ROMANITA’ vita abitudini civiltà opere tradizioni governo del Territorio Romano Antico (Leucano Esperani Vesprini Albino)

Leucano Esperani ROMANITA’ Belmonte Piceno, li 16 agosto 2015: digitazione di Albino VESPRINI
CRONOLOGIA AVVENIMENTI POLITICI E MILITARI
754 Fondazione di Roma
715 Muore Romolo, gli succede Numa Pompilio
673 Muore Numa Pompilio, gli succede Tullio Ostilio, poi Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servo Tullio
534 Tarquinio il Superbo cacciato da Roma nel 510
510 Instaurazione della Repubblica
508 Battaglia di Arsia
507 Porsenna conquista Roma – Orazio Coclite – Muzio Scevola
498 Insurrezione del Lazio – Nomina del primo dittatore
494 Secessione delle plebe – Menenio Agrippa e l’apologo delle membra
493 Alleanza di Roma con i Latini contro Volsci ed Equi
491 Il patrizio Coriolano, esiliato, si allea con i Volsci contro Roma
486 Prima legge agraria a favore della plebe
472 Istituzione dei Comizi Tributi formati di soli plebei
457 Invasione degli Equi sconfitti poi da Cincinnato
451 Approvazione delle leggi delle XII Tavole
445 Istituzione dei Censori
405 Assedio di Veio
390 Invasione dei Galli – Incendio di Roma
389 Risorgimento di Roma
343 Prima guerra sannitica
340 Guerra contro i Latini
328 Seconda guerra sannitica
280 Guerra contro Pirro
275 Roma padrona d’Italia
264 Guerre e conquiste esterne all’Italia
264 Prima guerra punica
218 Seconda guerra punica (218- 201)
218 Da Sagunto a Canne – Annibale in Italia
215 Da Canne al Metauro (215- 207) – Prima guerra macedonica con Filippo V
206 Dal Metauro a Zama
200 Seconda guerra macedonica con Filippo V
200 Le censure di Catone
191 Guerra contro Antioco III – Guerra siriaca (191- 190)
171 Terza guerra macedonica contro Perseo (171- 168)
149 Terza guerra punica (149- 146)
148 La Grecia provincia romana
146 Distruzione di Cartagine
133 Prima guerra servile rivolta capeggiata da Euno
132 Leggi agrarie di Tiberio e Caio Gracco
123 Nuove guerre esterne di conquista (123- 105)
111 Guerra contro Giugurta (111- 105)
102 Mario vince i Teutoni e i Cimbri ( 10)1
101 Seconda guerra servile
100 Ritorno al comando dell’aristocrazia contro Mario, Saturnino e Glaucia
91 Gli italici reclamano la cittadinanza romana
90 Guerra sociale degli Italici
88 Guerra civile fra Mario e Silla
87 Guerra contro Mitridate (87- 83)
87 In assenza di Silla consolato di Cinna ( 87- 84)
83 Dittatura di Silla (83- 79)
83 Seconda guerra contro Mitridate (83- 81)
79 Morte di Silla
77 Pompeo vince la guerra in Spagna (72)
73 Pompeo sconfigge i resti dell’esercito di Spartaco (71)
67 Pompeo sconfigge i pirati
66 Pompeo sconfigge Mitridate
65 Pompeo contro Tigrane re dell’Armenia
65 Pompeo conquista nuove province ( 65- 69)
63 Congiura di Catilina
63 Catilinarie di Cicerone
62 Ritorno di Pompeo a Roma
62 Catilina sconfitto e ucciso a Pistoia
60 Primo triumvirato: Pompeo, Cesare e Crasso
59 Cesare console
58 Cesare nelle Gallie (58- 50)
56 Convegno dei triumviri a Lucca
53 Crasso contro i Parti (54- 53)
54 Pompeo a Roma
53 Morte di Crasso
52 Pompeo console
49 Scoppia la guerra civile fra Pompeo e Cesare
49 Cesare passa in Rubicone
48 Cesare sconfigge Pompeo nella battaglia di Farsalo
48 Pompeo fugge in Egitto, è fatto uccidere dal re Tolomeo Dionisio
47 Guerra alessandrina – abbattuto Tolomeo il regno d’Egitto dato a Cleopatra
47 Cesare vince la guerra contro Farnace (veni, vidi, vici)
