ANNO 1753
1753.1 Morte di Carlo Testa canonico decano della basilica Lateranense e suo elogio.
A gennaio morì, a Roma, Carlo Testa, nobile romano, canonico decano della basilica Lateranense, in età avanzata. Egli, tra il clero di Roma, eccelleva per la purezza della vita e per le abitudini di bontà ed era legato da santa amicizia con il mio predecessore, arcivescovo di Fermo, Girolamo Mattei. Fu lui, come suo esecutore testamentario, che fece in modo che fossero consegnate alla nostra Chiesa di Fermo una gran parte delle suppellettili del Mattei e i luoghi di Monti camerali che aveva acquistati.
1753.2 Antonio Francesco Valentini lascia i suoi beni ai sacerdoti della casa della Missione – E’ estinta la pensione gravante sulla mensa arcivescovile a favore della casa della Missione.
Nello stesso mese, morì anche Antonio Francesco Valentini di Ortezzano, all’età di novanta anni, il più vecchio di tutti i sacerdoti della diocesi Fermana. Si addormentò nel Signore il 27 gennaio. Egli, nato in un piccolo paese, fin da giovane e per parecchi anni, aveva insegnato materie letterarie in vari luoghi e, vivendo con costante parsimonia, aveva accresciuto il suo patrimonio. Ormai vecchio, scelse come sua dimora la casa dei preti della Missione ai quali ancora in vita, lasciò tutti i suoi beni, riservandosene l’usufrutto che egli spendeva per altre opere pie. Morì a Fermo, nella casa di questi sacerdoti, dove fu sepolto. Il lascito ha provocato l’estinguersi della pensione di scudi trecento annui <da parte vescovile> a favore della stessa casa della Missione. Tale pensione era stata istituita dal cardinale Baldassarre Cenci, arcivescovo di Fermo, e approvata da Clemente XI e doveva essere prelevata dai beni della mensa arcivescovile a meno che, in qualsiasi tempo, non fosse stata lasciata una qualche altra dote, di almeno quattrocento scudi all’anno, nel qual caso quella pensione si sarebbe estinta. Questa pensione, già al tempo dell’arcivescovo Mattei, era stata dimezzata perché i preti della Missione avevano comperato dei terreni, specialmente nel territorio di Altidona, e si sarebbe dovuta diminuire ancora di più per l’acquisto di altri beni e vari ulteriori legati. Io però fino a quel tempo non avevo smesso di pagare l’importo della pensione. Ma ora la casa della Missione aveva l’asse ereditario del defunto Antonio Valentini, che ammontava ogni anno a scudi quattrocento ed oltre, fino a seicento e quasi ancor più, credetti bene di dover smettere di versare ancora l’antica pensione che gravava sulla mia mensa.
1753.3 Concessione dell’indulgenza plenaria per la partecipazione alla comunione generale nel giovedì di sessagesima.
In questo anno Benedetto XIV concesse alla chiesa metropolitana e alla chiesa principale di ogni località della diocesi, nelle quali si praticava la Comunione generale nel giovedì della settimana di sessagesima, l’indulgenza plenaria applicabile anche a suffragio dei defunti. Tale concessione era limitata solo al presente anno; per i singoli anni successivi era necessario richiederla di nuovo. La finalità era quella che i nostri cristiani, con tale gesto di devozione, fossero dissuasi dal partecipare ai divertimenti immorali, sostituendoli con le opere di carità.
1753.4 Il concordato con la Spagna in forza del quale erano ceduti al re i sacri diritti – Lamentele contro il concordato con la Spagna.
Crebbe intanto la protesta per i patti stipulati tra il papa Benedetto XIV e il re di Spagna Ferdinando VI sui conferimenti dei benefici ecclesiastici, sugli spogli dei vescovi e sulle rendite delle chiese vacanti. Tutti questi diritti passarono quasi completamente alla competenza del re; pertanto si sollevarono dovunque grandi proteste per il grave danno provocato a Roma, sia all’interesse pubblico, sia a quello dei privati. Infatti, né ciò che il re sborsò con la somma di denaro pattuita poté compensare con un giusto valore il grave danno causato, né in alcun modo fu risarcito il profitto perduto dai privati, che non era di poco conto nell’incarico di spedire la lettera apostolica.
Le proteste più accese però provenivano dai vescovi spagnoli ai quali erano state tolte le alternative mensuali e la facoltà di far testamento dei proventi ecclesiastici, neppure destinati per usi pii. Tutto fu accumulato e posto nelle mani del re. Certamente se uno, prudentemente, si ponesse a osservare bene l’origine di tutto ciò che, in queste faccende, non si riferiva solo ai diritti della Sede Apostolica, scoprirebbe nient’altro che si era fatta una riserva come pura e semplice sottrazione dei diritti dei vescovi. Infatti ad ogni singolo vescovo, in forza dell’antica disciplina e dei sacri canoni, spettava il diritto di conferire tutti i benefici ecclesiastici, che in qualsiasi tempo si rendessero vacanti nella propria diocesi, e di assegnarli alle persone che egli conosceva bene e che erano ben preparati ad esercitare un ministero ecclesiastico.
A poco a poco la Sede Apostolica, poi, con vari modi speciali, cominciò a riservarli a sé. Tuttavia chi mai avrebbe potuto supporre che sarebbe venuto un tempo nel quale, con tanta furbizia, e nel corso dei secoli, tutte queste realtà, tolte alle sedi vescovili, sarebbero passate al diritto della Sede Apostolica e poi da questa stessa assegnate, improvvidamente, nelle mani del re, con un solo colpo, ricevendone un lieve compenso? Si può trovare una sola scusante nel fatto che Benedetto XIV volle prendere quella decisione spontaneamente e con prudenza per non essere costretto a farlo, sotto costrizione dell’autorità regia, come era avvenuto precedentemente altrove.
Se tutto ciò potesse mai essere giudicato lecito e onesto, il consegnare i beni di una entità spirituale in cambio di compensi in denaro, lo giudichino gli altri. Si consideri specialmente il fatto che non era stato convocato neppure il concistoro del sacro collegio dei cardinali. Sta di fatto che l’accordo fu stipulato tramite ministri segreti, tra i quali c’era anche un nostro diocesano, un certo Giuseppe Mancini nativo di Loro, uno dei camerieri soprannumerari di Benedetto XIV, mandato come rappresentante privato in Spagna negli anni precedenti. Il papa, peraltro, si astenne dal perfezionare il patto; anche se il re desiderava che gli accordi fossero confermati da un solenne documento, sottoscritto dal pontefice e dai cardinali, ciò non si poté fare. Di conseguenza, gli accordi furono firmati a Roma il giorno 11 gennaio 1753 dal cardinale Silvio Valenti, come rappresentante di Benedetto XIV e da Emanuele Ventura uditore di Rota, come plenipotenziario del re. L’accordo fu approvato da Benedetto XIV con una lettera nella forma di un breve pontificio. Il fatto eccitò gli animi degli altri principi cattolici, suscitando il desiderio di richiedere alla Sede Apostolica che potesse favorire i loro interessi a danno della giurisdizione e della immunità ecclesiastica. Un solo aspetto andrebbe considerato lodevole: il fatto cioè che le pensioni alle quali confluivano i benefici ecclesiastici della Spagna, nel caso in cui la loro collazione fosse riservata a Roma, solo apparentemente gravavano a favore di qualche chierico o sacerdote spagnolo, ma in realtà andavano a favore degli officiali o di altre persone ad arbitrio del pontefice. I proventi delle pensioni dovevano essere pagati al beneficiato per sei anni, nel momento stesso della spedizione della lettera apostolica, attraverso una cedola bancaria. Tutto ciò venne abolito in modo che per nel futuro tutti i benefici, anche quei 52 che Benedetto XIV si era riservati, tra tutti quelli esistenti nella Spagna, fossero conferiti integri agli Spagnoli e senza il peso delle pensioni. C’era però un’altra cosa per cui rammaricarsi, e cioè il fatto che, essendoci a Roma molti Spagnoli, apparentemente impegnati a lavorare nella curia, potevano ottenere vari benefici senza avere alcun impegno e, non essendovi per loro nessuna speranza di restare a Roma, erano costretti a ritornare in patria e da ciò derivavano danni, sia ai Romani, come anche agli abitanti dei sobborghi. Infatti tra tutti gli Spagnoli presenti a Roma, molti vivevano in miseria o in modo modesto, ma altri se la passavano bene e altri ancora spendevano lussuosamente, e non esisteva alcun interscambio <tra loro>.
Di fatto, le genti dei territori della Chiesa, e tra essi specialmente gli abitanti di Velletri, ricordavano ancora le dolorose ferite subite negli anni precedenti dallo scontro di coloro che si erano riversati nelle nostre zone, dai Tedeschi che combattevano contro gli Spagnoli, dai Napoletani che difendevano il regno delle due Sicilie. Trovandosi in mezzo, gli abitanti subirono danno sia dai Napoletani che dagli Spagnoli. Per giunta non erano state diminuite le tasse, anzi erano stati aumentati i contributi per ripianare i debiti contratti dall’erario pubblico, mentre i danni causati ai privati erano considerati come niente.[1]
Il re Spagnolo, prendendo tanti sacri diritti beneficiali, diede al Romano pontefice una somma inferiore a 120.000 scudi d’argento. Le popolazioni nelle calamità delle guerre avevano perduto una somma maggiore di questa per gli Spagnoli e giustamente se ne lamentavano. E perdevano ogni compenso d’orzo e di pane.
1753.5 Morte del cardinale Tommaso Rufo – Morte del cardinale Antonio Rufo – Il cardinale Pietro Luigi Carafa succede al Rufo nel governo e nel vescovato di Velletri – Pessimo esempio offerto dalla spogliazione della giurisdizione civile all’abbazia di Subiaco.
Il 16 febbraio morì, a Roma, il cardinale Tommaso Rufo, decano del sacro collegio dei cardinali e vescovo di Ostia e di Velletri, ormai nonagenario. Quasi contemporaneamente morì in patria anche il cardinale Antonio Rufo suo nipote. Lo zio era uomo ritenuto sempre e da tutti come persona di grande autorevolezza; e il nipote, di singolare affabilità. Lo zio, nel governo della città e del vescovato di Velletri, volendo tutto per sé e considerando gli interessi pubblici come i propri interessi privati, forse fu più di danno che di giovamento, specialmente perché reggeva l’amministrazione, stando sempre assente. Per il resto era molto generoso nell’aiutare i poveri e i bisognosi. Fornì alla sua Chiesa di Velletri eleganti ornamenti, come il prezioso e pesante pallio di argento per ornare l’altare maggiore.
Suo successore nella Chiesa e nel governo di Velletri fu il cardinale Pietro Luigi Carafa per diritto di opzione e l’11 aprile prese il possesso. A lungo si comportò con incertezza perché si spargeva la voce che si sarebbe separato il governo civile della città da quello ecclesiastico della Chiesa diocesana. Dava questo sospetto il fatto della separazione della giurisdizione civile che prima apparteneva al monastero di Subiaco. Questo caso verificatosi nelle terre della Chiesa Romana rappresentò un pessimo esempio per quelle chiese e monasteri che esercitavano entrambe le giurisdizioni, e che esistevano nei territori degli altri governi. Benedetto XIV tuttavia non adottò tale sistema, altra volta tentato da Sisto V, per cui il cardinale Carafa, chiesto il parere di molti, assunse come i suoi predecessori l’una e l’altra giurisdizione <a Velletri> e di ciò fui molto felice. Egli era molto benevolo verso di me e verso la mia famiglia; per questo io e la mia famiglia avemmo l’occasione di essere utili alla patria, ai cittadini e ai diocesani.
1753.6 Morte del cardinale Antonio Saverio Gentili priore di San Salvatore di Fermo – I destinatari della sua ricca eredità.
Il 13 marzo, a Roma, chiuse i suoi giorni un altro cardinale di santa Romana Chiesa, Antonio Saverio Gentili, vescovo di Palestrina. Era originario di Camerino, e nella curia Romana aveva esercitato i vari gradi della prelatura fino a quando Clemente XII gli aveva affidato la dataria, lo aveva creato cardinale e nominato prefetto della congregazione per l’interpretazione del Concilio Tridentino. Egli aveva espletato tutti questi incarichi con somma diligenza. Ottenne nella nostra diocesi, la commenda del priorato del SS. Salvatore il cui titolo, dopo la distruzione della chiesa per la fondazione del collegio della Compagnia di Gesù, e dopo che la popolazione del priorato era stata distribuita tra le varie parrocchie della città, era stato trasferito nella chiesa di San Pietro. Il cardinale Gentili era solito ricevere dal beneficio del priorato cinquecento scudi di argento all’anno.
