CRONACHE FERMANE degli anni 1735 – 1739 dell’arcivescovo Borgia Alessandro, tradotte da TASSI EMILIO

ANNO 1735

1735.1   Viene rivendicata e difesa la libertà del mulino di Monteverde contro le pretese di alcuni  uomini della comunità di Monte Giberto – Riunione dei vicari foranei – Continuazione della Visita pastorale della diocesi – Trasferimento delle spoglie mortali di mons. Benedetto Bussi nella cattedrale di Recanati sua sede episcopale.

Durante l’inverno non ho avuto la possibilità di scrivere nulla, se non di preparare le argomentazioni per confutare alcuni uomini della comunità di Monte Giberto, riguardo al grano da macinare nel nostro mulino di Monteverde in favore del quale ho cercato di tutelare la nostra libertà, messa in dubbio da quelle persone. Nella seconda parte dell’anno mi sono dedicato a scrivere su molti e importanti argomenti da trattare.

Ad aprile, ho convocato, nella cappella del palazzo arcivescovile, una riunione dei vicari foranei per consegnare ai singoli sacerdoti e spiegare loro la costituzione emanata da Clemente XII nella quale si comminano sagge ed opportune sanzioni contro gli individui sanguinari.

A maggio, ho ripreso la visita pastorale, in diverse località della diocesi. Mi sono recato prima a Monte Giberto dove ho affrontato l’affare del restauro, dell’ampliamento e dell’abbellimento della chiesa parrocchiale. Tali lavori sono stati eseguiti per opera e con la diligenza del pievano Pietro Ursini. Poi ho visitato Petritoli, Ortezzano, Monte Rinaldo, Sant’Elpidio Morico e Montottone. Contemporaneamente, il mio vicario generale ha compiuto l’ispezione a Ponzano, Collina, Monteleone e Monsampietro Morico, piccoli centri della Chiesa fermana. Il 1 di giugno sono rientrato a Fermo.

Il 20 giugno le spoglie mortali di Benedetto Bussi, vescovo di Recanati e Loreto, sepolte fino ad ora nella nostra Cattedrale, venivano trasferite nella Cattedrale di Recanati, come era stato disposto nel suo testamento. Celebrato prima un altro rito funebre, venne effettuata la traslazione con la salma accompagnata da due sacerdoti e scortata da quattro miei famigli armati.

1735.2   L’irregolare modo di comportarsi in chiesa del governatore Spinelli. – Occupazione  degli edifici della mensa arcivescovile nel Porto di Fermo per ospitare le truppe. – Violazione dell’immunità sancita dal diritto civile e divino.

Mons. Spinelli, governatore di Fermo, col suo comportamento ha turbato di nuovo le celebrazioni delle sacre funzioni nella nostra chiesa, sia nel martedì della settimana santa allorché, appena io avevo dato la benedizione al popolo con la santa Eucaristia ed ero ancora sull’altare maggiore, abbandonò la cattedrale e si trascinò dietro la metà della magistratura civile, sia in occasione della festa del Corpus Domini, quando non si trattenne fino alla fine della funzione, facendomi avvertito che a causa del sudore che lo infastidiva, era costretto a lasciare la chiesa. Di tale comportamento di nuovo mi lamentai con il card. Firrao, segretario di Stato. Il governatore Spinelli, per questo, fu redarguito dal cardinale, affinché si astenesse da ciò.

In seguito, nel mese di giugno, in occasione del passaggio nel Porto di Fermo delle truppe spagnole dirette a Napoli, essendo stato dato dalla curia Romana l’incarico allo stesso Spinelli di intervenire sul clero per provvedere all’ospitalità ai soldati, egli fece occupare gli edifici, i magazzini, le stalle e tutti gli altri locali appartenenti alla mensa arcivescovile di Fermo, per ospitare i soldati spagnoli, i loro cavalli e legni, come se l’arcivescovo dei Fermo fosse uno qualsiasi del clero e non fosse invece necessaria una speciale facoltà da ottenere con richiesta direttamente dal Romano Pontefice per occupare le proprietà della mensa arcivescovile. Appena partiti i soldati spagnoli, cercai tutti coloro che erano stati incaricati dallo Spinelli a commettere l’attentato contro l’immunità di cui godevano i beni vescovili. Ne feci arrestare alcuni, ma ordinai che fossero subito rimessi in libertà, con l’obbligo che rispettassero qualsiasi provvedimento emesso nei loro confronti dai competenti uffici della curia Romana. Contemporaneamente inviai una nota di protesta al card. Firrao per la grave violazione commessa dallo Spinelli nei confronti dell’immunità e della dignità della mia Chiesa. Era grande l’influenza dello Spinelli presso il card. Firrao, per essere egli suo compatriota e parente. Inoltre a Roma era noto quello che io avevo compiuto contro coloro che avevano collaborato con lo Spinelli, e che non avevo usato le semplici censure ecclesiastiche, ma disposto perfino l’incarcerazione: giuridicamente infatti ambedue i provvedimenti sono consentiti al vescovo dal concilio di Trento. Nonostante, tutto questo il card. Firrao ordinò a quei collaboratori dello Spinelli, di presentarmi le scuse per quanto avevano ingiustamente compiuto contro le proprietà della mensa arcivescovile e comandò che per il futuro usassero verso di me la dovuta venerazione e il rispetto; solo a queste condizioni avrei potuto concedere loro il mio perdono. Di fatto i collaboratori dello Spinelli mi presentarono le loro scuse. Mancò di venire soltanto Giuseppe Leonardi, nominato vicario della città, e che in quel periodo ricopriva al Porto di Fermo la carica di giudice laico. Egli aveva partecipato all’invasione commessa contro la mensa episcopale, o per propria iniziativa o, come affermava, perché costretto dallo Spinelli. Anche lui però venne da me, dopo che il Governatore Spinelli aveva lasciato Fermo. Questo Leonardi alla fine dell’anno, il 12 dicembre, ancor giovane e sano, colpito da apoplessia, spirò improvvisamente nel Porto, senza poter ricevere i sacramenti della Chiesa prima di spirare per la rapidità della morte.

Il 17 dicembre, Agostino Costantini, nobile fermano e sergente maggiore dei militari della provincia, al tempo assistente del governatore Spinelli, per incarico ricevuto, approntò gli alloggi per le truppe spagnole nel Porto di Fermo, fu colpito da febbre maligna, ancora robusto e alla buona età di 53 anni, morì a Fermo. Uomo onesto, prudente e molto rispettoso nei miei confronti, durante la malattia lo andai a trovare due volte e due volte celebrai la santa Messa per la sua guarigione e lo piansi amaramente dopo la morte. In tal maniera e in modo chiaro, per disposizione divina fu fatto intendere bene a tutti i diocesani, quanto grave fosse l’offesa fatta al vescovo e quanto grande fosse il rischio di metter mano sui beni della santa madre Chiesa.

1735.3   Il braccio destro di San Giovanni Battista, reliquia esistente nel castello di Rapagnano si contrae e il fatto è inteso come segno di carestia delle messi – La verità del fatto viene   descritta e spiegata in un volume.

Nella chiesa parrocchiale del castello di Rapagnano, tra le tante altre reliquie, si conserva la mano destra di san Giovanni Battista, precursore del Signore che rivela e indica il Salvatore del mondo; la reliquia si pensa sia proveniente da Rodi.

Durante la quaresima si verificò un fatto straordinario. Improvvisamente la mano si contrasse alquanto e se ne accorsero per primi i frati Cappuccini. Appena il fatto mi fu segnalato, ordinai che si aprisse un’inchiesta, a norma del diritto. Era stata constatata la contrazione della mano, e aveva il significato di preannunciare il verificarsi di una grave carestia delle messi. Infatti, secondo quanto attestano gli antichi e seri autori, in Grecia allorché tale reliquia della mano veniva ostentata dal vescovo al popolo, nel giorno della festa della esaltazione della santa Croce, se restava distesa e aperta era il segno che le messi sarebbero state abbondanti, mentre se si contraeva, chiudendosi, era segno che ci sarebbe stata carestia. Ebbene, anche presso di noi questo fatto prodigioso offerto da Dio, era stato comprovato dalla realtà. Mentre infatti, le messi erano rigogliose, pochi giorni prima della festa della natività di san Giovanni Battista, la ruggine causata dalla umidità, velocemente fece inaridire le messi a tal punto che i mietitori nei campi, presso l’Ete <Morta>, e nella nostra provincia raccolsero spighe quasi vuote. Immediatamente notificai il fatto al sommo pontefice e sollecitai il popolo a coltivare maggiormente la devozione verso le sante reliquie.

Ordinai pertanto che nella festa della Pentecoste fossero solennemente esposte le reliquie e portate in processione per le vie del paese, al canto delle litanie dei santi. Restava sempre però la vecchia questione dell’autenticità del braccio di san Giovanni Battista, dal momento che molte altre località rivendicavano tale reliquia: i Veneti, i Cistercensi, i Senesi, i Maltesi e forse molti altri. Pertanto fra’ Odoardo di san Francesco Saverio, carmelitano scalzo e nostro con-diocesano, nel 1738 stampò a Roma una dotta dissertazione su tale argomento che dedicò a me. In essa, affrontando i vari aspetti della questione, con un memoriale completo, dimostra che la mano di san Giovanni Battista, conservata nella nostra diocesi, è quella autentica, senza nulla togliere agli altri. <ODOARDO di San Francesco Saverio, Dissertazione storico- critica –dogmatica sull’identità, esistenza, multiplicità, culto e miracoli della mano destra di s. Giovanni Battista (…) venerata nel tempo stesso in più Chiese del cristianesimo, e spezialmente in Rapagnano, luogo dell’archidiocesi di Fermo (…) Roma: nella stamperia di Pietro Ferri di Montecitorio. 1738>

Dopo questo fatto, in caso di carestia, mi convinsi della necessità di provvedere e aiutare, con il grano prodotto dalla mensa arcivescovile, i coloni e i dipendenti della nostra Chiesa perché i contadini non fossero costretti a sospendere la semina e la coltivazione dei campi poiché tale fatto avrebbe rappresentato un gravissimo danno per la mensa. Aiutai questi, in primo luogo, e in secondo luogo, per quanto fosse stato possibile, aiutai anche i poveri della città e della diocesi. Per l’arrivo della carestia, sospesi la visita pastorale della diocesi per tutto il periodo autunnale. Sarebbe stato difficile, infatti, per i fedeli dover eseguire i decreti che disponevano restauri o manutenzioni dei luoghi sacri o estinguere i debiti contratti con i Luoghi pii.

1735.4   Morte del vescovo di Montalto, Luca Antonio Accoramboni – Elezione a vescovo di  Montalto del  vicario generale di Fermo, Pietro Bonaventura Savini.

Nel mese di agosto, morì il vescovo di Montalto, Luca Antonio Accoramboni, in questa provincia, nel suo palazzo vescovile, durante la notte, soffocato dal catarro, mentre era a letto, senza che alcuno lo soccorresse nella crisi e che si occupasse della sua anima; e questo è grave fatto da condannare. In un primo momento quanto avvenuto aveva destato anche qualche sospetto, soprattutto perché contro di lui, che aveva retto la diocesi per lunghi anni, molti erano nemici perché si ritenevano offesi. Era un uomo giusto, generoso, vigilante e liberale, ma tutte queste virtù erano accompagnate dal fatto che egli era facilmente portato all’ira e quindi spesso cedeva alle offese.

Dopo la sua morte, presi l’iniziativa di suggerire al card. Gentili, pro-datario del pontefice, di scegliere come vescovo di Montalto, Pietro Bonaventura Savini, mio vicario generale per otto anni. Clemente XII, annuendo alla notizia del cardinale pro-datario, approvò la mia proposta. Quindi il 10 settembre, ricevetti la comunicazione della nomina del Savini, sia dal pro-datario che dal pro-uditore del papa. Il fatto destò grande gioia, nella città di Fermo, e in tutta la nostra provincia ecclesiastica. Il 18 dello stesso mese, mons. Savini partì per Roma per espletare tutte le pratiche richieste nella curia Romana e per ricevere la consacrazione episcopale.

1735.5   Mons. Spinelli viene nominato vescovo di Aversa – Angelo Locatelli, nuovo governatore  di Fermo, fa la visita di omaggio all’arcivescovo – L’arcivescovo gli restituisce la visita  nel palazzo del governatore, preceduto dalla croce arcivescovile.

Il governatore Spinelli pochi mesi or sono, da Clemente XII,  era stato creato vescovo di Aversa, città vicina a Napoli. In tale occasione, compì il dovere di farmi visita, ma in modo strettamente privato e l’11 del mese di settembre partì per Roma. Poco dopo, fu nominato come nuovo governatore di Fermo il cesenate mons. Angelo Locatelli Martorelli Orsini, trasferito a Fermo da Ascoli; ed il 28 ottobre giunse in città.

Prima delle feste di Natale era venuto da me, ufficialmente e pubblicamente, in visita di omaggio all’arcivescovo senza indossare il camice corto (rocchetto), così come io non la indossavo a causa della nota controversia che era sorta tra me e il precedente governatore Spinelli. La croce arcivescovile poi non veniva usata quando l’arcivescovo rende visita al governatore senza indossare il rocchetto. Su tale questione il governatore Spinelli aveva scritto al cardinale Firrao, segretario di Stato, per chiedere il suo parere in proposito. Ne ricevette risposta che, fino a quando la congregazione dei Riti non avesse disposto diversamente, doveva essere rispettata la prassi tradizionale. Conseguentemente negli anni seguenti, in occasione delle feste di Natale, il nuovo governatore fece la visita di omaggio all’arcivescovo con regolarità e accuratezza vestito col rocchetto ed io gliela ho sempre restituita parimenti indossando il rocchetto e preceduto dalla croce arcivescovile secondo l’antico uso, sino alla sala dove ci fermavamo insieme.[1]

1735.6   Il nuovo vescovo di Montalto compie il suo consueto dovere di visita all’arcivescovo suo   metropolita  – Vicari generali di Fermo che sono stati nominati vescovi sotto    l’episcopato del Borgia.

Il nuovo vescovo di Montalto, il 20 dicembre, tornò da me a Fermo in visita di omaggio e per consegnarmi la bolla pontificia con la quale il papa era solito presentare il nuovo vescovo suffraganeo al suo metropolita. Egli trascorse con me le feste natalizie e il 29 dicembre partì per la sua Chiesa a Montalto. Nello stesso anno, mons. Francesco Maria Alberici, che fu mio vicario generale a Nocera Umbra, era stato trasferito dalla diocesi di Città della Pieve a Foligno. Anche lui venne a farmi visita nel mese di settembre. Nel mese di ottobre venne da me anche mio fratello Fabrizio, che era stato vicario generale a Fermo e che era stato fatto vescovo di Ferentino. Mi capitò quindi, per grazia di Dio che tre dei miei vicari generali, assurti alla dignità episcopale, fossero con me nel corso di questi mesi a sollievo della mia pochezza. Io peraltro speravo che, attraverso il loro servizio di vescovi, essi avrebbero meritato alla intera Chiesa  tutti quei benefici che non erano stati offerti da me in tutto il corso del mio ministero episcopale: “ … nel ruolo della cote che riesce ad affilare un ferro, pure lui esperto nel tagliare”.