46 Cesare distrugge i pompeiani a Tapso in Africa
46 Trionfo di Cesare
45 Cesare distrugge gli ultimi pompeiani a Munda in Spagna
45 Cesare dittatore a vita
44 Assassinio di Cesare
43 Secondo triumvirato: Ottaviano, Marco Antonio e Lepido
43 Morte di Cicerone
42 Battaglia di Filippi contro i repubblicani Bruto e Cassio
40 Alleanza di Marco Antonio con Sesto Pompeo
40 I triumviri si incontrano a Brindisi e riconfermano la precedente suddivisione dello Stato: a
Marco Antonio l’Oriente, a Ottaviano l’Occidente e a Lepido l’Africa
36 Ottaviano vince Sesto Pompeo e toglie il comando dell’Africa a Lepido
32 Ottaviano muove guerra a Marco Antonio
31 Battaglia navale di Azio
31 Marco Antonio fugge con Cleopatra
30 Marco Antonio si suicida
30 Cleopatra si dà la morte facendosi mordere da un aspide
30 Fine della Repubblica – Inizia l’impero
Imperatori
30 a.c.-14 d.c. Augusto
14 – 37 Tiberio Claudio Nerone
37-41 Caligola Gaio Giulio Germanico
41-54 Claudio Druso Germanico Tiberio
54-68 Nerone Claudio Druso Germanico
68-68 Galba Servio Sulpicio
69-69 Otone Marco Salvio
69-69 Vitellio Aulo
69-79 Vespasiano Tito Flavio
79-81 Tito Flavio Vespasiano
81-96 Domiziano Tito Flavio
96-98 Nerva Marco Cocceio
98-117 Traiano Marco Ulpio
117-138 Adriano Publio Elio
138-161 Antonino il Pio
161-180 Marco Aurelio Antonino
180-192 Commodo Marco Aurelio
193-193 Pertinace Publio Elvio
193-193 Didio Giuliano Marco
193-211 Settimio Severo Lucio
211-217 Caracalla Marco Aurelio Antonio
217-218 Macrino
218-222 Elagabalo Marco Aurelio Antonino
222-235 Alessandro Severo
235-238 Massimino Gaio Giulio Vero
238-238 Gordiano I e suo figlio Gordiano II
238-238 Massimo Pupieno e Claudio Balbino
238-244 Gordiano III
244-249 Filippo Marco Giulio Vero detto l’Arabo
249-251 Decio Traiano
253-253 Triboniano Gallo
253-253 Emiliano Marco Emilio
253-260 Valeriano e suo figlio Gallieno
260-268 Gallieno Publio Licinio Egnazio
268-270 Claudio il Gotico
270-275 Aureliano Lucio Domizio
275-276 Tacito Marco Claudio
276-282 Probo Marco Aurelio
282-283 Caro Marco Aurelio
283-284 Carino e Numeriano
284-305 Diocleziano Gaio Aurelio Valerio
305-306 Costanzo I Cloro
306-323 Costantino I il Grande
323-337 Costantino I il Grande
337-340 Costantino II
337-350 Costante I e Costanzo II
350-361 Costanzo II
361-363 Giuliano Flavio Claudio Giuliano denominato l’Apostata
363 -364 Gioviano Flavio Augusto
364-375 Valentiniano I
375-383 Graziano Gaio Flavio
383-388 Massimo (Magnus Maximus)
383-392 Valentiniano II
392-394 Eugenio
394-395 Teodosio I
395-423 Onorio
423-425 Giovanni
425-455 Valentiniano III
455-455 Massimo Petronio
455-456 Avito Marco Mecilio
456-461 Maiorano
461-465 Livio Severo
465-467 Interregno di 2 anni in cui governa Ricimero
467-472 Antemio Procopio
472-472 Olibrio
473-474 Glicerio
474-475 Giulio Nepote
475-476 Romolo Augustolo
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Roma – città dei sette colli.
Roma, secondo Varrone, fu fondata nel 753 a.C., secondo Catone, 754.
Il primitivo nucleo dell’urbe fu una borgata sul Palatino, la Roma guidata da un popolo di rozzi pastori che, di là, si estesero poi sul Celio, sul Viminale e sul Quirinale. Fin dalla sua fondazione la città fu protetta da mura di cinta, potenziate durante il regno di Servio Tullio e risistemate da Tarquinio il Superbo comprendendo anche il colle Aventino.