Lasciò una ricchissima eredità, non ai parenti di parte maschile, poiché il fratello era rimasto celibe per tutto il tempo in cui visse il cardinale, ma ai nipoti nati da sua sorella Costanza Giori, vedova del marchese Venanzio Sparapani, fratello dell’altro marchese Prospero, imparentato con me, per il fatto di aver sposato Francesca Righini, nobile romana, mia consanguinea. Per questo sono stato sempre legato a lui e ai suoi consanguinei, non però per la speranza di ottenere qualcosa in ragione del suo alto ufficio (egli era ritenuto come un cardinale poco ufficioso), ma soltanto per il bene dei miei diocesani, per il fatto che egli reggeva la dataria Apostolica. Del resto essendoci due figlie di sua nipote Costanza, il cardinale aveva disposto 100.000 scudi di argento per la primogenitura, affinché la prima sua pronipote, andata sposa a Roma ad un nobile, perpetuasse il nome e le insegne della nobile famiglia Gentili e l’altra nipote conservasse il nome e l’eredità della paterna famiglia Sparapani.
1753.7 Crollo della casa parrocchiale di San Matteo di Fermo e sua immediata ricostruzione.
Il 3 aprile, per un improvviso cedimento del terreno, crollò, in gran parte, la casa parrocchiale di San Matteo, senza fare però alcuna vittima. In breve tempo fu riparata con i proventi della vendita di un annuo censo, dovuto alla parrocchia e con le offerte raccolte tra i parrocchiani.
1753.8 Padre Filippo Maria Papini dell’ordine dei servi di Maria tiene la predicazione a Fermo – L’arcivescovo tiene una improvvisa omelia sulla passione di Cristo.
Durante la quaresima, tenne la predicazione nella metropolitana, il padre Filippo Maria Papini dell’ordine dei servi di Maria, celebre ed espertissimo oratore, benché godesse di poca salute. Per questo avvenne che nel giorno del venerdì della parasceve, allorché al mattino è in uso tenersi la predica della passione del Signore, egli ne fu impossibilitato e chiese una pausa fino alla recita dell’ufficio mattutino di quel giorno, ma anche dopo questo, non poté predicare per la malattia. Allora, affinché il popolo non si allontanasse, restando privo della predica sulla passione del Signore, io salii sul pulpito e tenni un’improvvisata predica nella quale, facendo il racconto della passione di Gesù, ho spiegato i modi e le ragioni per le quali egli fu condannato dalle autorità umane e cioè dai sacerdoti per motivi religiosi, perché si era dichiarato Figlio di Dio quale egli in realtà era, e da Pilato per motivi politici, cioè perché si era dichiarato re. Spiegai poi lo scopo per cui il Signore si sottopose ai gravi dolori della passione, affermando che innanzitutto egli voleva dare soddisfazione in modo degno al Padre per i peccati degli uomini; in secondo luogo per redimerci dai peccati e dalle colpe e dalle pene dovute per i peccati e, infine, per aprirci la via della salvezza, non solo con la sua dottrina, ma specialmente col suo esempio. Lo stesso giorno, alla prima ora della notte, si tenne la processione verso la cattedrale come era in uso, guidata dalla confraternita della sacra Spina. Il padre Filippo, riavutosi dal malore, tenne la consueta predica domenicale sulla passione, in modo ampio.
1453.9 Il mulino della mensa a Monteverde – Il mulino di San Claudio – Altri tentativi dei Maceratesi contro i diritti della mensa.
La gente di Montegiorgio tentò di muoversi di nuovo contro il mulino della mensa arcivescovile a Monteverde, spinti dall’offerta fatta da un mugnaio al loro comune di aumentare i proventi a favore della comunità, se gli amministratori fossero riusciti ad ottenere da Roma che a nessuno degli abitanti della cittadina fosse lecito di andare a macinare il grano altrove. Ciò chiaramente ledeva i decreti della congregazione dell’Immunità ecclesiastica, emanati il 2 luglio del 1630, secondo i quali era consentito a tutti di accedere liberamente al nostro mulino di Monteverde. Dietro tale spinta, io spedii ad essi un monitorio il 7 aprile e il 19 dello stesso mese fu loro spedito dall’uditore di camera della curia con l’obbligo che rispettassero le disposizioni esistenti. Per la difesa delle proprietà ecclesiastiche, in seguito, li costrinsi a cessare dai loro tentativi. Dopo di ciò i cittadini di quel luogo si calmarono.
Nello stesso anno furono messe in atto alcune nuove manovre contro il mulino della mensa esistente a San Claudio, in parte per colpa del gestore, e in parte per l’imprudenza della comunità di Montolmo, alla quale era stato affittato il mulino ad un canone annuale. I Maceratesi da parte loro avevano guastato il canale afferente l’acqua. Io, per non rispondere alla violenza con altra violenza, abbandonando il loro territorio, feci scavare sulla terra della mensa un nuovo canale per provvedere le acque verso il nostro mulino. Inoltrai comunque nel mese di settembre ricorso a Roma presso la curia dell’uditore della camera Apostolica per chiedere una punizione, per il tentativo fatto contro i diritti della mensa, inoltre presso la curia degli Spogli; e il giudice mi diede ragione. In seguito fu deciso di fare un accordo lasciando le cose nel loro stato e il nostro mulino di San Claudio, grazie alla modificata nuova conduttura delle acque, nel macinare il grano, divenne più efficiente, rispetto a prima.
1753.10 L’amministratore della tesoreria provinciale cerca di estorcere denaro per l’esportazione del grano, andando contro l’immunità e i patti stipulati.
Nel mese di maggio, vennero esportati fuori dai domini pontifici, 480 rubbi di frumento della mensa arcivescovile con trasporto, via mare, dal porto di Civitanova, dopo richiesta la licenza (chiamata tratta) a Benedetto XIV, secondo le solite modalità (cioè senza pagare alcuna imposta). La richiesta era stata esaminata dal luogotenente del tesoriere della provincia, in tale occasione assente, e venne negato il visto. Tale diniego però era contrario, non soltanto all’esenzione e alla consuetudine, ma era contrario anche agli accordi stipulati con il tesoriere Leonori. La vicenda, tuttavia, non consentiva alcun ritardo poiché le navi dei genovesi erano già pronte per essere caricate col nostro grano. Ho presentato pertanto immediatamente una protesta a Lazzaro Pallavicini, governatore della provincia e giudice delegato dal tesoriere generale che, con decreto del 7 maggio, ebbe ad ammettere la mia protesta. Frattanto fu necessario, in attesa della decisione, versare quattro giuli di argento per ogni rubbio di grano, cioè in totale 192 scudi di argento.
1753.11 Inizio della quinta visita pastorale – Erigenda parrocchia nel territorio di Sant’Elpidio – Consacrazione della chiesa di San Paolo a Civitanova.
Terminata nell’anno precedente la quarta visita pastorale all’intera diocesi, ho iniziato la quinta visita. Il giorno 8 maggio, la inaugurai nella chiesa cattedrale e il 12 dello stesso mese, accompagnato dai con-visitatori il canonico Giovanni Antonio Leli, coadiutore del primicerio Calvucci e l’ex provinciale dei frati Minori dell’Osservanza, padre Liberato da <Monte> San Giusto, mio confessore, partii per il paese di Sant’Elpidio, dove avevo preparato tutto il necessario per l’istituzione della nuova parrocchia nel territorio del detto paese, presso l’antica edicola di Santa Maria Maddalena, di cui avevo più volte trattato, dopo il concordato stipulato con il capitolo Lateranense. Ho stabilito tutto, ho designato il luogo e ho scelto gli uomini che presiedessero alla realizzazione dell’opera e indicai la somma di denaro da ricavarsi dal taglio degli alberi e da altri proventi, per lo scopo dell’opera.
Mi avviai poi verso Civitanova, dove, ad opera di quel capitolo di canonici, era stata magnificamente completata la nuova chiesa, elevata dalle fondamenta, grazie ad un intenso lavoro durato più anni e con l’uso di una ragguardevole somma di denaro. Le fu dato il titolo di San Paolo apostolo, lo stesso di quella antica. La consacrai il 27 di maggio, quinta domenica dopo la Pasqua. Il merito della costruzione si deve certamente all’intero capitolo dei canonici, ma particolarmente all’arciprete Marco Bettei, che seguì i lavori e che in seguito si è impegnato intensamente, al fine di ottenere dal capitolo la restante parte della somma di denaro promessa. Era sorta anche una controversia conclusasi nello scorso anno riguardo a tale somma.
1753.12 Benedetto XIV designa tre presuli per definire la concordia sull’eredità Marefoschi.
Da Civitanova, mi recai a Montecosaro, dove la chiesa del monastero di Santa Maria a pie’ di Chienti, finalmente, in forza dei decreti emanati nelle precedenti visite, la trovai ben restaurata dai rettori dell’ospedale di Camerino, al quale quel monastero era stato unito.
Giunsi poi nel paese di Monte Santo e qui fu affrontato il problema della eredità di Pietro Antonio Marefoschi. Il pontefice romano, Benedetto XIV, dopo che dalla comunità di Monte Santo era stata vinta la controversia contro Giulia, ultima donna della famiglia Marefoschi, e contro i suoi figli della famiglia Compagnoni, per definire la concordia, designò tre presuli della curia romana, cioè Pietro Girolamo Guglielmi, assessore del supremo tribunale dell’Inquisizione, Pietro Paolo de Conti, segretario della sacra congregazione del Buon Governo e Giuseppe Simonetti, luogotenente civile del cardinale vicario.
1753.13 L’arcivescovo va ad abitare per la prima volta nella nuova casa di Francavilla.
Da Monte Santo, dopo aver visitato il santuario di Loreto, il 14 giugno, sono tornato a Fermo e, nel sabato dopo la Pentecoste, ho tenuto l’ordinazione generale dei chierici. Sono andato poi a San Martino, per restarvi a riposare, fino alla vigilia della festa dei santi Pietro e Paolo. Sono tornato però a Fermo, per la solennità del Corpus Domini, per guidare, come al solito, la processione del SS. Sacramento. Poi, sono subito tornato a San Martino, da dove mi sono recato a Francavilla e ho abitato per la prima volta nella casa da tempo acquistata, restaurata e ampliata con l’aggiunta del giardino.
1753.14 Bartolomeo Maciotti ritorna a Velletri – Francesco Sillani è scelto come caudatario dell’arcivescovo.
Ho allontanato, dalla mia famiglia, Bartolomeo Maciotti, mio antico compaesano di Velletri, dopo che lo avevo provvisto di un beneficio semplice, a titolo della sacra ordinazione e di una pensione ecclesiastica, e dopo averlo ordinato suddiacono, con la licenza del cardinale Carafa, vescovo di Ostia e Velletri. Egli era riuscito a fare qualche progresso con estrema fatica per il ritardo della sua intelligenza negli studi, ma dimostrava, nei primi anni, scarso adattamento alle regole della casa, e non riusciva a socializzava con noi. Si annoiava nell’imparare cose che non conosceva e nell’essere esortato a sapere cose che ignorava. E’ tornato pertanto a Roma nella sua patria. Ho poi scelto per l’ufficio di caudatario e per quello di lettore, alla mia mensa, Francesco Sillani da Gualdo di Nocera che da più di due anni viveva nel nostro seminario, chierico di età di 23 anni.
1753.15 Nella riunione plenaria della congregazione si discute sulla vertenza riguardante l’estrazione marittima del grano della mensa arcivescovile contro i decreti della congregazione generale – Decreto provvisionale.
A proposito della vertenza contro il tesoriere, avevo scritto al pontefice, dato che era una materia importante. Risolte le difficoltà avanzate dall’uditore del papa, finalmente dallo stesso uditore, ascoltato il parere del papa, si ottenne che la causa dell’esenzione della nostra Chiesa Fermana, fosse finalmente trattata, citato anche il commissario della Camera, in opposizione ai rescritti emanati dalla congregazione generale camerale il 19 maggio dell’anno precedente, i quali ci davano torto e in opposizione contro il tesoriere della provincia, Francesco Leonori, che era al nono anno dell’esercizio del suo incarico, mentre stava per diventargli successore Benedetto Costa, nel medesimo incarico. Tali rescritti disponevano che l’arcivescovo di Fermo era tenuto a procurarsi i bollettini per l’estrazione del grano e al pagamento di tutte le gabelle camerali. Il giorno primo settembre la Camera aveva risposto: “ Nelle cose decise ed oltre “.
