iniziativa del giornale Daily Mail nella Exihibition Ideal Home XIX century. L’attuale Regina d’Inghilterra rimase a lungo in estatica ammirazione davanti ad essa.

     Il Prof. Rice, nel 1959 riuscì ad identificare la scritta nel rettangolo al centro. Essa, redatta in caratteri cufici, recita: “In nome di Allah, il misericordioso, il compassionevole. Il regno è di Allah”; segue poi quella che è la benedizione per Fermo o meglio per il possessore (o possessori) di tale casula: “Massima benedizione, perfetta salute e felicità al suo possessore. Nell’anno 510 in Maiyya”.

     Saddam Hussein, che propugna la guerra santa, che ne direbbe di questa benedizione e massima benedizione del suo Allah verso noi “infedeli”?

Anno 1175 – Fermo distrutta dall’Arcivescovo Cristiano    

     Nei pressi di Marengo, resa poi celebre dalla vittoria di Napoleone Bonaparte sugli Austriaci (14 giugno 1800), è accampato l’esercito di Federico Barbarossa. Ha assediato per sei mesi e invano Alessandria, la fiera cittadina simbolo della Lega Lombarda. È il 12 aprile 1175: Sabato Santo. Giosuè Carducci nell’ode Sui campi di Marengo, così descrive la scena: “Stretto è il leon di Svevia entro latini acciari / Ditelo, o fuochi a i monti a i colli a i piani ai mari….”

    Nell’esercito imperiale, c’è anche l’arcivescovo di Magonza, Cristiano, che sarà funesta “conoscenza” per Fermo. Ecco come lo descrive Carducci: “E dice il magontino Arcivescovo: Accanto / de la mazza ferrata io porto l’olio santo / C’è n’è per tutti. Oh almeno foste de l’al¬pe ai varchi / miei poveri muletti d’italo argento carchi /”. Carducci parla anche del Conte del Tirolo, che teme di essere ucciso dai lombardi: “… io cervo sorpreso dai villani / cadrò sgozzato in questi, grigi lombardi piani…”. Cristiano, Arcivescovo di Magonza! Non sappiamo quanti muletti carichi “d’italo argento” e d’altre suppellettili abbia spedito oltr’Alpe. Tristemente sappiamo che il 21 settembre dell’anno successivo, dalla zona di Campiglione, dove si era accampato, si dirige su Fermo e la mette a ferro e fuoco. …In millesimo 1176 infesto Beati Mathei de mense septembris civitas firmano fuit invasa occupata ac destructa ab Archiepiscopo Maguntie dicto alias Cancellano Christiano, cioè “nel 1176 nella festa di S. Matteo (21 settembre) la città di Fermo fu invasa, occupata e distrutta dall’Arcivescovo di Magonza, Cancelliere dell’Impero”. Ingenti furono i danni, specie alla cattedrale; ma, quel che è peggio nell’incendio perirono miseramente atti e documenti storici di altissimo valore.

     L’anno dopo troviamo Cristiano ad Assisi. Da qui, in data 3 gennaio 1177 emana un privilegio con cui “restituisce e conferma la libertà e il godimento di tutti i diritti a Fermo”. Da Sirolo, nel febbraio successivo (forse la coscienza lo rimordeva!), con analogo privilegio, ma più incisivo e decisivo, minaccia severe pene contro chi volesse attentare alla libertà di Fermo e rinnova ai fermani, ampliandola, l’autonomia amministrativa e politica. Testimoni di questo secondo privilegio sono il Duca di Spoleto Corrado Svevus, Leo de Monumento, Simpliciano, Alberto Coni, Alberto Santo, Viberto, Ruggero ed altre personalità tedesche e latine.

     L’assalto a Fermo ebbe ripercussioni ad alto livello. Se ne interessò anche Papa Alessandro III: da Venezia ordina di restituire a Fermo le suppellettili sacre asportate in occasione del saccheggio, pena la scomunica.

Anno 1176 – Barbarossa lo chiamò: Porto S. Giorgio

     Porto S. Giorgio, cittadina a specchio “dell’Adriaco mare”, antico navale di Fermo, patria di Pio Panfili pittore ed architetto; di Tommaso Salvadori, conosciuto più all’estero che in Patria; di Francesco Trevisani etc. Sede ideale per passarvi la “luna di miele”, incantò poeti e scrittori. D’Annunzio nel 1893 vi trascorse appunto la luna di miele, seguito, dopo decenni, da Luigi Bartolini, l’autore fra l’altro di “Ladri di biciclette”, che vi celebrò il suo matrimonio nel 1928 con una pimpante friulana. Portus Sancti Georgii lo chiamò Federico Barbarossa.

quello della Lega Lombarda e della battaglia di Legnano. Ma anche in documenti di poco posteriori, figura con il toponimo Portus Sancti Georgii. Lo troviamo, in una delle tante pergamene del ricchissimo archivio storico Comunale di Fermo. Essa recita che “essendo la città di Fermo tornata di recente (nuper) all’obbedienza di Federico II, Roberto di Castiglione, Vicario imperiale del Sacro Romano Impero nelle Marche, decretava l’annullamento dei bandi e delle pene per malefici, offese et similia commesse dai cittadini fermani”. Ma nel documento c’è un passo molto importante e riguarda il porto della città. Come è noto, in quel periodo Fermo era un’importante potenza marinara. Un docente universitario l’aveva definita qualche anno fa la “quinta repubblica marinara d’Italia”. Intenso era il suo commercio e basta scorgere una qualsiasi carta nautica del tempo, od i Comuni portolani, per sincerarsene. Aveva soprattutto un intenso commercio con Venezia, verso cui esportava derrate alimentari, vino ed olio, di cui la città lagunare scarseggiava. Fermo poi con il suo porto aveva una funzione anti- anconetana e favoriva la Repubblica di Venezia. Roberto di Castiglione nel documento in data 7 aprile 1242, stabiliva in virtù dell’autorità imperiale di cui era investito che “tutte le navi ed i natanti da qualsiasi parte provenissero, potevano liberamente attraccare alla riva od al Porto di S. Giorgio e rimanervi all’ancora per il tempo che volessero”. La stessa cosa per i naviganti: essi potevano rimanere nella zona portuale od in città per il tempo di loro gradimento; potevano commerciare liberamente con i forestieri, Fermo mirava a conservare e potenziare il porto e proteggere coloro che vi sbarcavano. È questa una’altra prova dell’antica dizione: Porto S. Giorgio che troviamo indiscriminatamente anche come Porto di Fermo (Portus Firmi). Il toponimo quindi Portus Sancti Georgii (= Porto S. Giorgio) non venne dato da un Papa nel 1857 come scritto da qualche pseudo storico, ma il toponimo affonda le sue radici ai tempi di Barbarossa e del vicario imperiale di suo nipote Federico II, cioè Roberto di Castiglione vicario imperiale di tale imperatore e del Sacro Romano Impero nella Marca d’Ancona.

Anno 1176 – Fermo distrutta e poi… riabilitata

     Correva l’anno 1176. Poco prima aveva avuto luogo la battaglia di Legnano con la sconfitta del Barbarossa. Le truppe della Lega Lombarda, il cui “nume” era Papa Alessandro III, avevano vinto. Era il 29 maggio 1176. Una parte però dell’esercito imperiale diretta verso sud e comandata dall’arcivescovo (scomunicato) Cristiano di Magonza, si era accampata al di là del fiume Tenna nei pressi della chiesa di Santa Maria di Giacomo, territorio di Monturano.

     Cristiano di Magonza, mandò dei messi a Fermo, allora di parte guelfa. Egli, in qualità di comandante, di arcicancelliere dell’impero e delegato del Barbarossa, esigeva da Fermo tributi e contribuzioni. Era piuttosto inferocito. Tre anni prima aveva posto l’assedio ad Ancona e se ne era dovuto allontanare con le pive nel sacco. Recente era la sconfitta imperiale a Legnano. Le cose non andavano bene né per lui, né per il suo “capo”, il Barbarossa. I Fermani, alle richieste esose di Cristiano, risposero picche e (sembra) malmenarono i messi. Inviperito, Cristiano fa dare fiato alle trombe e dal Tenna con l’esercito, muove contro Fermo. La cinge d’assedio, la espugna e la mette a ferro e fuoco. Era il 21 settembre 1176, giorno della festa di S. Matteo. Anton di Nicolo’, sto¬rico fermano, con icasticità tacitiana annota in un latino facile a comprendersi: “In millesimo centesimo septuagesimo sexto, infesto beati Matthei de mense septembris, civitas firmarla fuit invasa, occupata et destructa ab archiepiscopo… Christiano”.

     Brevi parole che rivelano una grande tragedia.

     Di tale distruzione parlano vari storici, tra cui il Muratori e l’Ughelli (Italia sacra, vol. II) il quale sottolinea… “e quello che più indigna è che furono distrutti tutti gli atti e documenti della storia di Fermo”.

     Fermo piombò nella desolazione più nera. L’anno dopo, Cristiano, forse pentito o perché Papa Alessandro aveva fatto pace col Barbarossa, emanò da Assisi un decreto in data 3 gennaio 1177. In esso “l’arci-cancelliere del Sacro Romano Impero, il Legato in Italia e Luogotenente Generale dell’esercito imperiale ammette di aver recato ingentissimi danni a Fermo” e “restituisce e conferma alla città la libertà, diritti, beni, possessi e privilegi”.

     L’altro decreto è datato a Sirolo (cfr. Erzbischof Christian I von Mainz: Berlin, 1867) nel febbraio 1177. Con esso ribadisce quello emanato da Assisi, precisando che “nessuno, compreso lo stesso arcivescovo. osi edificare a Fermo e nel suo castello senza il permesso della città, pena cento libre di multa”. Ma la città non si ricostruisce con decreti e Fermo soffrì molto, prima di riacquistare parte del primitivo splendore, e preziosissimi atti e documenti sparirono per sempre.

Anno 1182 – Il drappo dei Castelli

     La corsa del Palio riesumata nel 1982. dopo otto secoli esatti da quello che si reputava il primo documento scritto, ha radici più antiche. L’uso di porre come premio di gare un drappo di stoffa preziosa, chiamato palio, era tradizione in molte città nel Medio Evo. Oggi il Palio più famoso è quello di Siena, sebbene meno antico di quello di Fermo. Infatti esisteva nel 1282, ma la sua organizzazione vera e propria risale al 1656. La corsa del palio di Fermo si svolgeva nelle ore antimeridiane “de mane ante prandium”. Al vincitore si dava come premio un palio o drappo di seta prezioso, al secondo veniva dato un falco o astore. La gara si svolgeva, come nelle edizioni attuali, “in via maris”, cioè da Porta S. Francesco lungo la strada che portava al mare. Gli Statuti commi¬navano pene severe a chi creava intralci nello svolgimento e favoriva questo o quel cavallo. I Cavalli della Via maris entravano anche in Cattedrale “intrabant in ecclesiam S. Mariae in Castello”. Aveva poi luogo il gioco dell’anello. Il cavaliere, correndo, doveva infilare con una lancia un anello fisso o mobile.

      Vi era pure la Quintana. Il cavaliere si esercitava contro un bersaglio mobile, costituito da una statua gigante con un braccio teso lateralmente. Se il cavaliere non colpiva velocemente o al segno giusto, il braccio della statua, che nel nostro caso si chiamava (e si chiama) Marguttu, colpiva l’incauto cavaliere. Vi era inoltre la Giostra del toro, per molti versi simile alla odierna Corrida spagnola. La corsa al palio, con l’andare dei secoli, decadde e venne sostituita con la corsa degli asini.

     Oggi, dopo otto secoli, la corsa al Palio non si svolge più al mattino (ante prandium) ma nel pomeriggio. Quei patti di pace stipulati nel 1182 tra Fermo e Monterubbiano e la inequivocabile documentazione della dotazione da noi scoperta, che riporta ad anni anteriori la corsa del Palio, permeano di profonda consapevolezza la celebrazione. Brilla, nel fulgore del sole agostano, la formula… “e promettiamo di portare ogni anno a Fermo, in occasione della Festa di Santa Maria di Mezz’Agosto, unum pallium bellum et bonum (un palio splendido e ben lavorato)”; notiamo anche il rammarico di Fermo che, nel 1449, lamenta che Monterubbiano non ha portato in quell’anno il Palio, cosa sempre fatta da trecento anni; il grave disappunto dei cittadini di Fermo per la mancata partecipazione, indica quanto e come la città tenesse a tale palio.

     Dei tre castelli (Monterubbiano, Cuccure e Montotto) restano il primo e Montotto sua frazione. Cuccure infatti è scomparso, lasciando il posto all’odierno giardino di S. Rocco a Monterubbiano. Monterubbiano, legata a Fermo da allora, oggi toma con i suoi “militi” sbandierato-ri della Sagra dei Piceni, o “Sciò la pica” a sfilare con Fermo; vi partecipano, inoltre, i componenti del Torneo Cavalleresco di Servigliano, gli sbandieratori di Castel Fiorentino e anche i protagonisti della nota “Contesa del Secchio”. In una festa di sole e colori, Fermo e il Fermano celebrano la corsa del Palio, e la lontana Offida. sempre legata a Fer¬mo (talché si oppose a far parte della Diocesi di Ascoli preferendo Fermo), conserva ancora nella chiesa Collegiata un palio, vinto dall’offidano Giuseppe Desideri nel 1840, grazie ad una sua velocissima cavalla. Offida tuttora va fiera di tale palio, o meglio della Madonna del Palio, che è venerata colà con grande devozione e più volte preservò la cittadina da pericoli gravi: ultima la salvezza del paese durante la guerra 1940/’45.

     Oggi le antiche contrade di Fermo sono ridimensionate nella corsa al palio con l’aggiunta di Torre di Palme, Marina Palmense. Capodarco, Molini Girola, Campiglione.

Anno 1211 – Dal Potenza al Tronto lungo la costa la Marca Fermana

     Siamo al 6 ottobre 1238. Da appena ventisette anni Fermo gode del privilegio dell’imperatore Ottone IV (1182-1218), privilegio rilasciato in data 1 dicembre 1211 da Sant’Angelo di Subterra (Puglia) in virtù del quale, oltre alla concessione della zecca, la città ottiene la giurisdizione sul litorale adriatico dal fiume Potenza al fiume Tronto (a flumine Potentiae usque in flumen Trunti). Nessuno senza il benestare di Fermo può fabbricare edifici e tanto meno fortezze, per la profondità di un chilometro.      

