Ludovico Ariosto nelle lezioni del prof. Mancini don Dino a Fermo

LUDOVICO ARIOSTO                   (1474-1533)

 L’ambiente

L’ambiente generale in cui vive l’Ariosto, cioè l’ambiente del Rinascimento del primo ‘500: Rinascimento maturo.

L’Ariosto è un esponente del Rinascimento maturo insieme al Machiavel­li e al Guicciardini.

L’uomo del Rinascimenti maturo è caratterizzato:

a)- Da vasta esperienza di uomini e di cose.

b)- Da una capacità eccellente di controllare e di armonizzare i vari motivi della vita. Chi ha esperienza infatti degli uomini e delle cose e riesce a superare la realtà e guardandola da un punto di vista superio­re riesce a coglierla nel suo intrico e nei suoi infiniti legami.

L’uomo di esperienza non solo conosce i modi del vivere umano, ma conosce anche le cause che li generano e le conseguenza che da essi derivano.

Esperienza fatta è esperienza superata; per questo motivo l’uomo esperto vuol superare la realtà e può quindi controllarla nei suoi particolari e nel suo complesso, può insomma rendersi conto dell’intricatissimo e mirabile giuoco della vita.

c)- Da uno stile sereno e pacato, talvolta freddo. Infatti chi ha speri­mentato la vita l’ha superata e chi ha superato la vita non si appassiona più per nessuna forma di essa: la contempla con animo distaccato, sorride bonariamente delle forme di vita esagerate; si compiace, senza entusiasmi però, delle forme moderate e sensate. Ama quanto di bello e di buono offre la natura e ne gode moderatamente. Quando parla si esprime non con foga, ma con moderazione, con precisione e con spontanea genialità.

d)- Da un modo di valutare uomini e cose secondo criteri pratici, parti­colarmente in base al criterio dell’utilità e del decoro.

I criteri di giudizio proposti dalla religione e dalla filosofia sono con­siderati eccellenti, ma inadatti alla prassi della vita vissuta. E’ buono ciò che è sensato, utile, gentile, umano, è spregevole ciò che è stolto, rozzo, disumano, triviale. Si tratta di una moralità schiettamente umana che, sebbene non abbia nessuna impronta soprannaturale, tuttavia è amabi­le per la sua “aurea mediocritas” come direbbe Orazio (cioè per la sua moderazione).

e)- Da descrizione e grazia, cioè capacità di capire le situazioni e di uti­lizzare nel modo migliore le risorse; e nello stesso tempo stile pacato, corretto e cordiale nel modo di agire e di parlare: potremmo dire intel­ligenza, discrezione e finezza. Il gentiluomo che è il tipo di perfezione rinascimentale (presentato da Baldassar Castiglione nel “Cortigiano”) presenta come doti essenziali la discrezione e la grazia.

   La situazione politica del primo ‘500 è straordinariamente confusa e per l’Italia addirittura drammatica e spesse volte tragica. Questa situa­zione interessa soprattutto per inquadrare bene il Machiavelli, ma può anche spiegarci alcuni atteggiamenti spirituali dell’Ariosto.

   Dopo la discesa di Carlo VIII (1494) si ha una serie quasi ininterrot­ta di guerre: gli Asburgo (padroni della Germania e della Spagna e dell’Impero coloniale americano) e la Francia lottano per il primato in Europa. L’Italia è terra contesa fra i due nemici. I principi italiani invece di pensare alla salvezza dalla nazione parteggiano o per la Francia o per l’Imperatore affinché con l’aiuto dell’una o dell’altra persona realiz­zare certi loro sogni egoistici. Eserciti francesi, svizzeri, spagnoli, germanici (alemanni), bande mercenarie delle varie regioni italiane quasi ogni anno percorrono la penisola fino al 1503.

   Il popolo italiano guarda con indifferenza questo rincorrersi e scon­trarsi di eserciti; conosce ed ammira con curiosità i più bravi capitani del tempo, così come oggi il pubblico si interessa dei campioni dello sport. Giovanni dalle Bande Nere, il Marchese di Toscana, Gastone di Foix, Bagliardo (cavaliere francese), Francesco I,  Alfonso I d’Este, sono perso­naggi rinomati e ammirati come persone che ci sanno fare, che sanno ben giocare nel triste gioco della guerra.

   Il popolo subisce i gravi danni della guerra, ma le impressioni negati­ve del grave flagello sono compensate dalla curiosità che desta la inte­ressante iconografia dei combattimenti; insomma si assiste alla guerra come ad una specie di gioco, e i grandi condottieri non si mostrano mai feroci: ci tengono a far la figura di bravi cavalieri ( da ricordare la generosi­tà di Carlo V che fa prigioniero Francesco I; la famosa espressione di questo ultimo :”Tutto è perduto fuorché l’onore”, l’intervento delle dame nel chiasso tragico delle armi: pace delle due dame).

L’ambiente particolare, cioè l’ambiente della corte ferrarese.

   La corte estense raccoglieva i tre fattori essenziali della cavalleria rinascimentale: culto delle armi, culto della bellezza, culto dell’arte. Audaci imprese, cortesia, amori e gentilezze, piacevoli conversazioni, costituivano la sostanza della vita nella corte ferrarese: corte militare­sca (Alfonso I è uno dei migliori artiglieri d’Italia), corte di belle donne (Lucrezia Borgia era moglie di Alfonso), corte di intellettuali (da ricordare il Boiardo, l’Ariosto ed il Tasso).