1735.7   Istituzione di una prebenda teologale nella collegiata di Morrovalle – Sistemazione ed ampliamento realizzati in diversi monasteri della diocesi.

Dovevamo istituire in questo anno una prebenda teologale nella chiesa collegiata di san Bartolomeo in Morrovalle, data la creazione di un nuovo canonicato con un decreto della Sede Apostolica che la conferì a Francesco Grisei, primo canonico teologo nominato in quella collegiata al fine di provvedere alla spiegazione delle sacre Scritture.

Le monache benedettine del monastero di San Giuliano di Fermo hanno completato il restauro del loro monastero, facendo una nuova chiesa. Le monache domenicane di santa Marta hanno ampliato il loro edificio con l’aggiunta di altri locali. Le suore Convittrici del Bambino Gesù, avendo ottenuto da Clemente XII un sussidio di trecento scudi, hanno continuato la sistemazione e il restauro della chiesa di santa Croce. Infine le monache Montolmo hanno portato a compimento il restauro del loro monastero ampliandolo.

1735.8    La villa suburbana – Costruzione di barriere e palizzate sul fiume Chienti – Il fiume   Ete viene dirottato facendo passare le acque lontano dagli fabbricati di Santa Croce.

Nella villa suburbana che è nei pressi della chiesina di San Salvatore, dopo aver eretto due colonne di pietra nostrana, ho messo una porta che immette attraverso una siepe all’ingresso dell’edificio. Ho anche fatto incidere nelle colonne dei versi, che probabilmente, a causa della fragilità della pietra e per le piogge e il gelo nello spazio di pochi anni si sarebbero cancellati. Questo era il testo e il senso della decisione: NON LIETE MESSI DARA’ IL CAMPICELLO  \  MI ACCOGLIERA’ MOLTO SPESSO  \  PIENO DI PREOCCUPAZIONI.  \  MI FACCIA RITROVARE ME STESSO. \  MI APPORTEREBBE MAGGIORE RICCHEZZA  \ SE, DOPO TORNATO IN ME  \  COMINCIASSI A DEDICARMI A DIO.

Gli interessi della mia Chiesa che, negli anni passati, erano stati messi in pericolo dagli imbrogli e dalla cupidigia degli uomini, al presente, con non minore spesa, ero costretto a preservarli e difenderli dalla voracità delle acque. Specialmente a San Claudio ho fatto costruire le barriere (chiamate cavalli fluviali) e, per difendere i campi, ho dovuto aggiungere altri ripari, onde impedire i danni provocati dalle inondazioni del Chienti. Inoltre anche a Santa Croce, dove si delineava la minaccia di ingenti danni non solo per i campi, ma anche per la stessa chiesa di Santa Croce, sono stato costretto a far scavare un nuovo alveo sul quale dirottare il corso del fiume e, siccome, in quel periodo, esso scorreva liberamente dove voleva e aveva già eroso la sponda che costeggia le mura della chiesa, nel mese di dicembre ho fatto costruire molte barriere e palizzate (cavalli fluviali), a cominciare dall’inizio della sponda del fiume, laddove il terreno appariva più solido, affinché il corso del fiume fosse dirottato e potesse defluire più distante dagli edifici.

Di fatto le idee degli uomini infatti sono provvedimenti timidi e incerti e perciò avevo poca fiducia nei mezzi escogitati dalla nostra intelligenza e dalla prudenza umana. Pertanto, mi rivolsi a Dio e, sulla base di quanto scrive san Gregorio Magno nei Dialoghi libro III capitolo 10, dove racconta che san Savino, vescovo di Piacenza lanciò una severa monizione al fiume Po perché non devastasse più i campi della sua Chiesa, anch’io usai la stessa monizione contro il fiume Ete <Morta>. Dio allora, non tenendo presente i miei peccati, ma riguardando la potenza che suo Figlio ha concessa agli apostoli e considerando i meriti di san Savino suo servo, a poco a poco, mi ha concesso che il fiume si ritirasse dalla sponda che costeggiava la chiesa di Santa Croce.

Tuttavia anche negli anni seguenti ho continuato ad approntare gli strumenti umani necessari a rafforzare le sponde del fiume e a creare d impedimenti contro le inondazioni. Specialmente nell’anno 1738 ho provveduto alla piantagione di numerose querce e di altri alberi disposti in ordine denticolato. Ho anche fatto piantumare quella parte del terreno, dal quale le acque si erano ritirate, tra l’altro con molti salici e pioppi. Grazie a tali lavori, in breve tempo, nel luogo è sorta una vasta e piacevole selva che si è rivelata non soltanto utile per difendere l’edificio della chiesa, ma anche favorevole per altri scopi. Conceda Dio misericordioso che tali difese siano durature e idonee a garantire la salvaguardia dei campi e del tempio.

1735.9    Morte di mons. Alessandro da Varano, vescovo di Macerata e Tolentino – Come                   successore viene nominato mons. Ignazio Stelluti.

Verso la fine dell’anno, era venuto a mancare mons. Alessandro da Varano ferrarese, vescovo di Macerata e Tolentino che era il decano dei suffraganei della provincia Picena. Già da qualche anno soffriva di depressione ed era quasi giunto alla pazzia. I suoi parenti lo avevano riportato a Ferrara e lo avevano relegato nella casa di campagna appena fuori dalla città e lì era morto, ormai fuori di mente. Era uomo nobile, discendente dai duchi da Varano, signori di Camerino. Fu di specchiati costumi, esimio letterato, e a me molto legato da amicizia rispettosa.

Il 2 dicembre, come suo successore, Clemente XII nominò mons. Ignazio Stelluti di Fabriano allora preside di Montalto. Egli, quando ancora ero vescovo di Nocera,  era stato il  rettore delle parrocchie della diocesi Nocerina site nel territorio di Fabriano, mi aveva accompagnato nella visita pastorale e nel Sinodo da me convocato. Dopo essersi recato a Roma, giunse nella nostra provincia e, dopo breve tempo, venne a consegnarmi le solite bolle pontificie.

ANNO  1736

1736.1    Marco Antonio Massucci viene scelto dall’arcivescovo come vicario generale – P.   Zucchi predicatore per la seconda volta a Fermo – Speciale editto dell’arcivescovo          sugli studi delle lettere.

Nel mese di febbraio, mons. Marco Antonio Massucci, di ricca e nobile famiglia di Recanati ed ivi canonico della cattedrale, venne da me scelto come vicario generale della diocesi di Fermo. Egli giunse in città il 5 di aprile. Il p. Zucchi, frate dell’ordine dei Minori detti dell’Osservanza, celebre predicatore, fu chiamato a Fermo a predicare per la seconda volta, in occasione della quaresima, in cattedrale. Egli aveva predicato una prima volta in occasione dei frequenti prodigi accaduti nella diocesi per intercessione di san Luigi Gonzaga e allorché l’arcivescovo aveva ottenuto dalla Santa Sede l’indulto di poter celebrare la Messa e l’Ufficio di questo Santo, in tutte le chiese della arcidiocesi.

Il giorno 11 aprile, ho pubblicato un importante editto riguardante il riordino della disciplina dei corsi di studi letterari nell’università di Fermo, onde assicurare un migliore profitto e la preparazione degli studenti. Si erano verificati infatti episodi di rivolta e di protesta degli studenti nel Collegio dei Gesuiti. Verrà ripubblicato ogni anno.  Dopo trascorse le feste di Pasqua, ho convocato a Fermo la riunione dei vicari foranei. Poi, ho fatto un viaggio verso Roma al fine di compiere la visita alla Sede apostolica.

1736.2    La rivolta a Trastevere – La rivolta a Velletri – L’arcivescovo parte per Roma, ma si  reca prima a Ferentino.

Ero ormai pronto a mettermi in viaggio, quando improvvisamente seppi che era scoppiata nel quartiere di Trastevere una sommossa contro gli Spagnoli. I sostenitori degli Spagnoli, nascosta-mente, cercavano di arruolare soldati e in qualche caso, addirittura, costringevano gli uomini che non ne avevano voglia, per portarli a combattere nel regno di Napoli. Anche a Velletri la gente era insorta, irritata perché aveva subito danni a causa del passaggio delle truppe Spagnole. I soldati allora non si erano sistemati negli accampamenti preparati fuori della città, ma dopo penetrati in essa,  avevano rifiutato i siti preparati per loro, avevano invaso le case abitate dai cittadini. Poiché era imminente un nuovo passaggio di truppe e si temeva che accadesse qualcosa di simile a quello che era successo nel passato, la gente si era sollevata e si era fornita di armi,  costringendo le stesse autorità della città ad assumere il comando della rivolta.

Il cardinale Francesco Barberini, vescovo di Ostia e di Velletri, si era messo in viaggio per Velletri al fine di ristabilire la calma, ma visto che non poteva ottenere nulla dagli insorti, era ripartito di nascosto. Le truppe spagnole, allora, occuparono militarmente la città e tutta la zona adiacente; riportarono in città tutti coloro che erano fuggiti, minacciando di radere al suolo le loro abitazioni e di confiscare tutte le loro proprietà, se non fossero ritornati. I soldati sequestrarono le armi per la città e arrestarono tutti coloro che erano sospettati di aver partecipato alla rivolta, saccheggiarono alcune abitazioni e imposero alla comunità di pagare un contributo di ottomila scudi. Danni maggiori venivano causati dalla coabitazione cameratesca dei soldati nelle civili abitazioni. Altri danni venivano provocati dalla interruzione del commercio del vino e dalla mancata coltivazione delle vigne.

Frattanto io, che ero partito da Fermo l’11 maggio, arrivando a Roma mi accorsi che, anche se la rivolta di Trastevere era stata sedata, era molto difficile trattare con le autorità militari Spagnole che, nonostante fossero state compensate per i danni subiti e le offese sofferte da parte dei rivoltosi, non si accontentavano e pretendevano sempre di più. Poiché pertanto non era cosa sicura restare a Roma, né potevo andare a Velletri, ho deciso di recarmi a Ferentino a far visita a mio fratello Fabrizio, vescovo di quella città e vi restai per tutto il mese di maggio. Tuttavia, nonostante che il comandante del distaccamento militare di stanza a Velletri con i suoi ufficiali, che avevano requisito e occupati gli edifici della mia famiglia, mi assicurasse che sarei potuto ritornare liberamente nella mia patria, che anzi mi sarebbero stati restituiti tutti i miei locali, stimai opportuno di non andarci, fino a quando gli Spagnoli non si fossero ritirati.

L’Imperatore, avvertito di quello che stava accadendo a Roma ad opera degli Spagnoli, con una lettera indirizzata a papa Clemente XII, gli comunicava che non si sarebbe tirato indietro nella difesa della Chiesa Romana e che avrebbe ordinato che un suo esercito raggiungesse Roma, se tutti gli Spagnoli non si fossero subito ritirati. Venuti a conoscenza di tale decisione imperiale, gli Spagnoli si ritirarono da Velletri e dalle altre località occupate. Sequestrarono però tutte le armi, misero in prigione alcuni individui che reputavano avessero partecipato alla rivolta e dichiararono di non restituire le armi né di liberare i prigionieri, se non dopo un anno.

1736.3    L’arcivescovo torna a Velletri e in seguito si reca a Roma per difendere i concittadini  coinvolti nella vicenda – Compie poi la visita alla Sede Apostolica.

Nel mese di giugno, dopo che ormai gli Spagnoli avevano abbandonato Velletri, ero partito e, arrivato nella casa paterna, avevo iniziato a far riparare i danni e a ripulirla per il fatto che, sia per l’antichità della costruzione, sia per il soggiorno dei soldati era stata ridotta in condizioni deplorevoli. Nel frattempo era giunto da Roma a Velletri il marchese Gentili, accompagnato da un notevole manipolo di soldati per riportare la calma in città. Era giunto anche il reatino mons. Alessandro Clarelli prelato della curia Romana, giudice commissario per svolgere un’inchiesta sulla rivolta, sui promotori di essa e sui complici. Intervenni, per quanto mi era possibile, per evitare che sulla mia patria cadesse un’altra disgrazia e che sulle vittime si abbattessero ulteriori disgrazie. Purtroppo, anche se mons. Clarelli procedeva con saggezza e moderazione, furono arrestati un certo numero di persone come colpevoli e organizzatori della rivolta. Alcuni addirittura furono condannati a morte, altri alle galere nelle triremi o ai lavori; tutti furono trasferiti a Roma.

All’inizio di luglio, anch’io andai a Roma e, una volta espletate le formalità della visita alla Sede Apostolica, e dopo baciato il piede a Clemente XII, intervenni presso il cardinale Firrao Segretario di Stato, affinché non venisse eseguita alcuna condanna a morte e gli feci osservare che se fossero state eseguite quelle sentenze, il popolo si sarebbe ancor più irritato e si sarebbe scagliato contro i capi della città, indifferenti alla rivolta, avrebbe cercato un’occasione per vendicare quelle condanne con degli attentati e altri omicidi.[2] Aggiungevo anche che in tal caso avrei dovuto preoccuparmi per la incolumità di mio fratello Camillo e dei suoi figli perché in occasione della rivolta di Velletri, egli era fuggito da quella città e si era rifugiato a Roma presso il medesimo cardinale. Firrao si convinse, grazie agli argomenti che gli avevo esposto. Non soltanto non fece eseguire le gravi sentenze, ma concesse una completa amnistia.[3]

1736.4    Il giudice laico non deve concedere l’assoluzione a coloro che usano violenza contro gli  officiali, i messi e i collaboratori del tribunale ecclesiastico.