     Ovviamente ciò precludeva ad Ascoli uno sbocco al mare, sbocco necessario per commerci e traffici della città e dell’intera vallata del Tronto. Cosa del resto non nuova se consideriamo la situazione nell’ex-Jugoslavia, dove infuriano guerre fratricide e dove la sola remora ad un trattato di pace è la negata concessione di uno sbocco al mare per i mussulmani. Ma allora, Ascoli non reclamava il diritto al mare; ed infatti, nella seduta del consiglio comunale generale, radunato in solenne tornata, Magliapane di Reggio, giudice ed ambasciatore di Fermo, delegato dal podestà Ugo Roberti, chiede di poter parlare ai consiglieri ascolani. Egli, presa la parola, ammonisce loro e l’intero consiglio di non compiere azioni di qualsiasi genere che potessero essere di danno o pregiudizio alla città, nel tratto fra il Tronto ed il Potenza e ciò perché esso rientra nella giurisdizione fermana. Anzi, precisa Magliapane, il diritto e la giurisdizione di Fermo si estende anche a sud del Tronto (et etiam ultra Truntum, dice testualmente) perché appartenente alla Diocesi ed al comitato fermano. Ed a tal proposito, chiede al consiglio comunale di Ascoli di esporre il suo punto di vista, mediante una risposta pubblica. “Detto consiglio (traduciamo letteralmente) dopo lungo dibattito e matura deliberazione, fece rispondere per bocca di Giacomo Diotisalvi consigliere di Ascoli al rappresentante di Fermo, che non fu mai loro volontà, proposito od ordinamento di fare alcunché contro i diritti di Fermo”. Non vi furono atteggiamenti o prese di posizione da parte di Ascoli contro tale risposta. L’ambasciatore di Fermo allora ringraziò, ribadì che la giurisdizione di Fermo si estendeva anche a sud del Tronto e due notai, uno di nome Altidona e l’altro Gerolamo Pitio, redassero l’atto relativo “consacrando” il fatto alla storia. Sono passati anni e secoli, ma ancor oggi alcune località del Teramano, site a sud del Tronto come Martinsicuro, Colonnella, Sant’Egidio alla Vibrata appartengono alla Diocesi di S. Benedetto-Ripatransone-Montalto, territorio in gran parte della Diocesi di Fermo, alla quale fu sottratto nel 1571 e successivamente nel 1586, per l’erezione della Diocesi di Ripatransone e poi di Montalto ora riunite e costituenti un tutt’uno con sede vescovile a S. Benedetto del Tronto.

Anno 1221 – Il mal di denti e Pellegrino da Falerone

     Medicina e religione si intrecciano in questa prima quindicina di febbraio, forse per esorcizzare gli attuali malanni. C’è la Candelora il 2 febbraio, suggestiva ricorrenza con le candele benedette contro le disgrazie; c’è la festa di S. Biagio, il 3 febbraio, protettore contro le malattie della gola e il 9, S. Apollonia, popolare santa egiziana, protettrice contro il mal di denti. A tale santa, infatti, martirizzata nel 249 d.C., furono spezzati ed estirpati i denti, in odio alla fede cattolica. Il dente? Guai al suo dolore! È un vocabolo significativo di cui è ricco il lessico di ogni lingua: “spuntare i denti”; “battere i denti per il freddo“: “digrignare i denti”; “a denti stretti”; “il dente del giudizio” (a molti dei nostri governanti, manca!).

     Reminiscenze scolastiche ci riportano all’episodio del Conte Ugolino (“riprese il teschio misero coi denti...”; al lupo di Gubbio “dai denti aguzzi”; ma detto lupo richiama S. Francesco il quale, fra l’altro, ebbe a che fare con due marchigiani: Pellegrino da Falerone (poi beato) e Riczerio da Muccia.

     Narrano i Fioretti (cap. 27) che Pellegrino e Riczerio, allora studenti all’Università di Bologna, dopo una predica di S. Francesco “toccati nel cuore da divina ispirazione, vennero a Santo Francesco dicendo che al tutto volevano abbandonare il mondo ed essere dei suoi frati…”.

     S. Francesco li ricevette dicendo loro: “Tu, Pellegrino, tieni nell’ordine l’umiltà e Tu, Riczerio, servi ai frati”… poi, dopo alcune righe, i Fioretti aggiungono: “E finalmente il detto frate Pellegino, pieno di virtù, passò di questa vita a vita beata, con molti miracoli innanzi alla morte e dopo”.

     Fra i molti miracoli sono rimaste famose le guarigioni dal mal di denti, verificatesi al contatto con un dente del beato Pellegrino, immesso nella cavità orale, legato ad un’assicella d’argento, in modo da poter toccare i denti cariati o malati.

Folle di fedeli pellegrinavano alla sua tomba per ottenere guarigioni; molti erano gli ex-voto, per lo più in argento, che adornavano le pareti della cappella dove riposa. Numerosi volumi parlano di tali taumaturgiche guarigioni. Sono: Pietro da Tossignano nel 1586; Orazio Civalli 1594; la Historia di Valerio Cancellotti 1630.

     H. Keber, nell’opera I Patronati dei Santi, elenca ben 21 protettori contro il mal di denti. Fra questi, oltre a S. Apollonia, ora relegata dalla riforma liturgica “ai soli calendari particolari” eccelle, e non in serie B, il nostro Pellegrino da Falerone che, sebbene morto nel 1233, è vivo nel cuore e nel culto di quanti soffrono del mal di denti. Non so però se, su quanto sopra, sono d’accordo gli odierni dentisti, i quali potrebbero vedere (o intravedere) nel beato Pellegrino un temibile concorrente.

Anno 1229 – Quanti privilegi per Montegiorgio

      Mentre la mostra su Federico II e le Marche si è spostata verso Ascoli, per poi approdare a Roma in modo che i Marchigiani colà residenti possano conoscere meglio il grande imperatore svevo, noi continuiamo a parlare di lui. Federico II, date le molteplici mansioni della sua carica, non poteva disporre di tempo ed impegni per tutti i problemi del suo vasto impero, perciò spesso delegava i suoi fidi rappresentanti, approvando in pieno il loro operato e sanzionando, con la sua imperiale autorità, le loro decisioni. In tale contesto, c’è un privilegio, in virtù del quale, esonerava l’allora castello di Monte Santa Maria in Georgio (attuale Montegiorgio) da taluni obblighi ed adempimenti verso la città di Fermo. Ciò in considerazione della fedeltà a Federico, a suo padre ed a suo nonno, cioè al Barbarossa, dei cittadini di Montegiorgio!

     Ma veniamo alla lettura del documento. “Rinaldo per grazia di Dio e dell’imperatore, duca di Spoleto, legato imperiale per la Marca di Ancona su preciso mandato di Federico II concede agli abitanti di Montegiorgio l’esenzione d’ora in avanti di tutti i pesi, servi ed obblighi e doveri verso Fermo”.

     Tale concessione ha validità perpetua. Rinaldo, non solo concede l’esenzione di quanto sopra, ma decide che gli abitanti del castello di Collidilo (ora scomparso), di Magliano di Tenna con territorio e pertinenza (Ripa Cerreto, Atleta, Rapagnano, Monteverde e Monsampietro Morico) siano considerati abitanti di Montegiorgio.

     Rinaldo riduce anche i canoni di affitto e dispone che essi non superino le 30 libbre annuali. Stabilisce inoltre che tutti i cittadini di Montegiorgio possano avere il libero e pacifico possesso dei loro beni, in qualsiasi parte si trovino e che le autorità del castello montegiorgese abbiano la facoltà di richiamare all’osservanza della legge i facinorosi. Ri¬naldo dà per scontato (ed effettivamente lo è) che quanto da lui concesso, automaticamente viene approvato dall’imperatore Federico II. Ma nel privilegio c’è un dato molto importante: tra le esenzioni dei doveri verso la città di Fermo c’è anche quello del servizio militare nell’esercito fermano, della partecipazione al “Parlamento” e quella di portare il Palio il giorno dell’Assunta.

     Questa concessione è per noi molto importante, perché documenta ancora una volta che nel 1229 quando non era trascorso mezzo secolo dall’Istituzione, l’offerta del Palio da parte di Castelli dello Stato Fermano nel giorno dell’Assunta era già diffusa e consolidata. E il nostro Palio più antico, anche se meno conosciuto di quello di Siena, di Ferrara ed altri, trova qui la documentazione incontrovertibile della su» esistenza e della sua vasta diffusione.

Anno 1240 – La Vallata del Tronto e Federico II

     Mentre in tutta Italia fervono i preparativi per celebrare l’ottavo centenario della nascita di Federico II che vide la luce nelle Marche a Jesi il 26 dicembre 1194, sarà bene ricordare una vicenda che riguarda proprio Federico II, il quale fu nella Vallata del Tronto.

     Ce lo narra egli stesso, in una lettera ai cittadini di Cremona, do-cumento che gli storici pongono cronologicamente dopo quello emanato in castris cioè negli accampamenti davanti alla città di Fermo ante civitatem firmanam a favore di Napoleone Monaldeschi. Federico col suo esercito dopo aver devastato e saccheggiato Ascoli (depopulatio precisa il documento) proseguì per Monte Cretaccio, attuale territorio di S. Benedetto del Tronto.

     Qui si fermò per alcuni giorni, dopo di che, si recò con Curia ed esercito a Fermo. Da qui rilascia un privilegio di conferma a favore di Napoleone Monaldeschi e da qui sembra aver scritto la lettera ai suoi sudditi di Cremona lettera che riguarda la Vallata del Tronto. Tale lettera, il cui originale si conserva in Francia, recita testualmente: “È tanto l’amore e la preoccupazione che ci induce a pacificare l’Italia ed è tanta la sollecitudine che ci accompagna e previene le nostre preoccupazioni verso i nostri fedeli per levarli dalla persecuzione dei nemici, che nessun piacere del nostro Regno potrà frenare. Dopo aver disbrigato i grandi impegni nel Regno, con costanza ed ansietà… affrettandoci all’uscita del Regno e lasciate da parte le inattività contrarie alla nostra intraprendenza, siamo incappati nei calori estivi e nella polvere degli accampamenti, non risparmiando pericoli alla nostra persona ed ai fedeli, affinché tra i confini paludosi, circondati da una cerchia di monti, si potessero compiere stragi dei nemici e devastazioni”.

     Accadde dunque che tra le occupazioni ed il disbrigo di atti dello Stato, da cui non ci potemmo esimere, la nostra persona, a causa della debolezza fisica e della aria malsana, incorse in una disfunzione umorale (discrasia). Incurvisse discrasiam recita l’originale che poi prosegue nella nostra traduzione: “Noi con la forza d’animo l’abbiamo completamente superata, talché restando negli accampamenti con dignità imperiale, passato il giorno critico non v’era altro impedimento che impedisse il glorioso proseguimento e la felice vittoria imperiale”. E questa affermazione, a nostro avviso, confermerebbe la cronologia degli storici, dopo la sosta a Fermo. Infatti è documentato che, partito da Fermo, Federico si diresse in Romagna e, nel tragitto, compì devastazioni ed efferatezze da far rabbrividire. Ma torniamo al testo della lettera che prosegue: “pertanto con l’aiuto del Signore, il quale da’ la salute ai Re ed ai principi, rimessici in salute come prima, anzi resi più forti, noncuranti dei calori estivi, continuiamo il viaggio dopo aver chiamato a raccolta le nostre forze e le nostre energie, procedendo verso la Romagna pronti a calpestare con la nostra potenza i ribelli, dovunque ci venissero incontro. È affinché singolarmente e collettivamente voi tutti possiate essere maggiormente confortati, tanto per la recuperata salute, quanto per i successi conseguiti, vogliamo comunicarvi ciò’, per allontanare da voi ogni dubbio e perché con l’aiuto del Re dei Re che si comporta con misericordia verso il suo principe, seguirà la desiderata salvezza e la vittoria sui nemici”.

     L’atto, come si evince dalla lettura, riguarda la Vallata del Tronto, indicata come terra di confine del regno di Napoli ed i domini papali, ma l’emanazione di esso è posteriore all’assedio di Ascoli ed alla sosta di Federico a Monte Cretaccio, attuale territorio di S. Benedetto del Tronto. Ci induce a pensarlo un fatto curioso.

     L’abate di Montecassino, che si trovava come testimone nell’atto emanato da Federico a Monte Cretaccio, col quale prese nella protezione imperiale, la città di Alessandria, non è più presente quale testimonio nella lettera ai Cremonesi. Facilmente era affetto della stessa malattia di Federico. “Stefano, abate di Monte Cassino – ci narra Riccardo da S. Germano – con il permesso di Federico, dato che era malato, si portò alla sua chiesa di S. Liberatore e vi rimase fino a che guarì”.

     Oltre all’abate di Monte Cassino è chiara la frase di Federico: egli afferma che dopo aver ricuperato le forze, muove verso la Romagna (in Romandiolam procedentes). Ciò premesso, la notizia della discrasia, cioè della alterazione dell’equilibrio tra i componenti del sangue ed i liquidi organici, getta una nuova luce sulla storiografia di Federico II non solo, ma anche sulla località di compilazione dell’atto che, a nostro avviso, e per le chiare parole di Federico: “ci dirigiamo verso la Romagna” e per l’assenza per malattia dell’abate di Montecassino, fu quasi sicuramente scritto ante civitatem firmanam, cioè davanti alla città di Fermo.

Anno 1240 – II privilegio concesso da Federico II imperatore

     Siamo agli sgoccioli delle ferie, ma è ancora tempo di vacanze e parlare di scuola e di personaggi “conosciuti” ed “incontrati” fra i banchi potrebbe sembrare anacronistico. Tuttavia, non possiamo passare sotto silenzio Federico II imperatore, (nipote del Barbarossa) che 750 anni or sono, di questi giorni, era accampato a Fermo, e non proprio in ferie!

     Proveniente dall’assedio di Ascoli, dopo una lunga sosta a Monte Cretaccio, attuale territorio di S. Benedetto del Tronto (dove aveva accolto sotto la sua protezione imperiale la città di Alessandria che aveva dato tanto filo da torcere a suo nonno, Federico Barbarossa), si era accampato a Fermo, in attesa di proseguimento verso la Romagna, pieno di “furor bellico”. Era accompagnato dal suo esercito e dalla Curia imperiale, nella quale spiccava Pier delle Vigne, non ancora “eternato” da Dante nella Commedia. Vi erano anche Taddeo da Suessa, giudice della Gran Curia, l’Arcivescovo di Palermo, Bernardo, il figlio del Re di Castiglia ecc.

     Era la fine di agosto 1240 e Federico II, a Fermo, emanò una bolla a favore di Napoleone Monaldeschi, cittadino fermano, confermandogli privilegio concessogli in precedenza; ora glielo conferma in veste di im-peratore (imperiali munificientia duximus confirmanda).