   La vita di corte in generale nel ‘500 è a noi nota attraverso l’opera del Castiglione “Il cortigiano”. Nella corte si trovavano gentiluomini, nobildonne, letterati, musici, artisti che o vi dimoravano costantemente o solo di passaggio. Si tratta di tutta gente scelta e raffinata: alcuni affinati dalla educazione nobiliare (concentrata nella formazione del gentiluomo, secondo l’indirizzo di Vittorino da Feltre e di Pico della Mi­randola), alcuni affinati dall’esperienza della vita di corte e da una discreta cultura, altri affinati dall’eserci­zio costante delle lettere e delle arti, dall’esperienza della vita e dal costante proposito di realizzare in sé stessi gli esemplari della lettera­tura e dell’arte greco-romana. Virgilio, Orazio, Tibullo, Ovidio, Livio, Cicerone, sono i personaggi che i poeti assumono come modelli non solo nell’arte ma anche nel modo di comportarsi con i Principi protettori. Anche le dame sono colte e nell’ambiente signorile esse costituiscono lo spettacolo più bello e più simpatico.

   Durante la giornata ognuno attende ai suoi lavori: il poeta e il musi­cista a comporre; il pittore, lo scultore, l’architetto ad eseguire i lo­ro lavori; i gentiluomini ai compiti amministrativi e agli affari politici; i militari alle esercitazioni belliche; le dame alla toilette e ai lavori femminili, talvolta alla lettura e alla composizione poetica o artistica.

Alla sera quando si adunava il circolo ognuno aveva modo di far mostra delle proprie capacità e della propria genialità: poeti, pensatori, musi­cisti, intenditori di arte, politici, moralisti avevano modo di gareggia­re tra loro in acutezza e finezza di pensiero e di espressione. Si tratta di un ambiente estremamente evoluto in cui si fa fortuna soltanto se si hanno le seguenti doti:

– genialità vivace e brillante per eccellere nell’invenzione bella ed utile;

– conoscenza della vita e diligente aggiornamento per non apparire arretrati;

– chiarezza, precisione e signorilità di linguaggio;

– correttezza, finezza e grazia nel modo di trattare e nel portamento;

– discrezione, cioè moderazione, buon senso, abilità in tutte le espressioni della vita.

   Ambiente estremamente impegnativo dunque per tutti e massimamente per gli artisti ai quali spettava il compito di tenere deste le conversazioni e di far vivere nell’ambiente l’ideale nelle sue forme più pure, più niti­de e più decorose.

   E’ questo il motivo per cui nel Rinascimento ci sono numerosissimi let­terati ed artisti e tra essi molti sono eccellenti. Le corti avevano bi­sogno di poeti, di pensatori, di scienziati, di musicisti, di architetti, scultori e pittori sia per tenere elevato il tono dell’ambiente, sia per garantire eternità alla famiglia principesca attraverso le opere dei geni da essa protetti. Gli artisti d’altra parte o erano ingegni superiori o erano ingegni medi: gli ingegni superiori gareggiavano fra loro per supe­rarsi o vigilavano per non copiarsi; gli ingegni mediocri si sforzavano di imitare i maggiori per non fare brutta figura. Così nel mondo delle lettere e delle arti troviamo una schiera numerosa di persone che sanno il fatto loro e lavorano con eccellente capacità, con originalità, e con ampiezza e complessità di disegno. Non ci si contenta più dell’opera gra­ziosa, ma di modesta struttura, come nel ‘400: ora i grandi ingegni pro­cedono alla combinazione del grandioso e del bello: solo in questa combi­nazione infatti si saggia la capacità di una persona, il ‘400 amava la grazia che normalmente va unita al piccolo; il ‘500 ama il decoro e la magnificenza che vanno unite con il grande.

   Vediamo ora la moralità dell’ambiente cortigiano. Il principio base della moralità nelle corti è costituito da un naturali­smo sano e signorile: esprimere tutte le energie di natura, sia fisiche che spirituali, in modo decoroso e moderato con grazia e discrezione.

Sulla base di questo precetto vengono enunciati i seguenti principi:

a)- Il gentiluomo è sempre corretto: la promiscuità non deve essere con­siderata come occasione per sfogare gli istinti più volgari, ma per sag­giare la propria capacità di autodisciplina e il grado della propria genti­lezza.

b)- Il gentiluomo non deve mai né sentire, né esprimersi in modo passio­nale e impulsivo: deve riuscire a moderare i suoi sentimenti e le sue pa­role: tono o stile composto e quasi olimpico.

c)- Il gentiluomo non deve mai dimostrarsi eccessivamente entusiasta, ottimista, fiducioso, né eccessivamente triste, pessimista e sfiduciato: deve essere sempre sereno. Le persone primitive piangono troppo o ridono troppo: ci vuol moderazione e capacita di controllare gli eventi.

d)- Buono è tutto ciò che è gentile, moderato, intelligente, armonico; cattivo è tutto ciò che è scorretto, eccessivo, rozzo, maligno. Dice il Bembo che il bello è il circolo di cui è centro il buono; e osa affermare che i brutti sono anche maligni. Il bello, cioè l’armonia, di­venta dunque per i Rinascimentali anche criterio morale (concetto accet­tabile a meno che non si voglia giustificare con il bello anche l’illecito fatto con arte).

Spiritualità dell’Ariosto.

Esaminiamo anzitutto i fattori che contribuiscono alla formazione spi­rituale di una persona: indole, vicende della vita con relative esperienze, cultura.

Indole. L’Ariosto ebbe dalla natura un’indole curiosa di conoscere uomini e cose, pacifica cioè aliena dalle provocazioni e dalle vendette, serena nell’affrontare le difficoltà e nel sostenere i disagi, bonaria nel giudicare i difetti umani, riflessiva ma aliena da complicazioni problematiche, amante del semplice, del chiaro, del bello e del decoroso. Non si nota af­fatto in lui la tendenza ad assumere atteggiamenti da eroe e da moralista o da filosofo o da politico: nessun tono chiassoso o clamoroso, ma innata predilezione per il tono calmo e medio.

La vita.

La vita dell’Ariosto fu abbastanza movimentata, ma niente affatto dramma­tica e tanto meno tragica. La sua indole, naturalmente onesta e buona e sinceramente affettuosa, gli permise di affrontare i suoi doveri di capo di famiglia con eccellente impegno: i suoi fratelli e le sue sorelle tro­varono in lui un padre diligente e laborioso ed egli non si diede mai le arie né mai assunse l’atteggiamento di persona perseguitata dalla sventura o inasprita dall’eccessivo lavoro.