Ho presentato alla sacra congregazione degli interpreti del Concilio Tridentino la relazione sulla nsituazione della mia Chiesa; in essa ho avanzato la richiesta che, nel caso in cui gli officiali, i funzionari e i messi di giustizia del foro ecclesiastico venissero aggrediti o gravemente offesi da uomini malvagi, in particolare per disprezzo del loro ruolo, non fosse lecito ai giudici della curia secolare di assolverli senza il beneplacito della curia ecclesiastica e ciò anche nel caso in cui il funzionario che venne offeso fosse disposto e consenziente a concedere il perdono. Facevo questa affermazione per difendere un principio, non tanto per l’interesse di coloro che erano stati offesi. Infatti se l’offeso è una persona di carattere debole, nel caso in cui gli venisse offerta da chi lo aveva offeso una modica somma di denaro, non farebbe valere più alcun motivo di risentimento. Di fatto, se con troppa facilità si scusassero questo tipo di offese, si correrebbe il rischio di svilire il rigore della legge e specialmente il senso della giustizia e, quantunque i sacri canoni stabiliscano che simili criminali possano essere condannati in ambedue i fori, tuttavia bisogna riconoscere che tale norma è stata fissata in favore della Chiesa e non per favorire l’impunità dei crimini. Nel caso contrario si eluderebbe il concetto di giustizia e si irriderebbe il potere del giudice ecclesiastico. Se, ad esempio, essendo stato ferito un impiegato del foro ecclesiastico e il processo fosse istruito da ambedue le curie (quella civile e quella ecclesiastica) e il colpevole offrisse all’offeso una somma di denaro e ottenesse da lui il consenso per l’assoluzione, e in tale modo il reo venisse subito assolto dal giudice secolare, a cui il caso interesserebbe poco, il giudice ecclesiastico non potrebbe più procedere contro il feritore, in alcun caso.

Avanzai con fiducia tale richiesta a Clemente XII, che aveva sempre dimostrato un grande zelo per la giustizia e anzi aveva emanato una severa costituzione contro i violenti e i sanguinari. Ma la mia richiesta, di fronte alla mole dei problemi che oberavano la curia Romana, finì nel dimenticatoio e, nonostante che avessi rinnovato l’istanza nel 1739 in occasione della mia successiva visita alla Sede Apostolica, non ottenni alcuna risposta.

1736.5   Viene confermato il privilegio di cui gode la mensa arcivescovile di acquistare il pesce   ad un modico prezzo.

I pescatori e coloro che abitavano al Porto di Fermo avevano presentato una controversia a Roma contro la città di Fermo, chiedendo di non essere costretti a portare il pesce per la vendita solo nella città di Fermo, ma di essere liberi di recarsi a venderlo dovunque. Essi si lamentavano per il fatto che a Fermo si sentivano danneggiati, in quanto la mensa episcopale e i suoi dipendenti, il governatore e i magistrati del comune li costringevano a fornire il pesce o gratuitamente o a basso prezzo[4].

In risposta a tale denuncia i cardinali della sacra congregazione Fermana ridussero sensibilmente questi tradizionali privilegi sia del governatore che della magistratura comunale e aggiunse che all’arcivescovo dovevano esser fornite sedici libbre di pesce per ogni giorno della quaresima e per i giorni di vigilia durante l’anno e che egli dovesse pagare la merce un terzo del prezzo di vendita al pubblico. Con tale disposizione veniva gravemente infranto il diritto della mensa episcopale alla quale, secondo l’antica consuetudine, il pesce doveva essere fornito in ogni periodo dell’anno al prezzo di due assi per libbra e senza limite di quantità, cioè sulla base di un’equa richiesta dell’arcivescovo. Del resto nel periodo del mio episcopato ho sempre fissato la quantità con molta moderazione, sia per me che per i miei famigliari.

Contro la decisione della congregazione Fermana presentai ricorso al cardinale Firrao, segretario di Stato e al prefetto della stessa congregazione per il fatto che essa, che è competente soltanto per il governo civile di Fermo, aveva usato indebitamente la sua competenza nei confronti dell’arcivescovo. Aggiunsi che la consuetudine favorevole alla mensa poggiava sull’antico diritto di decimazione che in antico comprendeva anche l’attività della pesca.[5] All’obiezione presentata dai pescatori che il pesce veniva pescato nel mare, cioè fuori del territorio della diocesi, risposi che il mare Adriatico lambiva le coste della diocesi fermana e arrivava alla metà dello specchio del mare mentre l’altra metà apparteneva alla diocesi di Zara che è sita nell’altra sponda del mare di fronte a noi. Sulla base di queste considerazione ottenni che il cardinale Firrao riconoscesse il tradizionale privilegio dell’arcivescovo di Fermo e che pertanto su questa vicenda fosse rispettata l’antica consuetudine che di fatto era stata rispettata fino al presente.

1736.6   Girolamo Mattei, nel recente passato arcivescovo di Fermo, viene tenuto sotto custodia  con la scusa che è fuori di mente. L’arcivescovo, suo successore, interviene in suo   favore.

Era veramente infelice la condizione in cui viveva, a Roma, mons. Girolamo Mattei, mio predecessore in questa arcidiocesi. Egli, dopo essersi dimesso dalla diocesi, non abitava a Roma nell’ampio palazzo della sua nobile famiglia, ma in una comune abitazione del quartiere di Trastevere e in una recente circostanza aveva rischiato di perdere la vita per una caduta dalle scomode e pericolose scale di quella casa e in tale evento aveva battuto il capo. Il duca di Paganica, suo fratello, era da tempo in contrasto con l’arcivescovo Mattei a causa dell’annuo contributo che gli doveva versare, traendolo dal ricco patrimonio della famiglia. Si vociferava che, mentre mons. Girolamo era gravemente malato, egli si era appropriato del danaro dell’arcivescovo che ammontava a circa sedicimila scudi.  Mons. Mattei, riavutosi dalla malattia, aveva cercato di riavere i suoi soldi, ma non avendoli più trovati, era caduto in una condizione di grave turbamento mentale. Il fratello allora lo portò con sé nel palazzo di famiglia e con l’autorizzazione del papa si fece nominare suo tutore, come se suo fratello arcivescovo fosse completamente fuori di sé. Da quel momento viveva in una parte della casa con le inferriate alle finestre, senza mai poter uscire e con la proibizione di ricevere le visite degli amici.

La vicenda destava gravi sospetti in molte persone. Io stesso, che per ragione del mio ufficio desideravo fargli visita, ne fui impedito. Decisi allora di esporre questa incresciosa situazione a Clemente XII. Gli feci notare che era cosa vergognosa tenere un arcivescovo in quel miserevole e umiliante stato. Girolamo Mattei, nato a Roma da una nobilissima famiglia, un vero principe che nel passato aveva ben meritato della Santa Sede per molte legazioni svolte in Toscana e a Venezia e per il servizio episcopale reso alla diocesi di Fermo per lo spazio di dodici anni, era costretto a vivere in maniera miseranda, mentre il cattivo stato mentale non era affatto certificato con sicurezza e probabilmente era causato dall’isolamento e dalla proibizione di vedere gli amici. C’era occasione di nutrire sospetti. La pazzia del resto e la perdita della consapevolezza più che essere reale si doveva credere che fosse presunta e perciò il suo turbamento sarebbe aumentato di giorno in giorno a causa del rigoroso isolamento a cui era stato costretto. Perciò ero certo che il miglior rimedio per risollevare il suo spirito e per far scomparire l’oscurità della sua mente, sarebbe stato quello di consentirgli di poter stare liberamente all’aria aperta e di poter ricevere visite.

Clemente XII, profondamente addolorato per l’infelice situazione in cui versava l’arcivescovo, mi assicurò che avrebbe provveduto affinché al prelato fosse garantito ogni sollievo e conforto come ad esempio di essere condotto in carrozza nella bellissima villa che la nobile famiglia Mattei possedeva a Roma presso la chiesa di Santa Maria in Domnica, onde poter distrarsi. Subito mi recai dal cardinale Firrao e gli riferii le disposizioni prese dal papa e gli raccomandai di provvedere che esse fossero eseguite. Gli dissi che in tal modo si sarebbe ottenuto l’effetto di attenuare l’opposizione che serpeggiava tra il clero romano e il popolo di Roma contro il governo del pontefice. Non furono inutili queste nostre attenzioni verso l’arcivescovo predecessore, anche se, dovendo partire da Roma, non mi fu possibile fare tutto quello che avrei voluto fare.

1736.7   Clemente XII generosamente e sollecitamente consente all’arcivescovo di poter esportare il frumento per via marittima.

La carestia dell’anno precedente era stata sanata dalla buona raccolta di quest’anno. Ho avuto la fortuna di poter disporre di una maggior quantità di grano perché avevo potuto dare in prestito l’anno scorso il frumento, sia ai coloni della mensa, sia ad altri agricoltori.

Alla fine di agosto, mentre mi trovavo a Roma, ai miei agenti agricoli era capitata l’occasione di vendere novecento misure di grano (che chiamano rubbi) a cinque scudi per rubbio da esportare per nave. Era pertanto necessario ottenere dal Papa la preventiva autorizzazione di esportare il grano. Clemente XII all’inizio di settembre benignamente mi concesse il permesso di vendere il grano fino alla quantità di mille rubbi ed inoltre di poter esportare anche il frumento di seconda qualità chiamata ‘marzatello’.

Pertanto desideravo ringraziarlo per il favore che mi aveva benignamente concesso in anticipo rispetto al tempo fissato. Infatti tali autorizzazioni venivano concesse a iniziare dalla fine di settembre o ai primi di ottobre. Mi rispose, da vero principe generoso, che non gli dovevo alcun ringraziamento per la concessione dell’autorizzazione in breve tempo, poiché anche a tutti gli altri richiedenti essa a suo tempo sarebbe stata concessa, senza prezzo. Comunque tale beneficio fu di grande guadagno a tutta la nostra provincia.

1736.8   All’arcivescovo viene proposto l’incarico di Nunzio apostolico presso il re di Sardegna – Viene nominato visitatore apostolico del monastero femminile di Santa Chiara nella città di San Severino.

In quel periodo a Roma si stava lavorando per comporre i contrasti insorti con il re di Sardegna sulle collazioni dei benefici ecclesiastici e per risolvere il problema della giurisdizione ecclesiastica nel principato del Piemonte.

La rappresentanza diplomatica presso il regno di Sardegna e il principato del Piemonte era stata affidata al cardinale Corradini. Egli mi disse che, dopo placati i dissidi, sarebbe stato necessario inviare un nunzio che fosse anche vescovo esperto nel governo di una diocesi. Costui avrebbe potuto più facilmente raggiungere una giusta composizione dei contrasti e mi informò che aveva proposto al papa il mio nome. Pensavano a me anche il cardinale Firrao, segretario di Stato e il cardinale Gentili, pro-datario pontificio. Da parte mia avevo dichiarato la mia disponibilità; la cosa però sfumò perché fino a che visse Clemente XII, il problema di trovare un accordo non ebbe esito.

All’inizio di novembre, desideravo tornare nella mia patria, ma dal papa mi fu affidato l’incarico di visitatore Apostolico presso il monastero di santa Chiara nella città di San Severino, diocesi appartenente alla nostra metropolia arcidiocesana. Esso era sotto la giurisdizione dei frati Minori detti Riformati. Le monache si erano divise in due fazioni: la prima voleva restare soggetta al governo dei predetti frati, l’altra voleva passare sotto il governo del vescovo della città. La questione era stata sottoposta alla congregazione dei Vescovi e dei Regolari. Oltre a tale questione molti altri problemi dovevano essere affrontati nel monastero.  Mi sono pertanto recato nel detto monastero e vi ho eseguito la visita a mie spese per non gravare sulla comunità che era povera. Contemporaneamente ho cercato di provvedere al meglio per ristabilire la pace e la concordia tra le monache; ho inoltre ripristinato anche la clausura in modo regolare.

Nel concludere tutta la vicenda il cardinal Francesco Barberini, al quale era stata affidata la causa, impiegò una forte somma di denaro per cui la conclusione della vicenda è stata che i frati minori rinunciavano alla direzione del monastero che quindi è passato sotto la giurisdizione del vescovo della città.

1736.9    Progetto dell’arcivescovo per la riforma e la regolazione degli studi nella città di                  Velletri.

Tornando da San Severino ho sostato a San Claudio dove mi sono dedicato a scrivere un progetto di riforma degli studi letterari nella mia città di Velletri. Tale lavoro mi era stato richiesto dal cardinale Barberini, vescovo di Velletri.

Mi raggiunse a San Claudio, Angelo Locatelli, governatore di Fermo il quale, proveniente da Spoleto, dove ero stato qualche volta suo ospite, tornava alla sua sede di Fermo. Il primo di dicembre ci siamo messi in viaggio per Fermo, senza le consuete solennità, ma vestiti solo con gli abiti da viaggio e, appena giunti, ci siamo recati nella cattedrale per ringraziare Dio.

Ho portato come mio dono alla metropolitana un prezioso paliotto per l’altar maggiore, comprato a Roma di color bianco tessuto in seta e in argento e con i galloni d’oro, al cui centro ho fatto rappresentare una croce e il mio stemma ricamati in oro.[6]

1736.10    Il convento e la chiesa di san Francesco da Paola vengono restaurati e ampliati.                     Quest’anno i frati Minimi di san Francesco da Paola non solo hanno restaurato il loro monastero presso la città di Fermo, fatiscente per l’antichità, ma hanno anche dato inizio ad ampliarlo. I lavori sono proseguiti per diversi anni e sono terminati solo nel 1743. Avevano anche iniziato a restaurare in forma elegante nel 1722 la chiesa detta di San Pietro Vecchio che in antico era stato un priorato e fu unito poi alla mensa capitolare di Fermo. Ora hanno preso ad abbellirla e i lavori sono continuati negli anni seguenti per iniziativa di fra’ Baldassarre Massi da Lapedona, nella diocesi fermana, che è stato anche provinciale della provincia del suo ordine. In questa opera egli ha profuso i beni ereditati dalla sua famiglia, tutto quello che aveva raccolto nelle sue predicazioni e altre donazioni ricevute.

ANNO 1737

1737.1   L’arcivescovo difende i titoli di patrimonio degli ordinandi contro le pretese della                 provincia –  Si oppone alle pretese del rettore della Marca e difende l’immunità degli   ecclesiastici.

L’anno scorso, mentre ero sul punto di recarmi a Roma, mi sono giunte due lettere, con due fascicoli, da parte della sacra congregazione dell’Immunità. Il primo fascicolo, a nome della provincia Picena, chiedeva al Pontefice che nel costituire il patrimonio come titolo per ricevere la sacra ordinazione venissero ascoltati i laici del comune e che i pubblici periti accertassero che i detti patrimoni non superassero un certo limite. L’altro fascicolo poi chiedeva che anche gli ecclesiastici fossero tenuti a pagare le imposte “comunitative” come facevano i laici in modo che da tali tributi si potessero ricavare i fondi per pagare gli stipendi dei medici e dei pubblici ufficiali e per potere intervenire nella manutenzione dei ponti, delle strade e delle fontane, cose tutte che servivano alla pubblica utilità. La congregazione chiedeva che esprimessi sulle due proposte il mio parere, dopo aver sentito anche quello dei vescovi miei suffraganei e inviassi la mia relazione alla stessa congregazione.