Affidata pertanto la causa a Nicola Perelli, uno dei chierici di camera col la clausola di procedere secondo le norme, la stessa Camera, riconoscendo il nostro buon diritto e ammettendo l’appello da noi presentato, contro le precedenti deliberazioni della congregazione camerale, il 3 di agosto rispose: “sia dato corso al dubbio”. C’era tuttavia la necessità di arrivare ad una rapida soluzione della controversia nella stessa seduta della plenaria, affinché il grano della nostra mensa potesse essere spedito, come prima, senza alcun pagamento. Il 15 settembre la congregazione della camera Apostolica inviò il rescritto che diceva: “a mons. ponente perché deliberi secondo il suo parere”. Il ponente Perelli il 18 settembre emanò la sua deliberazione che stabiliva: “a modo di deliberazione e senza pregiudizio dei diritti delle due parti per ora e fino all’esito definitivo della causa deve essere concessa al ricorrente (cioè a me) la licenza di imbarcare e di trasportare il grano, le biade e le altre messi raccolte nelle proprietà dello stesso ricorrente, previo il ritiro dei bollettini dalla tesoreria della provincia della Marca senza il pagamento di qualsiasi gabella, fatto salvo l’obbligo per l’incaricato del richiedente di provvedersi del documento di procura rilasciato dal medesimo arcivescovo di sottostare al diritto ed al giudicato”. In seguito fu sempre seguito tale modo di agire.
In tutte queste controversie, suscitate per la difesa dei diritti della Chiesa Fermana e della sua immunità dal pagamenti delle gabelle, quest’anno ho dovuto impegnarmi moltissimo e spendere una non lieve somma di denaro.
1753.16 Il cardinale Marcello Crescenzi viene a Fermo in visita all’arcivescovo.
Per la fiera di agosto vennero da me Lazzaro Opilio Pallavicini, governatore di Macerata, appena designato come nunzio apostolico nel regno delle due Sicilie; Giovanni Battista Stella, governatore di Loreto e Francesco Ferrera. Nel mese di settembre, partiti gli ospiti, ho fatto la visita alle parrocchie e alle altre chiese e luoghi pii della città, e all’inizio di ottobre sono andato a riposare nella villa di San Martino.
Il cardinale Marcello Crescenzi, arcivescovo di Ferrara, proveniente da Roma, giunse al Porto di Fermo, diretto ad Ascoli, insieme a Giosia Caucci, vescovo <= prelato?> di Ascoli per recarsi a visitare il paese di Montorio, feudo della sua famiglia, confinante con il regno <napoletano>. Ho lasciato la residenza di campagna e sono sceso al Porto di Fermo per salutare il cardinale ed invitarlo a venire a Fermo. Egli mi promise che sarebbe passato da me, al ritorno, e difatti venne il 24 ottobre, con il vescovo (!) Caucci. Lo accolsi con pubbliche manifestazioni di onore e di considerazione, sia per lo splendore della porpora e l’importanza della sua dignità, sia per la fama della sua virtù e con la speranza per cose future. Il tempo era piovoso e l’aria rigida. Nonostante ciò, egli volle visitare tutto, fornendo un esempio di pietà, di sobrietà e di edificazione. Il 27 ottobre ripartì per Ferrara. Nello stesso giorno Leonardo Cecconi, vescovo di Montalto, che era da me ospitato, ritornò alla sua Chiesa.
Celebrate le solennità di Tutti i Santi e dei fedeli defunti, ho ripreso la visita pastorale della città, interrotta durante il mese di ottobre. Ho visitato tutto, ad eccezione dell’ospedale dei bambini “proietti” (abbandonati), per il fatto che in esso si era diffusa molto una malattia. Omisi di visitare anche i monasteri delle monache, a causa dell’imminente avvento, e delle feste natalizie del Signore. Per quel che ancora rimaneva in città, rimandai al prossimo anno la visita.
1753.17 Proroga degli obblighi pubblici per il passaggio e lo stazionamento delle truppe straniere.
In questo periodo, ci venne comunicato per mezzo di un chirografo scritto da Benedetto XIV dell 29 agosto che, poiché i 120.000 scudi non erano sufficienti per estinguere il debito contratto dalle comunità dei domìni della Chiesa per il passaggio e la permanenza delle truppe straniere, ne sono stati aggiunti altri 20.800, da pagare nel corso di sette anni, da esigersi entro 18 anni, mentre i 120.000 scudi erano stabiliti dal 1748. Infatti veniva affermato che dai sovrani le cui truppe avevano provocato danni, il pontefice non aveva ricevuto nessuna somma, dopo tanto tempo, né c’era speranza per il futuro di poter avere un qualche modico compenso. Crescevano pertanto le proteste delle nostre popolazioni per il fatto che, nonostante il fatto che il re di Spagna non avesse risarcito nulla di quanto dovuto in riparazione dei danni, come abbiamo riferito sopra, la Sede Apostolica avesse concesso a lui (grazie al concordato) il privilegio di appropriarsi dei sacri diritti beneficiali della Chiesa.
1753.18 Transazione riguardante l’eredità Marefoschi.
Frattanto, a Roma, si stava trattando vivacemente per comporre le controversie insorte sulla eredità di Pietro Antonio Marefoschi, davanti ai tre presuli, ai quali dal pontefice era stato affidato l’affare. Agli eredi della famiglia Compagnoni, a motivo di Giulia Marefoschi, ultima donna di quella famiglia, fu necessario di rimettere molte cose e specialmente i frutti finora percepiti che erano stimati circa 25.000 scudi e altre non poche cose. Io non omisi di fare osservazioni su alcuni nuovi aspetti, al fine di prevenire altre complicazioni. Esposi comunque i miei consigli in modo pacato, illustrandoli con calma. Lorenzo Mazzagalli, uno dei deputati del paese di Monte Santo, per tutto il periodo della discussione della causa si impegnò con molto vigore. A Roma Nicola, avvocato e Carlo Grisei, procuratore, difendevano assiduamente i diritti del testatore e delle opere pie da erigersi come indicato nel testamento.
Finalmente i presuli che fungevano da mediatori, con l’approvazione del pontefice Benedetto, avevano deciso i punti per la concordia e le disposizioni per chiudere la faccenda, come fu richiesto da me, dalla Comunità di Monte Santo e dai più stretti consanguinei. Ed io il 20 settembre le feci avere a Gaspare Ruggia, mio agente a Roma, per quel che che interessava la Chiesa Fermana. Il 2 ottobre, di fronte ai predetti mediatori, per gli atti di Rocco De Sanctis, notaio capitolino, si stipulò la transazione della intera eredità di Pietro Antonio Marefoschi. Il sommario dell’accordo era il seguente: i Compagnoni dovevano lasciare e consegnare tutti i beni ereditari ad eccezione dei terreni presso Montelupone e quelli acquisiti dagli eredi, nonché il grande palazzo esistente a Monte Santo, il quale poteva essere tenuto da Giulia Marefoschi, loro madre, fino a quando non sarebbe servito all’erezione di un monastero o di un’altra opera pia, a cui dovrà essere ceduto, condonate tutte le spese fatte per le migliorie realizzate nei beni ereditari. Tale riconsegna dovrà essere fatta a favore degli esecutori delle opere da erigersi. Peraltro ai Compagnoni erano lasciati tutti i frutti percepiti e inoltre erano promessi duemila scudi, per la restituzione della dote di Giulia Fiorenza, moglie di Pietro Antonio Marefoschi. Furono condonate alle due parti le spese giudiziarie, con altre condizioni aggiunte.
Dopo ciò, si doveva realizzare l’esecuzione dell’accordo, ma non se ne fece nulla per il fatto che i Compagnoni rivendicarono tutto quello che doveva andare per il monastero erigendo, in quanto si consideravano, in quel particolare caso, come esecutori testamentari, mentre alla comunità di Monte Santo sarebbe dovuto andare quanto era necessario per l’istituzione di un seminario. L’arcivescovo fu completamente dimenticato. Pertanto, presentate le varie lamentele a Roma, vi furono nuove iniziative e nuove macchinazioni; di ciò però si dovrà parlare nell’anno seguente.
1753.19 Promozione di nuovi cardinali – Carlo Gonzaga governatore di Macerata.
Era comune l’aspettativa che Benedetto XIV facesse una nuova promozione di cardinali della santa Romana Chiesa. Da tempo se ne faceva un gran parlare. La vicenda implicava però varie difficoltà, particolarmente perché Benedetto aveva promesso al re di Sardegna che avrebbe compreso tra i nuovi cardinali anche Ludovico Merlini, nunzio apostolico presso quella corte. Da ciò era insorta una contesa tra il re di Polonia e quello delle Due Sicilie poiché entrambi chiedevano la stessa cosa per i propri nunzi, quantunque molti sospettassero che ne sarebbe derivato un qualche ritardo, da quanto si sapeva delle intenzioni del pontefice il quale non era propenso a far ciò. Finalmente il 26 novembre il papa pubblicò il nome di 16 nuovi cardinali di santa Romana Chiesa. Non prese alcuna decisione per gli altri due che erano desiderati, per raggiungere il numero consueto di settanta cardinali. Egli fece un elegante discorso, appositamente, allorché annunciò il nome dei nuovi cardinali.
La promozione riguardò per lo più i prelati del Palazzo e della curia oltre che i nunzi presso l’imperatore e i re di Francia, di Spagna e di Portogallo. Nessuno fu nominato che era impegnato nel governo pastorale delle diocesi. Tra il clero religioso, uno soltanto fu promosso e cioè l’abate generale dei canonici regolari del SS. Salvatore, Antonio Galli di Bologna. Due dei nuovi cardinali erano stati governatori di Fermo durante il mio episcopato: il primo era Carlo Francesco Durini, poi divenuto nunzio presso il re di Francia, inoltre Cosimo Imperiali, poi governatore di Roma. Un altro era stato governatore di Macerata, mentre io ero arcivescovo, Enrico Enriquez, che, con una strana manovra nel corso delle cariche, fu mandato alla legazione di Spagna, dopo esser stato governatore.
Nella distribuzione dei benefici, che è solita farsi tra i nuovi promossi, il priorato Fermano di San Salvatore, i cui proventi ammontano a cinquecento scudi ogni anno, lo ottenne Giuseppe Maria Ferroni, fiorentino. La principale abbazia commendataria del dominio della Santa Sede, cioè l’abbazia di Subiaco, fu assegnata al neo cardinale Giovanni Francesco Bancheri da Pistoia, privata tuttavia della giurisdizione civile che antecedentemente spettava a quel monastero e che Benedetto XIV aveva da poco assegnata alla Camera Apostolica, come abbiamo spiegato sopra. Subito venne concessa al Bancheri anche la legazione di Ferrara. Pallavicini, dopo lasciata la provincia, andò come nunzio apostolico nel regno delle Due Sicilie. Carlo Gonzaga, già governatore a Fermo, ricevette le decime a posto suo.
1753.20 I giudizi criminali vengono affidati all’uditore di Camera – L’autorità della congregazione del Buon Governo viene ricondotta entro i suoi limiti istituzionali.
Dobbiamo una speciale gratitudine al papa Benedetto XIV e tributargli una grande lode per il fatto che il 26 novembre aveva pubblicato due importanti ed utili costituzioni, con la data al 1 ottobre. Con la prima egli prescriveva all’uditore di camera una speciale procedura, nei giudizi criminali, in modo da contrastare opportunamente la pretesa di coloro che cercavano di sfuggire ai giudici ordinari, ricorrendo all’appello a Roma con la speranza di ottenere l’impunità per i loro crimini. Benedetto XIV richiamava l’attenzione dell’uditore di camera sulla necessità di non adottare un troppo largo criterio, a tutela degli accusati di crimini, come usato fino ad allora, specialmente nel periodo di Flavio Chigi in quel giorno era stato assunto tra i cardinali.
Con l’altra costituzione, Benedetto XIV, limitava l’autorità della congregazione del Buon Governo sullo stato economico nelle terre della Chiesa romana e restituiva alle comunità locali il libero diritto di eleggere le persone alle quali affidavano l’incarico di difendere i loro interessi presso il governo centrale, in modo che la fiducia e la diligenza fossero riposte su questi e non sugli agenti nominati dall’alto. La prassi vigente, infatti, prevedeva che la nomina degli agenti degli affari delle singole città e comunità fosse di competenza del cardinale prefetto della congregazione del Buon Governo. Al posto di costoro che venivano assegnati per gli interessi locali, di comunità o città, senza che usassero vero impegno, badando soprattutto a ricevere i consueti dovuti stipendi, i rappresentanti scelti localmente erano preferibili. Il papa Benedetto, che su questo problema aveva ricevuto molte lamentele, giustamente risolse la questione con nuovi decreti, proprio nel giorno nel quale il cardinale Chigi cessava dal suo incarico, e quindi la congregazione del Buon Governo era priva del prefetto.