Bonario ed arguto com’era tollerò le bizzarrie del cardinale Ippolito che egli servì con fedeltà, ma senza entusiasmo e senza ribellioni. Compì il dovere perché la vita glielo presentava come una necessità a cui non si può né si deve sfuggire a meno che non si voglia vivere vergogno­samente nell’ozio e con lo stile dei parassiti: il parassitismo è cosa indegna di una persona sincera ed onesta. Ebbe incarichi di ambasceria illu­stri e fu anche governatore della Garfagnana. Mai si vantò di simili in­carichi, né aspirò a raggiungere posizioni di predominio. Egli ebbe da natura e rinvigorì con l’esercizio la capacità di guardare con distacco se stesso, le vicende della sua vita, gli uomini che lo circondavano e quindi di poter comprendere, compatire gli altri ed anche sé stesso. Fiorisce perciò costantemente sulle labbra dell’Ariosto il sorriso della persona bonaria ed arguta. Egli ad esempio era ardentemente innamorato di Alessandra Benucci: non scrisse per lei, nessuna lirica, temendo di ap­parire troppo innamorato e non volendo, come avevano fatto tanti altri poeti amorosi precedenti, né gridare per la gioia, né piangere per la dispe­razione.

Nell’introduzione all’Orlando egli accenna al suo amore: “Se da colei che tal quasi m’ha fatto che il poco ingegno ad ora ad ora mi lima, me ne sarà però tanto concesso, che mi basti a finir quanto ho promesso”.

Non bisogna prendere queste parole alla lettera, perché il poeta nella introduzione ci presenta tre figure di matti: Agramente furioso, perché mosso dallo spirito di vendetta, Orlando furioso per amore, lui stesso in pericolo di perdere la testa: ma non la perderà perché sa controllare il suo cuore e sa sorridere nelle sue furie amorose. Passò dunque la sua vita esercitando l’attività di segretario, di ambasciatore, di governato­re attendendo alla composizione poetica, coltivando affetti sinceri e mo­derati con uno stile costantemente superiore e sereno.

   La composizione dell’Orlando Furioso e delle altre opere gli richiese molto lavoro e molto sacrificio; aveva bisogno di tempo per fantasticare tranquillamente; e il tempo troppo spesso gli mancava a causa del suo servizio. Tuttavia trova sempre il modo di raccogliersi nell’intimo del suo spirito e di attendere al lavoro agile e piacevole della sua fantasia. Forse la qualità a cui egli maggiormente teneva era quella di artista: ep­pure non si vantò mai di essere poeta. Se nel canto trentacinquesimo esal­ta i poeti “che non sian del nome indegni” e rimprovera i signori che non li proteggono non bisogna credere che egli sia entusiasta dei poeti; infat­ti nello stesso passo presenta i letterati come alleati dei birbanti o al­meno come un po’ imbroglioni. Se Nerone si fosse fatto amico qualche poeta, sarebbe passato alla storia come galantuomo; Augusto che fece uso del­la proscrizione fu connivente con Antonio nella uccisione di Cicerone è passato alla storia come santo e benigno solo perché come tale lo ha pre­sentato ai posteri Virgilio.

   Soprattutto la vita di corte dovette costituire per Ariosto un ottimo tirocinio di esperienze e di superamento di esse: abbiamo visto che “l’aurea mediocritas”, lo stile arguto e fine costituivano la sostanza del costume cortigiano; e all’Ariosto fu senza dubbio facile superare tutti gli altri colleghi di corte, essendo stato da natura fornito di eccellente capacità da controllare sé stesso e gli altri.

La cultura. Tutte le facoltà dello spirito dell’Ariosto furono vivaci: intelletto, sen­timento, volontà, fantasia, ma quest’ultima ebbe una vivacità superiore. Per questo più che altri studi lo attrassero le lettere e nel campo delle lettere più che la lirica o la poesia didascalica lo attrassero i generi letterari che esigono maggiore capacità fantastica: il poema epico e cavalleresco; il teatro nella sua forma più gioviale che è la Commedia.

      In questo predominio della fantasia, l’Ariosto non volle seguire gli studi giuridici come avrebbe voluto suo padre, né mai si preoccupò di questioni filosofiche e teologiche o morali o politiche: più che pensare gli piaceva inventare con la fantasia. Della letteratura classica apprese quanto gli era sufficiente per conoscere quanto avevano fatto gli antichi specie nel campo della poesia narrativa. Perciò non studiò mai il greco; e se da giovane compose alcune liriche in latino, del resto eccellenti, non ebbe mai per queste lingue una vera e propria passione.

      Si nota in lui il riflesso dalla spiritualità umanistica giunta alla fase di maturazione; la cui affermazione fondamentale è questa: basta con lo studio filologico e formale dei classici; è ora di lavorare secondo le esigenze dello spirito moderno utilizzando con ampia libertà e con discre­zione gli esempi degli antichi. Anche Erasmo di Rotterdam a quei tempi propugnava un umanesimo più pratico e più positivo, più vitale, in base a questo principio: lo studio umanistico serve a formare una cultura: la cul­tura serve per pensare e vivere degnamente e per comporre meglio quando si è ispirati dal cuore.

    Anche l’ambiente cortigiano contribuì a convogliare l’attività cultura­le dell’Ariosto verso la poesia narrativa: infatti nelle corti uno dei pas­satempi preferiti era quello di ascoltare piacevoli narrazioni di avventu­re in cui apparissero dame e cavalieri nelle forme o della perfezione ri­nascimentale per essere ammirati come esemplari o nelle forme della imperfezione (rozzezza, eccessività) per essere deplorati.