      Se pensiamo che la conferma al Monaldeschi venne fatta in un periodo di preparazione bellica da parte di Federico e del suo esercito, la cosa appare di alta importanza e di alta considerazione per Fermo ed il suo cittadino. L’imperatore tiene molto a questa conferma e nel privilegio ordina:… “nessuno, sia esso delegato, duca, conte, marchese, podestà, rettore, console, nessuna altra autorità, alta o piccola, osi contraddire a tale nostro decreto”. E come se ciò non bastasse, incalza: “nessuna personalità civile o religiosa osi opporsi a quanto abbiamo stabilito” chi lo facesse “sarà multato con 60 libbre di oro e sappia di essere incorso nell’indignazione imperiale”. Il sigillo imperiale (maiestatis nostri sigillo) chiude la bolla, dando maggiore autorevolezza al documento.

     Tutto ciò avveniva nel 1240, fine agosto (i diplomi imperiali non mettono quasi mai il giorno) “regnando Federico imperatore per grazia di Dio Re di Gerusalemme e di Sicilia, quindicesimo del regno di Gerusalemme, alla presenza di molti testimoni, “tra cui il nominato Pier delle Vigne” negli accampamenti davanti alla città di Fermo (in castris ante civitatem firmanam). Felicemente, così sia”.

     Federico, dopo la conferma, si trattenne ancora un po’ di tempo a Fermo e quindi si diresse alla volta della Romagna. Nel tragitto, “commise tali e tante devastazioni ed efferatezze, che al paragone impallidivano le atrocità perpetrate dai barbari nella loro calata in Italia”. Così Flavio Biondo (1392-1463) insigne umanista e storico di Forlì, nella sua poderosa Historia ab inclinatione Romanorum (Storia della caduta dell’impero romano). Come si vede, la sosta a Fermo durata fino ai primi di settembre di quel lontano 1240 costituì una pausa di pace, prima che il “foco ed il furor d’Odino” s’avventassero, distruttori, su “Romagna solatìa”.

Anno 1240 – Federico II e Sant’Elpidio – In due diplomi l’imperatore

            concesse privilegi alla città

     Guardandoli sullo scenario della storia medievale italiana ed europea, molti imperatori ci sembrano quasi “divinizzati”, lontani dalla nostra vita, dalle nostre località, tanto più che molti di loro sono stati già immortalati.

     Ma Federico II (è di lui che vogliamo parlare) ebbe a che fare con le Marche meridionali, cosa questa non posta in adeguato rilievo dagli storiografi passati ed attuali.

     Sappiamo che egli ebbe a che vedersela con Papi, tra cui Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, buscandosi diverse scomuniche, arrivando a far assalire in mare i Cardinali che si recavano al Concilio a Roma-

     Ci è noto anche che ebbe a che fare con i Comuni della seconda Lega Lombarda; risulta che si sposò due volte e che le due mogli sono entrambe sepolte nella Cattedrale di Andria.

Lo conosciamo come fondatore della Scuola Siciliana, autore di un manuale sulla caccia degli uccelli, fondatore della città de L’Aquila, dell’Università di Napoli, padre di Manfredi ed “accecatore” di Pier delle Vigne.

Ma pochi, come detto, mettono in risalto i suoi legami con il Piceno (peraltro Federico II era nato nelle Marche, a Jesi, la notte tra Natale e santo Stefano del 1194).

     L’imperatore ebbe a che fare con Ascoli che assediò nel luglio del 1240 (non 1242 come tanti storici affermano); fu in territorio di S. Benedetto del Tronto, cioè a Monte Cretaccio, dove ricevette sotto la sua protezione la città piemontese di Alessandria, fiera nemica dei suoi avi, e fu anche a Fermo fra l’agosto e il settembre 1240.

      Ma Federico II, lo stupor mundi si interessò anche di Sant’Elpidio a Mare. Prese infatti sotto l’imperiale protezione l’abazia di Santa Croce al Chienti (suscipit clementer in suam imperialem protectionem monasterium S. Crucis in Clente) e l’abate di quel tempo di nome Corrado (et fratrem Corradum abbatem).

A tale abazia donò molti beni tra cui la silva plana, ampi terreni all’epoca incolti, al di qua e al di là del Chienti, concedendo ai frati di utilizzare a loro piacimento l’acqua di tale fiume. Questo avvenne il 12 dicembre del 1219, e la bolla fu emessa da Capua, luogo natale del fido segretario Pier delle Vigne.

     Federico II emanò un altro documento sempre relativo a Sant’Elpi- dio a Mare, stavolta da Venosa, nell’ottobre del 1250. Ne diamo la nostra traduzione dal latino: “Federico per grazia di Dio Imperatore sempre augusto, Re della Sicilia e di Gerusalemme. Attraverso questo privilegio rendiamo noto a tutti i nostri fedeli sudditi, presenti e futuri che il Comune del nostro fedele castello di Sant’Elpidio aveva rivolto istanza alla Nostra Maestà, per la conferma di alcuni patti e convenzioni che, a suo tempo, gli aveva fatto il nostro Vicario Generale nella Marca di Ancona Gualtiero di Palearia conte di Manoppello. Tali patti, scritti dal predetto conte Gualtiero portano la sua firma ed il suo sigillo. Noi, in considerazione della grande fedeltà e sincera devozione che nutre verso di Noi il Comune di Sant’Elpidio, e poiché sia detto Comune che i singoli suoi cittadini hanno finora reso graditi servizi sia a Noi sia all’Impero, ed altrettanto potranno fare in futuro, li confermiamo graziosamente (de nostra gratia confirmamus)”.

     Dopo alcune forme giuridiche proprie dei privilegi imperiali, continua: “Noi conserveremo e difenderemo il castello di Sant’Elpidio con i suoi beni, i possessi e le tenute che ha, nelle persone e nelle cose sia dentro che fuori le mura, come accadde ai tempi dei nostri predecessori. Noi difenderemo sia i laici che i chierici di tale castello e distretto, e ciò finché rimarranno a noi fedeli”.

Federico effettua altre concessioni tutte relative al bene, alla prosperità ed alla crescita del castello di Sant’Elpidio. Infine chiude minacciando pene severe a chi osasse opporsi a tali concessioni: “di nostra autorità disponiamo che nessuno osi impedire quanto da noi deciso. Chi lo facesse, sappia che incorrerà nel nostro sdegno (quod qui presumpserit indignationem nostram se noverit incursurum)”.

     Per dare maggior prestigio ed autorevolezza al privilegio, lo fa redigere dal notaio Rodolfo di Podio Bonici e munire del sigillo imperiale: Ad huius autem rei memoriam et stabilem firmitatem preaesens privilegium per Rodulphum de Padioboniei notarium et fidelem nostrum scribi et maiestatis nostre sigillo iussimus communiri.

     Federico II (l’imperatore che Dante colloca nel cerchio degli eretici), morirà poco tempo dopo, il 13 dicembre 1250, colto da febbri intestinali. Riposa nella Cattedrale di Palermo.

Anno 1242 – Epilogo di una Lega più di 7 secoli fa

     Aria di elezioni, clima di battaglie elettorali, di schieramenti, di leghe. Quest’ultime, spuntano un po’ dappertutto dopo l’esempio della Lega Lombarda, che si ispira alle Leghe dei Comuni Lombardi, che diedero filo da torcere a Federico Barbarossa; lega che aveva per capo carismatico Papa Alessandro III. I Comuni lombardi fondarono allora quella città che doveva resistere a Barbarossa e per ben sei mesi, città che in onore del Papa venne chiamata Alessandria.

     Federico Barbarossa per derisione la chiamava “Alessandria dai tetti di paglia”, ma essa resistette al suo assedio del 1175 e il Barbarossa ritornò a casa con le pive nel sacco. Ma oggi non parliamo tanto di Federico I, quanto del suo nipote Federico II, il quale ebbe a che fare con le Marche, prima perché vi era nato (Jesi 26 dicembre 1194), poi perché vi aveva combattuto assediando Ascoli nel luglio 1240 (non nel 1242 come asserisce qualche storico); quindi, prendendo Fermo ed altre città.

     Ma c’è un fatto importante che gli scrittori di storia nazionale non pongono nel dovuto risalto. Proprio nel territorio dell’antico Stato di Fermo e precisamente a Monte Cretaccio, Federico II dopo decenni, riceve la sottomissione della fiera città di Alessandria, la roccaforte della lega che ora, a seguito di varie vicende storiche (fra l’altro non voleva sottostare al Monferrato ed era in preda alle lotte tra Guelfi e Ghibellini) chiedeva protezione al nipote del feroce Barbarossa.

Federico II, lo stupor mundi, attorniato dalla sua corte imperiale dopo l’assedio di Ascoli, aveva posto gli accampamenti a Monte Cretaccio. Siamo nel mese di luglio 1240. Sono con lui Pier Delle Vigne, Taddeo da Sessa, l’arcivescovo di Palermo, i Vescovi di Torino e quelli della Marsica, l’abate di Montecassino e molti altri.

     “Noi, Federico per grazia di Dio, imperatore dei Romani, Re di Sicilia e di Gerusalemme – così recita l’atto – rendiamo noto a tutto l’Impero, che la città di Alessandria ha abbandonato la società degli infedeli (i fautori del Papa) ed è passata alla parte imperiale, chiedendo la nostra protezione. Noi guardiamo con occhio benevolo a tal decisione… e la riceviamo nella nostra grazia e nel nostro onore, perdonando le offese passate” … “A conferma di questa protezione e di questo atto – prosegue il documento – ordiniamo di redigere questo privilegio, munendolo della bolla d’oro… Dato negli accampamenti di Monte Cretaccio, dopo la devastazione di Ascoli, luglio 1240”.

     Tale documento (che la città di Alessandria conosceva da una copia, redatta in francese, del 1839 ma ignorava il testo originale) è stato da noi rinvenuto in Francia, precisamente a Marsiglia, e fa conoscere come in territorio dell’antico Stato di Fermo ebbe luogo l’emanazione di un atto di grande valore storico, che vedeva l’indomita Alessandria passare all’obbedienza imperiale dopo 65 anni dal fiero assedio postole da Barbarossa.

Anno 1242 – Il panno di Federico:un documento rivela lo stretto legame con i Fermani

     È l’anno di Federico IL è la ricorrenza otto volte secolare della sua nascita. Jesi sta vivendo momenti di notorietà e, con essa le Marche, sede operativa di impresa, fatti ed eventi dello stupor mundi.

     Ma Jesi può andare orgogliosa del fatto che vi è nato Federico; non può documentare altro. Chi può dire e dare tessere di storia per il mosaico ancora incompiuto della vita di Federico, senza jattanze campanilistiche, è Fermo che ebbe relazioni non trascurabili con Federico, sia nel bene sia nel male. In ogni caso questa città è uno dei “settori” principali della vita e delle opere di Federico.

     Ciò nonostante, si vuole ad ogni costo misconoscere l’importanza, poi posponendola ad altre località scelte non quali referenti culturali, ma solo perché centri amministrativi e burocratici.

     Per una nostra ricerca, stiamo consultando anche archivi esteri a relative pubblicazioni. Nell’anno 1242 e dintorni, Federico scrive a Fermo (dove era stato due anni prima insieme a Pier della Vigne e Curia), ringraziandola per alcuni doni che i Fermani gli avevano inviato con apposita delegazione (nuncii legationis dice il testo!)-

     Egli vi aveva graditi immensamente, così afferma la lettera di ringraziamento, che arieggia passi latini nel Vangelo dove si narra dei re Magi che porto nei doni al Bambino Gesù (apertis thesaurus suis obtulerunt Ei aurum, thus et myrram…).

     Federico sottolinea che le ha graditi perché non richiesti, ma dati spontaneamente quale pegno di sincero affetto da parte dei suddetti Fermani . “I doni placano gli uomini e gli dei” affermava l’antica saggezza ed i Fermani a quanto pare, ne erano consapevoli.

     Ma Federico si limita semplice grazie. Egli vuole ringraziare concretamente e li invia a mezzo degli stessi membri della delegazione che gli avevano portato i doni, un panno con componenti d’oro “per ornare l’altare maggiore della vostra chiesa madre”. Così recita il documento. Federico faccio volentieri e con gioia (hylariter) invitando i  Fermani a proseguire nella fedeltà e solerzia verso l’Impero, in modo (prosegue la lettera) “che possiate sempre bene meritare della nostra maestà imperiale”. Il documento è di difficile lettura e vi sono parti illeggibili come al passo che Federico manda il panno ad honorem beati… Ciò potrebbe indurre a pensare beati (ssimae Virginis).

     Sarebbe molto suggestivo pensare ad uno dei tanti palii dell’Assunta. Il documento lascia adito anche a ciò, ma deve essere approfondito.

Anno 1245 – La Marca Fermana nominata nel Concilio di Lione: 1245

     Censura, interdetto, anatema, scomunica… vocaboli terribili che denotano pene ecclesiastiche verso chi si è macchiato di colpe. Già al tempo dei Greci si aveva qualcosa di simile, quando si praticava l’ostracismo, ossia l’esilio di dieci anni agli Ateniesi che, per la loro popolarità, destavano sospetti politici. Nel periodo romano, quando le supreme cariche politiche e religiose erano incentrate nell’imperatore che era anche pontefice massimo, si puniva il cittadino colpevole con l’interdizione dell’acqua (lustrale) e del fuoco (sacro del focolare): interdicere aqua et igni, ossia lo si bandiva dalla società civile e religiosa.

Alla caduta dell’Impero Romano e con raffermarsi del Cristianesimo, i vari Concili codificarono vari tipi di pene da irrogare, a seconda della gravità dei reati e così si ebbe l’ammonizione, la censura, che è biasimo e severa critica dell’operato di qualcuno, la sospensione (ricordiamo quella a divinis), l’interdetto  con cui in un dato luogo si privano i fedeli dell’uso di alcuni Sacramenti o del godimento  di determinati diritti spirituali. Gli poi la scomunica cioè l’esclusione dalla comunità della Chiesa cattolica di un colpevole, cui è anche vietato di accostarsi ai Sacramenti. È l’estromissione dalla comunità dei fedeli, cosa che non si verifica con l’interdetto. Vi è anche l’anatema, cioè l’esclusione dalla comunità dei fedeli, rivolta, soprattutto ad eretici, o comunità sistematiche.

     La storia ci parla di scomuniche famose come quella scagliata contro Enrico IV che portò poi a Canossa: quella (anzi quelle, perché erano due) contro Federico Barbarossa da parte del Papa Alessandro III nel 1161 e 1164; quelle inflitte a Ottone IV nel 1210 e 1211; quella fulminata dal Leone X contro Lutero (Exurge Domine); quella di Pio VII contro Napoleone, che dall’allora in poi cominciò a collezionare sfortune fino a Waterloo (18 giugno 1815).