Il grande bastione (“agger”), lungo circa sette stadi (stadio misura greca pari a circa 190 m) era chiamato “agger maximus” da Cicerone per la sua lunghezza (metri 190 × 7 uguale metri 1330 circa).
Vicino a questo ”agger” Mecenate fece costruire giardini pubblici ed accoglienti percorsi per passeggiate,frequentati da numerosi Romani, fin dall’inizio, essi costituirono un forte richiamo per giocolieri, ciarlatani, indovini e meretrici.
Con la fine delle guerre di conquista il numero degli abitanti della città (censiti per la prima volta nel 295 a.C. ed ammontanti a 262.322) aumentò rapidamente, soprattutto con l’afflusso di numerosissimi schiavi e di immigrati greci e orientali.
Successivamente la città si espanse fino ad occupare anche i colli Campidoglio ed Aventino.
Tale rimase l’estensione della città fino ai tempi di Silla. Nel frattempo la popolazione cresceva a dismisura e, benché sorgessero numerosi altri edifici oltre il Tevere, veniva ammassata nei casamenti d’affitto (“insulae”), costituiti da numerose casupole contigue che poteva appartenere anche ad un solo padrone a cui doveva essere pagato il fitto. Augusto divise la città in 14 ”Regiones” (da cui “rioni”) includendoci la 14ª Regio, che era quella “ trans Tiberim” (=oltre il Tevere).
Roma, la città dei sette colli (colle chiamato dai Romani “mons”), è nata sul “mons palatinus”, colle Palatino, luogo di residenza dell’imperatore Augusto e degli imperatori successivi. “Palatini” chiamati gli ufficiali della corte imperiale e “palatinus” il segretario generale della corte.
Quirinale (“mons quirinalis”) così chiamato perché sacro al Romolo (Quirino).
Viminale (“mons viminalis”), così chiamato a causa degli abbondanti cespugli di vimini che vi crescevano, donde anche l’epiteto di “viminius” dato al dio Giove che vi si venerava.
Aventino (“mons aventinus”), tra i Palatino e di Celio; su di esso sorgeva il famoso tempio sacro a Diana.
Palatino (“mons palatinus”)confinante col Celio, l’Aventino e il Viminale.
Campidoglio (“mons capitolium”), ritenuto indistruttibile dai Romani, era simbolo dell’eterna durata della città. Su di esso era lo splendido tempio dedicato a Giove, costruito da i re Tarquini, vicino alla cittadella (“arx tarpea”) e la rupe Tarpea, dalla quale venivano precipitati i malfattori (così chiamata da Tarpeia, figlia del comandante della cittadella la quale, per tradimento, aprì la porta ai Sabini, i quali, poi, coprendola con i propri scudi, la soffocarono).
Celio (“mons caelius”), a sud del Palatino e ad est dell’Aventino, così chiamato dal nome di Caeles Vibenna, etrusco, capostipite della gens Caelia.
Esquilino (“mons esaquilinus”), il più grande dei sette colli di Roma, confinante col Celio, col Viminale e con il Palatino (originariamente distinto in “Cispius mons” e “Oppius mons”, incorporato da Servio Tullio nella città. Presso di esso era il più grande luogo di sepolture, tanto dei patrizi che dei plebei e degli schiavi. Era anche il luogo di tortura per gli schiavi e di altri condannati, i cui cadaveri, lasciati insepolti erano preda dei rapaci.
La zona era ricca di sorgenti di acqua, e dopo le opere di bonifica fatte eseguire da Mecenate, sotto l’impero di Augusto, la zona fu trasformata in ridenti giardini.
Roma, dalla sua fondazione fu governata da sette re: Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio,
Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo.
Dopo un predominio latino (sino al re Anco Marzio) si ebbe un periodo di predominio etrusco, stroncato con un colpo di Stato da parte dei patrizi che riuscirono ad instaurare la repubblica romana nel 510 a.C.
Caduta la monarchia, i poteri del re furono assunti da due magistrati patrizi, dapprima chiamati “praetores”, solo più tardi ”consules”. La loro potestà era annuale e collegiale. Quando lo Stato era minacciato da un serio pericolo esterno, veniva eletto un magistrato supremo straordinario nominato dittatore (“dictator”) con poteri illimitati nell’esercito ed in tutto lo Stato.