    Il mondo dell’Orlando furioso fu inventato nella sua trama generale e nei suoi particolari proprio con l’intento di presentare a quella gente esperta che erano le donne e i cavalieri della corte, le situazioni, i tipi e le complicazioni più svariate che si possano pensare nel gioco della vita. Né è da trascurare il fatto che l’Ariosto visse nella corte di Fer­rara ove il Boiardo pochi anni prima aveva composto l’Orlando Innamorato: tale opera era piaciuta alla corte e perciò si poteva continuarne la tra­ma fino a nuove conclusioni.

     L’Ariosto non esitò a riallacciare il suo racconto a quello del Boiar­do: un altro forse per non apparire imitatore avrebbe evitato tale ricon­giungimento; ma all’Ariosto, spirito superiore, questi scrupoli dovevano apparire senz’altro piccinerie e non esitò affatto a continuare la trama dell'”Innamorato”.

Motivi della spiritualità ariostesca.

   Concezione del reale e della vita. L’Ariosto non approfondì problemi filosofici e teologici; perciò non ebbe una visione religiosa o filosofi­ca del reale, ben chiara e ben definita. Dell’uomo, del mondo e di Dio, pensò quello che per tradizione pensavano gli Italiani: una visione della realtà che potremmo definire comune. Non solo non nega il valore della religione cristiana, ma la riconosce apertamente; tuttavia il problema religioso non lo interessa molto o almeno egli non vi si impegna a fondo.

   Per quanto riguarda la prassi della vita come culto dell’ideale, l’Ario­sto si mantiene aderente all’esperienza: gli uomini servono i propri im­pulsi e gli ideali. Sia nel campo cristiano come in quello morale i cavalie­ri trascurano i propri doveri patriottici e religiosi per seguire i loro segreti impulsi e se combattono sotto le bandiere contrassegnate o dalla croce o dalla mezzaluna lo fanno più per mettere in evidenza quanto sono bravi che non per servire l’ideale. Tutti gli uomini pressappoco sono co­sì, e l’Ariosto non si sdegna di questo, ma sorride bonariamente: del resto anche egli è come gli altri; ed egli sorride anche di sé stesso. E’ evi­dente sotto questo atteggiamento una specie di negligenza spirituale di indifferentismo senza punte polemiche, ma mondano abbastanza. All’Ariosto questo atteggiamento di superiorità svagata (del resto come a tutte le persone colte di allora) nei confronti dei grandi problemi dell’uomo, della vita e del reale, doveva apparire come forma liberale dello spirito, cioè come forma superiore alla grettezza, al confessionalismo (professio­ne di una data religione), alla pedanteria, al settarismo della gente troppo religiosa: una forma simpatica da opporsi al fanatismo. In parti­colare questa è la concezione della vita che ha l’Ariosto:

–  godere serenamente i doni della natura evitando però la rozzezza e l’eccessività.

– contemplare il gioco vario e piacevole dell’esistenza umana con di­stacco ed imposizione di superiorità, senza abbandonarsi a giudizi aspri e a polemiche, ad entusiasmi e a malinconie. 

– dare saggio dalle proprie capacità componendo opere di ingegno e di arte facendo prove di valore utilizzando con abilità le situazioni per affermare la propria personalità.

Come vede la vita l’Ariosto.

Egli vede la vita come un gioco complicato e sempre nuovo, come moto in­cessante di svariate forze che si intrecciano, si combinano, si respingo­no, si disperdono, si affermano. Tali forze sono le seguenti:

a)- Gli impulsi che, secondo la concezione naturalistica rinascimentale, non possono e non debbono esser repressi, perché sono la sorgente stessa della vita ossia del moto.

Gli impulsi più vivaci sono i seguenti: l’amore inteso come godimento del bello e del piacevole; amore gentile e cavalleresco (Bradamante e Rug­gero, Brandimarte e Fiordiligi, Isabella e Leone e Bradamante e Zerbino) amore che scervella soprattutto gli inesperti (Orlando), amore capriccioso (Angelica e Rinaldo); amore incontenibile (Angelica e Permedoro); amo­re geloso e dispettoso (Marfisa); amore fiero e centauresco (Rodomonte e Isabella: lui spaccamontagne e forzuto, lei umile e fragile); amore volut­tuoso (Aleina e le sue vittime); amore infelice (Olimpia e Bireno) L’unico personaggio che non ama è Astolfo perché convoglia tutte le sue energie verso l’avventura che lo impegna e che lo assorbì e non gli per­mette di pensare alle donne. Quando l’amore raggiunge la sua meta, cioè si concluda nel matrimonio, sembra venir meno la sua energia di moto: tan­to è vero che dell’Orlando (che si può definire il poema del moto perpetuo) Angelica allorché è sposa esce dall’intreccio e non ri­comparisce più. E’ questo un concetto caratteristico della mentalità monda­na: il matrimonio affievolisce l’amore; e l’Ariosto da smaliziato uomo di mondo sembra convinto di ciò.

 b)- Il senso dell’onore che si manifesta come azione sia per difendere che per affermare la personalità propria o quella del casato. L’onore della propria religione si difende solo in quanto l’offesa alla religione è offesa per chi la professa.

 c)- Il desiderio di saggiare le proprie forze in avventure difficili e pe­ricolose, perché non si può avere coscienza del proprio valore se non lo si nette alla prova; e la coscienza del proprio valore è un motivo di com­piacimento e di felicità interiore.  

d)- Il desiderio del nuovo e quindi l’ansia di scoprire l’ignoto attraver­so avventure mai tentate da alcuno, non è certamente estraneo a questo en­tusiasmo per l’avventura e la scoperta nel Rinascimento, anche la sugge­stione generata negli uomini di quella età dalle scoperte dei grandi navi­gatori e dai mirabili racconti con cui questi riferivano le meraviglie da essi vedute.

e)- La fortuna ossia una misteriosa e bonaria forza che combina le situa­zioni       più impensate, fa   cadere nella miseria e nel ridicolo gli orgoglio­si, affligge i fortunati, salva all’ultimo momento i disperati. La fortu­na in genere è favorevole alle persone non maligne: per i cattivi presto o tardi arriva il momento di pagare per quanto essi si diano da fare per tenersi a galla.

