Gabriele D’Annunzio appunti dalle lezioni del prof. Mancini don Dino a Fermo

GABRIELE D’ANNUNZIO     (1863-1938)    

PENSIERO

A)- Concezione del reale.

   E’ la stessa concezione del Carducci: il reale è una unità eterna ed infinita di materia e di spirito.

   Questa unità che egli chiama Pan, è caratterizzata essenzialmente ed esclusivamente da energia. Il reale è energia ribollente che si manifesta in forme impetuose e lussureggianti, con istinti prepotenti, con ricchezza inesauribile di colori, di suoni e di modi di essere.

   A differenza del naturalismo del Carducci, il naturalismo o panismo del D’Annunzio, è brama selvaggia e aristocratica nello stesso tempo, è primitività, è raffinatezza.

B)- Concezione della vita.

   Vivere significa identificarsi con la materia, cioè dare a quella la possibilità di manifestarsi nel proprio essere in tutta la varietà delle sue energie e dei suoi modi. Alla natura che rivive nell’uomo e in tutta la sua ricchezza  non tutti gli individui sanno unirsi in modo adeguato: alcuni sono limitati da remore morali o sociali o religiose; altri, invece, spezzati i vincoli di qualsiasi norma imposta dalla ragione o dal costume, si tuffano nell’immenso oceano delle energia della natura per confondersi con essa, per goderne fino in fondo il piacere, per trarre ispirazione e modi di espressione a creazioni nuove.

   Questo si chiama vivere panico. E’ riservato solo al poeta il  privilegio di utilizzare e godere tutte le risorse della natura, tutti i fenomeni della vita vegetativa, animale, umana per arricchire il proprio essere al fine di creare con la stessa varietà, potenza di energia, ricchezza di suoni, colori di cui è dotata la natura stessa. Ci troviamo di fronte, perciò, ad una concezione panica della vita e ispirata al super-omismo o super umanesimo.

   Tutte le esperienze sono lecite all’artista, perché sperimentando possa essere in grado di esprimere tutti gli aspetti della natura e della vita: sia le esperienze pure che quelle impure, sia quelle umane che disumane, sia quelle triviali che raffinate sono permesse all’artista.

   E se nel fare l’esperienza l’artista dovesse nuocere ai suoi simili ? Niente di male: le nature inferiori sono destinate a potenziare quelle superiori, il gregge è al servizio del super-uomo, perché questi persegua uno scopo che è il più alto di tutti: l’arte.

   Nella lirica “Inno alla vita” (tratto dalla raccolta “Le laudi” e precisamente dal primo libro intitolato “Maia”) il D’Annunzio afferma: “Nessuna cosa – mi fu aliena; nessuna mi sarà mai.- Laudata sii diversità delle creature – sirena del mondo ! – Talor non elessi – perché parvemi che eleggendo – io t’escludessi – o Diversità, meraviglia – sempiterna e che la rosa – bianca e la vermiglia – fosser dovute entrambe alla mia brama……”

   Questa bramosia è voluttà integrale. Nelle “Laudi” dal D’Annunzio è opposta alla rinuncia cristiana (come del resto aveva già fatto su un piano decoroso e più significati dal punto di vita politico e sociale il Carducci).

   Viene così affermata l’identità fra vita di uomo e vita di poeta, cioè fra poesia e vita (che è una identificazione propria del decadentismo – perché attività più elevata); eccezionale la poesia, eccezionale la vita.

   Perciò eccezionale la lussuria, vissuta in tutte le esperienze più diverse, eccezionale la casa con i suoi ornamenti (ricordare la “Capponcina” – il “Vittoriale”, eccezionale la carriera politica (deputato di destra, passa all’improvviso ai settori più avanzati della sinistra), eccezionale la vita militare (milita in aviazione e marina e affronta gravi rischi, anche se non proprio eccezionali – impresa di Fiume), eccezionale la sofferenza ( perduto un occhio rimane bendato, ma non inerte; era avvilito, scrive il “Notturno” eccezionale perfino la posizione del suo corpo dopo la morte: in piedi, eccezionale anche  la sua vita di pensionato a cui lo ridusse il fascismo: pensionato d’oro nella stupenda villa del Gardone.