Appena tornato in provincia, avevo consultato gli altri vescovi della metropolia, e nella risposta alla congregazione romana ho fatto notare anzitutto che l’ordinazione sacra e la determinazione del patrimonio degli ordinandi sono riservate esclusivamente al vescovo, gli editti <sui candidati> erano presentati prima che si dessero prove per i patrimoni.  Se si cedeva tale diritto ad altri, le sacre ordinazioni si sarebbero rese molto difficili ed inoltre le stesse comunità di laici sarebbero state coinvolte in infinite e dispendiose liti a causa dell’eccessivo numero di patrimoni costituiti in misura minima.

Anche sulla questione dell’immunità ecclesiastica, in relazione alla proposta tassazione, ho espresso la mia opinione contraria. Feci osservare che, se gli ecclesiastici fossero stati gravati dalle tasse “comunitative” alla stessa stregua dei laici, la condizione dei chierici sarebbe peggiore di quella dei laici. Infatti sugli ecclesiastici gravano molti altri contributi: la tassa a favore della flotta pontificia, quella degli spogli, il cattedratico, il seminaristico e simili, alle quali i laici non sono assoggettati. Inoltre, se i laici in qualche modo usufruiscono di molti benefici procurati a loro dal clero, è giusto che gli ecclesiastici abbiano a ricevere qualche utile pubblico.

Di più: se si limitasse l’immunità ecclesiastica proprio nello Stato della Chiesa, essa sarebbe cancellata dovunque e scomparirebbe anche negli Stati dei principi laici, come conseguenza del cattivo esempio proveniente dai domìni pontifici. Al di là di tutto ciò, è necessario considerare che la sacra immunità ecclesiastica, come si legge nei decreti del concilio di Trento nella sessione XXV al capitolo XX, è presente già nella Bibbia da Giuseppe in Egitto, da Artaserse in Palestina, se ne parla al cap. 47 della Genesi e nel libro primo di Esdra al capitolo 7 e viene riconosciuta nei sacri canoni e confermata anche nelle leggi civili a favore dei ‘levi’ e dei sacerdoti: vedi decreto “Item nulla” e il codice sui vescovi e il clero.

La sacra congregazione apprezzò queste considerazioni e per alcuni anni non fu deciso nulla sui patrimoni per le sacre ordinazioni e sull’immunità ecclesiastica nella nostra provincia.

1737.2    In quali benefici di Altidona l’abate di Farfa ha la facoltà di nominare il rettore.                   Antonio Gaetano Lamponi di Altidona, chierico dal carattere turbolento, fu nominato al beneficio di santa Maria di Loreto, esistente nella chiesa collegiata di detto luogo, dal cardinale Francesco Barberini in quanto abate Farfense. Ora l’abate di Farfa in quella chiesa collegiata, soggetta alla giurisdizione dell’arcivescovo di Fermo, non ha alcun diritto di nomina, ad eccezione del priore del capitolo e dei canonici con beni di antica erezione, mentre in tutti gli altri benefici il diritto di nomina spetta all’arcivescovo, in base ad un lodo fissato da alcuni prelati della curia Romana nel 1722. Ho parlato della cosa a Roma con il cardinale Barberini, pregandolo che non venisse usurpato tale diritto di nomina  che era competenza della Chiesa Fermana. Egli si scusò con me per il fatto che era ignaro dell’esistenza del lodo e mi assicurò di voler riconoscere il diritto della mia Chiesa. Pertanto, revocata la nomina Farfense al Lamponi, lo stesso la ottenne da me il 6 marzo di quest’anno.

1737.3    L’arcivescovo si reca ad Offida, poi a Montalto – Morte di Stefano Ruggia e suo elogio    – Continuazione della seconda visita pastorale.

Nella bella cittadina di Offida, della diocesi di Ascoli, si conservano le sacre Specie Eucaristiche che anticamente si mutarono in Carne e Sangue. Nella festa della Santa Croce, nel mese di maggio, esse vengono esposte alla pubblica venerazione con grande partecipazione di popolo. Insieme a Angelo Locatelli, governatore di Fermo ci siamo recati là, ricevuti da Alessandro Bianchi di Malta, preside di Montalto a cui Offida è soggetta sul piano civile. Poi io mi sono recato nella città di Montalto per far visita al vescovo Bonaventura Savini. Lì ho conosciuto la triste notizia della morte di Stefano Ruggia di Viterbo, che nel 1706, quando ero in Germania aveva assunto l’amministrazione dei miei beni, gestendoli con somma cura e fedeltà, così come era stato amministratore dei beni del cardinale Bussi, del mio predecessore a Fermo, mons. Girolamo Mattei e di molti altre persone. Era un uomo fornito in sommo grado di diligenza, di capacità e di lunga esperienza nel trattare gli affari. Era morto in una buona vecchiaia, quasi nonagenario, lasciando un buon patrimonio alla famiglia e ai due figli Gaspare, beneficiato nella basilica vaticana e Girolamo, laico. Ambedue continuarono nella stessa attività del padre. Gaspare fu mio agente personale e dell’arcivescovato di Fermo a Roma, comportandosi sempre con la stessa diligenza e fedeltà del padre.

Da Montalto mi son recato a Santa Vittoria dove avevo convocato i con-visitatori e i miei  collaboratori per proseguire la visita pastorale. Dopo Santa Vittoria sono andato in visita a Servigliano e a Grottazzolina. Nicola Viozzi, canonico di Santa Vittoria ha visitato Belmonte e alla fine di aprile si è recato in visita a Montefalcone e a Smerillo. Il 3 di giugno rientrai a Fermo.

1737.4    L’arcivescovo pronuncia una omelia sulla guerra dichiarata contro i Turchi e la dà alle   stampe.

Spesso nelle mie omelie ho ammonito il clero e il popolo sul dovere di pregare Dio per chiedere la pace tra i principi cristiani che si facevano guerra tra di loro, a causa dell’elezione del nuovo re di Polonia. Da questo conflitto derivava la triste devastazione degli Stati cristiani. Neppure l’Italia e lo stesso Stato Pontificio erano immuni da tale disgraziato andamento di cose. Finalmente le discordie si appianarono in un convegno, al quale parteciparono l’imperatore, il re di Francia e gli altri principi, e furono intavolate trattative di pace e stipulato un accordo.

L’imperatore, volendo venire in aiuto dell’imperatrice della Russia contro i Turchi, mosse guerra contro di loro. Pensai che fosse mio dovere ammonire il clero e il popolo, nella festa dei santi apostoli Pietro e Paolo con una omelia in cui chiedevo che si pregasse in ringraziamento della pace tra i principi cristiani e per implorare di ottenere l’aiuto divino nella guerra contro i Turchi. Per questo mi dilungai nella omelia di quel giorno esortando specialmente i giovani, che ai nostri giorni consumano il tempo nella inedia e nell’ozio, perché partissero per la guerra contro gli infedeli. La mia omelia fu seguita dal popolo con molta attenzione ed interesse tanto che decisi di darla subito alle stampe perché fosse conosciuta non solo dalla gente del luogo, ma anche da quelli che abitavano in zone lontane.

1737.5   Vengono proibiti i balli che si è soliti organizzare a Monterubbiano durante le feste della  Pentecoste, nonostante un monitorio favorevole a tali manifestazioni redatto dell’uditore  della camera Apostolica – Il commissario della Fabbrica di San  Pietro esegue le sue  ispezioni periodiche nel periodo in cui l’arcivescovo compie la visita pastorale alla diocesi – Protesta dell’arcivescovo.

In seguito mi giunsero da Roma due richieste che rischiavano di provocare sconcerto. La prima era determinata dal monitorio inviato dall’uditore della camera Apostolica, che gli abitanti di Monterubbiano riuscirono ad estorcergli, in cui si consentiva agli stessi abitanti del paese di poter mantenere l’antico abuso, da me più volte condannato e vietato, cioè di organizzare durante le feste di Pentecoste pubblici balli per le piazze e per le vie del paese tra persone di ambo i sessi. Mi sono preoccupato subito di avvertire l’uditore dello scandalo che ne derivava. Egli negli anni successivi opportunamente si astenne dall’inviare il suo parere favorevole, per cui l’abuso ebbe termine.

La seconda cosa era il fatto che il commissario della Fabbrica di San Pietro aveva deciso di eseguire le previste ispezioni sui legati pii, esistenti nella diocesi, nei giorni in cui l’arcivescovo era impegnato nel compiere la visita pastorale. Io invece sostenevo che il compito del commissario fosse sussidiario e che l’ispezione non poteva svolgersi quando l’arcivescovo non era in città ma in visita pastorale. Questo per evitare il rischio che si verificassero abusi e imbrogli o che i legati pii non soffrissero alcun pregiudizio, come di fatto era accaduto precedentemente durante l’episcopato del mio predecessore. I funzionari della Fabbrica invece continuavano imperterriti a compiere le loro ispezioni proprio durante le assenze dell’arcivescovo.  Clemente XII, ricordando il tempo in cui era vescovo di Tuscolo, mi fece notare che durante una sua visita pastorale alla diocesi, consentì al commissario di espletare il suo ufficio. Egli quindi mi consigliò di comportarmi alla stessa maniera; ammonì comunque il commissario che nel compiere il suo dovere non esagerasse.

1737.6    Morte di Alessandro Bonaccorsi – Istituzione di un ospedale a Monte Santo.                   Nel frattempo morì Alessandro Bonaccorsi, sacerdote di Monte Santo. Dopo aver rinunciato al chiericato della camera Apostolica che svolgeva a Roma, egli si era ritirato lieto nella sua patria a vita privata e aveva rifiutato di accettare dignità e incarichi di legazioni presso vari principi. Quando venni a Fermo come arcivescovo, egli era già sacerdote. Giunto ormai ad una serena vecchiaia, morì il primo di agosto. Fu un uomo colto, ricco di ogni virtù e di pietà. Con suo testamento lasciò tutti i suoi beni per istituire un ospedale nel suo paese natale di Monte Santo disponendo che l’arcivescovo ne curasse l’istituzione e lo dirigesse.

Quando era ancora in vita, dopo aver scritto il testamento, guidato dalla prudenza cristiana, pensò fosse opportuno di iniziare il suo lodevole progetto, piuttosto che rimandarlo a dopo la sua morte. Approntò quindi l’edificio destinato a diventare ospedale, lo dotò di ogni suppellettile e iniziò ad accogliervi e a dare sostentamento ai malati, sia per quelli che abitavano in paese, sia per i campagnoli. Decisione questa molto opportuna e utile non solo per la cura dei corpi, ma anche per aiutare spiritualmente la gente del luogo. Infatti nelle zone rurali per lo più non esistevano le chiese parrocchiali, né vi erano i parroci. Tutti, paesani e campagnoli, erano affidati al pievano della cittadina e quindi difficilmente potevano essere assistiti, se erano in pericolo di morte, sia a causa della distanza dei luoghi, sia per la scomodità delle strade. Invece tutti facilmente sarebbero stati assistiti se i malati fossero  ricoverati all’interno del paese. Aperto il testamento di Alessandro Bonaccorsi e letti i codicilli si trovò che all’ospedale erano stati assegnati in dote sessanta luoghi di Monti non vacabili, acquistati con il suo denaro a Roma, più altri dieci o più di essi luoghi provenienti dall’eredità di Filippo Bonaccorsi, suo fratello, di cui Alessandro era stato nominato esecutore fiduciario. Grazie a questo patrimonio, è stato potuto erigere l’ospedale a Monte Santo per utilità dei corpi e delle anime. Il decreto di erezione è stato da me pubblicato il 14 aprile 1739.

1737.7    Chiusura della seconda visita pastorale.

Alla fine di settembre, ho concluso la seconda visita pastorale. Mi sono recato prima a Monterubbiano, poi sono andato a Moresco, a Lapedona, ad Altidona, a Torre di Palme e infine ho concluso la visita al Porto di Fermo. Terminata così l’ispezione di tutta la diocesi, il 10 di ottobre sono rientrato a Fermo.

1737.8    Una parte della proprietà di San Claudio viene rivendicata dai frati di Santa Maria della   Fonte e da altre persone.       I frati dell’ordine degli Eremitani di Sant’Agostino della congregazione Lombarda che risiedono nel convento di Santa Maria della Fonte nei pressi di Macerata, guidati dal loro priore Ferrucci, uomo di carattere turbolento che spesso era in lite a causa dei proventi e dei possedimenti del suo convento, già da qualche anno, cercando di sottrarre una parte del territorio agricolo alla mia tenuta di San Claudio, tentava di rivendicare pezzi di terra al proprio convento,.

La ragione addotta era che in un antico documento una piccola parte della loro proprietà confinante con la nostra di San Claudio, lambiva il corso del Chienti. Questo fatto, secondo lui significava che per quel piccolo tratto che lambiva il fiume era di loro pertinenza, si tracciasse una linea retta nella parte superiore del territorio, che apparteneva alla mensa, per la proprietà del convento. Avevano convinto ad aderire alla lite alcuni altri proprietari del luogo come loro soci, con la speranza di poter ampliare i loro possedimenti. Sarebbe come dire che l’antico assetto del territorio, indiscusso per molti secoli, potesse essere sovvertito a loro piacimento e il diritto di proprietà riguardasse il variare dell’alveo del fiume, cominciando dall’epoca di Noè e dal diluvio.

I frati affidarono la causa al vescovo di Ancona, che era il cardinale Prospero Lambertini e io fui consenziente e soddisfatto poiché conoscevo il cardinale come persona affidabile per dottrina e per l’animo equo. Ma la causa nelle sue mani non poté fare alcun passo avanti perché il cardinale fu trasferito come arcivescovo a Bologna, poco dopo. Ad Ancona gli fu successore il cardinale Bartolomeo Massei, il quale affidò la causa al suo vicario generale. Questi venne a San Claudio e compì l’ispezione del territorio, ma fu raggirato dai frati e dai loro soci perché aveva considerato il terreno prosciugato dall’acqua del fiume come se avesse cambiato il suo corso e come se l’arcivescovo fosse usurpatore. Quindi aveva pensato che quel pezzo di terra poteva essere divisa a piacere, quando invece rimase sempre coltivata come proprietà della mensa arcivescovile. Alla fine quindi questo vicario pronunciò una sentenza contro la mensa arcivescovile. Neppure il primicerio Calvucci, mio uditore, che io avevo inviato ad Ancona affinché seguisse la causa, riuscì a far modificare la sentenza. Contro di essa allora ho inoltrato ricorso alla curia Romana.[7]

1737.9    L’arcivescovo spende molto denaro per i restauri della cattedrale – Nel predio                  Corcorosa viene aggiunto un nuovo magazzino.