Quale è la legge che regola questo gioco della vita? E’ la legge della proporzione e dell’armonia: per chi ha esperienza della vita nulla è assoluto quando è positivo, nulla è irreparabile quando è negativo: nessun pregio è superlativo, nessuna situazione triste è irrepara­bile: alla grandezza succede la meschinità; alla felicità succede la mise­ria e viceversa; alla meschinità e alla miseria succede la grandezza e la felicità. Solo chi non ha esperienza della vita e non è riuscito a superar­la e a guardarla nella sua complessità da una posizione elevata, si esalta o si dispera, si appassiona o si annoia: chi ha avuto la fortuna di imparare a conoscer la vita osservandola da un punto di vista superiore, sa che tutto il moto immenso e complesso dei fattori della vita va ad armo­nizzarsi. Di qui il tono sereno e sorridente della spiritualità dell’Ario­sto.

    Con quale criterio morale l’Ariosto giudica la vita?

Con il criterio di perfezione adottato dal Rinascimento: è buono tutto ciò che viene generato dalla natura e coltivato dall’uomo con discrezione e decoro, ossia la bontà consista nella sincerità, nella moderazione, nel saper fare ma senza presunzione.

Il criterio con il quale l’Ariosto giudica gli uomini e le cose è dun­que un criterio di una umanità sensata e decente.

   Tale criterio è assai comprensivo e tollerante, si adatta alle esigenze della vita: non è intransigente come il criterio della morale teorica. Nel c. IV dell’Orlando afferma che sebbene la frode sia di per sé riprove­vole, tuttavia ha risparmiato spesse volte gravissimi mali. Un sorriso di bonaria indulgenza è il normale commento dell’Ariosto e a scene di miseria morale dovuta a inesperienza e a debolezza; ma una garbata e tenue prote­sta sottolinea le scene in cui è evidente la malignità.

    Quale concetto ha l’Ariosto della Provvidenza divina? Non ha certo il concetto di Dante circa l’intervento di Dio nella storia umana. Parla della Provvidenza come dell’attività amministrativa di un gran signore che viva in un mondo superiore e si interessa dei mortali solo quando questi con la loro audacia e con la loro cattiveria mettono in pericolo il regno terreno che egli amministra: punisce talvolta qualche malvagio, aiuta qualche disgraziato e chiude un occhio sulle miserie umane. E’ un Dio alla rinascimentale: un gran signore e non più: non è più il centro di tutto il reale che con la forza dell’amore attrae a sé tutte le creature, come lo concepì e lo sentì l’Alighieri.

La superficialità dell’Ariosto, del resto comune alla sua generazione, è più che evidente.

Concezione politica dell’Ariosto.

   Ludovico sentì anche i vari motivi della politica, ma sempre e tutto con moderazione e quasi con svagatezza. Ecco i motivi della sua mentalità politica:

a)-  A reggere la vita dei popoli non sono i popoli stessi, ma i principi: il popolo è “vulgo e popolazzo, degno di morire prima che nasca” : si nota in questa concezione l’aristocratismo rinascimentale secondo cui, eccetto la famiglia del principe e quella dei nobili e la schiera dei letterati e degli artisti ossia eccetto le nature superiori, tutti gli altri sono volgo, plebe spregevole, incapace di pensare, di sentire e di operare de­gnamente.

b)-  La storia dei popoli è fatta dai capi e dalle persone eccezionali.

c)-  E’ un gran guaio che l’Italia sia straziata dagli eserciti stranieri: ma cosa ci si vuol fare? Pazienza.

d)-  Quel correre e rincorrersi cogli eserciti stranieri in Italia arreca disagio è vero, ma è anche un bello spettacolo, una coreografia epica e cavalleresca, un magnifico spunto per un poema epico cavalleresco.

e)- Le iniziative dei grandi personaggi politici sono promosse non dall’interesse dei loro popoli né da esigenze ideali, ma dagli impulsi segreti del­lo orgoglio, dello spirito di vendetta, dell’ambizione.

f)- Gli ideali della patria e della fede in pratica non sono sentiti che da pochissime persone: per i più essi sono occasioni o motivi per fare sfoggio delle loro capacità personali nell’apparente difesa dei loro sacri va­lori: né Rodomonte, né Ruggero, né Orlando, né alcun altro cavaliere o saraceno o cristiano è mosso da vero spirito patriottico o religioso: l’impulso più vero è quello di affermare la propria personalità.

In conclusione Ia spiritualità dell’Ariosto presenta le seguenti caratteristiche:

– Vastissima esperienza della vita e quindi larga conoscenza degli uomini e delle cose.

– Capacità di superamento del reale.

– Osservazione del reale da un punto di vista superiore.

– Capacità di cogliere nel reale la sua immensa varietà di forme, i suoi intrecci, il suo equilibrio armonico e un tono svagato e smaliziato e un sorriso bonario nel contemplare le miserie della psicologia umana ossia le forme esagerate o rozze di esse.

– Una calda simpatia per tutte le forme medie di vita.

– Una morale liberale e serena e comprensiva.

– Interesse per tutto ciò che fa parte di una esistenza, ma passione vera e propria per nessuna cosa, neanche per i più grandi ideali, semmai sincera simpatia. L’ammirazione, la passione, la veemenza, l’entusiasmo sono forme esagerate, indegne, secondo la mentalità del Rinascimento che ha la sua più perfetta espressione nella mentalità delle corti, di una persona fine e superiore. Gli entusiasmi, i fanatismi, gli impulsi incontrollati sono da lasciarsi alla gente un po’ matta e ancora arretrata nello stile della vita perfetta.

Orlando furioso.

    E’ un poema epico cavalleresco encomiastico in ottave, nel quale si svolge un triplice argomento: la guerra tra Agramante e Carlo, la forza di Orlan­do, le vicende amorose di Bradamante e Ruggero che alla fine sposano e dan­no origine alla famiglia estense. Tre motivi dunque: epico, cavalleresco, encomiastico.

