GUIDO GOZZANO (1883-1916)
Introduzione a Guido Gozzano e caratteri generali della letteratura dell Novecento.
Guido Gozzano è stato un poeta crepuscolare e la sua arte viene inquadrata nel “Decadentismo”. In genere questo termine suole essere frainteso, occorre quindi ben determinare il suo vero significato.
Renato Serra, nel suo libro “Le lettere”, pubblicato nel 1914, aveva affermato che “versi che si facciano leggere in Italia non ce ne sono”. Voleva dire che nei primi anni del ‘900 non sono esistiti in Italia poeti “umani”, cioè “universali”.
L’irrazionalismo, la fiacchezza intellettuale e morale che si arrende ad ogni capriccio ed impulso, l’inettitudine al ripugnanza a seguire la via maestra dell’idealismo che concepisce l’arte come “rivelazione profonda di quel principio assoluto nel quale soggetto ed oggetto coincidono”, sono considerate cause essenziali di tale debolezza poetica, di quel che v’è di superficiale e di avventato, di fatuo e di arbitrario in quest’arte.
Le cause più dirette ed evidenti di tale fiacchezza poetica sono da porsi nell’indirizzo generale della cultura moderna che inclina a staccar sempre di più la poesia dalla vita e nelle teorie con cui l’estetica idealistica ha indirettamente avvalorato tale tendenza.
Questa suggeriva: “appartatevi, disegnate il volgo profano”, ed ancora: “siate ingenui, siate immediati, cercate la vostra originalità inconfondibile, guardatevi da ogni intrusione dell’intelletto”.
I poeti del secolo XIX avevano creduto nel risorgere della vita cristiana, nell’idea nazionale, nell’onnipotenza della scienza,nella libertà, nella ragione che li faceva meno egoisti, nell’amore; insomma nei grandi ideali.
La nuova letteratura concepì la vita come solo “sentire”, il mondo della natura come “animalità ed irrazionalità”, inutili il vero, il bello, il buono.
I maestri ed i modelli vennero d’oltr’Alpe e furono Baudelaire, Verlaine. La poesia nuova quindi si abbandonò ai capricci dell’immaginazione, alle tentazioni di tutti i morbi morali e di tutte le convalescenze patetiche.
Il Martini Fausto Maria (poeta crepuscolare, Roma 1886-1931) che conobbe da vicino tutti i poeti crepuscolari romani ha scritto che Sergio Corazzini e i suoi compagni spesso ripetevano: “la poesia è sentirsi morire”.
La poesia in questi uomini non era ormai che la voce fioca ed estenuata di una stanchezza morale che non sa più lottare né sperare e si abbandona con desiderio al torpore che preannuncia la morte.
Essi cercano la poesia in quell‘ansia, il quel tremore, in quel vago fantasticare e quell’inerte desiderare che si compiace delle tinte tenui, dei toni delicati, dei languidi ritmi, delle lontananze brumose e di quella tristezza e di quel mistero in cui il tramonto avvolge l’apparenza delle cose (il crepuscolo: questi poeti vennero chiamati col nome “Crepuscolari” per la prima volta da Serra nel 1911).
Ritrassero il lento mancare della luce e l’assopirsi delle voci e in armonia con lo scolorarsi della natura, il languire e l’attenuarsi della vita interiore.
Sono considerati loro maestri, in Italia il D’Annunzio del “Poema Paradisiaco” ed il Pascoli dei “Canti di Castelvecchio”.
Tre sono i più grandi poeti crepuscolari: Sergio Corazzini (1887-1907, romano morto a venti anni consunto dalla tisi; Guido Gozzano (1883-1916), morto a trentadue anni dello stesso male e Marino Moretti (1885-1979).
I poeti crepuscolari.
Sergio Corazzini poeta accorato della noia e della malinconia, sentì profondamente questo suo quotidiano distaccarsi dalla vita e si abbandonò alla tristezza con accenti ingenui e profondi. Fu considerato dai Crepouscolari il piccolo martire della nuova religione che succedeva alla mitologia del superuomo. Il James, il Maeterlinck, il Rodembach e il Laforgue ne erano stati i piccoli apostoli da cui gli italiani, e Corazzini in particolare, trassero motivo di ispirazione.