La suddivisione dei cittadini Romani in patrizi e plebei, dalla tradizione è fatta risalire al Romolo, e fu modificata da Servio Tullio il quale assegnò i cittadini alle varie classi sociali tenendo conto dei loro redditi; i più poveri furono assegnati alla ultima classe e chiamati “proletarii” ( da “proles” = figlio=), in quanto la loro ricchezza era rappresentata solo dai figli, utili allo Stato.
La generica distinzione fra patrizi (o “proceres” o “assidui”) e plebei (“proletarii” o “aerarii” ) è sempre esistita a Roma. Le leggi, nell’antichità, riservarono ai primi il pieno godimento di tutti i diritti civili e politici, escludendone categoricamente i plebei.
Ciò provocò continue tensioni ed eterno conflitto fra i due gruppi di cittadini, conflitto che caratterizzò la storia del primo periodo della Repubblica, che a ragione si può definire patrizia.
Fra patrizi e plebei fu sempre un conflitto politico, mai economico (infatti non tutti i plebei erano poveri); questi, non dimenticarono mai, nella lotta per i diritti politici, gli interessi generali della città.
Il conflitto fra patrizi e plebei cessò con la progressiva concessione a questi ultimi dei diritti politici, a partire dall’anno 454 a.C. quando furono creati i Tribuni della plebe.

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IL CALENDARIO ROMANO
La parola “ calendario” ha origine dalla parola latina “Kalendae” che era il primo giorno di ogni mese.
Per i Romani il “calendarium “ o Kalendarium” era anche il registro dei crediti dei banchieri, di quelli che prestavano soldi ad interesse, le cui scadenze di rimborso coincidevano con le “kalendae”.
Il calendario romano non aveva nulla in comune col calendario greco, per cui l’espressione “ad kalensas graecas solvere” = pagare alle calende greche, significava non pagare mai.
I mesi del calendario romano erano 12: inuarius, februarius, martius, aprilis, maius, iunius, quintilis (iulias), sexstilis (augustus), september, october, november, december.
I nomi dei mesi sono sempre da considerare come aggettivi uniti al sostantivo “mensis”.
Nell’anno 450 a.C. i Decemviri stabilirono un periodo di otto anni (octocteride) entro cui intercalare un mese di 23 giorni con soluzioni più o meno cervellotiche, che non fecero altro che aumentare ancor più la confusione che regnava sull’argomento.
Fino all’anno 450 a.C. (data in cui i 10 Decemviri esposero nel Foro le leggi da loro compilate e fatte scolpire su 10 tavole di bronzo ) l’anno per i Romani iniziava col primo giorno del mese di marzo e terminava con l’ultimo giorno del mese di febbraio. Iniziando l’anno col mese di marzo, il mese di luglio era chiamato “quintilis” (=quinto), il mese di agosto ”sestilis” (=sesto), september (= settimo), otober (= ottavo), november (= nono), e december (= decimo).
In onore di Giulio Cesare, riformatore del calendario, il mese ”quintilis” fu chiamato “iulius” su proposta di Marco Antonio e successivamente il mese ”sestilis”, nell’anno 8 a.C., con decreto del Senato, per celebrare la gloria ed il nome dell’imperatore Ottaviano Augusto, fu chiamato “augustus”.
Alla fine di ogni secolo, che per i Romani aveva una durata di 110 anni, venivano organizzati i “ludi saeculares”, al Campo Marzio, in un luogo chiamato Perento, che, con molti sacrifici alle divinità infernali come “furvae victimae” (fine di colore scuro, nericcio) e con minuziosissimo cerimoniale, secondo il precetto dei Libri Sibillini, duravano tre giorni e tre notti. A proposito dei “ludi saeculares” è da ricordare il “carmen saeculare”, appositamente composto da Quinto Orazio Flacco, per ordine di Ottaviano Augusto, e cantato da 27 fanciulli e 27 fanciulle, procedenti processionalmente dal tempio di Diana a quello di Apollo sul Palatino nell’anno 17 a.C., ovvero nell’anno 737 dalla fondazione di Roma (754 a.C.).