     Ma a quanto ci consta nessuno collezionò ben tre scomuniche come Federico II, lo stupor mundi di cui non si è spenta l’eco delle celebrazioni dell’ottavo centenario della nascita e della Mostra (non priva di inesattezze e lacune), che ha toccato varie città delle Marche. Federico II venne scomunicato una prima volta il 21 marzo 1226, la seconda volta il 24 settembre 1239; entrambe le scomuniche gli furono lanciate da Gregorio IX dal I Laterano. La terza gli venne fulminata da Innocenzo IV, Concilio di Lione, il 27 luglio 1245. Me la sono riletta nel suo curiale, ma eloquente latino: è una inquisitoria puntigliosa ed analitica. Federico è accusato di imprigionare Vescovi e prelati: di perseguitare la Chiesa cattolica in Sicilia; di avere imposto tasse gravose missive; rubato suppellettili sacre. E spergiuro, eretico; ha ucciso il duca di Baviera; stipulato alleanze con i saraceni, non paga le tasse dovute alla curia romana. Ma all’inizio della bolla di scomunica c’è una motivazione: Federico è scomunicato anzitutto per aver invaso il dominio della Santa sede cioè, recita l’atto, la marca affermava il ducato di Benevento  (videlicet Marchiam et Ducatum Beneventanum), distrutto oggi tra le porte si tiene impunemente occupati e la Marca Fermana e detto Ducato di Benevento. E così anche al Concilio di Lione alla presenza di Papa Innocenzo IV dei rappresentanti di Federico II, tra cui Taddeo la Sessa e di oltre 150 prelati si parlò della Marca Fermana uno dei motivi di scomunica, la terza contro Federico II, la cui potenza da allora cominciò a declinare fino alla morte avvenuta nel 1250.

Anno 1242 – Epilogo di una Lega più di 7 secoli fa

     Aria di elezioni, clima di battaglie elettorali, di schieramenti, di leghe. Quest’ultime, spuntano un po’ dappertutto dopo l’esempio della Lega Lombarda, che si ispira alle Leghe dei Comuni Lombardi, che diedero filo da torcere a Federico Barbarossa; lega che aveva per capo carismatico Papa Alessandro III. I Comuni lombardi fondarono allora quella città che doveva resistere a Barbarossa e per ben sei mesi, città che in onore del Papa venne chiamata Alessandria.

     Federico Barbarossa per derisione la chiamava “Alessandria dai tetti di paglia”, ma essa resistette al suo assedio del 1175 e il Barbarossa ritornò a casa con le pive nel sacco. Ma oggi non parliamo tanto di Federico I, quanto del suo nipote Federico II, il quale ebbe a che fare con le Marche, prima perché vi era nato (Jesi 26 dicembre 1194), poi perché vi aveva combattuto assediando Ascoli nel luglio 1240 (non nel 1242 come asserisce qualche storico); quindi, prendendo Fermo ed altre città.

     Ma c’è un fatto importante che gli scrittori di storia nazionale non pongono nel dovuto risalto. Proprio nel territorio dell’antico Stato di Fermo e precisamente a Monte Cretaccio, Federico II dopo decenni, riceve la sottomissione della fiera città di Alessandria, la roccaforte della lega che ora, a seguito di varie vicende storiche (fra l’altro non voleva sottostare al Monferrato ed era in preda alle lotte tra Guelfi e Ghibellini) chiedeva protezione al nipote del feroce Barbarossa.

Federico II, lo stupor mundi, attorniato dalla sua corte imperiale dopo l’assedio di Ascoli, aveva posto gli accampamenti a Monte Cretaccio. Siamo nel mese di luglio 1240. Sono con lui Pier Delle Vigne, Taddeo da Sessa, l’arcivescovo di Palermo, i Vescovi di Torino e quelli della Marsica, l’abate di Montecassino e molti altri.

     “Noi, Federico per grazia di Dio, imperatore dei Romani, Re di Sicilia e di Gerusalemme – così recita l’atto – rendiamo noto a tutto l’Impero, che la città di Alessandria ha abbandonato la società degli infedeli (i fautori del Papa) ed è passata alla parte imperiale, chiedendo la nostra protezione. Noi guardiamo con occhio benevolo a tal decisione… e la riceviamo nella nostra grazia e nel nostro onore, perdonando le offese passate” … “A conferma di questa protezione e di questo atto – prosegue il documento – ordiniamo di redigere questo privilegio, munendolo della bolla d’oro… Dato negli accampamenti di Monte Cretaccio, dopo la devastazione di Ascoli, luglio 1240”.

     Tale documento (che la città di Alessandria conosceva da una copia, redatta in francese, del 1839 ma ignorava il testo originale) è stato da noi rinvenuto in Francia, precisamente a Marsiglia, e fa conoscere come in territorio dell’antico Stato di Fermo ebbe luogo l’emanazione di un atto di grande valore storico, che vedeva l’indomita Alessandria passare all’obbedienza imperiale dopo 65 anni dal fiero assedio postole da Barbarossa.

Anno 1242 – Il panno di Federico:un documento rivela lo stretto legame con i Fermani

     È l’anno di Federico IL è la ricorrenza otto volte secolare della sua nascita. Jesi sta vivendo momenti di notorietà e, con essa le Marche, sede operativa di impresa, fatti ed eventi dello stupor mundi.

     Ma Jesi può andare orgogliosa del fatto che vi è nato Federico; non può documentare altro. Chi può dire e dare tessere di storia per il mosaico ancora incompiuto della vita di Federico, senza jattanze campanilistiche, è Fermo che ebbe relazioni non trascurabili con Federico, sia nel bene sia nel male. In ogni caso questa città è uno dei “settori” principali della vita e delle opere di Federico.

     Ciò nonostante, si vuole ad ogni costo misconoscere l’importanza, poi posponendola ad altre località scelte non quali referenti culturali, ma solo perché centri amministrativi e burocratici.

     Per una nostra ricerca, stiamo consultando anche archivi esteri a relative pubblicazioni. Nell’anno 1242 e dintorni, Federico scrive a Fermo (dove era stato due anni prima insieme a Pier della Vigne e Curia), ringraziandola per alcuni doni che i Fermani gli avevano inviato con apposita delegazione (nuncii legationis dice il testo!)-

     Egli vi aveva graditi immensamente, così afferma la lettera di ringraziamento, che arieggia passi latini nel Vangelo dove si narra dei re Magi che porto nei doni al Bambino Gesù (apertis thesaurus suis obtulerunt Ei aurum, thus et myrram…).

     Federico sottolinea che le ha graditi perché non richiesti, ma dati spontaneamente quale pegno di sincero affetto da parte dei suddetti Fermani . “I doni placano gli uomini e gli dei” affermava l’antica saggezza ed i Fermani a quanto pare, ne erano consapevoli.

     Ma Federico si limita semplice grazie. Egli vuole ringraziare concretamente e li invia a mezzo degli stessi membri della delegazione che gli avevano portato i doni, un panno con componenti d’oro “per ornare l’altare maggiore della vostra chiesa madre”. Così recita il documento. Federico faccio volentieri e con gioia (hylariter) invitando i  Fermani a proseguire nella fedeltà e solerzia verso l’Impero, in modo (prosegue la lettera) “che possiate sempre bene meritare della nostra maestà imperiale”. Il documento è di difficile lettura e vi sono parti illeggibili come al passo che Federico manda il panno ad honorem beati… Ciò potrebbe indurre a pensare beati (ssimae Virginis).

     Sarebbe molto suggestivo pensare ad uno dei tanti palii dell’Assunta. Il documento lascia adito anche a ciò, ma deve essere approfondito.

Anno 1245 – La Marca Fermana nominata nel Concilio di Lione: 1245

     Censura, interdetto, anatema, scomunica… vocaboli terribili che denotano pene ecclesiastiche verso chi si è macchiato di colpe. Già al tempo dei Greci si aveva qualcosa di simile, quando si praticava l’ostracismo, ossia l’esilio di dieci anni agli Ateniesi che, per la loro popolarità, destavano sospetti politici. Nel periodo romano, quando le supreme cariche politiche e religiose erano incentrate nell’imperatore che era anche pontefice massimo, si puniva il cittadino colpevole con l’interdizione dell’acqua (lustrale) e del fuoco (sacro del focolare): interdicere aqua et igni, ossia lo si bandiva dalla società civile e religiosa.

Alla caduta dell’Impero Romano e con raffermarsi del Cristianesimo, i vari Concili codificarono vari tipi di pene da irrogare, a seconda della gravità dei reati e così si ebbe l’ammonizione, la censura, che è biasimo e severa critica dell’operato di qualcuno, la sospensione (ricordiamo quella a divinis), l’interdetto  con cui in un dato luogo si privano i fedeli dell’uso di alcuni Sacramenti o del godimento  di determinati diritti spirituali. Gli poi la scomunica cioè l’esclusione dalla comunità della Chiesa cattolica di un colpevole, cui è anche vietato di accostarsi ai Sacramenti. È l’estromissione dalla comunità dei fedeli, cosa che non si verifica con l’interdetto. Vi è anche l’anatema, cioè l’esclusione dalla comunità dei fedeli, rivolta, soprattutto ad eretici, o comunità sistematiche.

     La storia ci parla di scomuniche famose come quella scagliata contro Enrico IV che portò poi a Canossa: quella (anzi quelle, perché erano due) contro Federico Barbarossa da parte del Papa Alessandro III nel 1161 e 1164; quelle inflitte a Ottone IV nel 1210 e 1211; quella fulminata dal Leone X contro Lutero (Exurge Domine); quella di Pio VII contro Napoleone, che dall’allora in poi cominciò a collezionare sfortune fino a Waterloo (18 giugno 1815).

     Ma a quanto ci consta nessuno collezionò ben tre scomuniche come Federico II, lo stupor mundi di cui non si è spenta l’eco delle celebrazioni dell’ottavo centenario della nascita e della Mostra (non priva di inesattezze e lacune), che ha toccato varie città delle Marche. Federico II venne scomunicato una prima volta il 21 marzo 1226, la seconda volta il 24 settembre 1239; entrambe le scomuniche gli furono lanciate da Gregorio IX dal I Laterano. La terza gli venne fulminata da Innocenzo IV, Concilio di Lione, il 27 luglio 1245. Me la sono riletta nel suo curiale, ma eloquente latino: è una inquisitoria puntigliosa ed analitica. Federico è accusato di imprigionare Vescovi e prelati: di perseguitare la Chiesa cattolica in Sicilia; di avere imposto tasse gravose missive; rubato suppellettili sacre. E spergiuro, eretico; ha ucciso il duca di Baviera; stipulato alleanze con i saraceni, non paga le tasse dovute alla curia romana. Ma all’inizio della bolla di scomunica c’è una motivazione: Federico è scomunicato anzitutto per aver invaso il dominio della Santa sede cioè, recita l’atto, la marca affermava il ducato di Benevento  (videlicet Marchiam et Ducatum Beneventanum), distrutto oggi tra le porte si tiene impunemente occupati e la Marca Fermana e detto Ducato di Benevento. E così anche al Concilio di Lione alla presenza di Papa Innocenzo IV dei rappresentanti di Federico II, tra cui Taddeo la Sessa e di oltre 150 prelati si parlò della Marca Fermana uno dei motivi di scomunica, la terza contro Federico II, la cui potenza da allora cominciò a declinare fino alla morte avvenuta nel 1250.

Anno1253 – Ranieri Zeno, podestà di Fermo eletto doge, giunge a Venezia

     Era di questi giorni ed in pieno carnevale quando, proveniente da Porto di Fermo (odierna Porto S. Giorgio) Ranieri Zeno, neo eletto doge, giunse a Venezia.

     Egli si trovava a Fermo in qualità di podestà, dopo essere stato in precedenza podestà di Treviso, di Piacenza, di Bologna (1239), di Verona, ambasciatore della Serenissima al Concilio di Lione (da cui uscì scomunicato Federico II imperatore) e comandante di una spedizione militare contro Zara, ribellatasi a Venezia.

     Zeno, era stato eletto doge il 25 gennaio 1253; appena fu proclamata l’elezione, partirono da Venezia con a bordo 12 patrizi in qualità di ambasciatori, quattro galee. A capo dell’ambasceria era Marco Ziano antagonista nel “conclave” che portò all’elezione di Ranieri.

     Questi non poté assumere subito la carica, in quanto dovette provvedere a sbrigare le pratiche inerenti il trapasso dei poteri ed aspettare la piccola flotta che da Venezia veniva a prelevarlo.

     Dopo qualche giorno di navigazione, le quattro galee (e non quaranta come finora hanno sostenuto, per errore di lettura, gli storici) giunsero al Porto di Fermo; prelevarono il neo eletto, e ripartirono alla volta di Venezia dove, come detto, giunsero di questi giorni del 1253 cioè 740 anni or sono. Grandiosi i festeggiamenti della Serenissima in onore del nuovo doge e fantasmagoriche le luminarie e le giostre; que- st’ultime ebbero carattere internazionale in quanto vi parteciparono cavalieri veneziani, tedeschi, friulani, istriani, lombardi, trevigiani.

     Direttore e giudice dei tornei, era Lorenzo Tiepolo, figlio del doge Jacopo. Una leggenda narra che addirittura S. Antonio da Padova avesse predetto in sogno a Ranieri la sua elezione. Uno dei primi atti del nuovo capo della Serenissima, fu la partecipazione, con il Senato, alla processione in onore di tale santo.

     Il dogato di Ranieri, fu caratterizzato dalla guerra contro Genova da cui uscì vittoriosa Venezia. La battaglia davanti a S. Giovanni d’A-cri costò ai Genovesi la perdita di 24 galee e 1700 uomini: la lotta contro i fratelli Ezzelino e Alberico da Romano, etc.

Abbiamo accennato sopra a Lorenzo Tiepolo. Anche’egli fu podestà di Fermo e, per sua iniziativa, fu eretta la Rocca di Porto S. Giorgio (o Rocca Tiepolo); una lapide lo ricorda ai posteri. Anch’egli fu doge di Venezia; anzi, fu l’immediato successore di Ranieri Zeno; questi fu doge dal 1253 al 1268; quello dal 1268 al 1275. Quegli il 45° Doge; questi il 46°!