   L’azione del Furioso si riallaccia a quella dello Innamorato: il Boiardo aveva lasciato Angelica nella tenda del duca Mauro di Baviera in attesa di essere assegnata come premio al paladino che si fosse distinto di più nel combattimento.

L’Ariosto nella prima scena ci presenta Angelica fuggita dalla tenda del duca e alcuni cavalieri che vanno in cerca di lei lontano dai campi di combattimento. Fin dalle prime battute si rivelano la caratteristica dello intreccio cioè la complessità; la caratteristica della spiritualità, cioè l’impulsività; la caratteristica della morale,cioè la tolleranza e il senso dell’onore.

   Vediamo anzitutto l’impostazione e la trama dell’Orlando Furioso. Il poema è impostato su una concezione della vita di ispirazione naturali­stica e la sua trama deve servire a dimostrare a quale gioco complesso ed interessante dia luogo lo sfrenarsi libero di tutte le energie della natu­ra umana. Per realizzare un’impostazione e uno sviluppo di questo genere, è necessaria una vastissima esperienza della vita; e non si può dire che l’Ariosto difettasse di tale esperienza. L’esperienza fornisce alimento al­la fantasia e questa, quando è vivace per sua natura, riesce a creare un mondo nel settore dei sogni, così concreto, così complesso e così vasto co­me è quello della realtà e dell’esperienza: due mondi, quello della fanta­sia e quello dell’esperienza, paralleli e con le stesse caratteristiche l’uno dell’altro.

   Potrebbe sembrare strano che in un Rinascimento così concreto sia stato composto un poema così fantasioso come l’Orlando Furioso: ma è da tener presente che il mondo creato dalla fantasia dell’Ariosto non è che il rifles­so della vita come era vissuta o vagheggiata dai rinascimentali.

Nessuna opposizione dunque fra realtà e fantasia dell’Ariosto. La secon­da non fa che creare un mondo uguale a quello della prima nel senso che anche in esso la sorgente e la legge della vita è l’impulso, anche in esso gli aspetti del vivere e dei criteri di valutazione sono quelli stessi del­la vita vissuta.

    Il poema doveva servire in particolare a divertire le dame e i cavalieri della corte estense e in genere il pubblico cortigiano e cortese di tutta Italia. Il divertimento doveva consistere nel contemplare, come da un luogo superiore, il grande ed intricato gioco della vita umana. Le forze che entrano in questo gioco, i criteri con cui esso è giudicato nel com­plesso e nei particolari, il tono con cui viene presentato, sono già stati illustrati quando si è parlato della concezione della vita, del criterio morale, del tono della spiritualità ariostesca.

    L’Ariosto sa che il pubblico a cui egli si rivolge è smaliziato, evoluto ed esigente; sa che il Boiardo ha tentato di impostare grandiosamente il suo poema; sa che ai suoi tempi i quadretti piccoli ma graziosi tanto cari al ‘400, sono usciti di moda,  mentre è entrata in uso sia nel campo delle let­tere che in quello delle arti e perfino della politica, il criterio del disegno vasto, della struttura complessa, della coloritura varia, insomma il criterio della solidità e del decoro.

Perciò imposta il suo poema su un triplice motivo e intreccia l’azione con l’intento di mostrare nella sua pienezza il gioco della vita, intesa come sfrenamento di tutte le energie della natura.

La forma e lo stile dell’Ariosto.

Forma fantastica. L’esperienza e la cultura hanno fornito all’Ariosto la materia che la sua fantasia ha celebrato con abilità e fecondità veramente ammirevoli; egli ha preso contatto con la vita in quanto l’ha sperimentata in sé e negli altri, e da quel contatto non ha preso lo spunto per approfondimenti religiosi, morali, politici, psicologici, ma per poter creare con la fantasia un mondo analogo a quello della realtà secondo il gusto allora considerato più perfetto, cioè il gusto delle corti.

La facoltà che è più impegnata nell’Orlando è la fantasia: l’intelligen­za e il cuore sono impegnati l’uno nella misura del buon senso, l’altro nella misura della gentilezza e della comprensione.

L’Ariosto è un poeta che non medita, non predica, non esce in escande­scenza, non geme, è un poeta che narra con costante serenità e freschezza d’invenzione cose che sembra che egli stesso abbia veduto, tanto sono con­crete nei particolari, benché abbiano evidentemente una origine ed una na­tura fantastica.

E’ un sogno fatto con concretezza; è una realtà trasferita in un mondo di sogno: così la fantasia dell’Ariosto evita la stravaganza propria dei sogni con la fedeltà alle leggi della psicologia umana; evita la crudezza del reale con la tenuità e la finezza che è propria del sogno. Forma complessa. L’Ariosto in forza della sua vastissima conoscenza della vita, in forza della vivacità della sua fantasia, in forza della necessità di comporre un’opera ricca di motivi come quella del Boiardo suo predecessore e più ricca ancora per venire incontro alla curiosità e alla   sensibi­lità dei lettori cortigiani, procede nel suo poema con una trama fittissima che accoglie spunti di ogni genere dalla vita reale, dai poemi classici (il fine per esaltare la famiglia, encomiastico come l’Eneide, l’episodio di Cloridano e Medoro, l’episodio di Astolfo trasformato in mirto, il duello finale) e dall’invenzione inesauribile della fantasia. Possiamo defini­re l’Orlando il poema del moto perpetuo.

Forma chiara. Siccome l’Ariosto riesce a controllare la materia che svolge, la complessità non nuoce affatto alla chiarezza: il controllo infatti per­mette di collegare con logicità i vari motivi e di presentarli con un qua­dro in cui ognuno di essi ha la sua precisa funzione che contribuisce allo effetto dell’insieme.

Il ‘400 ci aveva dato opere di dimensioni e di struttura assai modeste, ma perfette quanto ad elaborazione, opere di vasta impostazione, ma confu­se e poco elaborate: esempi delle prime sono “Le stanze” del Poliziano e l’Arcadia del Sannazaro, esempi delle seconde sono “L’Orlando Innamorato” e il “Il Morgante”. Nel ‘500 l’Ariosto riesce a conciliare perfettamente complessità ed elaborazione.