Le date dai Romani venivano conteggiate in relazione a tre giorni speciali del mese: le “Kalendae”, le “Nonae”, le “Idus”. Le parole “Kalendae” e “Nonae” (femminili e plurali) si declinano Kalendae, Kalendas, Kalendis, Nonae, Nonas e Nonis, rispettivamente nominativo, accusativo e ablativo della 1^ declinazione. La parola “Idus” (femminile e plurale) Idus, Idus, Idibus, rispettivamente nominativo, accusativo e ablativo della 4^ declinazione.
Kalendae dal verbo arcaico ”calare” (= chiamare, convocare) in quanto in tale giorno il Pontifex Maximus convocava il popolo, annunciava l’inizio del mese e comunicava se le Nonae dovessero cadere il giorno 5 o 7 del mese.
Nonae chiamate così perché fra le Nonae e le Idi intercorrevano 9 giorni (5/13-7/15).
Idi dalla parola etrusca Idus ricollegabile al verbo arcaico “ideare” (=dividere) . Le Idi infatti dividevano il mese a metà.
Le Kalendae coincidevano sempre con il primo giorno del mese.
Le Nonae coincidevano con il giorno 7 nei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre (da ricordare la sigla mar.ma.lu.ott.), e col giorno 5 in tutti gli altri mesi.
Le Idus coincidevano col giorno 15 nei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre e con il giorno 13 nei restanti mesi.
Le Kalendae dei mesi di dicembre e gennaio erano chiamate “kalendae lucerninae”, perché in questi mesi si lavorava anche al lume di lucerna, essendo i giorni di durata più breve.
Alle Idi di ogni mese il Pontifex Maximus saliva, con le Vestali, per la Via Sacra, dal tempio di Vesta a quello di Giove sul Campidoglio, ove compiva un sacrificio solenne per la prosperità dello Stato.
Presso la “Curia Calabra”, sul Campidoglio, al popolo riunito dopo ogni novilunio, sempre il Pontifex Maximus, proclamava le date del calendario.
I Romani calcolavano i giorni del mese in questo modo:
– dalle Kalendae (1° giorno del mese) alle Nonae (giorno 5 o 7 del mese)
– dalle Nonae (giorno 5 o 7 del mese) alle Idus (giorno 13 o 15 del mese)
– dalle Idus (giorno 13 o 15 del mese) alle Kalendae del mese successivo.
Il “dies civilis” per i Romani era il tempo che va da una mezzanotte all’altra.
Questo tempo lo dividevano in “horae noctunae” ed “horae diurnae” e li indicavano sempre con i numeri ordinali: “hora prima”, “hora secunda” ecc.
I giorni, nel calendario, erano suddivisi in “dies fasti” e “dies nefasti”.
I “dies fasti comitales” erano giorni normali nei quali potevano svolgersi delle attività private e pubbliche, compresa la convocazione dei comizi. I “dies fasti non comitales” erano giorni di lavoro come sopra, solo che in essi non era consentito convocare i comizi.
I “dies nefasti” , per motivi religiosi considerati infausti, erano giorni del calendario durante i quali il pretore non poteva esercitare la sua giurisdizione (“legem agere”), consistente in tre azioni e contenuta nella formula “ do, dico, addico”.
“Dies nefastus” era il 18 luglio chiamato “dies Alliensis” (=giorno di Allia), in quanto i Romani furono sconfitti dai Galli il 18 luglio del 390 a.C. presso il fiume Allia, nel Lazio. Durante l’impero fu aggiunto fra i “dies nefasti” il giorno della ricorrenza della nascita di Agrippina. Un elenco dei “dies fasti” e “dies nefasti” lo abbiamo nell’opera incompiuta di Ovidio intitolata ”Fasti”, limitata ai primi sei mesi dell’anno.
Nel computo dei giorni i Romani comprendevano sempre il giorno di partenza e di giorno di arrivo per esempio il 2 gennaio era detto “postridie Kalendas ianuarias” oppure
“postridie kalendas ianuarii” (il giorno dopo le Kalendae di gennaio) oppure ancora “die quarto ante nonas ianuarias” od “IV Nonas ianuarii” (giorno quarto prima delle None di gennaio), in quanto dal 2 al 5 gennaio erano conteggiati 4 giorni (2-3-4-5).