Durante l’anno ho sollecitato il restauro del rivestimento marmoreo delle pareti esterne della cattedrale Fermana e per tali lavori furono impiegati prima i miei denari e poi anche il ricavato della tassa del cattedratico dovuto dalla città e dalla diocesi. Inoltre nella seconda colonia di Santa Croce, detta Corcorosa, ho fatto costruire un nuovo magazzino per l’utilità dei coloni. In quel predio, così come in altre proprietà, ho fatto aggiungere altri edifici ad uso sempre dei coloni e ho arricchito e dotato di alcune utilità altri terreni della mensa con molte piantagioni di olivi e di altri alberi.

ANNO 1738

1738.1    Abitudini licenziose – Gli istrioni vengono cacciati da Fermo – Rappresentazioni teatrali  con la partecipazione di donne fuori dei periodi consentiti – Il cardinale Lanfredini  parla dell’argomento con l’arcivescovo.

Stava crescendo la licenziosità dei costumi e la nostra gente del Piceno abusava della debolezza di Clemente XII, ormai molto vecchio e quasi cieco, e si dedicava non solo ai baccanali, ma, nei vari periodi dell’anno, frequentava anche le commedie profane nei pubblici teatri nei quali le danzatrici e le cantanti tentavano di introdurre nuovi e gravi esempi di scandalo. Queste licenziosità praticate altrove, in diverse parti, hanno contagiato anche la nostra diocesi e indussero dei Fermani ad abbandonare le loro serie abitudini. Nella domenica di settuagesima mi sono tenacemente impegnato affinché gli istrioni, che erano giunti con le donne anche a Fermo, se ne partissero e a tale fine ho offerto loro anche un congruo contributo per andarsene. Purtroppo però ad Ancona nel periodo estivo le cantanti e le ballerine organizzarono nel locale teatro molti spettacoli. La città di Ancona offre molte opportunità in quanto città costiera, e il teatro aveva attirato molte persone per i nuovi spettacoli profani.

Il cardinale Giacomo Lanfredini, qualche anno fa, era stato nominato vescovo di Ancona e di Cingoli da Clemente XII. Parsimonioso e di vita austera, famoso per dottrina e per zelo, scrisse per le sue diocesi una veemente lettera pastorale contro questi spettacoli scandalosi, la diede alle stampe e la mandò a me e agli altri vescovi confinanti. Inviò anche a Clemente XII una supplica, chiedendo che per l’avvenire non si permettessero simili spettacoli; volle che la firmassimo anch’io e gli altri vescovi.

Approfittando di tale occasione, ho proibito non solo che le donne partecipassero alle rappresentazioni teatrali, ma anche che nel periodo fuori del carnevale, neppure gli uomini partecipassero alla recita teatrale di spettacoli; ero convinto infatti che le conseguenze di tali spettacoli, organizzati fuori del tempo di carnevale, erano pericolose o addirittura deleterie. Le commedie, purché oneste, potevano essere tollerate solo nel periodo di carnevale, per evitare che la gente si dedicasse a svaghi peggiori. Fuori dal carnevale, però, non era opportuno consentirle in quanto capaci di provocare conseguenze impreviste e rischiose.

Nel periodo estivo poi i pericoli non erano inferiori, ma più gravi. Pertanto era necessario chiedere al papa che, nei suoi Stati, non si permettessero più simili abusi, neanche quando non vi fossero coinvolte le donne cantanti o ballerine. Sarebbe facile il diffondersi dei cattivi esempi dai nostri territori verso altri luoghi esterni, dove tali usi non ci sono.

1738.2    Secondo sinodo diocesano – Istituzione dell’insegnamento della sacra Scrittura nel   Seminario di Fermo  – Istituzione di prebenda teologale nella collegiata di Montefiore.

Volendo provvedere alla lotta contro il crescente comportamento licenzioso, il giorno della festa dell’Epifania avevo deciso di indire il secondo sinodo diocesano. La celebrazione era programmata  per la seconda domenica dopo Pasqua, che cade il 20 aprile per concludersi nel giro di tre giorni. Tale celebrazione veniva a cadere nel decimo anniversario del primo sinodo, svoltosi nel 1728. Dovendo combattere la corruzione, in questo sinodo si dovevano individuare i cattivi comportamenti e rifiutare i cambiamenti nuovi introdotti nelle cose sacre, cercando di difendere l’antica disciplina. Curai di richiamare i valori delle tradizioni religiose del nostro popolo. Nel restauro della cattedrale, ad esempio, ho voluto che tutto fosse riportato all’antico stile; la stessa cosa desideravo che accadesse per le Chiese vive, cioè per il popolo dei fedeli cristiani.

Tra le altre decisioni prese nel sinodo, abbiamo stabilito di istituire nel seminario arcivescovile un docente della sacra Scrittura, assegnando l’incarico di docente a Tommaso Francesco de Benedictis, religioso dell’ordine domenicano, affinché quei chierici ancor giovani fossero nutriti delle sacre Scritture e affincé la Parola di Dio rimanesse nel loro animo.  Inoltre, i canonici teologi nella nostra diocesi erano di molto aumentati di numero; nell’anno precedente infatti avevo istituito una nuova prebenda teologale tra i canonici a Montefiore. Nel sinodo fissai le norme per la retta spiegazione delle sacre Scritture, stabilendo anche che ci fosse, per l’espletamento del loro compito, un adeguato compenso per la docenza.

I decreti sinodali furono raccolti il 24 capitoli; nella prima e nella terza sessione, tenni un sermone al clero. Nel giro di pochi mesi, il testo è stato stampato per i tipi di Domenico Bolis di Fermo insieme con i sermoni e con le appendici contenenti i vari editti e le istruzioni pratiche.  In tal modo il 7 di agosto ho pubblicato l’editto di promulgazione nel quale veniva stabilito che tutte le norme sinodali sarebbero entrate in vigore il giorno primo settembre. Ben presto andarono esaurite tutte le copie stampate, perciò lo stesso tipografo fu costretto a fare la ristampa del testo.

1738.3    Viene fatto creare dall’arcivescovo un prezioso “razionale” ornato di gemme.                   Feci realizzare un “razionale”, che nell’uso liturgico simboleggia la presenza del popolo davanti agli occhi di Dio. Veniva usato come fermaglio nell’indossare il piviale. In realtà intendevo imitare la ritualità che era usata nell’antico Testamento, nel quale si dice che il sommo sacerdote indossava sul petto un razionale incastonato con dodici perle di diversa specie per indicare la presenza delle dodici tribù di Israele davanti al Signore.

Anch’io ho voluto far preparare un oggetto simile costruito in lamine d’argento dorato e arricchito con 65 gemme incastonate con oro fino e realizzato con arte raffinita. La forma dell’oggetto, per quanto possibile doveva riprodurre il modello dell’idea contenuta nell’antica legge. Il numero delle gemme doveva corrispondere al numero delle città, dei castelli che formano il territorio dell’arcidiocesi fermana. Nella parte anteriore del razionale si vedevano, tra le gemme, i simboli della dottrina e della verità, nella parte posteriore erano incisi i nomi di tutte le località della diocesi. Ho usato questo nuovo oggetto sacro per la prima volta nella festa di Pasqua, per la seconda volta in occasione del Sinodo con l’idea di mostrare, con le gemme, non soltanto la memoria scolpita del popolo della diocesi davanti a Dio, ma che apparisse scolpito nel cuore non come realtà fatta da mano d’uomo, ma dalla forza dell’amore che mai viene meno, che tutto soffre, tutto spera, tutto sopporta. Il costo dell’opera è stato di circa 150 scudi d’oro.

1738.4   Inizio della terza visita pastorale – La nuova chiesa collegiata per i canonici di                 Civitanova – Consacrazione di monache a Sant’Elpidio a Mare, a Civitanova e a                  Monte Santo.

Terminato il sinodo, ho avviato la terza visita pastorale. Mi sono recato il 4 maggio a  Sant’Elpidio a Mare, poi a Civitanova, dove mi sono rallegrato nel vedere che la nuova chiesa collegiata stava sorgendo grazie all’impegno dell’arciprete. Nel corso di questa visita, ho consacrato alcune monache: a Sant’Elpidio a Mare le monache di San Benedetto, a Civitanova quelle di Santa Chiara, a Monte Santo le monache di Santa Caterina, dell’ordine di san Benedetto. Successivamente sono andato a Montecosaro; infine a Monte Santo insieme con Marco Francolini e a Lucio Guerrieri. Alla fine di giugno sono tornato a Fermo.

1738.5   I cappellani di Sant’Elpidio Morico non possono essere investiti di tale nomina                 dal capitolo romano di Santa Maria in  via Lata, ma soltanto dall’arcivescovo.

Il capitolo dell’insigne collegio dei canonici a di Santa Maria in via Lata, a Roma,  ha tentato di riaprire di fronte alla congregazione dei cardinali preposti all’interpretazione dei canoni del Concilio Tridentino, la questione della nomina alle cappellanie esistenti nella chiesa di Sant’Elpidio Morico. Il canonico Gauci, del capitolo dei canonici di Santa Maria in via Lata di Roma, aveva ottenuto l’indulto di costituire un capitolo di preti nella nuova chiesa di Sant’Elpidio, presso Monsampietro Morico, paese della diocesi di Fermo. Questo capitolo reggeva come suo erede, questa nuova chiesa. Tale chiesa era stata fatta costruire da lui nel suo paese natale. Aveva anche ottenuto di nominare il rettore della chiesa e del capitolo stesso.

I canonici di Santa Maria in via Lata affermavano che tanto i titolari delle cappellanie quanto il rettore dovevano essere nominati dal loro collegio canonicale, in quanto si trattava di benefici laicali. Questo sulla base di una ricerca fatta dall’avvocato Domenico Ursaia (tomo I, disc. 15). Al contrario ho presentato un parere del celebre avvocato Francesco Maria Pittone (Pittonio F.M., Disceptationum ecclesiasticarum) il quale aveva scoperto una decisione presa precedentemente da quel capitolo romano secondo cui quel tipo di cappellanie doveva essere considerato ecclesiastico e che non doveva essere presa in considerazione la condizione posta dal fondatore, secondo la quale il diritto di investitura era dato al predetto capitolo di Santa Maria in via Lata, per la ragione che il decreto del Concilio di Trento al cap. XIII, sess. XIV “Sulla riforma” vietava ciò esplicitamente.

Il Pitonio nel suo parere cita proprio questo canone, inserendolo nel primo tomo “Sulle controversie” dei patroni, allegato XXXI. Da parte mia avanzavo l’osservazione che il capitolo di Santa Maria in via Lata, non potendo decidere l’investitura a norma di diritto, aveva tentato un’altra strada: quella di sostenere che il potere di nomina e di investitura dei cappellani derivava da un privilegio ottenuto da Clemente XI. Senonché avendo l’arcivescovo del tempo avanzato un dubbio presso la congregazione del Concilio, il 30 di settembre 1702 da quella congregazione giunse la risposta che decideva “negative”. Ciò significa che i cappellani in questione dovevano essere investiti dall’arcivescovo di Fermo. Ne traevo quindi la conclusione che, in futuro, per fare le nomine a quelle cappellanie non era più necessario consultare il capitolo di Santa Maria in via Lata. Questo capitolo si acquietò alle dimostrazioni fatte.

1738.6   Giurisdizione farfense da trasferirsi ai vescovi diocesani – Questo parere espresso    dopo la morte del cardinale Barberini, fu subito annullato – Il cardinale Domenico   Passionei è nominato abate commendatario di Farfa.

Nel mese di agosto morì il cardinale Francesco Barberini, decano del sacro collegio e abate commendatario di Farfa.[8] Spesso avevo avuto con lui accese discussioni sul tema della giurisdizione dell’abbazia sui luoghi farfensi esistenti entro i confini della diocesi fermana. In precedenza si era vivacemente discusso su tale tema tra il cardinale Barberini e il cardinale Cenci arcivescovo di Fermo e nonostante che i pronunciamenti dei supremi tribunali della curia Romana avessero riconosciuto i diritti della Chiesa Fermana contro le pretese farfensi, il cardinale Barberini continuava a mantenere tenacemente gli antichi diritti di Farfa. Ma tali pretese si rivelavano sempre più pesanti per tutti i vescovi delle diocesi interessate, in quanto la questione della giurisdizione, affidata al giudizio dei dicasteri romani, non portava affatto a negare questa giurisdizione, ma le conseguenze per cui erano scaturiti molti danni e difficoltà per l’esercizio pastorale dei vescovi diocesani.[9]

Per questo, dopo aver consultato gli altri vescovi e dopo aver chiesto al cardinale Lanfredini di interporre i suoi buoni uffici, pregai Clemente XII di porre finalmente la scure alla radice del male e di sciogliere il nodo della giurisdizione farfense, prima che l’abbazia fosse data di nuovo in commenda ad un altro importante cardinale. Si togliesse l’intrusione farfense nella vita pastorale di varie diocesi. Era ormai infatti urgente e importante che la giurisdizione sui luoghi farfensi disseminati nel territorio delle diocesi, fosse trasferita ai vescovi residenziali. L’abate, del resto, godeva di una sua giurisdizione episcopale territoriale nella propria diocesi sita in Sabina di cui poteva essere soddisfatto. Qualora la giurisdizione episcopale a lui restasse affidata anche su alcuni altri territori di diverse diocesi, provocava gravi e frequenti abusi. Sisto V, di immortale memoria, preoccupato della tranquillità dei domini della Chiesa, aveva tolto agli abati di Farfa ogni giurisdizione nell’ambito civile. La stessa cosa si sarebbe dovuta fare sul piano della giurisdizione spirituale esercitata all’interno di altre diocesi per garantire la tranquillità dei vescovi nei rapporti con il clero, specialmente per il bene spirituale delle anime.[10] Ma nell’occasione che gli abati, poi, non avrebbero percepito più alcun guadagno o beneficio per la perdita dell’ampia giurisdizione, tutto questo causava l’insorgere di numerose controversie, di gravi liti che provocavano scandali. Per salvare la disciplina pastorale, i monaci rettori farfensi di benefici o parroci di chiese, costretti a vivere fuori dal loro monastero, sarebbero dovuti essere soggetti ai vescovi residenziali e non all’abate commendatario lontano. Tanto più ciò era necessario nel caso di sacerdoti non monaci, ma preti secolari che vivevano ciascuno nella propria casa. Né del resto si può più giustificare quell’ampio privilegio di esenzione, concesso da Bonifacio VIII, che rendeva gli ecclesiastici soggetti non ai vescovi diocesani ma all’abate, solo per il fatto che essi venivano considerati successori di quei monaci che nel lontano passato erano esenti dalla giurisdizione dei vescovi e erano residenti nei propri cenobi. Invece nella presente mutata situazione, gli ecclesiastici che risiedevano fuori dai chiostri, e gli stessi monaci sarebbero dovuti essere posti sotto la sorveglianza dei vescovi residenziali.