     In quel periodo era tutto un fiorire di “podestà-dogi” sbocciati a Fermo. Anzi, vi fu poi un altro podestà nipote di Ranieri: era .Andrea Zeno. Nell’Archivio di Stato di Fermo vi sono molte lettere dei dogi; tra esse quella di Ranieri Zeno che ringrazia i Fermani per aver eletto il nipote. Nel 1260, per opera di Ranieri, vengono stipulati patti e convenzioni marittime tra Venezia e Fermo. Nel 1252, Ranieri acquista per conto del Comune di Fermo il girone ed il Castello di Torre di Palme per 320 lire ravennate-anconitane; non ci fu “tangentopoli”, sia perché Ranieri Zeno era onesto, sia perché era anche ricco. Il suo pa-trimonio, rapportato al valore odierno, sarebbe di circa 5 miliardi di lire.

    A Montegranaro vi sono tutt’oggi discendenti del podestà-doge Ranieri Zeno; sono i Marchesi Luciani Ranier.

Anno 1259 – I privilegi di Federico II a favore di Torre di Palme

     Fra una ventina di giorni ricorre l’ottavo centenario della nascita di Federico II e il prossimo 13 dicembre ricorreranno 770 anni dalla morte. Data storica il 13 dicembre! Nello stesso giorno e mese, nel 1466 muore Donatello; nel 1545 si apre il Concilio di Trento (di cui fu segretario un marchigiano di S. Severino); nel 1863 nasce Temistocle Calzecchi Onesti, l’inventore del cocherer e già docente qui a Fermo. Nello stesso mese e giorno, nel 1521, di venerdì, alle ore 16 nasce a Grottammare Sisto V. Singolari queste coincidenze: “Giorni di nascite giorni di duolo, giorni di riso giorni di lutto” direbbe Longfellow. Singolare è soprattutto il denominatore comune: Grottammare, di cui Federico (che Sisto V definirà recolendae memoriae di buona memoria), si occupa esattamente due mesi prima di morire.

     Ma Federico non si occupa soltanto’ di Grottammare, ma anche di Torre di Palme, allora molto importante. È il settembre 1250. Federico si trova a Lago Pesole nei pressi di Acerenza, in Basilicata; da qui emana un privilegio, attualmente conservato nell’archivio storico del Comune di Fermo in deposito presso l’Archivio di Stato di tale città. Con esso, conferma a Fermo patti e convenzioni precedentemente stipulati tra la città e Gualtiero di Palearia conte di Manoppello, suo Vicario Generale del Sacro Romano Impero nella Marca. Nel privilegium, si legge che i castelli di Torre di Palme e Grottammare, sono confermati nel possesso di Fermo; gli abitanti di Fermo che si trovano nei castelli debbano rientrare in città, ma se non volessero far ciò devono prestare a Fermo servizi ed ossequi dovuti. Nella conferma, Federico si mostra sagace e perspicace politico: lascia alla città una certa autonomia; non impone leve di soldati per l’esercito imperiale, né manda soldati di guarnigione; non effettua ostracismi di cittadini fermani, a meno che non siano traditori o rei di lesa maestà. Ogni eventuale decisione relativa a Fermo e territorio sarà concordata ed effettuata d’intesa col Comune e cittadini di Fermo. Più tardi, nel 1258, Manfredi conferma l’appartenenza di Grottammare e Torre di Palme alla città di Fermo. È questa un’altra tessera del policromo mosaico delle relazioni tra Fermo e Federico. Oltre ai numerosi documenti originali, conservati nell’Archivio di Stato fermano, vi sono altri originali di Federico II conservati a S. Elpidio a Mare e a Montegiorgio. Se poi dovessimo conteggiare i privilegi di Federico, più quelli del figlio Manfredi e quelli dei Vicari Imperiali suoi nella Marca, la cifra aumenta di molto. Senza tema di smentita, possiamo affermare che Fermo e il Fermano non sono secondi a nessuna città marchigiana per numero e preziosità di originali su Federico. Ecco perché alla mostra che avrà luogo in talune città, partecipa Fermo che la ospiterà per la durata di un mese nel prossimo autunno e la fiancheggerà con una mostra dei testi letterari in volgare dell’epoca.

Anno 1266 – In Europa, a Moresco e il Doge Tiepolo

     Moresco, piccolo grazioso Comune ad un passo da Fermo. Moresco delizioso castello dalla struttura medievale quasi intatta, dominato e protetto dalla possente torre eptagonale. Nell’interno, nell’area di quella che era una chiesa, l’ampia piazza (dove fino a poco tempo fa si svolgeva la manifestazione canora “Il merlo di Moresco” vi accoglie e vi indica un grazioso porticato dal quale sono riemersi affreschi. Tra essi, una Madonna con Bambino di Vincenzo Pagani (sec. XVI). Una tradizione lo vuole fondato dai Mori che infestavano le nostre coste; altra tradizione lo dice fondato nel sec. V contro le invasioni di essi. Moltissime pergamene dell’Archivio di Stato di Fermo ne parlano e ben sette, tra imperatori, Papi e Cardinali, si occuparono dei suoi problemi. Si licet parva componere magnis, se è lecito cioè fare un paragone con grandi cose, come a Napoli i sette grandi o meglio i G7 si stanno occupando dei problemi del mondo, per Moresco – come detto – sette grandi personaggi si sono dati da fare per risolvere problemi regionali di cui più volte chiave della bilancia politica, fu proprio il piccolo Moresco.

     Nel 1248 il Card. Ranieri vice-gerente del Papa per le Marche, lo restituisce a Fermo a cui era stato tolto dall’imperatore Federico II (in questo 1994 ricorre l’ottavo centenario della nascita). Manfredi figlio naturale di Federico II, nel 1266 lo riconferma a Fermo; Papa Gregorio X nel 1272 da Lione scrive al castellano papale che lo riconsegni a Fermo; quattro anni più tardi, Innocenzo V ne conferma il possesso alla città fermana, mentre nel 1278 Niccolò III (che fra l’altro è nominato da Dante: Inf. 18,31 e ss) ne sancisce l’appartenenza a Fermo. Sisto V lo stacca da tale città e lo aggrega al Presidato di Montalto. Federico II, Manfredi, Gregorio X, Innocenzo V, Niccolò III, Sisto V… Siamo a quota sei dirà qualcuno. E il settimo? Eccolo! È addirittura un doge di Venezia: per l’esattezza Lorenzo Tiepolo, figlio a sua volta del doge Jacopo…

Lorenzo (che fra l’altro ha fatto costruire la rocca di Porto S. Giorgio) era allora Podestà di Fermo. Correva l’anno 1266 ed era venerdì 11 giugno. I proprietari del castello di Moresco, tali Giorgio di Bordone e Felice Crescenzi di Santandrea, dopo vari approcci, vendettero Moresco al Comune di Fermo rappresentato appunto dal futuro Doge per la somma di lire 500 (diconsi cinquecento) del tempo. Erano per la storia 500 lire volterrane. Interessantissima la pergamena relativa. Vi compaiono testimoni, notai, cittadini di città extra Regione. “…Vendettero, consegnarono all’esimio Lorenzo Tiepolo, figlio della buona memoria di Giacomo Tiepolo podestà di Fermo, il girone, il castello e la fortezza di Moresco con tutti i diritti reali e personali riguardanti castello e rocche, i fossati e tutto ciò che è annesso al castello medesimo...”.

     Oggi, ancora fiero nella possente mole del suo torrione, Moresco vigila sulla sponda sinistra dell’Aso. Il suo dinamico sindaco Prof. Sacchini ha fatto restaurare la torre che ospita mostre e manifestazioni culturali, mentre nella parrocchiale, nume tutelare, dorme il sonno eterno il Card. Luigi Capotosti (+1937) suo illustre figlio, ultimo anello della catena di imperatori, Papi e Cardinali che si sono interessati di questo gioiello medievale ed …attuale!

Anno 1267 – La Rocca di Porto S. Giorgio

     Maestosa e poderosa, a ridosso di Porto S. Giorgio, si erge la rocca di Lorenzo Tiepolo, governatore di Fermo e poi Doge di Venezia.

Quest’anno essa compie settecento anni!

Ancora salda e possente, nonostante le ingiurie del tempo e l’incuria degli uomini, ricorda al visitatore la sua data di nascita in una lapide posta all’ingresso: “Quando currebat Domini millesimus annus, et bis centenus cum septem sex deciesque…” cioè 1267-

     Di quante vicende storiche è stata testimone durante questi sette secoli! Vide le flotte degli Stati cattolici veleggiare contro la minaccia turca; mirò i gonfalonieri dei Castelli fermani, salire a Fermo a giurarvi fedeltà nel 1355; fremé di sdegno quando il 15 agosto 1490, duecento fermani scesero a saccheggiare il municipio di Porto S. Giorgio: v ide Sisto V, partire da qui (era vescovo di Fermo) ai fastigi del Pontificato romano; contemplò la Regina Anna Maria col suo corteo di diecimila persone, andare sposa a Ferdinando d’Austria; pianse nella battaglia fra napoletani e francesi, avvenuta quasi sotto le sue mura nel 1798; e vide nel 1815 le truppe della sfortunata impresa del Murat alla Rancia.

     Garibaldi passò sotto i suoi bastioni nel 1849 e nel 1857 anche Pio IX, in visita al suo Stato; gioì nel vedere nell’ottobre 1860 Vittorio Emanuele II galoppare alla testa del suo esercito di trentamila uomini per recarsi a Grottammare (ove sostò per cinque giorni) e quindi alla volta di Teano.

     Pianse l’onta di Lissa (è quasi sullo stesso parallelo) nel 1866: e come dové gemere nel vedere natanti sangiorgesi e marchigiani inghiottiti dai fortunali durante le tempeste dell’Adriatico, e di quali trepide carezze allietare la luna di miele di Gabriele d’Annunzio e della Duchessa di Gallese, Maria Hardouin, ospiti a S. Giorgio nel 1883…

Sono passati sette secoli!

Non c’è più oggi il Castellano, che Fermo vi mandava ogni sei mesi. Non si ha più memoria dei due anconetani, Giovanni Benincasa e Andrea Buscaretti, qui impiccati e seppelliti nel 1534 per ordine del Legato della Marca…

Non marciano più a lento passo, le truppe che Fermo manda a S. Benedetto del Tronto o arruola dai suoi ottanta Castelli per la lotta contro gli spagnoli.

Dove saranno ora la polvere da sparo, il piombo, le vettovaglie e soprattutto i soldati, di cui doveva essere munita per fronteggiare ogni evenienza?

(Per eam tenere munita plumbo, pulvere, hominibus et farina, vino et aliis necessariis tutelam et securitatem dictae arcis).

     Chissà dove saranno i vari castellani ivi succedutisi, che avevano onori ed anche oneri, non ottemperando ai quali, rischiavano pene da mille fiorini d’oro al taglio della testa?

     E chissà dove sarà ora la bella castellana? Sì, anche la castellana, perché la Rocca ha una sua leggenda, tramandata da padre in figlio, dal tempo delle incursioni dei Turchi.

     Si racconta che sul finire del secolo XIV i Turchi sbarcarono lungo la costa di Porto S. Giorgio. Contro di essi accorsero unanimi molti volontari sangiorgesi, con in testa il giovane castellano Pierfrancesco. Si combatté ferocemente da ambo le parti, con alterna vicenda.

     Nella parte meridionale del Castello, i difensori dopo accanita resistenza furono sopraffatti. Con urla selvagge, roteando le loro scimitarre, i Turchi irrompono nelle mura del paese mentre dall’alto flutti di olio ardente e lancio di sassi sono l’ultima disperata resistenza dei sangiorgesi.

     Nel frattempo molti vecchi, donne e bambini, si erano rifugiati entro la rocca, mentre sulla torre più alta la bella Rossana, la giovane sposa di Pierfrancesco, segue in ansia le fasi della lotta.

     Ad un tratto un manipolo di Turchi riesce a forzare le mura interne e salire sulla torre più alta.

La castellana si vede perduta.

Che fare? Le urla degli invasori salgono al cielo. Ma ecco un urlo più acuto, quasi selvaggio, un tonfo e poi silenzio…

Che succede? Rossana, la bella castellana, prima che i Turchi si impadronissero di lei. si è gettata nel vuoto ed ora giace sfracellata.

Pierfrancesco, saputo che i Turchi si sono impadroniti della rocca, ansante, trafelato accorre a salvare il suo amore; ma ahimè! troppo tardi! Vedendo la sua Rossana esanime, morta, ai piedi della torre, lancia un grido disperato, ammazza quanti Turchi gli sono vicini, poi afferrato il pugnale se lo immerge nel petto e si uccide…

Tale è la leggenda.

Ora tutto tace…

Del Castello rimane solo la Rocca salda e poderosa, pronta ad accogliere nella prossima estate i turisti. Il Comune e l’Azienda di Soggiorno si stanno adoperando per ripulirla e darle un degno e comodo accesso, da parte della piazza della Chiesa.

Agli ospiti ed ai turisti della Rocca parlerà della sua vicenda e ripeterà sommessamente i suoi splendidi distici: “Urbs – o firmana – tibi – servo – litora – sana / facta – tibi – clavis – portis – tutela – que –dans – felix –omen – sumo de martire – nomen /hoc – opus – est – castri – actum – tutela – que claustri – /quando – currebat – Domini – millesimus – annus / et bis – centenus – cum septem –  sex –deciesque – /tempore – quo venetus – Dnus – Laurentius – olim – progenies – memoranda – duci Jacopi – quoque – Templi / Urbem – firmanam – rexit – per – prospera – sanam”.

Che suonano in italiano: “O città di Fermo io ti conservo salvi i lidi, fatta pera la chiusura del Porto  e protezione delle navi. Dal martire S. Giorgio prendo il nome che dà buon augurio. Quest’opera è stata fatta a guardia del Castello e della palizzata del porto, nell’anno del Signore 1267, al tempo in cui il veneto Lorenzo Tiepolo, progenie del Doge Iacopo, resse la città di Fermo, attraverso prosperi eventi.

     Ora pochi sanno del tuo compleanno sette volte secolare, o storica Rocca, che protendi verso l’azzurro i bastioni e le torri!

     Come suona rudimentale quel computo dei tuoi anni nell’epoca dei calcolatori elettronici (millesima annus et bis centenus cum septem sex deciesque).

     Come appaiono anacronistiche le armi della tua fanciullezza, l’olio bollente, il piombo, la polvere da sparo, nell’epoca  delle armi termonucleari!

      Come è stridente la lenta marcia delle truppe che vanno a difesa del litorale, con la velocità supersonica degli aviogetti moderni. Quando sei nata non erano ancora conosciuti ed esplorati tutti i continenti, ed ora non solo si conoscono tutti, ma ci cimentiamo nei voli astrali  (coelum ipsum petimus) ed alla conquista della luna.