Forma armonica. L’Ariosto che simpatizza per lo stile medio della vita, si propone di svolgere i motivi in modo da far vedere chiaramente quanto sia ridicolo cadere negli eccessi e come la fortuna stessa si preoccu­pi di ristabilire l’equilibrio.

Angelica che, troppo cosciente della sua bellezza, scherza con l’amore, alla fine rimane vittima di una cocente passione: non sarà un paladino il giovane che infiammerà il suo cuore, sarà un umile fante, non sarà il fan­te a dichiararle amore, ma sarà lei stessa e per di più con una fretta che non può tollerare indulgenza,

Rodomonte, solo entro Parigi, semina distruzione e morte: pressato dai nemici si getta nel fiume e a nuoto, mentre continua a lanciare dardi, sfugge via illeso: un eroe imbattibile e abbastanza arrogante. Ma il poeta gli prepara per così dire il contrappasso: il gran guerriero ucciderà la più gentile, la più fragile e la più infelice delle donne dell’Orlando: Isabella, la più incapace di reazioni anzi votata volontariamente alla morte. E poco dopo abbrancato con Orlando matto e nudo finirà dentro un fiume (in opposizione a Rodomonte nella Senna) .

L’Ariosto scrive per dame e cavalieri di corte: per gente evoluta e smaliziata, per gente che considera il superlativo come impossibile e con­sidera l’ammirazione come una forma di credulità e quindi propria delle mentalità arretrate. Per ciò fa fare ai personaggi massimi le figure più misere per ristabilire l’equilibrio. Già il Boiardo aveva elaborato con questo criterio la figura di un nuovo Orlando: il paladino santo, tutto patria e religione e niente amore, era un assurdo per la corte rinascimen­tale, quintessenza di un naturalismo fine e malizioso: perciò lo aveva fatto innamorare e nell’amore l’aveva presentato un po’ impacciatello. I lettori avevano amabilmente sorriso. Alla corte principesca del ‘500 ancor più realistica e più evoluta di quella signorile del ‘400, l’Ariosto presenta un Orlando addirittura impazzito per la sua inesperienza in amore: un bravo paladino, un combattente che non è favorito dalla magia, né ricorre ad altre risorse che a quelle del suo valore (è lui che getta l’archi­bugio nel profondo del mare perché il valore non si serve delle tecnica, ma solo della proprie energie); ma è un povero uomo che entrato in quel vorticoso gioco che è l’amore, perde facilmente la testa. I cortigiani avranno certamente sorriso di questo personaggio degno di simpatia e di pietà nello stesso tempo.

Se ci sono personaggi che il poeta delinea degni di ammirazione, essi sono personaggi medi; cioè quelli che utilizzano ed esprimono con misura e con decoro le risorse che ha concesso loro la natura (bellezza, forza… ).

Forma aderente al vero. Il pregio che distingue l’Ariosto dal Boiardo è l’aver egli saputo individuare e rappresentare con esattezza la psicologia dei personaggi, anche se questi sono di pura creazione fantastica e le imprese da essi compiute sono fuori del comune.

Quanti innamorati vi sono nel Furioso: ognuno di essi vive l’amore in modo adeguato alla propria indole. Ecco Orlando, uomo abituato a servire fedel­mente l’idea: crede che anche nell’amore si debba adattare lo stesso stile di fedeltà; ma non sa che se è fedele lui e se per Angelica si induce a trascurare il suo dovere di patriota e di cristiano, la donna non solo è capricciosa, ma è la più capricciosa tra le capricciose. Ecco Angelica: tutta piena di sé stessa, tutta dedita a studiare le arti per innamorare: l’unica cosa che non vuol imparare è come si resta vittima dell’amore: lei ride delle sue vittime, non si mette nella loro situazione, è sicura che non cadrà mai in quelle situazioni. Una accenditrice di focarelli: una capricciosetta; e alla fine a forza di accender fuochi resterà bruciata.

Ecco Rodomonte, un uomo di ferro in cui non è mai penetrato il senso del­la pietà e della gentilezza. Anche l’uomo più fiero ha il suo tallone vulnerabile: il cuore. Egli si innamorerà: sarà però un amore da spadaio, da manesco e sopratutto da primitivo, ingenuo e banale. Bradamante, Ruggero: due anime gentili e fini, il loro amore addirittura aureo, fedele, eroico e fortunato.

Si potrebbero fare tante citazioni quanti sono i personaggi per illustrare il sano realismo dello stile ariostesco.

Forma oggettiva e svagata. Forma cioè serena, sorridente e quasi distaccata. L’Ariosto dimostra interesse per le sue creature, mai si appassiona ad esse: le guarda con simpatia se sono come piacciono a lui, sorride bonaria­mente se non sono come le vorrebbe lui: ma non esce mai in esclamazioni né di ammirazione né di deplorazione. Egli sembra avere dinanzi un mondo che contempla con distacco, pure essendo unito ad esso dall’interesse e dalla simpatia che ogni creatore prova per le sue creazioni; e riproduce con oggettività quel che egli vede, riservandosi solo qua e là qualche leg­gero commento che tuttavia fa con tono umoristico e smaliziato. Egli è un narratore di fronte a persone intelligenti che non hanno bisogno di commenti perciò narra con lo stesso atteggiamento di superiorità e di svagatezza con cui gli uditori ascoltano.

Forma unitaria. Alcuni critici hanno ricercato il fattore che dà unità all’Orlando. Il problema dell’unità si presenta perché il poeta svolge tre azioni e gli episodi sono numerosissimi e svariatissimi: i poemi classici, secondo i critici hanno una unità evidente; nell’Ariosto tale unità non è chiara: alcuni ne trovano il fattore generativo nel sorriso costante dell’Ariosto; altri nel permanere costante da capo a fondo di alcuni motivi: ad es. quello amoroso e quello epico.