Afferma il Bargellini “Guido Gozzano fu il piccolo Papa di questa religione” e il suo libro “La via del rifugio” costituì il tenue credo di questi poeti.
Guido Gozzano ebbe modo di elaborare con maggiore perizia la sua poesia. Mentre il Corazzini sentiva di non meritare il nome di poeta (“perché tu mi dici poeta? Io non sono un poeta, io sono un piccolo fanciullo ecc.”), il Gozzano sentì di meritare il nome di poeta, per quanto di poeta minore, anzi minuscolo. Gabriele D’Annunzio si era firmato, nell’albo d’oro della poesia, con lettere tutte maiuscole; Giovanni Pascoli con le lettere maiuscole soltanto nelle iniziali, Guido Gozzano firmò con lettere tutte minuscole e tutte di seguito, così: Guido Gozzano.
Un altro poeta crepuscolare, Marino Moretti, sdegnerà persino l’inchiostro, come materia troppo nobile ed indelebile e firmerà a matita le sue poesie “Poesie scritte col lapis”.
La poesia del Gozzano
– poesia prima di tutto, a lutto, (invano piangere questa Musa a lutto, che porta il lutto a tutto ciò che fu).
– di abbandono e di nostalgia: (il mio sogno è nutrito d’abbandono e di rimpianto.
– di felicità inaccessibile (La signorina felicità)
– di vita che sfugge (non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose – che potevano essere e non sono – state……)
La poesia del Gozzano inoltre trova un nuovo aspetto nell’ironia che conclude il suo canto, per la quale il poeta si pone al di sopra del suo sogno e del suo canto e lo contempla con distacco e con un senso di superamento. Dopo la frenesia di Nietzsche segue la rinuncia e l’ironia dei Crepuscolari. Guido Gozzano mosso da questo spirito farà rimare il nome di Nietzsche con quello di camicie (Niccie). E questo particolare ha valore d’un ironico simbolo. La più forsennata potenza scendeva a patti col più ridicolo degli indumenti umani.
Guido Gozzano giocò garbatamente e maliziosamente col proprio cuore. Lo fece piangere e sorridere, soffrire e godere, lamentarsi di maniere “un poco falso, come piace a me”. Dette alla sua poesia il gusto del racconto, riprendendo lontanamente l’andamento della cantica dei Romantici, ma rendendola scaltrita ed ironica.
“Ognuno conosce la ricetta del fare del Gozzano – scriveva Renato Serra – Argomenti provinciali ed infantili, signorine un po’ brutte, cose un po’ vecchie, crinoline, ricami del colore di rose tea; ambiguità dell’amore senza passione, del sentimentalismo senza sentimento e dei profumi senza odore; e poi i versi che sono prosa; le monotonie che diventano varietà e la cascaggine che diventa forza; l’enfasi dell’accento e della rima messa su tutti i punti più banali; quell’aria di dare come nuove e commoventi tutte le cose tristi e mediocri”.
“Le sue parole più ciniche – dice il Galletti – lasciano intravedere però un’anima sincera, una intelligenza pronta e perspicace, che in un corpo sano avrebbero proseguito le nobili cose e dato alla esistenza del poeta uno sopo ed una legge”.
Gozzano e la vita – la favola.
Gozzano non riusciva ad afferrare la vita in nessuna maniera. Sfuggiva a lui di mano come una biscia, con lo snodarsi dei giorni e degli anni; “passò, passò quasi vent’anni la cosa fatta di giorni, che si chiama la vita”: per lui quindi la vita era una cosa fatta di giorni. I giorni passavano e la vita fuggiva con loro. In queste condizioni di uomo a cui non riusciva di cogliere la vita, che cosa restava da fare? Appartarsi in un angolo remoto “fra le gioie defunte e i disinganni”, e gustare nostalgicamente le tristi reliquie delle cose che furono e non sono più, le melanconiche memorie di tutte le cose che potevano essere e non furono.
In questa ricerca di evadere dalla tristezza della vita presente, carica di affanni e sempre tormentata dallo spettro terribile della morte, che si avvicinava giorno dopo giorno, il poeta di Agliè cercò un facile e dolce rifugio nell’immaginare e sognare il mondo incantato della fiaba, con i suoi miracoli e con il prestigioso succedersi degli eventi in cui gli ostacoli venivano superati dal portentoso.