   Il godimento voluttuoso delle risorse della natura  e le gesta del super-uomo debbono essere sempre conditi di un ingrediente: la bellezza. Bella la vita, bella la poesia.

   Huysmann aveva affermato che la bruttezza è il marchio del demonio e quindi va respinta come il male: il D’Annunzio sembra aver fatto propria questa affermazione: la sua preoccupazione costante è quella di rivestire di forme raffinate anche le cose più turpi. Quando parliamo di bellezza in D’Annunzio non intendiamo l’armonia di cui parlavano i classici, quella bellezza di cui parlava il Foscolo che appunta la identificava con l’armonia: parliamo di una bellezza che è fasto raffinato, che è estetismo.

   Egli vuole che le quattro forze che tirano il cocchio della sua vita: “volontà, voluttà, orgoglio, istinto”, si sfrenino in modo bello: bello il decente, bello l’indecente, bello il gesto animalesco, bello il gesto sublime, bella la mollezza, bella la vita eroica.

   Spetta alla capacità creativa del poeta il compito di trasfigurare tutto in bellezza. Nel romanzo “Il fuoco” del protagonista Stelio Effrena dice il D’Annunzio: “Egli era giunto a compiere in sé stesso l’intimo connubio dell’arte con la vita……… a perpetuare, senza intervalli, la condizione misteriosa da cui nasce l’opera di bellezza e a trasformare in visioni ideali tutte le figure passeggere della sua esistenza, per cui tutte le apparenze si trasfiguravano come nella virtù di un magico specchio”.

       A questa capacità di trasformare tutto in immagini poetiche corrispondeva la “capacità di tradurre queste stesse immagini in parole così esatte e così scultoree che egli aveva l’impressione di trovarsi di fronte a forme reali e oggettive”.

   Quanto alla metrica, che è il mezzo per far musica in poesia, nel “Piacere” si legge: “Il verso è tutto. Nella imitazione della natura nessun istrumento è più vivo, vigile, acuto, vario, multiforme, plastico, obbediente, sensibile, fedele” (in questa sovrabbondanza di aggettivi non è difficile cogliere uno degli aspetti più evidenti dello stile dannunziano: il barocchismo, la concentrazione retorica, la fastosità verbale; vita ed arte nel mondo del D’Annunzio si identificano sempre con un’orgia di lusso,  di lussuria, di sensitività, di spavalderia: raramente il poeta riesce ad approfondire i suoi temi con visioni ricche di sensi umani. Perciò, oggi, i critici riconoscono al D’Annunzio una straordinaria capacità di usare e creare il linguaggio, di cogliere tutte le sfumature della musicalità dei versi tradizionali e di creare nuovi ritmi con versi nuovi.

   Riassumendo, i punti fondamentali della concezione della vita e dell’arte del D’Annunzio sono questi:

a)- panismo (o identificazione del poeta con la natura, identificazione voluttuosa, piena di brame inesauribili, per tutto diversa da quella ingenua, affettuosa e pura del Pascoli).

b)- super-umanismo o super-omismo fondato sul concetto che l’artista è un demiurgo, un dio, e che, perciò, gli è lecito fare tutte le esperienze che intende esprimere in arte, senza alcuni limiti morali (identità di arte-vita al di là del bene e del male).

c)- estetismo, cioè ricerca costante e artificiosa della raffinatezza e del fasto.

STILE DEL D’ANNUNZIO

   Possiamo definirlo con un aggettivo solo: stile fastoso, cioè straricco di immagini e di mezzi espressivi (parole comuni e parole rare, parole vecchie come alcune desunte dal vocabolario del ‘200 e del ‘300, parole nuove cioè inventate da lui, ritmi metrici di tutte le specie, classici, medievali, rinascimentali, popolari, liberi come quelli futuristi).