I Romani dividevano il giorno (dalla levata al tramonto del sole) in 12 ore, a partire, come media, dalle 6:00 di mattina. Quindi per ragguagliare le ore romane alle nostre basta aggiungere il numero fisso 6. Così per esempio l’ora quarta corrisponde alle nostre 10:00 antimeridiane (6 + 4 = 10), l’ora sesta alle nostre ore 12:00 (6 + 6=12). L’ora sesta era sempre mezzogiorno naturalmente, data la diversa durata del giorno e della notte nelle varie stagioni, per i Romani le ore non avevano sempre la stessa durata e per essi costituivano una suddivisione di comodo, non un periodo di tempo costante.
La notte si divideva in quattro “vigiliae” , dal tramonto alla levata del sole.
Naturalmente la durata delle quattro ”vigiliae” variava, come le ore del giorno, col variare delle stagioni . “Vigilia” era anche chiamato il tempo della guardia notturna, ed i soldati che facevano il turno erano chiamati “vigiliae”. La preposizione “de” posta prima della parola “vigilia” indicava la separazione di una dall’altra (de tertia vigilia = dopo la terza vigilia), cioè la fine di una parte della notte.
Per misurare il tempo i Romani avevano orologi a sabbia ad acqua oppure orologi solari.
Il primo era formato di due fialette di vetro (in genere di forma conica), uguali ed opposte l’una all’altra, comunicanti con un piccolo foro attraverso il quale la sabbia cadeva nella fialetta sottostante.
L’orologio ad acqua ( di forma simile o quasi simile a quello a sabbia), aveva un piano traforato come uno staccio dal quale l’acqua a gocce cadeva nel recipiente sottostante ed era chiamato “clepsydra”.
La valutazione del tempo era determinata dalla quantità di sabbia o acqua passata da una fialetta all’altra, naturalmente le fialette erano graduate esternamente per indicare il tempo; quando la fialetta superiore si vuotava bastava capovolgere la clessidra e ricominciava riempirsi la sottostante.
Era uno strumento usato dai Romani nei processi e dal Senato per misurare il tempo concesso agli oratori (una clessidra = 12 minuti circa). Da qui le espressioni : “binas clepsydras petere” ( = domandare la facoltà di parlare per la durata di due clessidre = 24 minuti circa), “binas clepsydras dare “ (= concedere la facoltà di parlare per la durata di due clessidre).
I Romani conoscevano anche l’orologio solare.
La indicazione del giorno, di norma, avveniva in modo abbreviato:
Pr.Kal.Dec. = pridie kalendas decembres = il giorno prima delle kalende di dicembre, ossia il 30 novenbre.
D.XII Kal.Quintiles = data il 20 giugno
D.III Nonas Mai = data il giorno 5 del mese di maggio
Kal.Oct.de Venusiano = il 1 ottobre dal Venusiano.
Oppure si anteponeva “ante” a tutta l’espressione: es. “Ante diem quartum kalendas februarias”.
Durante il giorno, nel linguaggio comune, si sentivano spesso queste espressioni:
prius orto sole = prima del sorgere del sole
prima lux = l’alba
orta luce = all’alba
ante lucem = prima di giorno
sub galli cantum = di buongiorno
chaire = buongiorno
postera lux = domani
ante vesperum = prima di sera
in luci = durante il giorno
ante lucernas = prima di notte
per vesperi = a tarda sera
advesperascit = si fa sera, annotta, si fa buio.
I Romani calcolavano gli anni dalla fondazione di Roma (anno 754 a.C.), raramente, come invece facevano i Greci dalla 1^ Olimpiade, che ebbe luogo l’anno 776 a.C. ad Olimpia in Grecia ( giochi chiamati poi olimpici, ripetuti ogni 4 anni).
I nomi dei due consoli ordinari od anche di uno solo di essi servivano per indicare l’anno “L.Pisone et A.Gabinio coss.”, cioè nell’anno 669 di Roma (ab urbe condita) = anno 85 a.C.
ciò è testimoniato anche da alcune espressioni usate quotidianamente da i Romani:
quibus consulibus = in quale anno
proximis consulibus = nell’anno seguente
in consules designatos = per l’anno prossimo
vina tot consulum = vino così vecchio.
Secondo una usanza etrusca, gli antichi Romani indicavano ufficialmente il numero degli anni, dalla fondazione di Roma, con un chiodo che il Pontifex Maximus, ogni anno, alle Idi del mese di settembre, piantava nella parete del tempio di Giove.