Vita.
Poeta crepuscolare, nato ad Agliè Canavese nel 1883, morto ivi nel 1916. Già a vent’anni, mentre studiava legge all’Università di Torino, era minacciato dalla tisi che poi lo trasse alla tomba. Nel 1905 si diede alla lettura dei poeti stranieri: De Heredia. Leconte de Lisle, Henri de Régnier, Baudelaire, e fino al 1908 studiò con passione gli intimisti, i poeti della “reveries”: Paul Verlaine, Sully Prudhomme, Francis James, Francois Coppée, Jules Laforge, George Rodembach, Gustave Kahn.
Raccolse i suoi primi versi in “La via del Rifugio” (1907).
Viaggiò poi molto per curarsi (le sue impressioni di un viaggio in India furono raccolte in “Verso la cuna del mondo” (1917); scrisse parecchie novelle e rievocazioni della Torino del passato, poi riunite in volumi (“L’Altare del passato”, 1918; “L’ultima traccia”, 1919); pubblicò anche libri per bambini (“I tre talismani”,1904, “La principessa si sposa”, 1917). La sua fama nella letteratura italiana è legata alle sue liriche “Colloqui” (1911).
Il poeta.
E’ il più ricordato, ammirato ed amato dei poeti del tramonto, della rinuncia e della morte. E’ appunto un artista che ha conosciuto la misura ed ha saputo dare un ritmo e una forma melodica alla sua musica interiore.
Questo fine e delicato poeta (morto di tisi a 32 anni) dal “forte e ferreo” Piemonte generato ad esprimere con aristocratica grazia la stanchezza, la rinuncia spirituale di tutta una generazione e l’ironica consapevolezza di tale decadenza, ci offre nei suoi versi, “La via del rifugio” e i “Colloqui”, una grande ricchezza di motivi.
Le immagini da cui la sua sognante, sorridente ed irridente tristezza muove a modulare con arte sicura i ritmi delle sue poesie erano già note e molto care, la più parte, a tutti i poeti della penombra, esperti di quelle parole mormorate sommessamente “che fanno tremare il cuore”.
Egli ci fa sentire la malinconia delle ville solitarie e dei parchi abbandonati, l’amarezza degli amori che ci deludono, della gioventù che sfiorisce, della vita che lentamente ci lascia e la dolcezza tormentosa dei tramonti la cui ombra fa più vaste e misteriose le cose, più solitaria e più profonda la nostra anima.
Dopo il Pascoli egli conduce il nostro cuore verso il paese dei sogni e delle utopie, per i mari ignoti, ove i naviganti cercano nel lontano orizzonte le spiagge della più bella delle isole: “l’isola – non – trovata”, e sentono che il cuore si tinge nell’”azzurro color di lontananza”.
E quando egli, aggirandosi in una vecchia casa campestre, cercando la “bellezza riposata dei solai” descrive dilettosamente il “rifiuto secolare” che v’è raccolto, sembra un Coppée in soffitta.
Motivi del suo atteggiamento.
Ma per il Gozzano questo appartarsi e questo ripiegarsi dell’anima lontano dalla piena luce e dal tumulto della vita meridiana, in un piccolo angolo, tutto in ombra, ove i particolari di una esistenza mediocre e ombratile acquistano un senso nuovo e misteriose risonanze, illuminate come sono da una pallida luce quasi di cripta mortuaria, non è voluttà dilettantesca ed un segno di rinuncia spirituale.
Come Sergio Corazzini egli era ammalato di tisi, ma, più fortunato di lui, il male gli concesse tanto di vita quanto bastò alla sua coscienza d’uomo e di artista per poter guardare, come in una magica fontana, fin dal profondo della sua sensibilità dolorosa per contemplare in essa senza viltà e senza sdegno l’immagine della vita desiderata e sfuggente, e trarre da quella visione una nuova e serena poesia.
La luce magica e spettrale che avvolge ai suoi occhi le apparenze del mondo, è passata attraverso i veli cinerei di cui il pensiero insistente della morte non lontana, fasciava li spirito consapevole e rassegnato al destino.
La sua inerzia contemplativa è veramente lo staccarsi dell’anima dalla realtà per guardarla lucidamente, quasi dal di fuori e da una sfera diversa e remota, come di chi si prepari ad uscire, senza proteste o lamenti vani, dal mondo e dalla vita.