Anche altri vescovi, soprattutto Pietro Bonaventura Savini, vescovo di Montalto, suffraganeo della nostra provincia Fermana, pregarono, con molte richieste, il papa di affrontare il problema delle esenzioni da Farfa. Clemente XII riconobbe la giustezza delle sue considerazioni e affidò l’incarico di esaminare il problema al cardinale Gentili, pro-datario ed ad altri prelati per giungere ad un accordo. In realtà il loro progetto era quello di restituire ai vescovi residenziali ogni giurisdizione, ma volevano far salvo il diritto dell’abate di conferire i benefici ecclesiastici. Il cardinale Guadagni, nipote, per parte della sorella, di Clemente XII, a cui era stata data in commenda l’abbazia di Farfa, si opponeva al progetto. Egli, in seguito, rinunciò all’abbazia Farfense ed ebbe dallo zio la commenda del monastero di Grottaferrata che era più vicino a Roma, aveva una più piccola giurisdizione, ma possedeva più pingui proventi. L’abbazia di Farfa venne allora concessa in commenda al cardinale Domenico Passionei, il quale si oppose decisamente al progetto della revoca della giurisdizione farfense e ottenne dal Papa che l’abbazia gli fosse concessa con le antiche modalità. Pertanto tutto quello che era stato raggiunto a Roma grazie ai prudenti progetti abbozzati, fu in pratica cancellato.  Quei decreti erano mostrati all’arcivescovo di Fermo.

Sono rimasto deluso soprattutto per il fatto che le collazioni dei benefici Farfensi fossero ancora riservati all’abate. Feci osservare in tale occasione che l’arte di governare gli uomini si fonda sul modo giusto di contemperare le distribuzioni delle pene e dei premi. Al presente, se ai vescovi si concedeva solo il compito della sorveglianza sui benefici di pertinenza farfense, mentre all’abate era riservata la facoltà in esclusiva di concedere i benefici, si doveva concludere che in mano ai vescovi rimaneva solo la comminazione delle pene, mentre all’abate era affidata la concessione dei premi. In tal caso non sarebbe possibile l’esercizio di un buon governo pastorale per la ragione che gli ecclesiastici addetti al lavoro pastorale dovevano aspettarsi dal Vescovo solo rimproveri e castighi, mentre dall’abate ricevevano le elargizioni e i premi.[11] E’ peraltro sempre vero che le situazioni difficili e complicate non possono essere risolte immediatamente e in fretta, ma che è necessario aspettare tempi più propizi.

Così fu messo in atto un unteriore tentativo, all’inizio del pontificato di Benedetto XIV, su  proposta del vescovo di Montalto. Allorché egli si recò a Roma per la visita alla Sede Apostolica, venne proposto un nuovo modo. Il progetto prevedeva che l’abate di Farfa rinunciasse alla giurisdizione ecclesiastica sui luoghi farfensi esistenti nell’ambito dei territori delle varie diocesi e che rinunciasse anche alla collazione dei relativi benefici, ricevendo in cambio il versamento di un annuo canone pagato dai vescovi diocesani (offerte in cera). Approvai subito tale progetto ed invitai il vescovo stesso ad elaborare un dettagliato schema di accordo. Il Papa da parte sua ascoltò benevolmente il vescovo di Montalto e anche il cardinale Passionei sembrava disponibile a discutere la proposta. Purtroppo però il tentativo andò in fumo; infatti Passionei a un certo punto dichiarò che la situazione doveva restare immutata. Benedetto XIV da parte sua, in quel momento era tutto preso dai problemi più urgenti e gravi, perciò la sua attenzione fu rivolta altrove.[12]

1738.7    Canonizzazione del beato Giovanni Francesco Regis – L’evento viene preparato con la  celebrazione di un solenne triduo.

Clemente XII aveva inserito nel canone dei santi, il beato Giovanni Francesco Regis della Compagnia di Gesù. Egli era stato molto impegnato in Francia nel ministero della cura delle anime. I sacerdoti Gesuiti di Fermo decisero di celebrare nella chiesa del Collegio Fermano un solenne triduo. Nel primo e nel secondo giorno la predicazione fu tenuta da sacerdoti Gesuiti. Il terzo giorno, che cadeva il 24 agosto, fu solennizzato con il pontificale celebrato in duomo alla presenza del governatore e dei magistrati della città. Il panegirico in onore del nuovo beato fu tenuto da me.

1738.8    Morte di mons. Francesco Andrea Correa, vescovo di Ripatransone – Nomina del nuovo vescovo mons. Giacomo Costa.

Nel mese di agosto morì il cardinale Barberini e nello stesso mese morì anche il vescovo di Ripatransone, mons. Francesco Andrea Correa, suffraganeo di Fermo. Fin da quando era giunto nella sua sede, gli si erano gonfiate le gambe. In seguito sempre più frequentemente e gravemente aveva cominciato a soffrire di podagra. Era preso di mira dalle aspre critiche alle quali i Ripani sono abituati; spesso infatti si agitavano contro di lui, lanciandogli gravi offese. Abbandonò Ripatransone alla fine di luglio, diretto a Giulianova, centro appartenente al Regno di Napoli, presso il monastero della congregazione dei Silvestrini, dove risiedevano due suoi fratelli monaci. A Giulianova, a causa dell’insalubrità del luogo, la malattia si aggravò e, colto dalla febbre, morì il 26 agosto. La sede di Ripatransone a lungo rimase vacante. Fu poi nominato vescovo Clemente Giacomo Costa di Bassano che abitava nel regno di Polonia, dove lo aveva invitato Giacomo III re di Gran Bretagna. In Polonia egli si prese cura degli interessi del re inglese.

1738.9   Prosecuzione della terza visita pastorale.

Il 21 ottobre ho ripreso la visita pastorale, insieme con i canonici della metropolitana, Lucio Guerrieri e Alessandro Raccamadoro che ho scelto come con-visitatori. Sono andato prima a Montegiorgio,  a Francavilla, a Monteverde e infine a Falerone. Nel frattempo il canonico Guerrieri visitava Magliano, Monte Vidon Corrado da dove, terminata la visita, l’11 novembre siamo rientrati tutti a Fermo.

1738.10    L’arcivescovo acquista parecchia stoffa damascata per ornare la cappella del palazzo e altre chiese – La chiesa di santo Stefano nei possessi della mensa nei pressi di       Montefiore viene restaurata e fornita delle sacre suppellettili.

Quest’anno ho comprato tele purpuree di tessuto damasco, oltre 230, per vestire le pareti della cappella nell’arcivescovado e per ornare le chiese della mensa arcivescovile ed altre chiese, in occasioni delle particolari solennità, perché non volevo più prenderle in affitto, quando si celebravano le feste nelle dette chiese, rivolgendomi a persone che le possedevano. Ora sono queste chiese fornite per mezzo della dotazione che ne abbiamo fatta. Vicino al paese di Montefiore era stata restaurata la chiesa esistente nei beni della nostra mensa, un’antica chiesa rurale di santo Stefano, a cui avevo donato una campana di bronzo, poi negli anni successivi anche il calice, la patena ed altre sacri arredi di cui essa abbisognava.

1738.11    Nuove costruzioni a Grottazzolian e altrove. Piantagioni a Francavilla e                     a Grottammare.

Nei possedimenti della mensa episcopale, presso Grottazzolina, ho fatto costruire in mattoni le strutture necessarie per pigiare l’uva e per cuocere il mosto in modo da non doverle prendere in prestito, pagandone l’affitto. In altri luoghi sono stati eseguiti importanti lavori per la necessità dei restauri. Ho fatto inoltre eseguire piantagioni di alberi sia per contenere l’impeto delle acque dei fiumi, sia per aumentare la produzione della frutta. A Francavilla furono piantati molti alberi di olivo; negli orti di Grottammare furono piantati alberi di aranci.

1738.12    Viene rinnovata l’antica chiesa di Sant’Agostino a Fermo

Alla fine dell’anno nella chiesa di Sant’Agostino di Fermo, i frati dello stesso ordine, nel 1730 avevano iniziato ad ornare e a trasformare l’edificio secondo criteri architettonici moderni. Nel tempio i lavori sono stati terminati, ma, quantunque esso presenti una forma più elegante, non sono rimasto soddisfatto perché la forma dell’antica abside gotica che si presentava possente è stata distrutta e sostituita con una struttura più esile e debole destinata a rovinarsi in breve tempo. Inutilmente  ho avvertito i frati che, rigettando ciò che era antico e solido, scelsero nuove forme di cattivo gusto.

ANNO 1739

1739.1    Il culto di San Girio a Monte Santo – Il governatore mons. Cosimo Imperiali rende visita     all’arcivescovo.

Al principio dell’anno Nicola Calvucci canonico primicerio della metropolitana, pro- vicario e mio uditore ebbe l’incarico di fare un’inchiesta a Monte Santo sul culto da tempo immemorabile tributato a San Girio confessore; egli lo espletò in modo impeccabile.

Il 22 di gennaio venne a farmi visita mons. Cosimo Imperiali, governatore di Macerata e della Marca, per ragione del suo ufficio e per porgermi il suo saluto. Prelato egregio e pio, già da tempo a me noto allorché era presso l’avvocato Lucidi aiutante del cardinale Carlo Marini suo zio, allora uditore della camera Apostolica, quando io e lui eravamo giovani praticanti nel suo studio legale per le cause da trattare.

1739.2   Perché viene rifiutato il predicatore nominato dal capitolo di Santa Vittoria.                 I canonici di Santa Vittoria, dai quali in quell’anno doveva essere nominato il predicatore della quaresima per diritto di turnazione, avevano eletto come predicatore fra’ Pio da Ascoli dei Minori Riformati; la comunità però dimenticò di comunicarmelo per tempo, cioè entro la festa dei santi Innocenti. Per questo decisi di nominare un altro predicatore per quel pulpito.

Il cardinale Passionei tuttavia (e questa fu la prima volta che ebbi con lui una controversia per la giurisdizione farfense) sosteneva che o il predicatore eletto dal capitolo santavittoriese doveva essere confermato o la scelta del predicatore doveva essere lasciata a lui, nella sua qualità di abate di Farfa. Pochi giorni prima delle Ceneri, giunse a Santa Vittoria fra’ Pio per iniziare la predicazione, senza presentarsi a me per avere la licenza e senza avermi chiesto la benedizione. A seguito della mia proibizione, egli ripartì e giunse in paese fra’ Ricci, Minore Conventuale, mandato da me e iniziò a predicare la quaresima nella chiesa del suo ordine perché i canonici si rifiutarono di mettergli a disposizione la chiesa collegiata.

Il cardinale Passionei mi chiese una spiegazione sulla vicenda. Gli ho risposo citandogli la costituzione di Gregorio XV che inizia con la parola “Inscrutabili” e gli ho ricordato le disposizioni contenute nel Sinodo diocesano nonché le altre disposizioni da me adottate nel 1731 per altri casi consimili. Dopo aver ricevuto le mie precisazioni, il cardinale si acquietò.

1739.3    L’arcivescovo dà alle stampe il volume delle Omelie Fermane e lo dedica al cardinale  Gentili.

Frattanto ho curato presso il tipografo Gabrieli di Camerino, la pubblicazione delle omelie tenute a Fermo; lo stesso tipografo aveva pubblicato nel 1734 le omelie Nocerine. Alla correzione del testo provvide il marchese Antonio Maria Sparapani di Camerino, uomo egregio per pietà, per cultura e per diligenza. Ho scelto cinquanta tra tutte le omelie pronunciate a Fermo tra gli anni 1726 e il 1737 in occasione di celebrazioni pontificali, lasciando le altre da pubblicare in un secondo volume. Ho dedicato il volume al cardinale Gentili, prefetto della congregazione dei cardinali interpreti dei decreti del concilio Tridentino, pro-datario di Clemente XII e cugino del marchese Sparapani.

All’inizio di aprile, ho ricevuto da Camerino 360 copie del volume. Molti erano stati rilegati in forma più elegante e molto più costosa; di più l’editore ne aveva stampate altre copie per suo uso. Subito ho distribuito il volume al clero della nostra metropolia provinciale, ai parroci della città e ad altre persone; lo inviai anche ai vescovi e presuli viciniori. Ne riservai molte copie per il cardinale Gentili e per molte altre personalità e per distribuirle agli amici quando mi sarei recato a Roma. Già pensavo di andarci.

1739.4    Concessione del riconoscimento canonico del collegio delle suore Oblate                   di Montegiorgio.

Nella visita pastorale compiuta a Montegiorgio nello scorso autunno avevo fatto visita al collegio delle suore oblate che seguono la regola di Sant’Agostino, istituito in maniera regolare, fornito di cappella, di camere, di orto e di tutte le altre necessarie strutture. Pertanto il 12 aprile 1739 ho concesso l’editto della canonica erezione, con cui ho costituito un monastero per la congregazione delle oblate Serve di Dio, destinate a promuovere il culto di santa Vergine Maria della Consolazione, secondo la regola del terz’ordine di Sant’Agostino. La casa e tutte le proprietà derivavano dal lascito disposto a ciò da Girolama e Maria Lattanzi Paciangeli; altri beni acquistati li ho assegnati come dote con la disposizione che le suore che ivi vivono non siano obbligate da alcun voto. Tuttavia quelle che per un intero decennio erano vissute in comunità, avrebbero potuto ormai emettere il voto di stabilità e perseveranza nel monastero.

1739.5   Ampliamento dell’ospedale di Santa Maria della Carità di Fermo – Viene completata la   nuova fabbrica del monastero di santa Marta. – L’immagine di Santa Maria nei pressi di <Monte> San Giusto manifesta dei segni straordinari. – Ivi vengono iniziati lavori di sistemazione.

In quel periodo si stavano svolgendo i lavori di ampliamento dell’ospedale di Santa Maria della Carità a Fermo. Nello scavo delle fondazioni furono trovate delle antiche lastre di antico marmo verde orientale ed altri notevoli reperti che, per fama, si dice che indicherebbero che ivi un tempo ci fosse stato il palazzo di Pompeo Magno. Diedi subito, per prudenza, l’ordine di conservare con cura quei reperti di marmo. Tuttavia, nonostante il mio ordine, quei reperti furono rubati e venduti a Macerata a Guarniero Marefoschi che li usò per adornare la chiesa della Madonna della Misericordia.

Le monache di Santa Marta dell’ordine di san Domenico, completarono l’ampliamento del proprio monastero con l’aggiunta di altri locali e al completamento apposi la clausura.