1753.21 Cambiamento del periodo in cui si possono tenere le ordinazioni generali dei chierici.
Era invalsa la consuetudine di celebrare i riti dell’ordinazione generale dei chierici nel mese di dicembre, nella cappella grande del palazzo vescovile; ho, tuttavia, deciso di interrompere tale tradizione. Sapevo infatti che a norma dei sacri canoni, le ordinazioni generali si dovevano tenere nella chiesa cattedrale. Senonché nel caso di Fermo, a causa della distanza dell’episcopio dalla chiesa metropolitana, e a motivo delle difficoltà del percorso, del dissesto della strada e dell’eccessivo freddo del Girfalco, era stata introdotta dagli arcivescovi la consuetudine di celebrare simili cerimonie altrove e l’arcivescovo Mattei aveva deciso di tenerle nella chiesa della Casa della Missione. Alcune volte ho continuato a fare le ordinazioni nella predetta chiesa della Missione, la maggiore fuori Fermo; allorché poi mi trovavo, fuori, in visita pastorale, le tenevo nella chiesa principale del luogo dove stavo. Tuttavia, stabilii che in seguito le ordinazioni generali si svolgessero nella cattedrale, purché la condizione climatica del tempo non lo avesse impedito.
1753.22 Restauro delle mura della città di Fermo – Famiglie provenienti dalla Lombardia che vengono annoverate nella nobiltà fermana – Marco Antonio Savini addossa costruzioni alle mura parecchie – La nuova edicola di Sant’Anna a Fermo – Sono lastricate le vie della città – Celebrazione a Fermo del capitolo provinciale dei frati Minimi di san Francesco di Paola.
Durante quest’anno si è molto lavorato e molto speso per il restauro delle mura della città di Fermo. Due nuove famiglie, quella di Giulio e quella di Giuseppe Mora di origine lombarda, che avevano realizzato buoni profitti con la loro attività commerciali, furono iscritte alla nobiltà Fermana. Ognuna di esse aveva contribuito con 800 scudi di argento al restauro delle mura, secondo la tassa stabilita da Roma, su mia sollecitazione. La tassa, antecedentemente, era stabilita in 1000 scudi. Conseguentemente l’una e l’altra famiglia conseguirono giustamente tale privilegio, sia per le grandi ricchezze di cui disponevano, sia perché conducevano uno stile di vita alla maniera dei nobili, e avevano realizzato matrimoni con famiglie nobili della città. Grazie a tali offerte e ad altro denaro, proveniente dal pubblico erario, l’opera di restauro progredì decisamente e giunse al completamento sul lato meridionale delle mura. Sull’altro lato, di fronte, verso settentrione, l’arcidiacono Marco Antonio Savini, costruì diversi edifici, nei luoghi a lui concessi, addossandoli alle mura urbane <restaurandole>. In particolare costruì la cappella dedicata a sant’Anna, destinata al culto divino.[2]
I preti della congregazione dell’Oratorio portarono quasi a compimento il loro grande edificio iniziato nel 1751, impiegando costruttori lombardi e svizzeri che realizzarono, al di là delle condizioni e possibilità degli stessi preti, un’opera elegante e perfetta. Anche le vie della città vennero lastricate con cura.
Infine il padre Baldassarre Massi, superiore della provincia religiosa dei frati Minimi di san Francesco di Paola, negli anni trascorsi, aveva fatto costruire una nuova chiesa e una gran parte del convento; in quest’anno fece aggiungere altre parti alla costruzione, affinché vi si potesse tenere il capitolo provinciale del proprio ordine, che effettivamente si svolse splendidamente nel mese di settembre, in modo regolare.
1753.23 Viene restaurato l’antico ambone della cattedrale e collocato presso l’altare maggiore – Nuovo pavimento nella chiesa di San Claudio.
Mi sono attivato per restaurare l’antico ambone di marmo nel quale era scolpita l’aquila che reggeva il libro del vangelo dell’apostolo San Giovanni. Ne avevo ritrovato i resti nello scantinato della chiesa e adornandolo, lo feci ricollocare presso i gradini dell’altare maggiore della cattedrale, ad uso del diacono che vi proclamava il vangelo al popolo. Annunciai l’evento nella solenne omelia tenuta nella festa di Tutti i Santi.
Sotto il palazzo vescovile, tra una piccola casa di proprietà del vescovo e l’orto dei frati domenicani, esiste un muro comune di divisione, rovinato; esso è stato restaurato col contributo mio e del convento di san Domenico. Nella chiesa di san Claudio ho fatto lastricare il pavimento con lastre di pietra squadrate e levigate e mi costò circa cento scudi. Nella proprietà di Corcorosa, presso la chiesa di Santa Croce, dopo demolite le capanne, ho fatto edificare in mattoni, dalle fondamenta, una stalla che potesse contenere cento pecore. Inoltre ho fatto eseguire molti altri lavori di riparazione, in altre proprietà.
1753.24 Costruzione di palizzate di difesa contro l’inondazione del fiume Chienti a San Claudio e del fiume Tenna a Monteverde (Paduli). Buon successo della iniziativa.
Per contenere le inondazioni delle acque, a danno dei terreni della Chiesa Fermana, ho fatto accrescere le palizzate di difesa a San Claudio, inoltre le ho fatte costruire anche a Monteverde nel terreno di Paduli, minacciato dalle acque del fiume Tenna. Benché i lavori richiedessero una forte spesa, tuttavia il risultato ha raggiunto un buon effetto. Ciò però non accadde nel campo di Paduli, dove l’anno successivo fu necessario ricostruire le difese, con una nuova ingente spesa per le fortificazioni, contro l’impeto delle acque del fiume che aveva divelto le precedenti palizzate e devastato in parte i terreni della Chiesa. Sono state intensificate le piantumazioni di alberi fluviali presso San Martino, a Santa Croce, inoltre nello stesso terreno di Paduli. Sulle altre piantagioni di alberi non ho cose particolari da aggiungere.
<Il manoscritto prosegue come VOLUME III dal 1754 al 1758 >
ANNO 1754
1754.1 L’educazione cristiana della famiglia: argomento della predicazione per l’anno in corso.
Nell’anno passato, a partire dalla festa della circoncisione del nostro Signore Gesù Cristo, ho trattato, nelle omelie di alcune festività, il tema dell’obbligo di partecipare alla Messa, dividendo l’argomento in diversi capitoli. Ho lungamente pensato a quale argomento della dottrina cristiana io dovessi trattare, durante quest’anno. Ho deciso di parlare dell’educazione cristiana nelle famiglie. A fare inizio dal primo gennaio, tale argomento mi è sembrato importante e necessario per il popolo della nostra città, adeguato ad essere spiegato nelle omelie e molto utile sia ai dotti che a coloro che non hanno istruzione. Avevo giudicato che proprio questo era richiesto dal mio pastorale ministero. I vescovi, infatti, per la loro autorità e per il loro compito di maestri sono considerati i primi genitori (della fede) in Cristo per i fedeli cristiani e perciò giustamente compete a loro il nome di padri. Di fatto, essi generano i figli a Cristo con il sacramento del battesimo, li nutrono con gli altri sacramenti, e formano l’intera famiglia di Cristo, spiegando i documenti della fede. Essi dirigono il popolo, con i precetti della legge cristiana, e custodiscono così il gregge di Cristo. Del resto l’argomento si addiceva alla mia età, avendo superato il settantunesimo anno di vita. Ho maturato una lunga conoscenza del popolo Fermano, essendo al trentesimo anno dell’esercizio dell’ufficio di arcivescovo di Fermo.
Ho iniziato questo programma il primo gennaio dell’anno corrente e mi riproponevo di continuare, non solo nel primo giorno degli anni seguenti, ma di parlare di questo tema scelto anche in occasione di altre solennità, nel corso dell’anno, poiché avevo notato che l’argomento era gradito alla gente che seguiva questa catechesi con interesse e con molta attenzione.
1754.2 Lavori compiuti contro le inondazioni del fiume Tenna.
Nel mese di gennaio si rese necessario di creare molte nuove difese contro le inondazioni del fiume Tenna specialmente nei terreni di Paduli, poiché era imminente la minaccia di tracimazione del fiume e le palizzate rafforzate nell’autunno precedente erano per la maggior parte seriamente danneggiate. Sforzi fatti a vuoto. Nell’eseguire questi lavori io non pensavo soltanto ai terreni della mensa, per i quali il pericolo era esiguo per qualche difficoltà di stagione avversa, né la spesa dell’opera diveniva gravosa, ma, particolarmente mi preoccupavo che il terreno in basso (possessione) dei signori Rota, che era confinante, non subisse maggiori danni. Accadde tuttavia fortunatamente che lo stesso fiume, abbandonata la nostra sponda, si riversasse sulla riva opposta degli Elpidiensi.
1754.3 I diritti della mensa vengono contestati dagli elpidiensi presso la congregazione del Buon Governo.
Ero particolarmente preoccupato di ciò che gli Elpidiensi andavano tramando con falsità, a Roma, per ottenere cose contro i diritti e contro gli antichi privilegi, goduti dal monastero di Santa Croce, spettante alla mensa arcivescovile. Essi avevano estorto alla sacra congregazione del Buon Governo la cancellazione di ciò che avevamo ottenuto in sede di processo possessorio e che, invece, ci veniva negato nel giudizio petitorio, cioè che, coloro che godevano del privilegio, qualche pagamento come quello detto Bollo estinto e riparto per il passaggio ed accantonamento delle truppe estere, per i nostri possedimenti del monastero di Santa Croce, non fosse più versato a Roma (come avvenuto fino ad allora), ma venisse versato al comune Elpidiense, e che i coloni dello stesso monastero, per macinare il frumento necessario al loro sostentamento, dovessero recarsi al mulino della comunità di Sant’Elpidio.
Tentai in tutti i modi possibili, a Roma, per fare sì che quella antica celebre abbazia fosse esente da questo strano modo innovativo. Notando però che, in questi tempi, Roma era ferocemente contraria a tutte le immunità ecclesiastiche, mi accorsi che la speranza di ottenere qualcosa riguardo all’immunità ecclesiastica, era pressoché nulla. Pensai allora che il modo migliore di difendere la mia Chiesa fosse quello di interporre ricorso, mediante una pubblica dichiarazione, che io poi, il 12 gennaio, feci depositare nell’archivio segreto. In essa protestavo solennemente che io in nessun modo accettavo quelle ingiuste tassazioni, anzi che volevo mantenere, per la mia Chiesa Fermana, il possesso del monastero di Santa Croce, con tutti i suoi beni e diritti, con ogni libertà ed immunità, come i vescovi ed arcivescovi Fermani, miei antecessori, avevano goduto e avuto, nei molti secoli precedenti, con la speranza che, in futuro, si dovesse presentare l’occasione opportuna per presentare il ricorso e la querela o qualsiasi altro modo di migliore rimedio per rivendicare, presso la Sede Apostolica, i privilegi, le libertà e le immunità nella forma preesistente della mia Chiesa.[3]
1754.4 Concessa a tutti i sacerdoti la facoltà di benedire gli oggetti necessari alle celebrazioni liturgiche.
Ho concesso a tutti i miei collaboratori e a tutti i sacerdoti investiti di giurisdizione ecclesiastica la facoltà di benedire le suppellettili necessarie alle celebrazioni liturgiche nel servizio dell’altare, sia le facoltà concesse dall’ordinario, sia quelle concesse dalla Santa Sede, giunte alla scadenza, rinnovate da me per un altro quinquennio. Pubblicai perciò un apposito editto, il 29 febbraio, affinché nella nostra diocesi, così ampia, non vi fosse alcuna esitazione, né difficoltà alcuna, su questa materia e in modo che i sacerdoti fossero disponibili per consacrare gli oggetti necessari alle funzioni liturgiche, seguendo il rito appropriato.
1754.5 Considerazioni sulle feste che si organizzano durante il carnevale e particolarmente sulle rappresentazioni teatrali.