Questo atteggiamento fu il motivo delle sue mirabili favole: uscire dal mondo reale per tuffarsi in un mondo di sogno e di fantasia. Da un viaggio fatto in India, in cerca di aria salmastra, di sole e di salute, aveva riportato, insieme alle immagini e ai ricordi di cui compose il libro “Verso la cuna del mondo” (pubblicato postumo nel 1917), il disegno che la morte rese vano, di un “poemetto sulle metamorfosi delle farfalle”. Ma egli aveva già dato la sua fiorita di canti e arricchito di una sua tenue nota, ma pura e cristallina, il concetto della sua poesia italiana. “Un lento male indomo” aveva consumato in lui il corpo e inaridito, a poco a poco, le fonti della vita interiore.
Motivo della scelta.
La letteratura destinata ai fanciulli, e da leggersi nelle scuole elementari, ha molteplici funzioni. Essa, soprattutto, deve tendere ad educare il fanciullo sia nella moralità che nel campo estetico, e deve, a poco a poco, portare il fanciullo alla conoscenza della lingua: inoltre attraverso la lettura, l’anima del ragazzo deve aprirsi alla conoscenza del mondo del sapere e la lettura, scelta opportunamente, assolve in modo particolare questa funzione.
Quanto il Gozzano ha scritto risponde pienamente a queste finalità della lettura. Nei suoi racconti e nelle sue favole, il ragazzo assimila indirettamente sani principi di moralità (generosità, amor fraterno, carità ecc.) che non vengono indicati con massime che rappresenterebbero la narrazione, ma scaturiscono dallo sviluppo naturale della sua vicenda.
Inoltre le favole, i racconti, le poesie per i piccoli del Gozzano parlano immediatamente al cuore dei fanciulli e sono pervase da un continuo soffio incantevole di poesia e di arte.
In fine il linguaggio che lo scrittore usa è quello dei nostri giorni, svestito da ogni descrizione pedantesca e dottrinale. La lingua che egli usa è quella viva e parlata dell’Italia di oggi; è questo motivo che lo raccomanda sopra ogni altro autore straniero che a volte parla un linguaggio troppo lontano da quello dei nostri ragazzi e necessariamente ogni traduttore non può fare a meno di evitare questo difetto. Anche i nostri migliori scrittori per ragazzi dei tempi passati, anche quelli del primo ‘800 risentono di questo difetto
Moralità, culto del bello e linguaggio vivo sono i migliori pregi ed i motivi più validi che hanno suggerito questa scelta.
Guido Gozzano scrittore per ragazzi.
Le raccolte di fiabe del Gozzano vanno sotto il nome “I tre talismani” (talismano, parola derivante dall’arabo, significa: figura o carattere misterioso impresso su qualche oggetto e a cui la superstizione attribuisce poteri miracolosi); “La principessa si sposa”. Egli scrisse anche altre fiabe, che sono state pubblicate postume nella raccolta delle due antecedenti pubblicazioni.
“Le Rime per i bimbi” sono brevi e graziose poesie di vario argomento.
Le favole.
Ogni favola si apre (nella raccolta: “I tre talismani”) con quattro versi agili e spigliati che accennano al mondo fiabesco che sta per aprirsi.
La prima favola, per esempio, così comincia:
“Quando i polli ebbero i denti
e la neve cadde nera
(bimbi state bene attenti)
c’era allora…..c’era….c’era
un vecchio contadino ecc……”
Nella favola “I tre talismani” abbiamo il trionfo della giustizia sulla perfidia e sulla prepotenza dei potenti, il disprezzo delle ricchezze e l’amore alla vita semplice.
Nella favola “La danza degli gnomi” viene ripreso il tema della matrigna che ama la propria figlia e non ha alcun sentimento di benevolenza verso la figlia del marito vedovo. La figlia della matrigna cresce cattiva e perversa mentre la figlia del vedovo ha sentimenti di bontà e di generosità. Questa trovò nella sua bontà la sua fortuna.
In “Nevina e Fiordaprile” il simbolo della neve viene trattato con finezza e vivacità fantastica. Nevina si disfà al contatto del sole, perché aveva lasciato i suoi monti, per la bramosia di conoscere altri mondi.