     Ma nonostante ciò, quale pace si gode dentro le mura di questa incipiente primavera, a pochi passi dall’Adriatico, fiorito di vele, mentre le macchine sfrecciano veloci nell’asfalto sottostante!

     Quale alone di poesia emanano dalla leggenda della castellana!

     Quale calma riposante, nel frenetico esagitarsi della vita moderna… E com’è dolce bearsi nell’epoca dei tecnicismi e della materia in cui i tuoi deliziosi distici

Urbs – o firmana – tibi – servo – litora – sana / facta – tibi – clavis – portis

– tutela – que –dans – felix –omen – sumo de martire – nomen”.

     Buon compleanno o rocca Sangiorgese!

Anno 1268- Una complicata riforma elettorale.

     È ormai varata la riforma elettorale. Si sente nell’aria il “rinnovamento”. “Basta con i politici professionisti”: è lo slogan del momento.

      Il mandato parlamentare non deve durare più di tre legislature.

Ma anche nel lontano 1268, cioè 725 anni or sono, si era verificata una riforma elettorale per l’elezione del doge ed il primo ad essere eletto col nuovo sistema fu un podestà di Fermo: Lorenzo Tiepolo, assunto alla suprema carica della Serenissima, mentre era ancora alle prese con le mansioni podestarili di Fermo e suo vasto territorio. Allora, diversa- mente da adesso, i podestà duravano in carica solo un anno. Potevano però essere rieletti, come avvenne per Ranieri Zeno, che fu due volte po-destà di Fermo e poi fu doge di Venezia prima di Tiepolo. Anzi, in quel periodo, il 452 ed il 46° doge, rispettivamente Zeno e Tiepolo, erano stati podestà di Fermo. Morto Ranieri Zeno (1268), venne varata la riforma elettorale che durò fino alla caduta della Repubblica di Venezia (1797).

     Consisteva in una complicata votazione. Il consigliere più giovane scendeva nella Basilica di S. Marco e prendeva un bambino (8/10 anni) detto “ballottino” per estrarre le “ballotte” per le votazioni. Queste erano tante quante erano i membri del Maggior Consiglio, ma solo trenta di esse contenevano il famoso bigliettino con la scritta “elector”. Il ballottino, bendato, estraeva le palle (ballotte) da un cappello di panno, che fungeva da urna e la passava ai membri del maggior Consiglio che sfilavano davanti a lui. I trenta estratti, dovevano appartenere a famiglie diverse, senza legami di parentela. I non estratti, abbandonavano l’aula. Una volta rimasti in trenta, c’era un’altra votazione con lo stesso sistema del ballottaggio fino a rimanere in nove; questi avevano l’incarico di votare i 40 membri del Maggior Consiglio. I primi quattro sceglievano cinque nomi ciascuno. Per essere eletti occorrevano 7 voti. Con i quaranta si tornava ancora all’estrazione per eleggerne 25 che, sempre sorteggiati, erano ridotti poi a 9, incaricati a loro volta di altre complicate operazioni. Il doge neo eletto doveva avere non meno di 25 voti. Complicatissima procedura, come si vede, che mirava a eliminare “partitocrazia” e “clientelismo”.

     Una volta eletto, Lorenzo Tiepolo, che aveva nostalgia di Fermo (tra l’altro fece costruire la famosa Rocca a Porto S. Giorgio detta appunto Rocca Tiepolo) scrive ai Fermani dando notizia della sua elezione. Sentiamolo: “Lorenzo Tiepolo, per grazia di Dio, Doge di Venezia, della Dalmazia, della Croazia, Signore della quarta parte e mezzo dell’Impero Romano d’Oriente, al podestà, Comune e Consiglio di Fermo, suoi diletti amici, salute ed affetto”. Spiega poi che, sebbene senza suo merito, ma per volontà del Creatore da cui tutto dipende sia stato eletto doge a seguito di una elezione condotta con un nuovo sistema (quod ordinata noviter forma de novi ducis electione così recita l’originale da cui traduciamo). Comunicata tale notizia al popolo, questo esultante, con grida di giubilo e mani levate verso il cielo, ringraziò Dio, entusiasta dell’elezione.

     La lettera prosegue dicendo che vi fu un momento di esitazione nell’accettare, ma poi confidando nella protezione del protettore di Venezia, S. Marco apostolo ed evangelista, la carica fu accettata. Tiepolo si rivolge ora ai Fermani suoi ex-amministrati, sia per chiedere preghiere perché insieme si goda (una nobiscum congaudentes) si ringrazi Iddio e si implori di governare la Repubblica di Venezia in tranquillità e pace. La lettera fu spedita dopo 14 giorni dall’elezione; il ritardo non era dovuto al¬le… Poste, ma al fatto che non era pronto il sigillo di piombo della bolla.

Anno 1272 – Un privilegio ai mercanti fermani

     Chi non lo ricorda? Sembra di vederlo ancor oggi! Il nostro professore di liceo, quando ne declamava il passo dantesco, ci metteva tutta l’anima, tutto il suo pathos, che te lo faceva quasi vedere e quelle che erano le nostre “compagne nell’età più bella”, se ne innamorarono, anche se lui era vissuto sette secoli prima. Noi del sesso “forte”, quasi quasi ne eravamo gelosi!

Biondo era e bello e di gentile aspetto / ma l’un dei cigli un colpo avea diviso / quand’ io mi fui umilmente disdetto / d’averlo visto mai mi disse; or vedi / e mostrommi una piaga al sommo il petto / poi sorridendo disse: Io son Manfredi!”.

     Manfredi (1232-1266) figlio naturale di Federico II, come già suo padre si interessò di Fermo e del Fermano. Nel 1258 confermò alla città di Fermo la giurisdizione sui castelli di Marano (odierna Cupra Marittima), Boccabianca, Torre di Palme, Monturano, Moresco, Massignano, Lafreno, Torre S. Patrizio, Grottammare, Castel Monte S. Giovanni, Monte S. Pietro, Monte S. Martino, Petritoli, Montefalcone, Monterubbiano.

     In quel periodo, il Vescovo di Fermo, Gerardo, che occupò la cattedra vescovile dal 1250 al 1272 fu dapprima fervido assertore dei diritti del Pontefice contro Manfredi, ma in un secondo tempo, si allontanò dal Pontefice, passando dalla parte di Manfredi, che favorì grandemente o, almeno, sembrò farlo (“quam impense favit vel saltem favere visus est”, dice un cronista.

     Quando il nostro professore declamava i versi danteschi relativi a Manfredi, proseguiva: “io mi rendei piangendo a quei che volentier perdona” (Purg. III).

     Anche il Vescovo Gerardo si pentì e fu riammesso. Ma l’interessa-mento di Manfredi non si limitò solo a ciò. Nel 1263, con altro privilegio datato 6 marzo ed emanato da Foggia, si interessò di Rinaldo da Brunforte e Rinaldo da Falerone. Pure da Foggia, nello stesso anno spedì una ratifica e conferma a Sant’Elpidio a Mare della concessione fatta a tale castello dal padre Federico II (ratificamus et de speciali grafia confirmamus).

     Nel novembre 1264, da Lucerà, spedì un privilegio a favore di Fermo; con esso concedeva ai mercanti (mercatores) di tale città di potersi recare liberamente nel Regno di Napoli con le loro mercanzie; effettuare ivi i commerci e tornare poi a Fermo senza che nessuno potesse esigere da loro diritti di pedaggio, dogana e dazi relativi.

     Come si vede, Manfredi aveva precorso l’abbattimento delle frontiere doganali di cui si parla in vista del 1992.

Anno 1279 – Monte Urano ricorre al Papa

      Non è da tutti scomodare un Papa e per giunta Papa Gregorio XIII (famoso tra l’altro per la riforma del calendario) per una questione di confini, ma Monturano, allora piccolo paese della Diocesi fermana, ci riuscì e come!!!

     Stanchi ed esasperati dal fatto che i paletti che delimitavano i confini del loro territorio venivano di continuo rimossi, i Monturanesi deciderò di rivolgersi direttamente a sua Santità Gregorio XIII. Il Papa, pur tra le occupazioni e cure del suo pontificato, si interessò della faccenda. Anzi la prese così a cuore che addirittura il giorno 13 aprile del 1579, anno settimo del suo pontificato (idibus Aprilis pontificatus nostri anno septimo) inviò al Vescovo di Fermo una bolla in pergamena con tanto di sigillo di piombo, raccomandandogli di interessarsi personalmente della cosa.

     Molto probabilmente i cittadini di Monturano avevano inviato a chi di dovere ricorsi e doglianze in proposito ma, a quanto sembra, senza alcun esito, tanto è vero che scavalcando la “via gerarchica” si rivolgono al Papa in persona.

     Gregorio allora, investe della faccenda il Vescovo di Fermo scrivendogli testualmente: “Gregorio Vescovo, servo dei servi di Dio, al venerabile fratello e diletto figlio il Vescovo di Fermo od al suo vicario generale per gli affari spirituali salute ed apostolica benedizione. Ci è stato fatto presente dai diletti figli, sindaci ed officiali del castello di Monturano della Diocesi fermana che vi sono dei figli di iniquità di entrambi i sessi (quindi pure le donne) che svellono i termini che indicano i confini portandoli di luogo in luogo, creando confusione e gravi danni al Comune di Monturano, causando altresì un pericolo per le loro anime e grande detrimento a detto castello”. Essi – continua la bolla – hanno invocato aiuto a questa Sede Apostolica. Per la quale cosa ti scriviamo invitandoti ad intervenire nella faccenda ordinando di ammonire dal pulpito, in presenza del popolo, i trasgressori a riparare il male fatto e stabilire un congruo lasso

di tempo, trascorso il quale quelli che hanno usurpato beni e possessi o li detengano fraudolentemente pongano riparo. “Se non lo faranno tu devi scomunicarli“.

     Noi non sappiamo come andò a finire la faccenda. Dobbiamo tuttavia notare che i cittadini di Monturano erano intraprendenti anche allora, se non nel commercio calzaturiero, nel ricorrere personalmente al Papa e riuscendo ad ottenere il suo personale interessamento per una questione di confini “nell’anno di grazia 1579, idi di aprile, anno settimo del nostro pontificato”.

Anno 1280 – 16 febbraio 1280: Fermo compera una parte del Castello di S. Benedetto

     Anticamente vi si insediarono Siculi e Libumi. Plinio scrive che fu 1’ultimo insediamento di quest’ultimi in Italia. Nel 49 avanti Cristo vi si fermò Giulio Cesare, dopo il passaggio del Rubicone. Fu sede di Diocesi nel secolo V e, nel Medio Evo, al centro di donazioni, prestane, precarie, permute, prima con l’Abbazia di Farfa (centro benedettino in Provincia di Rieti che aveva beni e possessi nelle Marche) poi con i vescovi di Fermo. Fu appunto uno di questi, Liberto, che nel 1145 concede ad Attone e Berardo la terra necessaria per la costruzione di un castello, con orti annessi, case per i coloni e quant’altro necessario per la vita.

     Sorse così il castello di S. Benedetto, variamente denominato nel corso dei secoli; dapprima si chiamò S. Benedetto in Albula, dal nome del torrente che vi scorre; poi S.      

     Benedetto della Marca; S. Benedetto presso il mare; S. Benedetto di Fermo.

     La denominazione S. Benedetto del Tronto, verrà data nel 1862, dopo l’unità d’Italia e ciò per distinguerlo da località omonime come S. Benedetto Val di Sambro, S. Benedetto Po, etc.

     Quest’ultima denominazione arieggia e richiama il nome di una chiesa S. Benedetto al Tronto (si noti quel: al Tronto) che sorgeva (e sorge) in territorio di Monsampolo e che era così importante da figurare nelle porte di bronzo della celebre Abbazia di Montecassino, dove sono elencati beni e possessi che aveva nelle nostre zone, come Fermo, S. Biagio di Altidona, etc. (Anno Domini 1090 c.).

     Abbiamo accennato sopra a donazioni, permute, etc., ma vi furono anche acquisti e vendite. Una, esattamente, avvenne il 16 febbraio del 1281.

     Il nobil uomo, Gualtiero di Acquaviva e sua moglie donna Isabella, vendono a Fermo l’ottava parte del castello di S. Benedetto in Albula, della Marca d’Ancona, Diocesi e Distretto di Fermo. I predetti vendono tale ottava parte di loro proprietà, al sindaco di Fermo per la somma di lire 1000 (mille) ravennate o volterrane-anconitane.

L’atto di vendita è molto interessante, perché già da allora si parla del porto, di giuspatronato sulla chiesa di S. Benedetto ed altre utili notizie storiche: …“Vendiamo cediamo con i diritti, il porto, i vassalli, i redditi, i servizi reali e personali, gli affitti, le tenute, le terre coltivate e quelle incolte, le selve, i boschi, gli onori e giurisdizioni. L’esercizio del mero e misto impero (cioè poteva giudicare nelle cause penali e civili e addirittura irrogare la pena di morte)”.

     Oggi, 16 febbraio, ricorrono 712 anni da quella vendita, S. Benedetto, che rimase sotto la giurisdizione di Fermo fino al 1827. quando vi fu uno “scambio” tra il Distretto di Montalto e la Delegazione di Fermo, è oggi vivo centro marittimo, ricco di premesse per un futuro luminoso.

Conta oltre 45.000 abitanti; è pulsante di attività industriali ed agricole; ha di gran lunga superato il valore di mille lire ravennate volterrane-anconitane, anche se relative alla sua ottava parte…

Anno 1281 – Santa Maria a Mare

Alla foce del torrente Ete, in territorio di Fermo, vi è una chiesa denominata Santa Maria a Mare. Di per sé sarebbe una località di modesta importanza, ma famosissima dal punto di vista storico. E infatti l’“erede” dell’antico navale fermano di cui parlano Strabone, Plinio il Vecchio (che morì nell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.), Pomponio Mela, la Tabula Peutingeriana, l’Itinerario dell’Imperatore Antonino (Itinerarium Antonini) tutti autori ed opere, di poco posteriori alla nascita di Cristo. Nodo stradale importantissimo, Santa Maria a Mare, l’antico Castellum Firmanorum (castello dei Fermani), è posto alla confluenza tra la Castiglionese, la statale 16 e l’autostrada A-14.