Si può affermare quanto segue: l’Orlando presenta una unità materiale e una unità spirituale. L’unità materiale consiste nell’intreccio armonico, dei tre motivi fondamentali: guerra, amore, elogio encomiastico. Questi tre motivi infatti sono in stretto rapporto fra loro: la guerra fa da sfondo e costituisce per così dire il nucleo a cui si rapportano tutte le azioni: le vicende della guerra sono determinate infatti dalla presen­za o dalla assenza di Orlando e di Ruggero nei rispettivi campi. Così la azione amorosa (Orlando e Ruggero) condiziona l’azione bellica. Se il mo­tivo epico costituisce materialmente il nucleo del poema, perché l’Ariosto lo ha intitolato”Orlando Furioso”?

A questa domanda si possono dare tre risposte:

1)- Perché l’Ariosto continua l’Orlando Innamorato; e siccome dall’amore alla pazzia lo spazio è breve, ha preferito continuare sulla stessa via.

2)- Perché alla corte non interessava troppo il motivo epico quanto quello psicologico, essendo la corte costituita non da guerrieri fini, ma di ca­valieri e di dame.

3)- Perché all’Ariosto piaceva mettere in evidenza questo motivo: resta vittima della vita chi è inesperto di essa.

Ancor più sicura e salda è l’unità spirituale del poema: l’intreccio nel suo complesso e nei suoi particolari è destinato a costruire un qua­dro perfetto della vita intesa in senso naturalistico così come lo intendevano gli uomini del Rinascimento maturo: un quadro fantastico in cui si riflettessero tutti i motivi di una spiritualità ormai diffusa e stori­camente consistente. Un quadro della vita inteso, come si è detto, come gioco interessante di tutti i più vivaci impulsi della natura, come moto perpetuo di incontri, di scontri, di piacevolezza, di cattiverie osserva­to con animo sereno e comprensivo.

Il linguaggio.

Il linguaggio della persona è in rapporto alla sua spiritualità; l’Ariosto ebbe una spiritualità media, perciò il suo linguaggio è medio, os­sia non architettavo con erudizione, non elaborato con precisione scrupolo­sa, né d’altra parte impreciso e popolare. Egli usa un linguaggio pulito e chiaro, accessibile ai lettori delle corti, di fronte ai quali era oppor­tuno sia l’uso di un linguaggio raffinato ed eccessivamente elaborato, sia l’uso di un linguaggio alla meglio: un linguaggio dunque né eccezionale, né troppo comune.

Siccome l’Ariosto narra con senso di distacco dalla sua materia (che guarda senza passione, ma solo con interesse), la sua parola si limita al­l’essenziale; il suo linguaggio non è abbondante, insistente, clamoroso, enfatico, ma limitato a ciò che è necessario per esprimere il pensiero.

Riflessi  del Rinascimento sull’opera dell’Ariosto.

1)- Nell’Orlando Furioso si riflette la concezione naturalistica delle vita quale si affermò nel Rinascimento maturo (la vita intesa come espres­sione e utilizzazione delle risorse della natura in modo intelligente e decoroso; lo svolgersi della vita come quello di un gioco; forze che rien­trano in questo gioco; criterio con cui si giudica la vita; tono con cui si guarda alla vita).

2)-  Si riflette la vita così come era intesa e vagheggiata allora dagli ambienti cortesi, che erano gli ambienti più evoluti (la vita intesa come capacità o abilità, misura e decoro, come sensibilità che avverte tutto ciò che è specifico a lei e tutto ciò che al contrario pregevole secondo criteri di mondanità raffinata).

3)-  Si riflette l’atteggiamento del popolo italiano di fronte al suo dram­ma politico: il quadro epico è osservato dall’Ariosto con quella stessa curiosità tra ammirata e seccata con cui gli italiani del primo cinquecento osservavano la triste coreografia delle marce, degli scontri, delle vittorie e delle sconfitte degli eserciti spagnoli e francesi, svizzeri, tedeschi, italiani.

       Il Rinascimento concepì troppo la vita come un piacevole ed interessan­te  

 spettacolo, come un teatro in cui ciascuno fa prova delle sue virtù cioè delle sue abilità: anche l’Ariosto introdusse nel quadro epico questo senso di ambizione e di esibizionismo, togliendo via gravi e severi ideali della patria e della religione.

4)-  Si riflette la tendenza del Rinascimento maturo alla creazione di ba­samento e di struttura vasta e solida, di ornato modesto ma signorile e di buon gusto. Vasta, solida e decorosa è l’architettura cinquecentesca (basilica Vaticana con la famosa cupola) ; ugualmente la pittura e la scul­tura. Solida e geniale e armonica è perfino la struttura dello stato vagheggiato dal Machiavelli (stato unitario e forte, dinamico e fiorente).

        E’ naturale che l’Ariosto in una età in cui predominava il gusto del grande e del decoroso ci abbia dato un poema improntato su tre azioni, strutturato di mille episodi, condotto con utilizzazione di tutti i motivi della vita.

5)-  Si riflette l’indirizzo dell’umanesimo maturo cioè di quell’umanesimo che non si preoccupa di imitare fedelmente i motivi spirituali e formali del mondo classico, ma di essi utilizzava quanto di meglio hanno creato gli antichi per esprimere in modo ampio e perfetto il più possibile i motivi della spiritualità moderna. Fu una fortuna che l’Umanesimo uscì dagli ambienti dotti ed entrò nel­le corti, perché in questo modo si staccò dall’indirizzo erudito e lette­rato e prese contatto con la vita (non con la vita del popolo, questo fu un danno perché la vera vita è quella del popolo) ma prese contatto con la vita delle corti che pur era una forma vera di vita (non artificiosa come più tardi quella del salotto settecentesco) e per di più una forma eccellentemente evoluta.

  Così perfezione formale propria degli umanisti e evolutezza spirituale si congiungono e creano quell’Orlando che è senza dubbio la sintesi più armonica e lucida dei motivi umani del Rinascimento.

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