Nei pressi del paese di <Monte> San Giusto una immagine della beata Vergine aveva manifestato dei prodigi e segni straordinari. Iniziarono i lavori per costruirvi una cappella per l’opportunità del luogo.

1739.6    Prosecuzione della terza visita pastorale – Pietro Paolo Leonardi nipote                 dell’arcivescovo consegue i gradi accademici in lettere.

Terminate le festività pasquali e amministrato solennemente il sacramento della Confermazione  nella domenica in albis, il 23 aprile sono partito per Monte Urano per compiere ivi la visita pastorale. Qui mi sono impegnato molto perché fosse presa l’iniziativa di compiere i necessari restauri nella chiesa della parrocchia prepositurale ormai fatiscente per la sua antichità. Ho visitato poi <Monte> San Giusto, Montolmo e Morrovalle da dove ho raggiunto San Claudio. Contemporaneamente ho dato a Marco Antonio Nardi, pievano di Sant’Angelo in Montespino, l’incarico di compiere la visita in tutte le parrocchie della nostra diocesi site nel territorio ascolano. Egli svolse il suo compito in maniera egregia entro il mese di settembre.

Intanto Pietro Paolo Leonardi, mio nipote per parte di una mia sorella, che era stato presso di me da quando aveva l’età di dodici anni, terminato il corso di studi, il 27 maggio ha conseguito presso il Collegio fermano il dottorato in utroque iure (=canonico e civile) e in sacra teologia, ha compiuto in seguito gli studi letterari. Mi raggiunse a San Claudio da dove insieme ci mettemmo in viaggio per Roma.

1739.7    Motivi del viaggio a Roma dell’arcivescovo. – Causa di appello relativa ai beni della  mensa a San Claudio. – Il procedimento non si celebra presso la Rota di Macerata, ma   presso l’uditore della camera Apostolica.

Si approssimava il tempo di dovere compiere la visita alla Sede Apostolica. Il motivo più importante per cui mi ero recato a Roma era quello di seguire la controversia in corso per definire la proprietà delle terre di San Claudio. Nel 1737 i Frati di Santa Maria della Fonte, insieme con diversi loro soci, dopo aver estorto dal vicario generale di Ancona una sentenza favorevole a loro, contro la quale avevo interposto appello a Roma, sostenevano che la causa di appello dovesse svolgersi presso la Rota maceratese. Ciò rappresentava per noi non soltanto un disonore, ma anche una situazione piena di rischi a causa del favore di cui essi godevano presso i giudici di Macerata e anche perché la loro richiesta appariva contro ogni principio del diritto.

Sta di fatto che, quantunque le sentenze appellate emesse nelle cause civili tra contendenti Piceni venissero di regola trattate dall’arcivescovo o dai vescovi, era lecito anche portarle davanti alla Rota maceratese. Ciò non accadeva però per quelle controversie che riguardavano le persone, i diritti e i beni dei vescovi. Tali controversie avevano come giudice naturale l’arcivescovo metropolita nel caso che si trattasse di vescovi suffraganei. Invece gli arcivescovi e i vescovi non suffraganei (cioè quelli immediatamente soggetti alla Santa Sede) avevano come giudice proprio solo il Romano Pontefice. La giurisdizione della Rota maceratese inoltre veniva esercitata solo su quelle località che immediatamente erano sotto l’autorità della provincia, eccettuando quei luoghi che, pur essendo nell’ambito geografico della provincia, erano soggette a prìncipi o baroni, come nel caso del territorio di San Claudio che tutti sanno appartenere all’arcivescovo, come principe di Fermo. Nonostante ciò, presso il tribunale detto della Segnatura di giustizia, a Roma,  il 19 giugno 1738 la nostra causa era stata rimandata alla Rota di Macerata. Ma, poiché il 29 gennaio si ricominciò a discutere di essa presso la Segnatura, fu emesso un rescritto che venisse riproposta proprio a quel tribunale. Per questo pensai che in quel delicato momento in cui doveva essere decisa la vertenza, era necessario che fossi presente.

Arrivato a Roma, mi son dato da fare per spiegare ai giudici il problema in modo che potessero deliberare rettamente. Finalmente il 13 luglio la causa, che era in Segnatura per la terza volta, all’unanimità veniva assegnata dai giudici alla camera Apostolica, come io avevo richiesto. L’uditore di Camera, infatti, in nome del Romano Pontefice era competente per tutte quelle cause civili dei vescovi e delle altre personalità esenti che non avevano il giudice competente nella provincia. In tal maniera la nostra causa venne assegnata alla curia dell’uditore Apostolico.

1739.8    Il paese di Santa Vittoria appartiene alla diocesi di Fermo – L’abate Farfense non gode  di giurisdizione quasi episcopale sui canonici della collegiata di Santa Vittoria.

A Roma pendeva un’altra controversia, quella con il cardinale Passionei, abate di Farfa. Il chierico Gaetano Lamponi, di cui abbiamo parlato sopra all’anno 1737, aveva ottenuto di essere nominato canonico nella chiesa collegiata di Santa Vittoria in territorio della diocesi di Fermo,  soggetta all’abate di Farfa. Questo chierico desiderava di essere promosso agli ordini sacri e al presbiterato nei tre prossimi giorni festivi e fuori dei tempi previsti dal rituale liturgico. Perciò egli chiese al papa (o meglio al cardinale Passionei, che era segretario ai Brevi pontifici) la necessaria dispensa. Nel testo del breve pontificio di risposta si leggevano tra le altre, le seguenti parole: … il paese di Santa Vittoria è un luogo nullius dioecesis sito nella provincia Romana. Contro l’espressione chiaramente assurda e falsa, io avanzai la richiesta che tale espressione fosse modificata poiché questo paese non era sito in territorio Farfense né tanto meno era nella provincia Romana, dove effettivamente Farfa risultava essere nullius dioecesis, ma si trovava in un territorio notoriamente soggetto alla diocesi di Fermo. Facevo poi osservare al cardinale Passionei che tale errore non faceva onore a chi lo aveva commesso, che era proprio il prefetto addetto a redigere i Brevi pontifici. Dall’errore nacque poi il sospetto che il cardinale Passionei, che era anche abate di Farfa, volesse ampliare la propria giurisdizione e sottrarre alla diocesi di Fermo un territorio.

Il cardinale riconobbe che il Breve andava corretto. Senonché il successivo documento da lui emendato conteneva ancora inesattezze. Il nuovo testo infatti, anche se riconosceva che il paese di Santa Vittoria era soggetto alla diocesi di Fermo, affermava che l’abate di Farfa esercitava sulla collegiata di Santa Vittoria una giurisdizione “quasi episcopale” per cui veniva accolta la richiesta del chierico Lamponi cioè la dispensa per ricevere gli ordini sacri da qualsiasi vescovo da lui scelto.

Tornato a Fermo ho giudicato che non poteva essere dato corso al secondo Breve e ho comunicato al Passionei che sarebbe stata necessaria una nuova riformulazione del testo: bisognava cioè specificare esplicitamente che l’abate non ha una giurisdizione quasi episcopale su Santa Vittoria perché ciò che competeva a un prelato religioso o al rettore non poteva essere esercitato escludendo il vescovo diocesano; ciò voleva dire che per ricevere gli ordini, non era consentito rivolgersi a nessun altro vescovo, se non quello di Fermo. Per quanto poi concerneva il chierico Lamponi, mi risultava che egli fosse poco preparato nelle sue conoscenze letterarie e quindi decisi che egli aveva bisogno di un congruo spazio di tempo per potersi presentare all’esame per essere ammesso a ricevere gli ordini sacri. Ordinai quindi che il Lamponi non poteva presentarsi se non nei tempi fissati per l’esame; perciò gli raccomandavo che nel frattempo si dedicasse agli studi letterari, e in tal modo ogni difficoltà sarebbe stata superata.

1739.9    Gli amministratori dei luoghi pii, anche se questi sono dichiarati in luogo Lateranense, hanno l’obbligo di presentare i rendiconti amministrativi all’arcivescovo.[13]

Oltre ai due predetti motivi per andare a Roma, ce n’era un terzo riguardante gli amministratori di due ospedali, esistenti nella nostra città di Fermo: il primo di Santa Maria dell’Umiltà per gli uomini e il secondo di San Giovanni per le donne. Essi, infatti, si rifiutavano di presentarmi i resoconto finanziario ed economico dei due enti, adducendo il motivo che erano costruiti “in suolo Lateranense”, né volevano ubbidire ai rescritti della sacra congregazione del Concilio da me richiesti in occasione della visita alla Sede Apostolica. Quello che mi sembrava più grave era che gli amministratori dell’ospedale di San Giovanni affermavano che esso non era stato fondato per accogliere le donne povere e malate provenienti dalla città e diocesi di Fermo, ma soltanto quelle pellegrine. Tutto ciò mi sembrava una grave offesa alla carità cristiana e alla pietà umana: le rendite erano infatti abbondanti e si facevano spese persino superflue. Tanto più che anche il monitorio inviato dall’uditore della camera Apostolica garantiva a queste malate il loro buon diritto; al contrario, veniva ora disprezzato da costoro.

Per il rifiuto di presentare i conti, mi erono lamentato presso la congregazione del Concilio, ma non avevo creduto opportuno presentare causa  presso l’uditore di Camera, infatti uno dei giudici non aveva avuto timore di scrivere una sentenza contraria ai decreti del concilio di Trento nei quali si faceva obbligo agli amministratori dei luoghi pii di presentare i rendiconti ai vescovi diocesani. Mi fu consigliato di rimettere la causa alla congregazione del Concilio presso l’uditore del papa, ed è quello che feci.

Dopo il mio ritorno a Fermo, nonostante che mi fossi preoccupato di ottenere dal capitolo del Laterano una lettera destinata al loro vicario residente a Fermo, nella quale si sollecitavano gli amministratori dei due enti a presentarmi i rendiconti per non costringermi a intervenire in forza dell’autorità apostolica, tuttavia essi tardavano e rimandavano l’ubbidienza al comando, anzi  nel contempo si rivolgevano alla congregazione del Concilio chiedendo di essere ascoltati. Questa congregazione, dopo un colloquio con loro, ha deciso che avrebbero dovuto presentare anche i rendiconti passati. Per quanto poi riguardasse il futuro, essi non sarebbero tenuti a presentare il rendiconto delle spese degli ospedali, ma erano obbligati a rendere al vescovo il rendiconto dell’amministrazione dei luoghi pii. Gli amministratori allora si erano acquietati e la conclusione della vicenda ha rappresentato la salvezza per le persone povere e malate; infatti non vennero più avanzate altre controversie e in tal modo nella nostra diocesi si fece fronte ad un dovere di carità verso i poveri. Negli anni successivi essi presentarono il resoconto dovuto.

1739.10    Vengono offerti dalla diocesi di Fermo aiuti a Carlo VI per i soldati feriti o malati    nella guerra contro i Turchi – L’armistizio con i Turchi – Dopo di istrutte la rocca e  le difese, Belgrado viene ceduta ai Turchi.

Carlo VI, imperatore eletto, era in guerra contro i Turchi, in Ungheria. Clemente XII aveva chiesto che fossero offerti aiuti a favore dei soldati feriti dai nemici, in combattimento o comunque malati. Aveva scritto ai vescovi dei domìni pontifici affinché organizzassero la raccolta delle somme di denaro per questa pia causa e le consegnassero a Roma. Dopo aver eseguito la richiesta nella maniera quanto più diligente possibile; mi ero recato a Roma per consegnare il denaro raccolto al quale avevo aggiunto una mia personale offerta. Furono raccolti 750 scudi di argento che  consegnai al cardinale Firrao, segretario di Stato.

Restai però molto addolorato, allorché venni a conoscere che dopo poco, per la mediazione offerta dalla Francia, tra Carlo VI e i Turchi fu stipulato un armistizio per la durata di 27 anni e ciò a condizioni inique. Infatti fu ceduta ai Turchi la munitissima e cristiana città di Belgrado, che era stata conquistata nel lontano anno 1717. Essa passò ai Turchi dopo che era stata distrutta la rocca e scardinate le sue difese. Furono anche cedute ai Turchi le regioni della Misia superiore e della Dacia austriaca. Tutto ciò accadde o per il tradimento dei difensori o per una precipitosa decisione dettata dalla disperazione dell’impresa.

1739.11    Visita alla Sede Apostolica  – Mons Giacomo Costa viene consacrato vescovo di                     Ripatransone.

Nel mio viaggio a Roma, ho compiuto la visita alla Sede Apostolica. Ho lasciato per Clemente XII la mia relazione sulla situazione della mia Chiesa; però non la consegnai al papa che era ormai diventato quasi cieco, ma l’ho fatta avere alla congregazione degli interpreti del Concilio Tridentino, insieme con gli atti del mio secondo sinodo.

Nel frattempo, era giunto a Roma dalla Polonia, dove risiedeva, l’eletto Giacomo Costa per essere consacrato vescovo di Ripatransone dal cardinale Annibale Albani, camerlengo di santa Romana Chiesa e io sono stato uno dei con-consacranti. A fine luglio,  mi è stato offerto dal cardinale un lauto pranzo. Il neo vescovo ad agosto lasciò Roma per raggiungere la sua Chiesa nella nuova sede; nel frattempo fu ospitato Fermo nel mio palazzo arcivescovile, benché io fossi assente.

1739.12    L’arcivescovo tornato da Roma riporta in dono alla sua Chiesa una preziosa pianeta    riccamente ornata.

Dopo aver espletati tutti questi impegni, nel mese di settembre mi misi in viaggio per tornare alla mia sede insieme con il mio nipote, di dieci anni, Clemente Erminio Borgia, figlio di un mio fratello. Avevo il desiderio che egli, di appena dieci anni, ricevesse una buona educazione ed istruzione a Fermo negli studi letterari. Mi fermai prima a Viterbo per far visita ai miei consanguinei nobili di nome Calabresi, a motivo delle loro città di origine, volevo infatti rivedere la loro madre vedova Polinnia Carboni, mia consobrina. Poi, prendendo una strada trasversale, passai per Otricoli, indi il 18 settembre direttamente mi avviai per raggiungere Fermo, accolto, come al solito, da una delegazione di canonici e di cittadini. Ho offerto in dono alla mia chiesa metropolitana una pianeta, opera di arte finissima, la cui prima faccia era di colore bianco, la seconda invece era violacea; la prima era intessuta in seta ed argento, la seconda in seta ed oro. Ambedue erano ornate da ricami in oro. L’oggetto era stimato del valore di centocinquanta scudi d’oro.