I Romani, come i greci, non conoscevano la “settimana”, periodo di sette giorni che si ricollega ad un fenomeno naturale (una delle fasi lunari); adottarono la settimana dopo l’età di Teodosio (imperatore dalle 378 al 395 d.C.). Sulla settimana si basano le ricorrenze ed i precetti di quasi tutte le religioni (cristianesimo, giudaismo, islamismo, ecc.); la settimana era invece nota ai Babilonesi.
I Romani conoscevano il ”mese” (mensis) che è una unità di misura convenzionale del tempo impiegato dalla luna per raggiungere lo stesso punto di partenza rispetto al sole.
L’anno invece è basato sulla durata della rivoluzione della terra intorno al sole e sul ritorno delle stagioni.
Nell’antichità i popoli adottarono calendari di diverso tipo: calendari lunari, calendari solari, calendari luni-solari, calendari siderali, ecc.).
Il calendario lunare è quello nel quale è preso in considerazione soltanto il movimento della luna e più precisamente un periodo di 12 lunazioni.
Il calendario solare è quello che si basa sul periodo intercorso fra due successivi apparenti passaggi del sole ad uno stesso equinozio.
L’attuale calendario, in uso presso la maggior parte dei popoli civili, ebbe il suo primo antenato del calendario adottato nella Roma di Romolo.
Prima della riforma di Numa Pompilio il calendario romano (basato sulle fasi lunari) aveva soltanto 10 mesi per un totale di 304 giorni. L’anno iniziava con il mese di marzo.
La prima riforma del calendario romano si ebbe sotto il regno di Numa Pompilio (secondo re di Roma di origine Sabina 715-673 a.C.).
Poiché, così com’era strutturato, l’anno non coincideva con il ciclo delle stagioni, da Numa Pompilio, secondo la tradizione, furono aggiunti il mese di gennaio e di febbraio e di un 13º mese chiamato “mercedonius”.
Il calendario di Numa dava all’anno la durata di giorni 355, diviso in 12 mesi: esso iniziava col mese di marzo (31 gg.), e proseguiva con mese di aprile (29 gg.), maggio (31 gg.), giugno (29 gg.), quintile (31gg.), sestile (29 gg.), settembre (29 gg.), ottobre (31 gg.), novembre (29 gg.), dicembre (29 gg.), gennaio (29 gg.), febbraio (28 gg.).
A sua volta il mese iniziava con le Kalendae (primo giorno); il giorno 5 nei mesi con 29 giorni ed il giorno 7 nei mesi con 31 giorni erano chiamate “Nonae”; il giorno 13 nei mesi con 29 giorni e di giorno 15 dei mesi con 31 giorni erano chiamate “Idus”.
Ogni due anni il Pontefice ordinava l’inserimento di un mese extra detto “mercedonius” (= intercalare) che iniziava fra il 23 e il 24 febbraio, e durava 22 o 23 giorni; ciò per ristabilire la corrispondenza fra il calendario solare e il calendario lunare.
Nel mese di febbraio i giorni 24,25, 26,27 e 28 venivano sempre dopo il mese chiamato “mercedonius”.
Con la riforma fatta da Giulio Cesare detto mese intercalare fu soppresso. Nel calendario “numano” il sistema adottato per il conteggio dei giorni è identico a quello sopra descritto tenendo però presente che il numero dei giorni dei vari mesi è diverso rispetto al calendario detto “giuliano”: ad esempio il giorno 19 gennaio:
– nel calendario ”numano” è detto “Die undecimo ante kalendas februarias” (gennaio aveva 29 giorni);
– nel calendario ”giuliano” è detto ”Die decimo quarto ante kalendas februarias “ (gennaio aveva 31 giorni).
Nel 46 a.C. Giulio Cesare per porre fine ad una evidente ed indesiderata confusione generata dalle arbitrarie disposizioni dei Pontefici, adottò un nuovo calendario ideato sotto la direzione di un noto matematico ed astronomo alessandrino di nome Sosigene.
In questo calendario, chiamato “giuliano” in onore di Giulio Cesare, furono anzitutto stabiliti dei cicli di 4 anni di cui 3 erano di 365 giorni e il quarto di 366 giorni.