Nelle manifestazioni carnascialesche di quest’anno, sono state rappresentate, in modo spettacolare e dispendioso, nel nuovo teatro, commedie in musica, con la presenza di spettatori venuti da fuori. Vennero a tal fine presso di me due presuli: mons. Stella, governatore di Loreto e mons. Ferrera; io tuttavia mi astenni dal recarmi a teatro, né mai ho assistito alle rappresentazioni. Furono espresse varie opinioni su tali commedie da parte di molte dotte persone: ci furono alcuni che hanno espresso giudizi di approvazione, altri invece diedero valutazioni di condanna. Tra questi ultimi, Daniele Concina dell’ordine dei Predicatori le condannò severamente, pubblicando un libro dato alle stampe <De’ teatri moderni contrarj alla professione cristiana, libri due>. Anche il cardinale Angelo Maria Quirini, vescovo di Brescia, con la sua lettera pastorale, le aveva sapientemente condannate. Da parte mia non potevo certo approvarle poiché esse davano origine a diversi rischi, non però per la ragione che simili commedie del nostro tempo fossero da riprovare, quanto perché, come si riteneva nei tempi remoti, contro di esse la maggior parte dei nostri padri, e specialmente Saviano, avevano avanzato giudizi di assoluta condanna. In quel remoto tempo, infatti, i teatri costituivano un pericolo di prevaricare contro la fede cristiana e contro la religione, poiché a coloro che li frequentavano, venivano rappresentate varie superstizioni popolari e alcune pratiche idolatriche, e altre situazioni contrarie alla morale <cristiana> nelle scene e nel parlato. Attualmente, invece, siamo immuni da tali pericoli. Dalle moderne commedie non vedo derivare alcun pericolo di apostasia e, a meno che l’insieme del discorso e dell’azione non contenga qualcosa di licenzioso, non viene introdotto nelle anime alcunché di turpe dalle nostre commedie e tragedie, ma il più delle volte sembrano offrire l’esaltazione dell’onestà e della virtù. Adesso tuttavia, a causa della malignità dei tempi, dell’eccessiva spesa, della promiscuità tra uomini e donne e a volte dei non infrequenti incitamenti alla concupiscenza, possono nuocere a chi vi assiste. Si può trovare un’unica giustificazione per permetterle, cioè che, prima che entri in vigore il solenne digiuno quaresimale, sembra opportuno permettere un qualche rilassamento dell’animo. Se venissero, infatti, a mancare le commedie teatrali, essi sarebbero sostituiti dai balli, dai giochi e dagli assembramenti di sesso promiscuo che rappresentano occasioni di pericoli non meno pressanti e gravi. Per questo sono del parere che sia necessario fare in modo che gli spettacoli di teatro siano brevi, poco costosi e che si mantengano nei limiti dell’onestà; inoltre che siano rappresentati solo nel periodo del carnevale.
1754.6 Sepolcro della beata Maria Guilla nella cattedrale di Velletri.
Mentre nell’anno del Giubileo mi trovavo a Velletri, notai con dolore e con stupore che nella cattedrale era stata introdotta una innovazione al sepolcro della beata Maria Guilla che si conserva nella cappella dell’Immacolata Concezione vicino all’altare. Anzitutto l’urna di marmo era stata trasferita in altro luogo, perché impediva ai canonici di potersi recare nel coro dietro l’altare a recitare l’ufficio durante l’inverno. In secondo luogo, l’antica iscrizione che si leggeva nell’urna diceva: “ Deposito + della beata Maria Guilla +” era stata cancellata con la calce per ordine dei collaboratori del cardinale Rufo, imprudentemente perché ne ignoravano il valore e l’utilità in tempo di visita pastorale, per ignoranza. Pertanto, per vendicare l’offesa fatta alla religiosità antica, esortai caldamente il cardinale Carafa, nuovo vescovo di Velletri, di leggere quanto io stesso avevo scritto intorno alla beata Maria Guilla nel mio libro Storia di Velletri al libro III, sec. XI, n. 73 e anche ciò che avevano scritto altri, ciò per convincerlo a voler ripristinare lo stato e il sito del monumento. Egli, dopo aver consultato il vescovo Carlo Antonelli, suo ausiliare, subito chiarì in modo completo la validità del mio consiglio e promise che avrebbe subito provveduto a ripristinare le cose, secondo il desiderio da me espresso.
1754.7 Pretesi rapporti tra la nobile famiglia Sinigardi e il primo vescovo di Fermo sant’Alessandro.
Nel mese di febbraio, morì in età avanzata l’ultima donna appartenente alla antica e nobile famiglia fermana dei Sinigardi. Nel passato ci fu l’opinione di alcuni che sant’Alessandro, vescovo e martire Fermano, provenisse proprio da questa famiglia. La memoria del santo martire Alessandro è riportata dal martirologio romano al giorno 11 gennaio, quando la Chiesa Fermana lo venera. Poiché però il suo martirio sembrava risalire al tempo delle aspre persecuzioni del III sec. dopo Cristo, una così lunga durata della famiglia e del cognome non poteva essere comprovata da nessun documento di vecchia tradizione, anche in considerazione del fatto che gli antichi nomi e cognomi delle famiglie al tempo delle invasioni barbariche scomparvero e l’uso di essi ricomparve soltanto nel corso dell’XI secolo, pertanto non c’era alcun fondamento di credibilità. Già da qualche anno era morto l’ultimo maschio della detta famiglia che si chiamava Giovanni Francesco Sinigardi il quale, dopo la morte della sorella che era usufruttuaria di tutti i beni, aveva disposto che si istituisse nella cattedrale una cappella in onore di sant’Alessandro. Di ciò però si parlerà in seguito.
1754.8 La triste vicenda del sacerdote Antonio Cosimi di Mogliano.
Nel passato mese di gennaio, siamo stati colpiti dal triste errore commesso e dalla fuga da Roma di Antonio Cosimi, sacerdote originario di Mogliano, nella nostra diocesi. Egli, nato da una famiglia onesta, e dopo gli studi letterari, si era dedicato allo studio delle scienze matematiche, divenendo gran conoscitore di ottica e artefice molto abile nell’arte di costruire cannocchiali e altri strumenti del genere. Fece parte prima del gruppo dei nobili scienziati del cardinale Francesco Borghese e, in seguito, passò al servizio del cardinale Silvio Valenti, segretario di Stato di Benedetto XIV, presso il quale aveva trovato buon gradimento tanto che, dovendo essere scelto un soggetto da inviare nel Piceno al fine di acquistare il grano per le necessità della città di Roma, fu scelto proprio lui e svolse il suo compito meritandosi l’apprezzamento per la sua onestà. Benedetto XIV gli aveva assegnato diversi benefici ecclesiastici, in parte nella nostra diocesi, e in parte nel Piceno. Nel periodo della sua permanenza a Roma, conduceva un tenore di vita molto dispendioso e troppo al di sopra delle sue possibilità, e dedicava molto tempo al gioco d’azzardo; per questo si era impegolato in una gran quantità di debiti. E poiché non era abbastanza garantito dai beni di famiglia, fuggì da Roma recandosi in Germania. Grave fu il disonore procurato alla sua famiglia e ai suoi parenti. Causò molto dolore anche a me, visto che lo avevo seguito con interesse e avevo sempre attestato la sua onestà e soprattutto perché lo avevo ordinato sacerdote. Per la pressione esercitata dai creditori, furono sequestrati i singoli benefici ecclesiastici di cui godeva; in tal modo è stato offerto un severo ammonimento ai temerari giocatori d’azzardo.
1754.9 Unione di alcuni benefici semplici alla chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Grazie di Monteverde.
Nel mese di febbraio, morì Deodato Urbani del castello di Monte San Martino; egli era titolare di parecchi benefici ecclesiastici semplici nella nostra diocesi, ma di scarsa entità e la cui collazione spettava a me per diritto di alternanza mensile. Da molto tempo stavo tentando di aggiungere qualche beneficio alla poverissima chiesa di Santa Maria delle Grazie in Monteverde, come sussidio per chi esercitava la cura delle anime nello stesso castello. Pertanto ho unito a quella chiesa uno dei benefici di cui aveva goduto il detto sacerdote, e cioè il beneficio di San Giovanni avanti Porta Latina, esistente nella chiesa parrocchiale del paese di Penna S. Giovanni e ho distribuito gli altri.
1754.10 Morte di due cardinali amici dell’arcivescovo: il cardinale Giuseppe Levizzani e il cardinale Alessandro Tanari, incaricato di risolvere la controversia dell’eredità Marefoschi.
Nel mese di marzo, vennero a mancare due cardinali, a me legati da antica amicizia: il primo era Giuseppe Levizzani di Modena, creato cardinale nello scorso novembre, e segretario di Benedetto XIV per la spedizione delle lettere pontificie in risposta alle lettere di suppliche. Il secondo cardinale era Alessandro Tanari di Bologna, con il quale avevo un legame di amicizia fin dai primi studi letterari, compiuti insieme nel Collegio Romano. Essendo protettore della cittadina di Monte Santo, egli difendeva la causa testamentaria dell’eredità di Pietro Antonio Marefoschi contro i tentativi e i raggiri dei signori Compagnoni che, dopo la transazione stipulata a seguito della lunga lite, si rifiutavano di eseguire gli accordi raggiunti con me, cercavano infatti di stravolgere le disposizioni testamentarie. Pretendevano in pratica che tra tutte le proprietà terriere e gli altri vasti beni di Pietro Antonio, che essi detenevano e che raggiungevano un reddito di 73.000 mila scudi di argento, depositati nei luoghi di Monti, una parte avrebbero dovuto costituire la dote per istituire nella chiesa della pievania di Monte Santo un collegio canonicale, l’atra parte dovevano servire al mantenimento di un certo numero di giovani di quel paese i quali si dedicassero agli studi letterari, un’altra parte, infine, da usare per la dote di una monaca della famiglia Marefoschi o di persona giovane oriunda del paese, che entrasse in uno dei due monasteri esistenti nel paese. Questa pretesa avrebbe sovvertito la volontà del testatore. Era chiara pertanto la ragione del mio dispiacere per la morte del cardinale Alessandro Tanari, sul quale si fondavano tutte le nostre speranze di poter tutelare, non tanto i miei privati interessi, quanto gli interessi pubblici di Monte Santo. Una volta infatti scomparso il cardinale, i Compagnoni cominciarono ad agire come se fossero i fiduciari per l’assegnazione dell’asse ereditario per stravolgere i patti raggiunti con la transazione, facendosi forti della protezione di cui godevano da parte del cardinale Argenvelliers che, dopo la nomina a cardinale, manteneva l’incarico di uditore del papa Benedetto XIV, influente per i suoi consigli e per la sua autorità.
1754.11 Predicatore della quaresima in cattedrale – Lite pendente a Roma tra la mensa arcivescovile e la città di Macerata.
Durante la quaresima di quest’anno, abbiamo avuto come predicatore nella metropolitana, il padre Celestino de Andrea, monaco della congregazione dei Celestini, il quale abbastanza saggiamente svolse il suo compito.
Frattanto, a Roma, presso la curia dell’uditore di camera, di fronte al presule Simonetti, luogotenente dell’uditore, si stava svolgendo la causa per la controversia tra la mensa arcivescovile (attore) e la comunità della città di Macerata (parte convenuta) per la faccenda degli Spogli, inoltred per il ripristino della situazione cambiata dai Maceratesi che avevano cambiato l’alveo del fiume Chienti in modo che le acque intercluse non arrivassero nel vecchio canale che le conduceva al nostro mulino di San Claudio.
Mons. Simonetti il 29 marzo pronunciò la sentenza che disponeva di correggere lo spoglio e che la situazione del canale fosse riportata allo stato precedente. Una volta ripristinata, fosse chiuso il nuovo canale da noi fatto aprire per condurre l’acqua al mulino. Tale sentenza riportò l’animo dei Maceratesi a miglior consiglio e a decidersi di sottostare alle nuove disposizioni e a riappacificarsi con noi. Meditavano sulla composizione da fare quando io mi recassi in quelle parti e fui indulgente con loro.
1754.12 Visita pastorale nelle località della zona maceratese.
Da tempo, pensavo di effettuare la visita pastorale delle parrocchie site nel Maceratese; pertanto il 6 maggio, dopo aver scelto, come con-visitatori, Giovanni Antonio Leli, primicerio, e Liberato da <Monte> San Giusto, ex provinciale dei frati Minori dell’Osservanza di San Francesco, mi sono recato a Monte Urano dove ho potuto celebrare la Messa, nel nuovo presbiterio, dopo che la chiesa prepositurale era stata restaurata dalle fondamenta dal prevosto Giovanni Andrea Pascolani. Anadi poi a “Veregrano” (= Montegranaro), “Giustopoli” detto <Monte> San Giusto, Morrovalle. Qui i canonici erano desiderosi di realizzare l’ampliamento della chiesa collegiata di San Bartolomeo. Mi sono recato nella mia abbazia di San Claudio e vi ho collocato e benedetto le stazioni della Via Crucis per stimolare la devozione del popolo verso la passione del Signore. Mentre mi trovavo a San Claudio, mi è venuto a far visita mons. Carlo Gonzaga, governatore di Macerata. Subito dopo andai a Montolmo <= Corridonia> dove mi fermai più a lungo; e potei così ammirare la nuova abside della chiesa di San Donato, costruita ed aggiunta all’antica chiesa grazie ad un legato istituito dal precedente pievano.