1739.13    Consacrazione dell’altare maggiore della chiesa di Santa Maria a Mare.                     Nella chiesa di Santa Maria a Mare, sita sulla costa del mare Adriatico, il capitolo della metropolitana, a cui la stessa chiesa apparteneva, aveva fatto costruire l’altare maggiore di marmo che io consacrai, il giorno 22 novembre, domenica. Il 13 dicembre, morì Filippo Montani canonico della metropolitana;  nominai canonico Filippo Gaggi sacerdote e nobile fermano che da diversi anni era mio coppiere. In conseguenza ho assegnato quest’ultimo incarico a Clemente Paccaroni nobile fermano, dottore in utroque jure (=canonico e civile) e di età avanzata.

1739.14    Il sacramento della Confermazione è opportuno che sia amministrato anche agli   infanti che sono in pericolo di  vita – Vengono difesi i decreti del secondo sinodo       relativi alla Confermazione – Giuseppe Catalani illustre scrittore.

A Roma veniva esaminata e discussa una questione che riguardava in primo luogo il vescovo di San Severino per il fatto che aveva conferito la Cresima ad alcuni bambini che erano in fin di vita, ma riguardava anche alcune affermazioni contenute nel secondo sinodo fermano dove si trattava proprio del conferimento del sacramento della Confermazione. Nel testo del Sinodo era scritto che in caso di pericolo di morte, senza fare alcuna distinzione di età, era opportuno che venisse amministrato il sacramento della Cresima e nel testo veniva usato il verbo “oportet”. Tale termine a Roma era interpretato, per opinione, come se avessi affermato che era obbligatorio.

Gaspare Ruggia, che era il mio agente in Roma, mi aveva avvertito per lettera che in congregazione del Concilio i consultori avevano interpretato il verbo “oportet” nel senso di obbligo e di necessità (opus est). Invece con l’espressione usata nel testo sinodale intendevo solo l’opportunità e l’utilità. Tuttavia ambedue i significati sono in alcuni esempi tratti dai testi sacri o dai teologi. Luca cap. XIII : vi sono sei giorni in cui “oportet” lavorare; cap. XV: … era necessario (oportet) far festa …; cap. XIX: … Oggi è necessario (oportet) che venga in casa tua; cap. XVIII: è necessario (oportet) pregare sempre.

Io, seguendo l’opinione del papa sant’Urbano e la dottrina di san Tommaso d’Aquino (IIIae-IIae, qu. 72, art. 8) ho voluto usare quel verbo nel senso più largo, cioè nel senso di indicare la l’utilità, non la necessità. In ogni caso mi sarei preoccupato di spiegare al popolo (come in effetto feci) che nei decreti sinodali non era mia intenzione di affermare la necessità, ma solo di esprimere l’opportunità.

Sulla questione del resto aveva già scritto il dotto Giuseppe Catalani nel suo Commentario al Pontificale Romano (tomo I, tit. I) su “Il sacramento della Confermazione”, ribadendo (tomo III. Cit. 21, p. 227) il suo parere e dichiarò che approvava sia la prassi del vescovo di San Severino sia le parole usate nel nostro secondo Sinodo fermano e argomentò il suo parere con esempi convincenti di autorità. <CATALANI Giuseppe (1698-1764)  Pontificale romanum in tres partes distributum (…) I–III, Romae 1738-1740 >

1739.15    Maria Rausilia Francolini, pia signora – L’arcivescovo istituisce e finanzia una scuola     a favore delle ragazze povere e bisognose – Giuseppe Ignazio Savini dona una sua  casa ad uso della scuola.

Maria Rausilia Savini, moglie di Pietro Luigi Francolini, donna pia e saggia, negli anni precedenti si era proposta nel suo animo, di mettere da parte del denaro per istituire a Fermo una scuola nella quale le ragazze povere e bisognose, che non potevano essere accettate nell’orfanotrofio femminile, fossero gratuitamente istruite nel catechismo cristiano e preparate ad un mestiere adatto alle donne. Non soltanto approvai subito la proposta, ma per quanto era nelle mie possibilità, ci misi anche del mio denaro.

All’inizio, ci fu il proposito di affidare la direzione della scuola alle suore Convittrici del Bambino Gesù e subito furono consegnati a loro più di trecento scudi di argento, in maggior parte del mio denaro, al fine di approntare una sede per la scuola. Queste suore, però, prima ritardarono tale impegno ed infine rifiutarono di assumersi l’onere che era stato loro chiesto. Perciò nell’anno presente, dopo aver preso in affitto dei locali e dopo aver scelto delle donne serie ed esperte, ho dato inizio all’opera. Il 7 dicembre con un mio documento ufficiale disposi l’istituzione della scuola per quaranta ragazze veramente povere e bisognose che sarebbero state istruite gratuitamente. La direzione della scuola era affidata allo stesso arcivescovo di Fermo.

Per la dote ho assegnato un annuo censo di scudi 28 che procurai ricavandolo il 18 novembre dall’arci-ospedale di Santo Spirito in Sassia, sopra il castello di Guido nell’agro romano per mille scudi. Poi, il 19 novembre dell’anno seguente, ho aumentato la somma di altri 200 scudi. Le Convittrici infatti restituirono la somma di 200 (duecento) dei trecento scudi consegnati precedentemente a loro.

In seguito Giuseppe Ignazio Savini, padre di Maria Rausilia e nobile cittadino fermano, già avanzato in età e insigne per pietà, il 26 gennaio 1740 donò  generosamente alla scuola una sua casa che possedeva a Fermo sita nei pressi della chiesa della Santissima Trinità.

1739.16    Istituzione della nuova parrocchia di San Girio nel territorio di Monte Santo.                      Domenico Mozzoni, pievano della chiesa di Santo Stefano in Monte Santo, che è la pieve più ricca di tutto il Piceno, già da molto tempo mi aveva espresso il suo vivo desiderio di affidare detta chiesa al suo nipote Marziale Mozzoni. Nonostante però che io ricevessi molte lettere da diversi cardinali che mi pregavano di esaudire tale assegnazione, non stimavo opportuno acconsentire poiché nelle visite pastorali compiute in quel luogo negli anni passati, e particolarmente in quella dello scorso anno, mi ero accorto della necessità di provvedere in quel territorio all’assistenza religiosa degli abitanti, al presente soggetti alle cure della stessa parrocchia plebana. Questi vivevano nella zona dove sorgeva la chiesa rurale di San Girio, che si estendeva sino alla riviera Adriatica. Prima di acconsentire alla richiesta del pievano, ho pensato di dover provvedere a istituire una nuova parrocchia nella chiesa di San Girio, dove potesse risiedere un parroco che si prendesse cura della gente di quella zona. A tale scopo, l’attuale pievano, prima di ottenere il mio consenso alla sua richiesta, avrebbe dovuto provvedere con i mezzi di cui disponeva la sua pieve, in modo da realizzare tale progetto e ottenere dall’ospedale fermano di Santa Maria della Carità il diritto di perpetua enfiteusi di questa chiesa di san Girio con  un censo attivo annuo di 15 scudi.

Il giorno 28 novembre, pertanto, ho canonicamente eretto una nuova parrocchia nella chiesa di San Girio e come dote le ho assegnato tutti i beni di quella chiesa e, in più, alcune proprietà della pieve di Santo Stefano e l’onere di versare al nuovo parroco l’annuo canone predetto per l’enfiteusi. Subito dopo ho accettato la rinuncia e provveduto alla nuova nomina del parroco, tuttavia  ho riconosciuto al pievano il diritto di presentarmelo, scegliendolo tra i sacerdoti che fossero stati dichiarati idonei dagli esaminatori sinodali. Concessi tale diritto e onore al pievano della chiesa di Santo Stefano perché la nuova parrocchia venisse considerata come figlia nata dalla pievania. In tal maniera ho provveduto alla cura pastorale di quelle anime che così avrebbero avuto la possibilità di essere istruite nel catechismo, ricevere i sacramenti ed essere assistite dal sacerdote in punto di morte.

1739.17    Costruzioni realizzate nei beni della Mensa a Grottazzolina – Piantagioni arboree.                     Durante quest’anno, sono stati realizzati diversi lavori di restauro negli edifici di proprietà della mensa arcivescovile. A Grottazzolina, nuovi locali sono stati aggiunti e adattati ad uso degli agricoltori. Vi ho fatto anche approntare un locale per la produzione dell’olio e realizzare una nuova piantagione intensiva di olivi che ora si stavano trapiantando, essendo giunti alla giusta crescita.



[1] Costante era, per mons. A. Borgia, il confronto del proprio titolo con quello del governatore della città. Appariva chiaro che era rigoroso nel sottolineare la sua superiorità in quanto arcivescovo metropolita e principe di Fermo, nei confronti dell’autorità amministrativa. Per questo esigeva puntigliosamente il rispetto della tradizionale etichetta.

[2] Non sfugge al lettore la saggezza politica e la moderazione del Borgia che non teme di definire  l’azione repressiva decisa dalle autorità romane come un gesto formalistico profondamente errato sul piano politico ed umano.

[3] Si notano le disgrazie provocate dal passaggio e dallo stazionamento delle truppe straniere nella complicata guerra della successione austriaca.

[4] Desta meraviglia il fatto che esistesse a Fermo un simile privilegio, e che l’arcivescovo e le autorità civili si arroccassero a difesa di una simile strana tradizione, con argomentazioni speciose.

[5] Certe posizioni del Borgia in materia di difesa dei privilegi della mensa  dell’arcivescovo si presentano poco aggiornate nella ragionevolezza.

[6] Nelle sue frequenti visite a Roma l’arcivescovo acquistava oggetti e suppellettili preziosi  come doni offerti poi alla chiesa metropolitana. L’editto di mons. Alessandro Borgia riguardante la riforma degli studi in data 2 aprile 1736 nella biblioteca comunale “Romolo Spezioli” a Fermo, manoscritto n. 1058.

[7] Su tutta la vicenda del contenzioso e dei confini a San Claudio esiste nell’archivio arcivescovile una voluminosa documentazione collocata nell’armadio posizione I-A.

[8] Nella seconda metà del sec XIII l’abbazia Farfa aveva cessato di essere “ Imperiale “ ed era stata ricondotta sotto il controllo politico e spirituale della Sede Apostolica. Ancora gestiva un’ampia autonomia e l’abate monaco godeva di una larga giurisdizione, sia sul piano politico, sia nel campo ecclesiastico. La prima grande trasformazione avvenne all’inizio del sec. XV, allorché Bonifacio IX diede l’abbazia di Farfa  in commenda a un cardinale della curia Romana, che era generalmente il cardinale nipote. Finiva così il governo monastico autonomo. Sisto V poi alla fine del XVI secolo, in occasione dell’istituzione (1586) della diocesi di Montalto, in territorio precedentemente Farfense, aveva tolto a Farfa, totalmente, ogni giurisdizione sul piano politico e civile sulle località e terre soggette, rendendole amministrate  a Montalto. La giurisdizione sul governo dell’abbazia era passata nelle mani di influenti personalità della curia pontificia. Si comprende allora perché i vescovi residenziali, nelle cui diocesi esistevano zone più o meno vaste (sempre però importanti e consistenti) dipendenti dalla giurisdizione ecclesiastica dell’abate Farfense, incontravano difficoltà nella loro azione pastorale e rivendicavano i loro diritti episcopali. Le loro richieste attendevano da tempo di essere accolte.

[9] I monaci benedettini di Farfa giunsero nel Piceno verso l’anno 898, guidati dall’abate Pietro I. In seguito all’invasione dei Saraceni, dopo sette anni di dura resistenza, egli avevano abbandonato l’imperiale abbazia distrutta dagli invasori. L’abate Pietro divise i monaci in tre schiere e in altrettante parti divise i tesori farfensi. Ne mandò una a Roma e un’altra a Rieti, prese con sé la terza e insieme ai documenti dell’archivio e, riparando nel contado fermano, stabilì la nuova residenza abbaziale nel monastero o nei monasteri dei santi Ippolito e Giovanni in Selva. L’abate Pietro non aveva scelto a caso il Piceno; infatti proprio nei territori di Fermo e di Camerino si estendevano i più importanti possedimenti dell’abbazia di Farfa, dato che già da più di un  secolo, aveva avuto ricche donazioni. E’ infatti da ricordare che il monaco Marciano (che poi fu vescovo di Fermo) era stato il compagno di san Tommaso da Morienna, l’abate che alla fine del VII secolo restaurò l’abbazia di Farfa, rovinata durante l’invasione dei Longobardi. Serafino Prete commenta che tale circostanza è molto significativa poiché si può supporre che nel periodo dell’episcopato di Marciano ci sia stata nel fermano e nel Piceno una certa diffusione di monaci farfensi. (S. PRETE, Monachesimo e società nel Fermano, in “Pagine di storia fermana”, Fano 1984, p. 83. Cfr. D. PACINI, I Monaci di Farfa nelle valli Picene del Chienti e del Potenza, in “Per la storia medievale di Fermo e del suo territorio”, Fermo 2000, pp. 277-342; e IDEM, Possessi e chiese farfensi nelle valli picene del Tenna e dell’Aso (secc. VIII-XII) in “Ibidem”, pp. 343-429. I. TASSI, Tommaso abate di Farfa, santo, in “Biblioteca Sanctorum”, coll. 578-579. M. CATALANI, De Ecclesia Firmana …cit,  p. 119.

[10] Non furono insignificanti i frequenti periodi di decadenza dei Farfensi sul piano dell’azione pastorale.I fenomeni di rilassamento furono frequenti non soltanto nel periodo della protezione imperiale, allorché spesso gli abati  si schieravano con gli antipapi, ma anche nel periodo degli abati (cardinali) commendatari. Si avvertiva l’assenza della loro iniziativa pastorale, mentre i vescovi locali cercavano qualche rimedio.

[11] Nella delusione A. Borgia notava che il papa era pienamente convinto delle buone ragioni addotte, ma praticamente si dichiarava impotente. L’arcivescovo si rendeva conto che i tempi non erano maturi.

[12] Il Borgia non ebbe la soddisfazione di veder risolto completamente questo intricato problema. Nel 1769 Clemente XIV abolì ogni giurisdizione farfense.  Nel 1841 Gregorio XVI attribuì il titolo di abate di Farfa al nuovo vescovo della diocesi di Sabina. Cfr. AA. VV., Le Diocesi d’Italia, (Dizionari San Paolo) Cinisello Balsamo (MI) 2008, alle voci: Farfa e Sabina-Poggio Mirteto. Cfr. Annuario Pontificio 2012, Città del Vaticano 2012, alla voce Sabina-Poggio Mirteto.

[13] Il fatto di essere costruiti “in suolo Lateranense” non comportava in realtà alcun potere di giurisdizione, ma  implicava solo il diritto di ricevere un canone annuale in cera.

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