Nella “Fiaccola dei desideri” è narrata la vicenda di Fortunato, il giovane che trova il premio della sua costanza di fronte agli ostacoli della vita.
Nella “Lepre d’argento” gli alberi racchiudono un mondo misterioso e Aquilino costante ad ogni difficoltà per la salvezza di Nazarena, la fanciulla che egli ama.
Nella favola “La camicia della trisavola” è narrata la vicenda di Prataiolo, un giovane che riceve dalla sorella la camicia della trisavola che, distesa per terra, ubbidisce ad ogni comando. Essa creerà la fortuna di prataiolo che, riconoscente, vuole la sorella partecipe delle sue gioie.
Nella seconda raccolta di fiabe “La principessa si sposa” non si ha più l’apertura della narrazione con brevi versi, ma il Gozzano inizia subito il racconto.
Nella favola “Piumadoro e Piombofino” la fanciulla Piumadoro ha rispetto per i piccoli animali, le piccole cose che ogni ragazzo desidera prendere per trastullarsi con essi; essi la ricompenseranno per la sua bontà. Piumadoro diventata leggerissima, volando col vento si incontra con la farfalla, la cetonia e il soffione che la accompagnano dalla fata dell’Adolescenza che le fa conoscere Piombofino, ammalato di un male opposto a quello della ragazza; era diventato pesantissimo. Vincendo gli inganni delle fate cattive (il castello della menzogna, il castello dei desideri) con il grano della bontà riesce a salvare il giovane.
Il “Re porcaro” descrive la sorte di tre figlie di un re, stregate per opera della matrigna che strega anche il re (la fatatura dello scambio). La matrigna viene punita mentre le tre principesse riescono con la loro costanza e con la loro mutua opera di soccorso a rompere ogni incantesimo.
Nella favola “La cavallina del negromante” , Candido per amore del padre va a guadagnare lontano. Il negromante lo prende a suo servizio, e compie molte ingiustizie. La scienza di Candido porta alla morte il negromante e alla propria fortuna.
Nella favola “Il reuccio gamberino” narra di Sansonetto che berteggia una vecchina dai capelli bianchi, a cui egli tira un colpo di nocciolo sul naso. Egli sente allora il tempo correre all’indietro. Egli deve ritrovare il nocciolo, affrontare lunghissimi viaggi, affrontare il gigante Marsiglio, recidergli il capello verde. Così può entrare nel suo castello, cercare il ciliegio nato dal nocciolo, raccogliere ogni nocciolo caduto che portava scritto “Grazie dell’irriverenza!” Egli viene allora risanato: corre al suo castello ove era dato un torneo per la mano di Annabella, la sua sposa promessa. Egli riesce a vincere.
Nella favola “Nonsò” è narrata la storia di un bimbo di otto anni che risponde sempre: “Nonsò”. Questi viene raccolto da un principe e riceve in dono da lui una cavalla che lui sceglie, che parla quando “Nonsò” vuole fare il male. Dopo un primo fallo è costretto ad espiare e fare un lungo viaggio. In questo egli fa continue opere di bene e riesce a rapire “La Bella dalle Chiome Verdi” per il suo Re. Dopo altre imprese “Nonsò” vede la giumenta fedele trasformata in bellissima principessa che egli sposa.
Nella favola “Le leggenda dei sei compagni” narra la vicenda di tre fratelli che partono dalla casa paterna in cerca di fortuna. I primi due per la loro durezza di cuore ritornano sfiduciati a casa. Il terzo per la sua bontà riesce a far fortuna aiutato da tre uomini che lui aveva soccorso.
Così si chiude la seconda raccolta: sia il primo libro che il secondo comprende un gruppo di sei favole.
Sotto il titolo di “Altre fiabe” sono state raccolte altre sei composizioni per ragazzi che si differenziano un poco per il loro carattere e il mondo e l’ambiente in cui vivono i personaggi e si svolgono le azioni.