A Montolmo, ho anche ricevuto una delegazione inviata dalla comunità di Macerata per trattare della questione del mulino di San Claudio, in relazione al problema del pagamento delle varie spese sostenute durante e dopo la trattazione della causa. Sulle spese sostenute a Roma per la celebrazione del processo, ho detto che ero disposto a condonare tutto; per quello che concerneva le altre spese sostenute dalla comunità di Montolmo, che gestiva come affittuario della mensa arcivescovile il mulino di San Claudio, come ad esempio le spese per lo scavo del nuovo canale di conduzione dell’acqua e per eventuali danni subiti, dissi che sarebbe stato necessario addivenire ad un accordo tra la città di Macerata e il paese di Montolmo. Le mie proposte piacquero ai delegati, ma ad oggi gli accordi non sono stati ancora sottoscritti.
1754.13 Morte di Filippo Visi di Velletri – Vicenda della apposizione della lapide per ricordare i restauri delle mura cittadine – Sul diritto dell’arcivescovo di fregiarsi del titolo di principe – Sacra ordinazione generale e amministrazione della confermazione – Controversia col capitolo metropolitano sulla giurisdizione e sul conferimento di alcuni benefici.
Mentre ero ancora impegnato a compiere la visita pastorale, mi giunse la dolorosa notizia della morte avvenuta il 19 maggio, a Roma, nel convento di Santa Maria dell’Araceli, del padre Filippo Visi da Velletri, sacerdote dei frati Minori di san Francesco, uomo in grande fama di santità.
Ho avuto anche un’altra amarezza per un fatto spiacevole: la sacra congregazione Fermana con una sua esplicita ordinanza, confermata anche per lettera, mi aveva incaricato di far scolpire una lapide per ricordare i lavori di restauro delle mura cittadine. Il testo da incidere fu approvato da Roma ed io lo inviai ad Ancona per l’esecuzione. La lapide è stata poi trasportata al Porto di Fermo ed io l’ho fatta portare fino a Fermo per farla affiggere sul bastione esistente sotto gli orti dei Cappuccini, mura recentemente ricostruite dalle fondamenta.
A questo punto la congregazione Fermana è intervenuta, come avesse cambiato parere, ordinando che si soprassedesse all’affissione della lapide già pronta. La motivazione del cambiamento era che il testo non veniva approvato per il fatto che veniva attribuito all’arcivescovo di Fermo il titolo di “principe”, qualifica di cui, secondo loro, non poteva fregiarsi. Ho pensato che fosse il caso di riaffermare che il titolo di principe spettava effettivamente all’arcivescovo di Fermo, non solo per l’antichissima consuetudine, ma anche in considerazione dei numerosi ed antichi documenti pontifici che glielo riconoscono. Questa cosa rivelava innanzi tutto una conoscenza superficiale degli antichi documenti, inoltre una precisa volontà di offendere la dignità della Chiesa Fermana. Era poi un gesto di ingratitudine verso il minuzioso, grande e molto utile lavoro del restauro delle mura, specialmente in ragione del fatto che fruttava denaro che veniva riscosso in quantità aumentata. Naturalmente la Congregazione si opponeva non tanto al titolo di principe per l’arcivescovo, ma contrastava il fatto che fosse usato nella lapide già approvata da Roma.
Il 7 giugno, terminata la visita pastorale, sono tornato a Fermo. Il giorno 8, cadeva nel sabato delle Quattro Tempora; ho tenuto pertanto l’ordinazione generale dei chierici. Il 9, festa della SS. Trinità, amministrai il sacramento della cresima a molte centinaia di ragazzi e ragazze della città. Ho fatto tutto ciò senza frapporre neppure un giorno di riposo per dissipare la diceria che si era diffusa che mi ero ammalato nel compiere la visita pastorale.
Il 10 giugno fu proposta la causa davanti all’uditore di Rota per risolvere la controversia insorta tra l’arcivescovo e il capitolo metropolitano in materia di giurisdizione per il conferimento della parrocchia dei santi Giovanni Battista e Paolo, nel paese di Rapagnano, e del beneficio dei santi Giuseppe e Giacomo da istituire nella chiesa parrocchiale dei santi Cosma e Damiano in Fermo, beneficio che era di giuspatronato della famiglia dei conti Gigliucci.
I canonici, nel presentare la vertenza, ricordavano anche alcune altre controversia avute con l’arci-vescovo per i diritti sull’abbazia di San Savino e sui priorati, uniti al capitolo, di San Pietro Vecchio e di Santa Maria a Mare, come ho detto in questa cronaca all’anno 1752 al numero 3. Tale riferimento però non serviva a nulla; infatti nelle relative decisioni della Rota ottenute dal capitolo, nulla si diceva circa questi e circa la parrocchia di Rapagnano. Sul caso della parrocchia dei santi Cosma e Damiano di questa città si trattava soltanto del diritto di conferire il beneficio, cosa che non intaccava il diritto di giurisdizione dell’arcivescovo sulla parrocchia. Del resto il privilegio di Urbano IV con il quale venne costituita quella parrocchia, nulla toglieva alla giurisdizione della Chiesa Fermana che rimaneva invece perfettamente intatta in forza della clausola; Fatta salva l’autorità della Sede Apostolica e le disposizioni di diritto del vescovo, in considerazione delle norme generali fissate dal concilio generale lateranense III celebrato da Alessandro III, al quale appunto si riferiva Gregorio IX nelle sue decretali al capitolo XXXI sulle prebende e dignità: Stabiliamo che spetti ai vescovi la nomina dei parroci, nonostante che alcune chiese non appartengono pienamente al loro diritto, sulla base di quanto stabilito in quel concilio.
Poiché però il difensore del capitolo dei canonici aveva gravemente mutilato il testo del privilegio di Urbano IV, avendo omesso quella clausola “Salva ecc…”, dalla quale si sentivano in qualche maniera aggravati o ostacolati, hanno presentato altri documenti, tratti dall’archivio capitolare, senza avermi avvertito. Giustamente quindi il tribunale Rotale il 10 giugno aveva pronunciato il verdetto: la questione viene rimandata e venga ripresentata la documentazione. Dopo le spese già fatte nella prima presentazione, i canonici si spaventarono per le spese a cui sarebbero andati incontro nel prolungare la controversia, si rivolsero a me per addivenire alla composizione della causa. Poiché però le menti e le opinioni degli uomini sono varie, non si addivenne ad un accordo, e la questione fu rimandata all’anno seguente.
1754.14 Visita di mio fratello con i miei due nipoti Francesca e Clemente Erminio – Dono fatto alla chiesa metropolitana del settimo candeliere d’argento per l’altare maggiore.
Dopo aver partecipato ai riti celebrati nella festa del Corpus Domini, che cadeva il 13 giugno, il giorno successivo mi sono recato alla villa di San Martino per riposarmi un po’. Ma già il 19 giugno sono stato costretto a ritornare a Fermo a causa dell’imminente venuta di mio fratello insieme con mia nipote Francesca che, con mio nipote Clemente Erminio, erano venuti a far visita alla santa Casa della beata Vergine Maria a Loreto e per recarsi poi ad Ancona. Con loro c’era anche Maria Zinanni, nobildonna di Ravenna, nipote del cardinale Corradini. Tanto questa signora, quanto mia nipote Francesca erano state formate nel monastero di Santa Maria in Silice di Roma ed esse pensavano seriamente di entrare in quel monastero. Mi volli rendere conto con tutta la diligenza possibile della sincerità del desiderio di mia nipote, che mi sembrava costante e decisa nel suo proposito e aveva 18 anni. Rimasero presso di me fino al primo di luglio.
Prima della festa dei santi apostoli Pietro e Paolo, donai alla chiesa metropolitana il settimo candeliere di oltre 14 libbre di puro argento fatto fondere a Roma da aggiungere agli altri sei candelieri di argento e viene usato nelle messe pontificali. Prima vi era usato un candeliere di legno che non mi sembrò abbastanza dignitoso. Dopo quest’offerta, nella festa dei santi apostoli, tenni la consueta ed ampia omelia sulla antica consuetudine dell’uso dei lumi e del settimo candeliere aggiunto in occasione delle celebrazioni pontificali.
1754.15 Morte del pievano di Santa Anatolia di Petritoli – Pericolo di frequenti furti sacrileghi – Necessità di costruire una idonea casa parrocchiale annessa alla pievania di Petritolie richiesta a Roma per vendere alcuni edifici della pieve all’interno del paese – Collazione del beneficio di santa Giuliana e di san Sisto di Francavilla a Pietro Antonio Borgia fratello dell’arcivescovo.
Nel mese di febbraio era morto Biagio Maricotti, pievano di Santa Anatolia di Petritoli, principale chiesa esistente in quel paese, che ha sotto di sé una popolazione di più di 1.149 anime. La chiesa è abbastanza grande ed è antica e sta fuori del castello. In questo periodo andavano diffondendosi notizie di parecchi furti sacrileghi in tutta la provincia Picena. Nella visita pastorale compiuta a Petritoli nel 1751, accorgendomi che la chiesa di Santa Anatolia non aveva annessa una casa parrocchiale, con sollecitudine, ho fatto considerare al pievano che le sacre suppellettili e lo stesso S. Sacramento rimanevano senza custodia ed erano a disposizione dei delinquenti e dei ladri. Vi erano a Petritoli delle case appartenenti alla pieve, ma erano all’interno del paese e il pievano non vi abitava poiché erano anguste e soggette all’umidità, perché addossate alla collina. Il pievano preferiva abitare nella casa della propria famiglia che aveva accuratamente riparata e ampliata. Gli avevo fatto buone proposte per realizzare la costruzione della nuova casa presso la chiesa di Santa Anatolia e fra l’altro gli avevo promesso di dargli l’autorizzazione di vendere tutte le case appartenenti alla sua parrocchia entro il castello di Petritoli.
Egli però, ormai vecchio e malaticcio, desideroso di abitare nella propria casa, non accettava le mie proposte. Un successivo evento mi dimostrò che il mio proposito mi era stato suggerito da Dio stesso. Infatti nell’anno seguente 1752 i ladri di notte, dopo aver sfondato la porta della chiesa e scassinato il tabernacolo della santissima Eucaristia, rubarono i vasi sacri e dalla sacrestia asportarono i calici. Furono fatte diverse ricerche per dover catturare i ladri, ma ogni tentativo fu inutile. Rimproverai severamente il pievano per la sua negligenza e trascuratezza, ma inutilmente. Morto poi il pievano, la chiesa rimase completamente abbandonata ed esposta a tutti i rischi ancora come prima. Pertanto, preoccupato per la gravità del pericolo di altri simili episodi, poiché la collazione della parrocchia spettava a me per diritto di alternativa mensile, ho avanzato a Benedetto XIV la richiesta di prorogare per due anni la nomina di un nuovo pievano e di utilizzare le rendite, tolti però gli oneri, per la costruzione di una idonea abitazione, accanto alla chiesa, utilizzando anche i soldi ricavati dalla vendita delle piccole case appartenenti alla parrocchia esistenti all’interno del paese. Il papa Benedetto, il 20 marzo di questo anno, ha acconsento benevolmente alla mia richiesta, dandomi la facoltà di gestire, di stabilire e di decretare tutto ciò che in coscienza, a mio arbitrio, ritenevo essere più necessario per realizzare il progetto. Ho subito nominato il prete che esercitasse la cura delle anime, che amministrasse come economo i redditi della pievania, che vendesse ad un giusto prezzo le vecchie case di proprietà della parrocchia e ho stabilito di rimandare all’anno prossimo la costruzione della nuova casa parrocchiale.
Nella presente cronaca dell’anno 1748 ho riferito come avevo ottenuto da Benedetto XIV il privilegio di unire in perpetuo alla mensa arcivescovile, per diritto enfiteutico, la chiesa di Santa Giuliana a cui è unito il beneficio di San Sisto a Francavilla, con la riserva di un annuo canone di 80 scudi annui a favore di Olimpio Milani, rettore di quel beneficio e ai suoi successori. Proprio quest’anno è morto Olimpio Milani e pertanto il beneficio si è reso vacante. L’ho assegnato a mio fratello Pietro Antonio Borgia, il quale già da sei anni gratuitamente prestava servizio come canonico coadiutore nella basilica di San Giovanni in Laterano; ha potuto ottenere il suddetto beneficio a titolo di risarcimento delle spese che era costretto a subire per la coadiutoria. Ciò è accaduto durante il mese di giugno, con la riserva tuttavia di scudi ventiquattro annui a favore di un certo Palatini. Il giorno 11 luglio mio fratello prese possesso del beneficio.