Se ne interessò Federico Barbarossa; vi si accamparono Alfonso d’Aragona e il conte Francesco Sforza (sec. XV) e durante le guerre di successione, vi stazionarono per alcuni giorni 38 mila austriaci, al comando del generale Lobkowitz. Nei pressi, il 28 novembre 1798, si combatté una sanguinosa battaglia tra Francesi e Napoletani e, nella seconda guerra mondiale, fu oggetto di reiterati bombardamenti alleati, miranti a colpire i due ponti (quello della ferrovia e quello stradale). Non vi furono però vittime e la popolazione della zona lo attribuì (ed attribuisce tuttora) alla protezione di Santa Maria a Mare, la cui effigie campeggia da molti secoli nell’omonimo santuario. Questo è ora officiato dai Padri della Consolata di Torino. Uno di essi, già docente all’Uni-versità Cattolica di Milano, è un latinista di fama internazionale, il Prof. P. Olindo Pasqualetti “eminenza grigia” nel mondo del latino.

     Il santuario ha un rettore, come lo aveva nel 1281. A tal proposito, ci siamo imbattuti in un documento inedito, risalente a tale anno, che parla dell’elezione del Rettore. Un tale Roberto, aveva rinunciato e si doveva procedere alla nomina del successore. L’atto, conservato nell’archivio di Stato di Fermo, descrive le urne elettorali (buxolae) e sigilli e ballottaggi, gli interessi del Comune di Fermo e quelli del vescovo. La Chiesa infatti era giuspatronato del Comune, ma la nomina del rettore doveva essere approvata dal vescovo. Lotte ed elezioni, reitera-te per irregolarità vere o presunte. È un quadro vivo che sembra più un reportage che un atto notarile (era rogato da Bartolomeo di Guarcino). Nonostante che nel documento si dica che Fermo doma i suoi nemici e rende agevoli le cose difficili (hostes firmano, urbs domat; facit aspera plana) il Comune non ne uscì vincitore. Infatti era stato eletto il pupillo dell’Amministrazione, ma il Vescovo di Fermo (era Filippo III che governò la Diocesi dal 1272 al 1297) non approvò tale nomina. Intrighi, scontro di interessi, gelosie, procedure elettorali viziate: tutto questo anche allora caratterizzava le elezioni.

     Oggi, il santuario ha vicino un porto turistico, la zona è ancora importante nodo stradale e nei pressi vi è un’area di stoccaggio di prodotti petroliferi. La chiesa di Santa Maria a Mare ha tuttora un rettore. Anzi, data l’occasione, diremo subito che domenica prossima 7 ottobre il rettore guiderà a Roma un folto gruppo di fedeli. Infatti Papa Wojtyla, proclamerà beato il fondatore dei Padri della Consolata che, come detto, officiano il Santuario.

Anno 1288 – Ben dieci i Papi marchigiani

     È di attualità parlare ora di Papi, Cardinali e di conclavi, ed è viva ovunque la notizia dell’elezione di Giovanni Paolo I, per cui, pensiamo, sarà gradito ai lettori del “Carlino” avere qualche notizia sui Papi e la nostra Regione e sui Papi della nostra Regione. Le Marche, primeggiano tra le Regioni italiane, per aver dato alla Chiesa fulgide figure di sommi Pontefici. Alcune nazioni ne hanno avuto uno solo, come l’Inghilterra con Adriano IV (1153-1159). E qualche Regione italiana, come il Piemonte, non ha avuto nemmeno un Papa (Pio V è nato sì a Bosco, ma allora, questa località apparteneva al Ducato di Milano); le Marche invece hanno avuto ben dieci Papi, fra cui risaltano le figure di Sisto V e Pio IX. Prima di accennare ai pontefici nati nelle Marche, ricorderemo che Papa Clemente II, tedesco, morì e fu sepolto nell’abbazia di S. Marco in Foglia (Pesaro) il 9 ottobre 1047.

     Ivi rimase sepolto per circa due anni, dopo di che le sue spoglie furono traslate nella Cattedrale di Bamberga, in Baviera, dove, nel 1237, gli venne eretto un monumento sepolcrale.

     Un altro particolare storico curioso: quando sia Urbano V che Gregorio XI fecero ritorno da Avignone, vollero essere trasportati su “galee frabbricate (sic) in Ancona”.Ricorderemo pure che un altro Papa, Gregorio XII, (Gabriele Condumer, veneziano) è sepolto a Recanati, dove morì in 18 ottobre 1417. Tralasciando i minori, rammentiamo pure che il celebre Pio II spirò ad Ancona, il 15 agosto 1464, dove si era recato per assistere alla partenza della flotta cristiana nella crociata contro i Turchi. Lo

stesso nipote, Pio III, Papa dal 1534 al 1549, era stato amministratore apostolico della città di Fermo.

     Anche Papa Benedetto XIV, il celebre Prospero Lambertini, morto nel 1758, prima di accedere al soglio pontificio era stato vescovo di Ancona, mentre la famiglia di Pio XII era originaria di S. Angelo in Vado, che gli ha intitolato una piazza.

     Il periodo in cui le Marche sembrarono avere l”esclusiva” del   pontificato, fu quello antecedente l’Unità d’Italia.  

     Nei secoli passati avevamo avuto Papa Giovanni XVII da Rapagnano (AP) che, eletto nel 1003, regnò dal giugno al dicembre dello stesso anno: Niccolò IV da Lisciano di Ascoli Piceno (+ 1292), fondatore tra l’altro delle Università di Macerata e Montpellier, e celebre per la sua attività missionaria e per aver posto la prima pietra del Duomo di Orvieto.

     Marcello II di Montefano (Me), che regnò per soli 22 giorni nel 1555 pSisto V di Grottammare, la cui fama è nota in tutto l’orbe terracqueo, che portò a termine la cupola di S. Pietro, eresse in palazzo late-ranense, il Quirinale, innalzò, l’obelisco in piazza S. Pietro, costruì palazzi, acquedotti, stroncò il banditismo, etc.

     Clemente VIII di Fano (+ 1605), che doveva incoronare in Campidoglio Torquato Tasso; Clemente XI di Urbino (1700-1721), gran mecenate.

     Clemente XIV nato da genitori di Sant’Angelo in Vado (Ps), che soppresse i Gesuiti

(+ 1774). Ma dopo il pontificato di Pio VI e Pio VII, entrambi di Cesena, eccoci a Leone XII nato a Genga di Fabriano, che pontificò dal 1823 al 1829, a cui subentra un altro marchigiano: Pio Vili (Francesco Saverio Castiglioni) nato a Cingoli nel 1761, durante il pontificato del quale venne restituita ai cattolici inglesi la libertà di culto.

Breve parentesi di Gregorio XVI di Belluno, che del resto ha per segretario di Stato il Cardinal Tommaso Bemetti (+1852) di Fermo, ed eccoci ad un altro ed illustre marchigiano, Pio IX di Senigallia, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla morte. Pio IX è troppo famoso per poter parlare adeguatamente di lui. Ricorderemo tuttavia la connessione del suo pontificato con la storia d’Italia, l’uccisione di Pellegrino Rossi, la presa di Roma, la caduta del potere temporale, la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione, la Pubblicazione del “Sillabo”, etc.. Fu il Papa che regnò più a lungo di tutti i Papi, raggiungendo oltre(32 anni di pontificato e sfatando la leggenda che nessuno avrebbe superato gli anni del pontificato di S. Pietro (25 anni). Non videbis annos Petri si diceva, ma Pio IX li superò di gran lunga. Nella Basilica Vaticana sopra la statua bronzea di S. Pietro campeggia una sua immagine che fra l’altro dice: qui annos Petri unus aequavit, il solo che superò gli anni di S. Pietro. Dopo Pio IX non abbiamo più Papi marchigiani, ma ricorderemo che il successore Leone XIII ha per segretario di Stato un marchigiano di Recanati: il Cardinal Lorenzo Nina, sostituito poi col Rampolla. Segue Pio X, quindi Benedetto XIV che ha per segretario di Stato il Cardinal Pietro Gasparri di Ussita (Me). Eccoci al conclave del 1922: sono sessanta i Cardinali di Santa Romana Chiesa. La sera del 2 febbraio 53 Cardinali entrano in conclave per l’elezione del successore di Benedetto XIV. È uno dei conclavi più combattuti e si delineano subito due correnti: quella capeggiata dal Card. Merry del Val, già segretario di Pio X (+1914) e l’altra dal nostro Cardinal Gasparri (che, è noto; fu uno degli artefici della Conciliazione tra Stato e Chiesa nel 1929).

     Si hanno vari scrutini; al quarto si ha la seguente situazione: Merry del Val voti 17; Gasparri 13; La Fontaine 1; Ratti 4; all’ottavo scrutinio le posizioni sono: Gasparri 24; La Fontaine 21; Ratti 5; Merry del Val 0; al nono: Gasparri 19; La Fontaine 18; Ratti 11. Successivamente, Gasparri fece convergere i suoi voti su Ratti che venne eletto col nome di Pio XI e prese per segretario di Stato il Gasparri fino a che, per acciacchi dell’età, non venne sostituito da Pacelli.

Nel conclave che portò all’elezione di Pio XII (oriundo come detto, di Sant’Angelo in Vado) nel marzo 1939, tra i candidati appare ben quotato il tuttora vivente (88 anni) Cardinal Alfredo Ottaviani, nato da genitori della Provincia di Macerata. Nell’elezione di Papa Giovanni XXIII coagula attorno a sé un buon numero di voti anche il Cardinal Francesco Roberti di Pergola (Ps), prefetto del Tribunale della Segnatura Apostolica. Roberti configurava una candidatura di compromesso allorché si erano formati due blocchi: uno capeggiato dal Cardinal Lercaro, che aveva totalizzato 20 voti, uno dal Cardinal Ildebrando Antoniutti anch’egli con 20 voti, mentre il gruppo di Montini era salito a quota 30. Ma le successive votazioni convogliarono i voti del gruppo Lercaro su Montini, che venne eletto Papa col nome di Paolo VI.

Anno 1288 – Ancora di Nicolò IV, Papa

   Gli piacevano le città che iniziavano con la  M perché fondò le università a Macerata, a Montpellier, a Montepulciano.

     Senatore di Roma a vita, pose la prima pietra del Duomo di Orvieto, abbellì a Roma Santa Maria Maggiore, incoronò a Rieti il figlio di Carlo d’Angiò e mandò in dono alla sua città, un magnifico piviale di sciamito di seta. Fu successore di S. Bonaventura, nel generalato e primo Papa francescano della storia; sfortunato con le Crociate, fortunato nelle missioni ai Mongoli, è sepolto con Sisto V (altro Papa francescano e piceno), in quella Santa Maria Maggiore che aveva abbellito ed adornato. Chi è costui? Non certo Carneade, ma un nostro “vicino”: Nicolò IV nato a Lisciano di Ascoli, eletto Papa sette secoli or sono (1288-1292). A differenza dei suoi predecessori, non è nominato affatto da Dante nella Divina Commedia; ma se il poeta lo avesse saputo, non lo avrebbe posto nei gironi infernali; tutt’al più in qualche cantuccio del Purgatorio, dato che i suoi peccati sono di amore; beninteso amore verso la sua città natale! Infatti favorì Ascoli, anche riducendo una pena pecuniaria inflitta da Tommaso di Foligno, giudice generale della Marca nel 1280.

     Un decreto dell’Imperatore Ottone IV del 1211, consentiva a Fermo il dominio sulla spiaggia dal Tronto al Potenza; da qui, le lotte secolari tra Ascoli e Fermo. Nel 1280 Ascoli si alleò con Ripatransone e con Riccardo d’Acquaviva; assaltarono e distrussero i castelli di Mercato e di Bommpadaro di giurisdizione fermana, siti nei pressi di Acquaviva e attaccarono S. Benedetto del Tronto, senza però riuscire ad espugnarlo perché, sopraggiunte le milizie fermane, i “valorosi” assediano se l’erano data a gambe. Ma avevano commesso enormi misfatti (enormia scelera).

    A Mercato e Bommpadaro avevano ucciso donne, fanciulli e passati a fil di spada anche chierici, bruciando tutto, per cui vennero condannati al pagamento di 40 mila marche d’argento sia Ripatransone che Riccardo di Acquaviva. Nicolò litigò pure con il Re di Sicilia Carlo IL Questi pretendeva che il castello di Monte Calvo fosse suo, in quanto, a suo dire, era compreso nel territorio abruzzese.

    Nicolò rivendicò energicamente l’appartenenza di esso alle Marche e, di conseguenza, al comprensorio di Ascoli e con due specifiche, distinte bolle, una emessa a Rieti il 9 ottobre 1289 e l’altra a Roma presso Santa Maria Maggiore; ribadiva, precisava e rivendicava l’appartenenza di Monte Calvo alla Diocesi di Ascoli (Castrum Montis Calvi esculane diocesis). Come detto, Dante non lo mise né all’Inferno né in Purgatorio. Tutt’al più se vi è qualche colpa, potrebbe essere quella d’interesse privato in atti (papali!) d’ufficio o abusi di potere; ma qui si tratta del Papa in persona che è extra ius, super ius; in parole povere, in piena immunità (come i nostri ineffabili parlamentari!).

     D’altra parte, le eventuali colpe potrebbero essere coperte dal manto o meglio dallo stupendo piviale (anche esso spedito da Rieti… oh questa Rieti!) in dono ad Ascoli. Squisitamente ricamato e colorito tra il 1265 e il 1268, trafugato e riottenuto, costituisce il vivo, visibile ricordo di un Papa che abbonò pene pecuniarie, fece vendere proprietà farfensi acquistandole per interposta persona e cedendole ad Ascoli ed altro… “il cui tacere è bello”.

Coperto col manto del piviale, il famoso piviale (ora esposto nella riaperta Pinacoteca), chi potrà incolparlo di eccesso di potere o di interesse privato in atti (papali) d’ufficio? Addirittura, con gli interessi della pena pecuniaria condonata nel 1290, Ascoli potrebbe erigergli il progettato monumento! Con la buona pace di Ripatransone che, speriamo, non ricorra al T.A.R. per la disparità di trattamento ad essa riservata: multa 40 mila d’argento! Ascoli prima 20 mila, poi nulla…

Anno 1289 – il oaoa piceno Nicolò IV

      Mons Pessulanus… Chi era costui? Potrebbe ripetere qualcuno, dato il clima dei Promessi Sposi ammannitici dalla televisione in maniera molto inferiore al romanzo. Nocita nuoce al romanzo manzoniano e non si “salva”…

Ma rassicuriamo subito il lettore. Mons Pessulanus non è una per¬sona ma una città, esattamente Montpellier, importante centro agricolo marittimo e culturale della Francia meridionale, dove riposa la Regina Elena di Savoia. Sì, culturale perché vi prospera una celebre università, fondata il 26 ottobre 1289 da un nostro comprovinciale, Papa Nicolò IV nativo di Lisciano di Ascoli, lo stesso paese di Sciabolone.