Il mondo delle prime due raccolte è il classico mondo degli gnomi, delle fate, delle streghe, dei giganti e dei negromanti; in queste ultime fiabe troviamo un mondo ed un ambiente umano e reale; avvengono pure in queste fiabe fatti strani, ma essi hanno più del miracolo, sembrano più opera divina che risultato di forze misteriose e occulte. Ci troviamo più nel mondo della leggenda ne “Il Natale di Fortunato” che in quello della fiaba. Esso si apre con queste parole: “Oggi che l’ala della pace cristiana sembra sfiorare la terra, la mia fantasia stanca non ama raccontarvi vicende di orchi e di fate, di gnomi e di malefici. Evocherò per voi una fiaba non mia, una leggenda che ascoltavo dalla cara bocca di una fantesca defunta, in altri Natali lontani, quand’ero piccolo come voi, miei piccoli amici”. Essa descrive il contrasto tra due doveri e due desideri: il pane per i piccoli, il rispetto della festa di Natale. La bontà di Fortunato è premiata ed egli diventa ricco. Me nella ricchezza il cuore di Fortunato cambiò e divenne duro: non accolse più i poveri come aveva promesso di fare al sorgere della sua fortuna, ma rispettava solo i ricchi come lui. Ritornato là dove aveva lasciato il giorno di Natale, ritornò povero: “che la povertà vi rifaccia pietoso e cristiano!”.
Questa leggenda è così umana che sembra muoversi in un clima di semplicità e di verità evangelica: essa è riportata in quasi tutte le antologie per i ragazzi di circa dieci anni.
“Il mugnaio e il suo Signore” ci porta alla favola dei tre talismani: Inizio, tema, ambiente sono gli stessi. L’avidità e l’ingiustizia vengono punite.
“La corona del Re”. Sono tre fratelli che muovono alla ricerca della corona reale smarrita. Il fortunato che la ritroverà succederà al padre. Giacinto stimato più fortunato dei suoi due fratelli è abbandonato da essi. Giacinto giunge sul campo di battaglia e alla vista dei corpi esanimi giurò in cuor suo di non permettere più guerre quando fosse salito al trono. Ritrovò la corona, ma più tardi i fratelli gli diedero una bevanda malefica: si addormentò per sempre. Ricercato dal Re, viene trovato, viene svegliato da un eremita, ma non rivela la cattiveria dei fratelli.
“Luca e Mario” è una storia. Se questo racconto fosse stato nel libro “Cuore”, vi avrebbe figurato tra i migliori. La vita di due bimbi di differente condizione sociale (Luca spazzacamino, Mario figlio di ricchi signori), uniti dall’amore che nasce naturalmente nel cuore di ragazzi buoni. Questo amore alla morte di Mario, lega la madre a Luca che viene accolto nella ricca casa al posto del bimbo defunto. Episodio di vita bellissimo, trattato con naturalezza e finezza, dove la commozione per il dolore e il male si stempera e si distende nella generosità e nella bontà.
“Il salice solitario”: è la favola o più esattamente la storia impossibile di un eremita, consunto dai digiuni, che si sente morire in una landa solitaria, sconsolata e monotona (ambiente caro ai crepuscolari). Egli con la penitenza aveva dominato il suo corpo e chiese a Dio di poter reggere per sempre un nido di uccelli. Il Signore lo converte in salice. Il motivo ricorda la mitologica leggenda di Dafne e Apollo; ma da Gozzano riceve un tono più elevato e un motivo più significativo: la generosità del cuore umano.
“Il contino lustrascarpe” è il racconto di un ragazzo buono dei nostri giorni. L’ambiente è quello di una città moderna: è un racconto pienamente umano, niente vi è di fiabesco. Nino il lustrascarpe improvvisato, lavora per il povero lustrascarpe ammalato e per Marta, sua figlia. Il figlio del conte, Nino, che aveva visto suo padre esigere l’affitto delle due stanze in soffitta, tenute dal lustrascarpe, riesce ad aprire il cuore del padre alla generosità ed alla carità.
Rime per bimbi.
Sono una raccolta di temi e delicate poesie, semplici e chiare nel linguaggio e nello stile, scritte in varie occasioni per i fanciulli conosciuti ed amati dal poeta.
Degna di particolare ricordo è la lirica intitolata: “La Notte Santa”, in cui, il poeta immagina fantasticamente il peregrinare di albergo in albergo (Albergo del Cervo, Albergo del Moro) di S. Giuseppe e della Madonna nella notte santa e chiude la lirica con festevole vivacità rinnovando metri e toni per fare partecipare i fanciulli alla gioia della natività di Gesù.