   Erede, come egli si stimava, di tutti gli scrittori del passato e demiurgo dell’avvenire, egli fonda nelle sue opere i modi dello stile di Omero, di Virgilio, degli stilnovisti, di Dante, di Boccaccio, degli umanisti, dei seicentisti in modo particolare dei veristi (soprattutto nelle “Novelle della Pescara”) e soprattutto dei decadentisti.

Che cosa c’è del decadentismo nel D’Annunzio ?

1)- la concezione dell’identità fra arte e vita;

2)- l’identificazione del soggetto con l’oggetto;

3)- la concezione che l’arte è frutto di un misterioso lavorio che si verifica  nel profondo dell’essere con il contributo di energie e di modi  ereditati dalla stirpe umana, meglio definita, e potenziati dal temperamento dalla cultura dell’artista.

4)- il culto quasi fanatico della forma, intesa come immagine, parola, musica.

5)- la predilezione per le complicatezze psicologiche di qualunque specie esse siano: complicatezze nelle lussuria, nel godimento dei piaceri che offre la natura nella descrizione di stati d’animo improntati a violenza, vendetta, fanatismo, ecc.

   Da ricordare che la teoria del sub-strato, mentre dal Pascoli è simboleggiata dal fanciullino, nel D’Annunzio è simboleggiata dal centauro in cui le forze animalesche, agili, plastiche, vigorose, sono utilizzate da un petto e testa d’uomo, cioè dal sentimento e dall’intelletto umano.

  Nel ditirambo “La morte del cervo” un centauro, dopo aver schiantato ed ucciso il cervo (Il super-uomo che schiaccia l’essere inferiore) appare al poeta “bellissimo: in ogni muscolo, gli fremeva una vita inimitabile”.

OPERE DEL D’ANNUNZIO.

Si suole distinguere l’immensa produzione dannunziana un quattro periodi:

1)- periodo dell’adolescenza  in cui imita il Carducci (nella raccolta   “Canto novo”)  e i veristi (nella raccolta “Novelle della Pescara”).

2)- periodo della sensibilità raffinata  e della sensualità estetizzante in cui subisce l’influsso  dei decadentisti europei (dal 1884 al 1894); le opere di questo periodo sono: “Intermezzo di rime” (1884), “Isotteo” ( 1886), “Le elegie romane” (1892). I romanzi “Il piacere” (1889), “Giovanni Episcopo” (1891), “L’Innocente” (1892). Chiude questo periodo la raccolta di poesie intitolata “Poema paradisiaco” (1893) la cui ispirazione è voluttuosa e languida come quella de “Il piacere”.

3)- periodo del super-omismo (1894/1912). Distinguiamo in questo periodo:

a)- romanzi: “Il trionfo della morte” (1894), che è forse il migliore fra i romanzi del D’Annunzio e “Le vergini delle rocce” e il “Fuoco” (1900), “Forse che sì, forse che no”.

b)- opere in versi : “Laudi”, divise in cinque libri dei quali i primi tre (“Maia”, “Elettra”, “Alcyone”) furono pubblicati nel 1903, gli altri due (“Merope”, “Asterope”)  dal 1912 in poi.

c)- opere teatrali: “La città morta”, “La gioconda”, ambedue del 1901, la “Francesca da Rimini” (1902), “La figlia di Jorio” (1904), “La fiaccola sotto il moggio” (1905), “Più che l’amore“ (1906), “La nave” (1909), “Fedra” (1909).

4)- periodo in cui il D’Annunzio diventa uomo e meno super-uomo e quindi scrive cose che i critici oggi riconoscono più valide.; ricordiamo soprattutto le prose: “La contemplazione della morte“ (1912), “Il notturno” (1916), scritto quando era bendato per una ferita ad un occhio ricevuta in una azione di guerra. “Le faville del maglio” (dal 1924 al 1928), bellissima opera autobiografica. “Il libro segreto” (1935).

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