1754.16 Rottura della celebre campana detta La Viola nella torre della chiesa metropolitana – Incarico di comandante assegnato al nipote dell’arcivescovo Giovanni Paolo Borgia.
Purtroppo il 12 agosto la seconda campana della torre della metropolitana, che la gente chiama “La Viola”, mentre a mezzogiorno suonava a distesa, per annunciare l’imminente festa dell’assunzione della beata Vergine Maria in cielo, subì una grave fessura di cui ci si accorse immediatamente del sopraggiunto suono rauco, mentre, invece, normalmente, era dolce e piacevole più di tutte le altre campane, celebre e migliore in confronto a tutti gli altri suoni, non solo della città, ma anche di quelle della provincia. Questo fatto provocò in me e in tutti gli addetti alla fabbriceria una grave sollecitudine per la rifusione della campana il cui peso era di circa 7.000 libbre di bronzo. Il fatto ci tenne occupati per tutto l’anno, e la rifusione fu rimandata all’anno successivo. Esaminando attentamente la fessura provocatasi sulla campana, ci accorgemmo che essa non era stata sospesa rettamente e che il castello di legno presentava alcuni difetti. Si rafforzò quindi la muratura della torre. Allora si sono corretti tutti i difetti scoperti.
Mentre ero impegnato in tali occupazioni, fu di grande soddisfazione il fatto che il sommo pontefice Benedetto XIV aveva preso deciso che ora venivano disposte due navi stabili per la difesa costiera, chiamate “fregate”, mentre prima la costa marittima romana era protetta tenendo soltanto un naviglio d’ispezione, d’inverno e d’estate, contro le navi triremi di quelli che facevano scorrerie piratesche. Aveva poi incaricato l’ordine di Malta di scegliere cavalieri idonei ed esperti nell’arte della navigazione militare, ai quali affidare il comando della missione, oltre ai due comandanti che si chiamavano uno Cari e l’altro Pollastron. Fu scelto il cavaliere Giovanni Paolo Borgia mio nipote, come primo luogotenente della prima nave, che aveva il nome di San Pietro, comandata dal cavaliere Ceri, e tale scelta fu approvata dal Papa. Questo mio nipote già fin dall’inizio dell’anno 1746 era stato scelto come facente parte del gruppo di giovani addetti al servizio del Gran Maestro. Aveva dimorato a Malta, fu imbarcato in mare ed in milizia nelle triremi, in seguito poi nelle navi più grandi dell’Ordine di Malta e si era conquistata una buona reputazione presso tutti. In nave si recò anche in Portogallo, tra i conti del legato inviato là per salutare ed ossequiare il nuovo re, a nome dell’ordine sovrano di Malta. Ritornato in Italia è stato trasferito il 18 agosto a Centocelle. Si è recato prima a Roma e poi a Velletri per salutare i genitori. Alla fine di ottobre tornò a Centocelle e lì, armata una nave con soldati ed armi, e imbarcati i marinai nelle due navi, come primo luogotenente del comandante della prima nave, il 26 dicembre, è salpato dal porto alla ricerca dei pirati.
1754.17 Tentativi di soluzione delle controversie sulla eredità di Pietro Antonio Marefoschi.
Nello stesso mese di agosto, avvenne una grande e incredibile cambiamento a Monte Santo, paese molto illustre in tutta la nostra diocesi. I Compagnoni trovarono tanta simpatia da parte del cardinale Angervelliers (di cui abbiamo parlato sopra) da poter sconvolgere non soltanto l’intenzione e il testamento di Pietro Antonio Marefoschi, questione questa già decisa e confermata con accordo pubblico, ma da arrecare un rovinoso danno anche alla pievania di Monte Santo, che è considerata la più importante e più ricca non solo della nostra diocesi, ma di tutto il Piceno. D’altra parte a me sembrava che nulla si dovesse fare senza consultarmi, dal momento che avevamo molto lavorato al fine di strappare dalle mani dei Compagnoni la ricca eredità di Pietro Antonio Marefoschi, il quale aveva chiaramente scritto nel suo testamento che si fidava moltissimo soprattutto dell’arcivescovo di Fermo. Invece, al contrario, le mie chiare definizioni furono rese vane e parimenti quelle di alcuni consanguinei del testatore, il primo dei quali era Lorenzo Mazzagalli, mentre sentivano il dovere di opporsi alle arti e alle manovre di coloro che volevano appropriarsi della preda. A tal fine venne estorta dalla Dataria Apostolica una lettera con la quale, cancellata l’intenzione di Pietro Antonio Marefoschi, i terreni, da lui destinati per far erigere nella sua patria un seminario e un monastero, furono trasferiti alla famiglia Compagnoni, dopo dati come pagamento 73.000 scudi nei luoghi dei Monti camerali e in censi. Poiché tutto questo prezzo non era pari alla stima dei latifondi e agli altri beni di Pietro Antonio Marefoschi, fu posta la condizione di integrare in seguito con ciò che, con precisione, sarebbe stato dichiarato da aggiungere.
Dai proventi poi tratti dai luoghi dei detti Monti e dai censi fu eretto un collegio di dodici canonici, attribuendo a ciascuno di essi ottanta scudi di argento, come retribuzione per il servizio giornaliero. Si dovevano dare sussidi per aiutare dei giovani consanguinei del testatore o almeno originari di Monte Santo, i quali intendevano seguire gli studi letterari; era inoltre istituita una dote in favore di una giovane che intendesse entrare in uno o nell’altro dei due monasteri esistenti in loco. Furono abolite quindi le istituzioni di un seminario e di un monastero. Per di più, la dataria Apostolica aveva richiesto un qualche profitto per sé. In tal modo la pievania di Santo Stefano le cui rendite ammontavano a circa 1000 scudi di argento annui, destinati alla cura di circa quattromila anime, fu ridotta a tale triste situazione. Pertanto la stessa chiesa di Santo Stefano improvvisamente si trovò ad essere trasformata in chiesa collegiata nella quale si dovevano svolgere anche le funzioni collegiali dei canonici, mentre era appena sufficiente per svolgervi le funzioni parrocchiali. Il pievano, che a stento riusciva ad esercitare il suo ampio compito di parroco, fu liberato della cura attuale delle anime e mantenne solo la cura abituale della chiesa. Inoltre si trovò diventato preposto del capitolo dei canonici, nonostante che io fossi decisamente contrario e nonostante le mie proteste.
Insomma mi è stata resa una mercede ingrata per aver mantenuto fedeltà alla volontà del testatore e per aver tentato di difendere l’eredità, dalle mani <rapaci> di coloro che la tenevano ingiustamente. Di fatto sia l’arcivescovo, che la Chiesa Fermana dovettero assistere non solo al tradimento della volontà del testatore, ma soprattutto al danno provocato a noi dal fatto che ci era stato sottratto il diritto di nomina del pievano della ricchissima pievania, trasformato in prima dignità del capitolo e quindi assoggettato alla collazione riservata alla Santa Sede. A molti nella curia Romana ciò sembrò, piuttosto che un gesto suggerito da ragioni di fede, una cosa invece inconsueta e tale che avrebbe destato stupore nei posteri. Non voglio certo negare che il sommo pontefice potesse commutare le pie volontà testamentarie dei fedeli deceduti, questo infatti era lecito al papa e sempre rimarrà lecito. Voglio semplicemente dire che in questo caso mancava la giusta causa e il modo con cui si era proceduto era ingiusto. Se proprio vi era la necessità di erigere una collegiata, essa non doveva essere posta nella chiesa di Santo Stefano, piuttosto in quella di San Giacomo. Si doveva evitare di confondere, in tutto il resto, le funzioni parrocchiali con quelle capitolari in una chiesa già troppo angusta per le funzioni parrocchiali. Inoltre il prevosto del capitolo dei canonici doveva essere pagato con i proventi dell’eredità di Marefoschi (come poteva benissimo avvenire). Inoltre non si dovevano usare le copiose rendite stabilite dai nostri antenati per la pievania che erano destinate alla cura di numerose anime e ad aiutare i poveri della parrocchia, distorcendole ad altri usi. Proprio di questo io mi lamentai e mi addolorai, cioè che non si fosse tenuto conto per nulla e per scarto delle esigenze della cura delle anime, mentre questa dovrebbe essere la prima e principale preoccupazione. Di fatto, attualmente la cura delle anime era stata affidata a due vicari perpetui ai quali sono stati assegnati 127 scudi da pagarsi dal preposto del capitolo, da spartirsi tra di loro come esiguo stipendio. In più, nulla era stato previsto per l’abitazione dei due vicari e di tutte le altre cose necessarie al loro servizio.
L’incarico di dare esecuzione alle disposizioni contenute nella lettera romana della dataria fu affidato a Giovanni Battista Stella, governatore di Loreto. La lettera conteneva disposizioni contrarie, in molti punti, ai decreti generali del Concilio Tridentino, e contraddiceva specialmente al capitolo VI della sessione VII “La Riforma” , dove l’unione perpetua dei benefici debbono risultare fatte per legittime e ragionevoli cause di fronte all’ordinario dopo aver convocato gli interessati e almeno deve essere ottenuto o almeno essere presunto l’assenso. Nel capitolo VII della stessa sessione era stabilito che la porzione dei frutti da detrarre dai benefici con cura di anime a favore dei vicari curati dovesse essere la terza parte o maggiore o minore ad arbitrio dell’ordinario. In questa misera operazione, invece, era stata attribuita soltanto l’ottava parte dei redditi della vecchia pievania ai due vicari che erano impegnati nella cura delle anime e la settima parte al prevosto del capitolo il quale, oltre all’impegno di partecipare alla recita dei salmi in coro, non aveva quasi alcun altro impegno da svolgere.
Il 18 agosto, mons. Stella ha eseguito, nel paese di Monte Santo, le disposizioni ricevute nella lettera di Roma, dopo che il nuovo preposto del capitolo, cioè Marziale Mozzoni, fino a quel momento pievano, fece il consueto giuramento di fedeltà alla Sede Apostolica, davanti al mio vicario generale. Mi arrivarono varie lamentele; io avevo l’obbligo, in forza del mio ufficio, di astenermi dal compiere qualsiasi intervento. Ma c’erano cose conquistate contro il diritto e contro l’antica disciplina per mezzo dell’insinuazione da irretimento e per mezzo di sottrazione con nascondimento. Accadde poi che, avendo esaminato, con attenzione sulle conseguenze, la lettera inviatami a suo tempo dal cardinale pro-datario, contenente le disposizioni eseguite, decisi, a futura cautela, di aggiungere, alla fine della lettera, la seguente clausola: Noi intendiamo di eseguire ogni cosa senza però pregiudizio dei diritti a noi e ai nostri successori appartenenti sopra la chiesa di Santo Stefano in Monte Santo e annessi ad essa e a qualsiasi altra cosa relativa all’eredità del suddetto Pietro Antonio Marefoschi, come, quale, eventualmente, in qualsiasi modo, competa per diritto ai vescovi. Questa mia moderata protesta, per il resto lasciata a totale servizio, non fu accolta bene a Roma da alcuni; tuttavia, dopo che esposi loro le mie osservazioni, si acquietarono.
1754.18 Mons. Stella, mons. Ferrera e mons. Marana, vescovo di Ascoli sono ospiti dell’arcivescovo in occasione della fiera di agosto.
Adempiuto il suo impegno, il presule Stella, in occasione della fiera d’agosto venne da me; giunsero anche mons. Ferrera e mons. Marana, vescovo di Ascoli, con il quale parlammo spesso delle difficoltà che egli incontrava nel governo della sua Chiesa e dalle quali si sentiva condizionato come uomo timoroso di Dio e consapevole delle sue responsabilità nel ministero. Da uomo intelligente, aveva capito che anche io ero ostacolato nel mio ministero da molte e gravi difficoltà, ma che cercavo di fare tutto il mio possibile e comunque procedere per la mia strada. Per questo gli diedi da leggere questa mia cronaca ed sembrò che ne ricavasse forza e coraggio. Rimase da me fino all’inizio del mese di settembre, poi tornò in Ascoli.
1754.19 Vestizione monacale della nipote Francesca Borgia nel monastero di Santa Lucia Silice di Roma – Morte improvvisa di mons. Fabrizio Borgia vescovo di Ferentino e fratello dell’arcivescovo, sua memoria.
Il giorno primo di settembre, Francesca Borgia, figlia di mio fratello e mia nipote, di cui ho dato notizia sopra, vestì l’abito religioso nel monastero di Santa Lucia in Silice di Roma, per le mani del cardinale Guadagni, vicario di Roma, scegliendo il nome di Angela Caterina, nome di mia sorella e sua zia paterna, morta nello stesso monastero in fama di santità nel 1743. Avevo la speranza che essa avrebbe imitato sua zia nella costanza e nel fervore dell’animo.