     Nicolò (o Niccolò) fondò anche l’Università di Macerata ma l’anno successivo, per cui nel 1990 sono sette secoli, mentre sono già passati sette secoli dalla fondazione di quella di Montpellier eretta appunto il 26 ottobre 1289. Quando il nostro Nicolò emanò la bolla di fondazione, definì Montpellier locus pessulanus valde aptus prò studio: luogo cioè straordinariamente adatto allo studio.

     Da allora, l’università non ha conosciuto momenti di stasi. Attorno al 1320 ebbe come studente Francesco Petrarca; nel 1520 vi si immatricolò Francesco Rabelais e vi conseguì la laurea in medicina (è però più famoso come scrittore che come medico, ricordiamo Gargantua e Pantagruel).

     Nel corso dei secoli fu frequentata da catalani, italiani, tedeschi, francesi, etc., costituendo una università internazionale ante litteram. Sin dal suo sorgere, prese a modello gli statuti dell’Università di Bologna, preferendoli a quelli di Parigi e di Oxford, ed assunse subito la caratteristica di università più di studenti che di professori (magis universitas scholarium quam doctorum). Fu influenzata da quella, pure di medicina, di Salerno, già famosa sin dal secolo IX, come famosissimi ed attuali ne sono anche oggi i Precetti che sin da allora raccomandavano il moto, l’esercizio fisico, una parca mensa e di non prendersela troppo: si tibi deficìant medici, medici tibi fiant haec tria: mens laeta, requies, moderata dieta.

     L’inglese Hasting Rashdall, storico delle università europee, ha definito l’università di Montpellier an off-shot of Salerno, una promanazione, una gemmazione di quella di Salerno. Fondata come università pontificia, nel 1808 (al tempo di Napoleone) divenne università imperiale e quindi repubblicana. Recentemente ha visto integrarsi nel vecchio ceppo le scienze biologiche, chimiche e fisiche, la facoltà di odontoiatria, i vari centri di ricerca ad alto livello nel campo dell’agronomia. Il “luogo molto adatto allo studio” si sta rinnovando e potenziando vertiginosamente. Tornando al nostro Niccolò diremo che oltre alla fondazione delle università di Montpellier e Macerata, pose la prima pietra del Duomo di Orvieto, mandò missionari in Cina, promosse la crociata, coronò a Rieti Carlo II d’Angiò. Successe a S. Bonaventura nel generalato dei francescani e fu il primo Papa francescano della storia (gli altri Papi francescani sono quasi tutti marchigiani). È sepolto a Santa Maria Maggiore a Roma, in un monumento erettogli dal comprovinciale Sisto V. A Nicolò successe Celestino V quello del “gran rifiuto”, e a questi, il non meno famoso Bonifacio VIII.

Anno 1292 – Quel “crudo sasso” reso famoso dal fermano Beato Giovanni

     Quanti, in questi giorni di canicola sognano i monti, le alte cime dove si possa respirare aria pura e balsamica, lontani dall’afrore della bassura. Un “obiettivo” del sogno, potrebbero essere i nostri Monti Sibillini, il Vettore, e più a sud, il Gran Sasso d’Italia. Anzi per i Romani ed i Toscani, quel “crudo sasso infra Tevero ed Arno” (Dante 3, XI) sito in Provincia di Arezzo, cioè il Monte della Verna, alto metri 1283. Qui, l’aroma dei prati si mescola alla pace silente dei boschi; qui è dolce dav-vero sognare, lontani dal frastuono delle città e delle spiagge affollate, vicino al Creatore. Ma nel 1292 (sono sette secoli) anziché sognarlo, Giovanni Elisei di Fermo vi si recò realmente, per darsi alla vita contemplativa, alla penitenza, alla mortificazione.

     La Verna aveva già una “connotazione” marchigiana in quanto donata a S. Francesco nel 1213 dal Conte Orlando Catani, a S. Leo, cittadina in Provincia di Pesaro, famosa per il “forte” e successivamente, per Cagliostro. San Francesco vi mandò due frati per una specie di ricognizione. Essi trovarono il luogo adattissimo alla vita religiosa e S. Francesco accettò il dono. Dal 1214 al 1244 vi si recò sei volte ed egli che aveva “folgorato” il conte Catani (il quale stupito dalle virtù del Santo gli aveva donato il monte), fu in quel monte “folgorato” da Cristo e ricevé le stimmate. Dante, in sordina, ricorda… “Di Cristo prese l’ultimo sigillo / Che le sue membra due anni portarno”…

     Ma mezzo secolo dopo, nella Verna, si ha la “connotazione” fermana. Infatti, vi si reca “Frate Joanni da Fermo dicto de la Verna” e vi rimane per oltre un trentennio, diventando famoso e rendendo così famoso il luogo, che ormai tutti lo conoscono come Beato Giovanni della Verna. Fu amico di Jacopone da Todi, che lo volle vicino in punto di morte e solo da lui volle ricevere gli ultimi sacramenti. Era la notte di Natale del 1306! Giovanni che era distante, quasi miracolosamente, giunse in tempo per raccoglierne l’ultimo respiro. Di “Giovanni de Firmo dicto de la Verna” parlano spesso, i Fioretti di S. Francesco di cui è autore Fra Ugolino da Montegiorgio. Gli apparve Cristo mentre Giovanni pregava nel bosco. “.. di che frate Giovanni ancora con maggiore fervore e desiderio seguita Cristo e giunto ch’ei fu a lui, Cristo benedetto si rivolge verso di lui e riguarda col viso allegro e grazioso e aprendo le sue santissime braccia l’abbraccia dolcissimamente”.

     Chi si reca alla Verna può vedere nella chiesa il corpo del Beato Giovanni. Egli morì il giorno 9 agosto 1322; il 24 giugno 1880 Leone XIII ne approvò il culto. Domenica sono ricorsi 670 anni esatti dalla sua scomparsa!

1292 – Due condottieri tutt’altro che gentili: Gentile da Mogliano del sec. XIII e

            Gentile da Mogliano del sec. XIV

         Un detto latino recita che “spesso i nomi sono appropriati a chi li porta” (Conveniunt rebus nomina saepe suis). Ma non sempre è così! La prova l’abbiamo in due condottieri: stesso, identico nome e provenienza, ma vissuti in secoli diversi. L’uno nel sec. XIII; l’altro nel XIV.

     Intendiamo parlare dei due: Gentile da Mogliano, entrambi condottieri dell’esercito fermano: l’uno distruttore del Porto di Civitanova; l’altro di quello di Ascoli. Quindi la gentilezza va a farsi benedire. Quest’ultimo era nipote del precedente.

Nel 1292 Civitanova, e nel 1348 Ascoli, a dispetto di Fermo, costruirono attrezzature portuali, difese da fortezze. Fermo, lesa nei suoi diritti, ricorse alle armi. Si alleò, nella prima fase, con Ancona e Recanati ai quali il porto di Civitanova dava fastidio ed insieme spedirono contro Civitanova un esercito che assediò e distrusse il porto, saccheggiando per otto giorni la cittadina. Tale esercito era comandato da Gentile da Mogliano..

     Dopo oltre mezzo secolo Ascoli, anche qui a dispetto di Fermo, costruì un porto (il Porto di Ascoli) munendolo di torri e di mura merlate. Una vera fortezza!

     Fermo vide, si preparò, e nel mese di marzo 1348, inviò un esercito per espugnare la fortezza eretta dagli Ascolani. L’assedio durò quaranta giorni. Il 28 aprile 1348 espugnarono la fortezza impiccando ai merli i difensori superstiti, capitano compreso; prelevarono due pietre ben squadrate, le portarono a Fermo come trofeo di guerra e le mura¬rono ad altezza d’uomo nella lesena del campanile di Sant’Agostino. dove sono tuttora. Su di esse campeggia una scritta latina che in italiano suona: “Al tempo di Gentile da Mogliano, nel 1348, questa pietra del Porto di Ascoli resta fermata nella fabbrica di questo tempio, con un onore molto più grande di prima”.

     Oggi della fortezza del Porto di Ascoli rimane una torre, detta Torre Guelfa, che campeggia a ridosso della Caserma Guelfa; la lasciarono così, i Fermani, a ricordo dell’impresa.

     Molti storici hanno confuso i due Gentile da Mogliano attribuendo tutto al vincitore del Porto di Ascoli. Ma non è così! Il primo, il vincitore di Civitanova, nel 1306 risultava defunto; il secondo, il nipote, il vincitore del Porto di Ascoli, dopo aver combattuto contro i Malatesta e, dopo essersi scontrato col potente Cardinale Albomoz, moriva nel 1356. Civitanova e il Porto di Ascoli vennero distrutti in modo tutt’altro che gentile (à la guerre comme à la guerre) da due Gentili, ma qui, più che di gentilezza, si dovrebbe parlare di una componente gentilizia.

Anno 1294 – Le coordinate: Ancona e Fermo!

     Sfogliando l’Agenda della Regione Marche, anno 1991, pagina 402, balza agli occhi il Palazzo dei Priori di Fermo, già residenza della Magistratura. Sotto, la didascalia recita: “Fermo Provincia di Ancona: Palazzo dei Priori”. Ogni commento al lettore!!! Un’affermazione del genere in un’Agenda della Regione, compilata dagli “addetti ai lavori”, è la prova della sublime conoscenza, pardon, ignoranza, storica e geografica dei redattori.

     Non così avveniva nel sec. XV. Infatti, l’umanista Aurelio Simmaco De Jacobiti, giurista napoletano (1400c – 1500c), nel suo “Liber Miraculorum” edito a Napoli nel 1490, descrivendo la venuta della Santa Casa di Loreto nelle Marche (strofa 79), dà queste coordinate:  Ancona e Fermo. Come è noto la Santa Casa venendo da Tersatto, si posò in una selva posseduta da una donna di nome Loreta, dalla quale il sacello prende il nome. La sua indicazione geografica, come detto, è “tra Ancona e Fermo”. Ed eccoci al passo relativo: “Finché in Piceno presso il mar se pusse / tra Anchona e Fermo et più lochi patenti / presso lo Adriano litto se condusse / ad un boschetto che era veramenti / ed una donna, Loreta fama fusse / unde el nome prese fra le genti / et loco demorò finché fuo viva / la detta donna et poi de vita priva /” (canto XV, strofa, come detto, 79).

     La citazione del De Jacobiti, conferma ancora una volta l’importanza di Fermo, presa come indicazione geografica con Ancona. Ma tornando alla carente scienza geografica dei compilatori dell’Agenda della Regione Marche, dobbiamo dare un’“attenuante”. C’è di peggio. Un istituto specializzato in geografia con sede nella “brumai Novara”, nonostante i conclamati aggiornamenti (basterebbe solo quanto ha reclamizzato nella Stampa di Torino: “Il mondo cambia gli atlanti si aggiornano”. “Gli Atlanti D.A. i più aggiornati del mondo” nonostante, dicevamo, i conclamati aggiornamenti in tutte le edizioni del suo atlante storico (compresa la recentissima edizione) si ostina a dire che capoluogo del Dipartimento del Tronto voluto da Napoleone Bonaparte sarebbe stato Ascoli, mentre lo era Fermo. Tale dipartimento si estendeva come noto a buona parte della Provincia di Macerata, oltre al territorio della attuale Provincia di Ascoli.

     Diciamo questo solo per amore di verità e non per campanile. Rileviamo infatti che il “sullodato” Istituto geografico, in altra pubblicazione dice (Tuttitalia: Cronologia storico-artistica) che “nel 1357 il Cardinale Egidio Albomoz che ha riordinato la Marca, promulga a Fermo le sue celebri Costituzioni”. Ringraziamo, ma non è Fermo bensì a Fano. Unicuique suum! E quanti altri errori vi sono… in molti libri!

Anno 1294 – La tradizione dei focaracci nelle pagine e nei versi di scrittori e poeti.

     Tutti conoscono Loreto, il suo Santuario, la sua storia, ma non tutti sanno che in gran parte essa è scandita all’insegna del numero 10. Il 10 maggio 1291, dato che i Turchi avevano invaso la Palestina, gli Angeli portarono via la casetta della Madonna, posandola a Tersatto vicino a Fiume (ex Jugoslavia). Ma qui, la Vergine non venne onorata come si conveniva, per cui il 10 dicembre 1294, nuovamente la casetta fu trasportata dagli Angeli nella zona di Recanati e posta in una selva appartenente alla nobildonna recanatese di nome Loreta. Sul posto subito si riversò una folla di pellegrini e fedeli ma si verificarono furti e scippi ai loro danni, per cui il 10 aprile 1295 fu portata per mano dagli Angeli su una collina di cui erano proprietari due fratelli. Ma questi, ben presto litigarono per motivi di interesse e la casetta venne ritrasportata nel luogo dove si trova tuttora.

     Poeti, scrittori, storici, parlarono e parlano del fausto evento. Fra essi Flavio Biondo da Forlì famoso umanista e storico (1392-1463) nella sua Italia Illustrata (1451) scriveva: “Fra Recanati ed il mare Adriatico… sta in un villaggio aperto e indifeso, la chiesuola della Vergine Maria, detta di Loreto, celeberrima in tutta Italia” e prosegue dicendo che alle pareti sono appesi doni votivi in “oro, argento, cera e vesti di lino e lana, di gran prezzo, si’ da riempire tutta la basilica”.

     Venendo a tempi a noi più vicini, ricorderemo che Giorgio Umani di Ancona, celebre scrittore e scienziato morto nel 1965, nel descrivere le nostre Marche, elenca i geni di casa nostra: Raffaello, Rossini, Per- golesi, Bramante, Leopardi, etc. Poi ha come un sussulto e per documentare che le Marche sono la Regione più bella d’Italia, scrive:

“.. ma se persino Maria santissima / Dopo aver dato in segreto / uno sguardo al creato / E venuta di casa a Loreto’’. Sì in quella Loreto, città cara ed a cuore di ogni marchigiano specie se si trova all’estero.

     Loreto: 10 dicembre festa della Madonna e focaracci! Più volte ho visto scritta questa parola tra virgolette come se di dubbia “cittadinanza”. A parte l’etimologia diretta (focus, foci) il vocabolo focaracci è usato da scrittori di valore come Pasolini (.. .erano saliti sul monte del Pe¬coraro a fare focaracci con dei mucchi di platani); Cardarelli (Le ragazze… vanno giù alla Marina ad accendere i focheracci in onore della Madonna); Sinisgalli (spazza il vento faville / di focaracci sulla neve).

      Nelle deliberazioni del Consiglio comunale di Fermo relative al 1585 si legge che, in occasione dell’elezione a Papa di Sisto V, sulle nostre colline, di notte, si fecero molti focaracci.

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