Questa speranza trovò conferma dalla notizia che mi giunse della repentina morte di mio fratello Fabrizio Borgia, vescovo di Ferentino, avvenuta il 2 settembre nel suo palazzo vescovile. Il suo nome ricorre spesso in questa mia cronaca e già fin dall’inizio. Egli prese possesso dell’arcidiocesi Fermana in mio nome, mi aveva accompagnato anche nella mia prima visita pastorale della diocesi e mi aveva assistito nella celebrazione del primo concilio provinciale, i cui decreti egli offrì al papa Benedetto XIII a mio nome e a nome dei miei vescovi suffraganei; e dallo stesso pontefice fu nominato vescovo di Ferentino e fu da me consacrato nella chiesa cattedrale di Velletri il giorno primo di gennaio 1730. Cominciò a lottare contro l’avversa malattia fin dal 1740. Aveva tentato varie cure mediche, specialmente il passeggiare con cambiamento di aria e la cura con uso di acque termali e di bagni in Italia. Nell’anno del giubileo 1750, mentre si trovava a Roma, si fece preparare da un valente scultore un monumento marmoreo e lo fece porre nella sua chiesa cattedrale, di fronte alla sede episcopale, con una iscrizione che ho riferito in questa cronaca all’anno 1750, n. 6. In essa non si fa alcun cenno di iattanza, ma c’è solo la riflessione sulla vita mortale, tutto per l’eternità e l’espiazione delle colpe.
Nel 1753 fece un viaggio nell’Italia settentrionale, dopo il quale venne da me, a Fermo, e questa fu la sua ultima visita e l’ultima volta che parlai con lui. Si recò poi a Giano dell’Umbria per le acque nel territorio spoletino, e nell’anno 1754 si sentì meglio. Recuperata un po’ la salute, compì la visita alla Sede Apostolica a Roma. Tornato in diocesi, a Ferentino, il 2 settembre, dopo aver presenziato ad una seduta pubblica nel suo tribunale, ammalatosi gravemente, dopo qualche ora morì. Aveva 65 anni, di cui 25 anni di episcopato. La sua morte si può dire repentina, ma non imprevista, infatti egli pensava spesso alla morte.
Appena giunta la triste notizia a Velletri, mio fratello Camillo Borgia inviò a Ferentino suo figlio Clemente Erminio che curò con generosità il funerale, distribuendo ai sacerdoti una cospicua offerta e fece celebrare anche un altro rito funebre. Dopo il doppio rito funebre le sue spoglie con profumi vennero sepolte nel mausoleo che egli si era fatto preparare nella chiesa cattedrale. Spesso, mentre ancora era vescovo, aveva pensato di scrivere il testamento e aveva pensato di trasferire la metà delle sue varie pensioni ecclesiastiche, molte delle quali egli possedeva nella sua patria. Egli le avrebbe potute trasferire ai suoi congiunti, in forza del privilegio che aveva ricevuto da Benedetto XIII, per il fatto che era uno dei vescovi assistenti al soglio, ma nulla fece di tutto ciò. Subito dopo la sua morte si affrontò il problema della sacra suppellettile che il capitolo di Ferentino rivendicava per sé; e tale questione fu presto risolta. Furono consegnati al capitolo tutti quei sacri oggetti che il vescovo aveva acquistato dopo il suo ingresso in diocesi, mentre quelli che prima egli aveva portato con sé furono assegnati alla nostra famiglia; la maggior parte di essi però furono regalati da noi alla chiesa cattedrale di Ferentino e alle altre chiese.
Tra le sue carte, furono trovati molti appunti, preparati per redigere il testamento, ma spesso apparivano contraddittori. Nessuna di queste carte, però, portava la sua firma, anche se dal preludio erano dichiarate come sue intenzioni testamentarie. In alcuni incartamenti venivano dichiarati dalla sua generosità mille scudi di Camera ricavati dai vari benefici ecclesiastici e una somma proveniente da una transazione fatta con la Camera Apostolica. Pur non essendoci la sua firma, tuttavia dovevano essere considerati come suo testamento per la grafia che era certamente la sua. Molte delle disposizioni riguardavano il culto di Dio e i suffragi per la sua anima e gli emolumenti per la sua Chiesa e per l’utilità pubblica del popolo. Ciò spinse me e i miei fratelli, in quanto suoi eredi ab intestato, a rispettare le sue volontà. Era evidente la sua intenzione che l’ultima raccolta di grano dovesse servire per l’istituzione di un Monte Frumentario a favore dei poveri, detratto quanto spettava al vescovo suo successore e ai diritti della Camera Apostolica. A tale quantità di frumento doveva essere aggiunto il frumento che attualmente era conservato nel magazzino dell’episcopio compreso il frumento che vi era stato portato da altrove. Tutto ciò fu da noi consegnato e vi abbiamo aggiunto la costituzione di una dote per istituire un prebendato che facesse parte del capitolo e celebrasse la messa in suffragio della sua anima. Al seminario vescovile è stata assegnata una dote per il mantenimento gratuito di un chierico originario di Ferentino. Da queste doti, dai suffragi e da altre dazioni benefiche, l’asse ereditario risultò fortemente diminuito.
Da parte mia, appena conosciuta la notizia della morte, ho scritto una lettera circolare a tutta la diocesi con la quale ho esortato specialmente il clero e le monache perché facessero preghiere di suffragio per il vescovo defunto, il quale, per diverso tempo, aveva svolto tra di noi la sua importante e utile opera. La maggior parte ne furono memori. Il 10 settembre poi ho celebrato una solenne messa di suffragio nella metropolitana e nello stesso giorno dopo il pranzo mi sono recato a Falerone per proseguire la visita pastorale insieme ai miei convisitatori, il primicerio coadiutore Giovanni Antonio Leli e l’ex provinciale dei Minori dell’osservanza padre Liberato da <Monte> San Giusto.
1754.20 Prosecuzione della visita pastorale – Consacrazione della chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista a Montegiorgio – Lavori eseguiti a Francavilla nelle proprietà della mensa arcivescovile.
Da Falerone, mi sono recato al castello di Monteverde, doppiamente soggetto alla Chiesa Fermana e lì ho pernottato nel possedimento chiamato Fontebella dei signori Passeri, che avevano conseguito da poco il titolo onorifico di marchesi. Sono poi salito a Montegiorgio, dove ho celebrato una sacra ordinazione il giorno 21 di settembre, sabato delle Quattro Tempora. La domenica, giorno 29, ho consacrato la chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista che è la principale del luogo. E’ una chiesa antica, ampia e di solida struttura, ma il tetto non stava in buono stato perché incavato in una parte, fino a quando il passato prevosto don Giuseppe Boncori l’aveva restaurato completamente con una non lieve spesa. Egli aveva espresso il desiderio che fosse consacrato insieme anche l’altare maggiore e a tal fine aveva predisposto dei lavori. Nel frattempo però era morto, prima che fosse stata consacrata la chiesa, per cui la soddisfazione di veder consacrata da me la chiesa fu tutta del nuovo parroco Francesco Agliati. Contemporaneamente i miei convisitatori si erano recati a Monte Vidon Corrado, a Montappone e a Massa Fermana. Io stesso, poi, mi sono recato a Monte Vidon Corrado per controllare alcuni lavori che erano stati eseguiti per restaurare e ampliare la chiesa parrocchiale e per superare alcuni ostacoli che impedivano la prosecuzione di altri lavori. Il 2 ottobre mi sono recato a Francavilla dove ho dimorato nella nuova casa di mia proprietà, recentemente acquistata. Decisi di costruire, in muratura a mattoni e calce, una nuova casa, presso i resti della chiesa di Santa Maria Maddalena, nella zona detta Monterone, ad uso dei contadini che coltivano i campi che circondavano le terre del beneficio di Santa Giuliana, appartenente per diritto enfiteutico alla mensa arcivescovile, come ho detto già in questa cronaca all’anno 1747, n.13. In quel posto non esisteva ancora un’abitazione, ma un angusto locale, di fango, che serviva da stalla per gli animali, ma cadente. Quest’anno la costruzione delle fondamenta era già fatta e i muri perimetrali avevano raggiunto l’altezza di diversi cubiti, ma il suo completamento fu rinviato all’anno successivo.
1754.21 Vacanza dell’arcivescovo nella tenuta di San Martino.
Il 7 ottobre, da Fermo mi sono subito recato per riposo a stare nella villa suburbana di San Martino. Vi rimasi fino alla fine del mese e sono ritornato in città per celebrare la festa di tutti i santi. In questo giorno, con la mia omelia, ho ripreso il consueto argomento della educazione cristiana dei figli.
1754.22 L’accademia fermana degli Erranti.[4]
Nel mese di novembre, l’antica Accademia cittadina detta degli Erranti venne rinnovata perché si fece la riforma dei vecchi statuti; principe fu nominato il conte Giuseppe Spinucci, segretario fu eletto mio nipote Stefano Borgia.
1754.22 Nuove costruzioni e vari altri lavori realizzati a Fermo e nei beni della mensa.
Oltre ai molti restauri delle mura cittadine, realizzati fin dalle fondamenta con grande opera nella parte meridionale della città, in quest’anno molti altri edifici sacri ebbero inizio in città o furono terminati. La confraternita della sacra Spina riparò l’edicola del santissimo Crocifisso. Lungo la strada che conduce al Porto, proprio nel luogo dove i cavalli cominciavano la corsa verso il girone, e veniva chiamata la Mossa, il tetto a volta ormai cadente dell’edificio, venne coperto diligentemente con nuove tegole nella costruzione voltata. I Gesuiti prudentemente correggevano gli errori commessi nella costruzione del loro collegio. I preti Oratoriani di San Filippo Neri proseguivano la nuova costruzione della loro ampia casa. La monache di Santa Chiara innalzavano il dormitorio e ricavavano le camerette separate per ogni singola suora, rinunciando al dormitorio comune come praticato nelle antiche regole monastiche. Le suore convittrici che manifestarono sempre l’intenzione costante e perpetua di ampliare il loro stabile, dopo aver costruito vari altri locali, ne aggiunsero un altro nuovo, ad uso di parlatorio. Nel Porto di Fermo venivano preparati nuovi materiali da costruzione, pietre e mattoni per completare la nuova ed ampia chiesa del SS. Sacramento iniziata nel precedente anno.
Io stesso, dopo aver realizzato nell’episcopio diverse riparazioni, ho fatto lastricare con pietre la via che dall’orto circonda la parte meridionale dell’edificio. A San Claudio feci recingere, con un muro, l’orto che si stendeva ad oriente tra la chiesa e le case dei coloni e ciò sia per la custodia dell’orto, sia per la sicurezza dei coloni affinché non temessero di avere qualche danneggiamento dai passanti. Inoltre, poiché i nuovi coloni dei terreni presso il Chienti si lamentavano per la mancanza del vino, ho fatto mettere, soltanto per la necessità, una piantagione di pioppi e di viti, al modo delle folignate, scegliendo le zone dove la terra era considerata meno adatta alla produzione del grano. Infine presso Santa Croce, nel terrenuccio di Corcorosa, ho fatto costruire una stalla estiva per i buoi.
[1] Si noti l’amarezza dell’arcivescovo per la politica dei Concordati praticata dalla curia e si noti l’ironia nel valutare le conseguenze di tale politica.
[2] Una particolare disposizione della Santa Sede emanata in quegli anni consentì al privato cittadino di poter addossare un’abitazioni alla cinta di mura della città, con la precisa condizione che il concessionario provvedesse al restauro del tratto di mura su cui avrebbe poggiato il suo edificio. Cfr. M. PIACENTINI, Interventi sulla cinta muraria urbana di Fermo nel secolo XVIII, in “Quaderni ASAF” , nn. 17-18 (1994), pp. 233-241.
[3] Risalta sempre più chiaro nell’animo del Borgia la profonda delusione nei confronti dei responsabili dei dicasteri della curia Romana in ordine alla tutela dei diritti e dei privilegi dei vescovi diocesani. L’arcivescovo Borgia aveva fatto trascrivere da Domenico Maggiori i documenti del Liber copiarum privilegiorum et jurium dell’episcopato di Fermo (codice 1030) con il motivo, esplicitamente dichiarato, di raccogliere le prove documentali da esibire nei casi di controversie sui privilegi antichi. Qui ne abbiamo la chiara conferma.
[4] V. LAUDADIO, Le Accademie a Fermo nel ‘700: un’ipotesi di ricerca, in “Quaderni ASAF” n. 11 (1991), pp. 35-44. Il Senato fermano aveva approvato l’istituzione dell’Accademia degli Erranti il 26 aprile del 1640.