All’anno venne mantenuta la suddivisione di 12 mesi, cambiando però il numero dei giorni di alcuni di essi: gennaio, marzo, maggio, quintile, sestile, ottobre dicembre avevano 31 giorni; aprile, giugno, settembre novembre, contavano 30 giorni ciascuno; febbraio 28 giorni nei tre anni comuni e 29 giorni nell’anno di 366 giorni, inserendo il 29º giorno fra il 23 e il 24 febbraio. Poiché, secondo l’uso romano di computare una data il 24 febbraio era chiamato il “sexto kalendas martii”, di conseguenza il 29º giorno inserito tra il 23 e il 24 febbraio veniva chiamato “bis sexto kalendas martii”. In seguito, detto il giorno fu detto “bisesto” e l’anno di riferimento ”bisestile”.
Il calendario “giuliano” fu mantenuto ed osservato per più di 15 secoli. Intorno all’anno 400 d.C. nel calendario giuliano fu introdotta la “settimana”: periodo temporale di sette giorni così chiamati: lunedì (dies lunae = giorno della luna), martedì (dies Martis = giorno di Marte), mercoledì (dies Mercurii = giorno di Mercurio), giovedì (dies Iovis = giorno di Giove),venerdì (dies Veneris = giorno di Venere), sabato ( sabbata, sabbatorum = nome che deriva dall’ebraico; giorno di riposo settimanale e festivo per gli ebrei (in seguito celebrato anche da i Romani, ma erroneamente ritenuto come giorno di digiuno), domenica (Dies dominica = giorno del Signore, introdotto al posto dell’espressione antica “solis dies” =
giorno del sole).
Nel 1582 di fronte al fatto che l’anno tropico (= solare) non è composto di 365 giorni e di un quarto di giorno, come erroneamente ritenuto al tempo di Giulio Cesare, ma di giorni 365,242256 e che pertanto la frazione di 0,007744 (365,2500000 meno 365,242256 = 0.007744) in eccesso nell’anno giuliano comportava uno spostamento di 3 giorni ogni 400 anni, il Papa Gregorio XIII, avvalendosi dell’opera del matematico Luigi Lilio e dei più eminenti scienziati del suo tempo, promulgò, con la bolla “Inter gravissimas”, una riforma del calendario giuliano, varando il sistema attualmente in uso
con la riforma effettuata da Gregorio XIII si stabilì di riportare l’equinozio di primavera al 21 marzo, sopprimendo 10 giorni dell’anno allora in corso.
Il calendario giuliano è ancora in vigore in alcuni paesi orientali (Russia ed altri) dove oggi le date sono in ritardo di 10 giorni rispetto a quelle del calendario gregoriano.
Inoltre pur mantenendo le suddivisioni già in atto nel calendario giuliano si stabilì che gli anni secolari dovessero essere considerati bisestili, fatta eccezione per quelli, in cui le cifre costituite dalle centinaia fossero divisibili per il numero 4 (quindi possono essere bisestili gli anni secolari 1600-2000-2400-2800-3200-3600-4000-4400-4800 e non gli altri).
Con questa regola vengono sottratti tre giorni ogni 400 anni del calendario giuliano ed occorreranno 4000 anni perché risulti l’errore di un giorno rispetto alle equinozio di primavera. Ridotto in tal modo al minimo l’errore di calcolo del tempo, il calendario
“ gregoriano” negli anni e nei secoli seguenti fu adottato progressivamente da quasi tutti i popoli del mondo. Esistono tuttavia altri calendari in uso specialmente presso popoli di non religione cristiana. Tali calendari sono lunari, luni-solari o siderali.

MENSIS IANUARIUS
I

Kalendis ianuariis

Kalendis Ianuarii XVI Die decimo septimo ante Kalendas fabruarias
XVII KALENDAS FEBRUARII
II
Postridie Kalendas ianuarias
Die Quarto ante Kalendas ianuarias
QUARTO NONAS IANUARII XVII Die decimo sesto ante Kalendas februarias

XVI KALENDAS FEBRUARII
III

Die tertio ante Nonas ianuarias

III NONAS IANUARIAS XVIII Die decimo quinto ante Kalendas februarias
XVI KALENDAS FEBRUARII
IV

Pridie Nonas ianuarias
PRIDIE NONAS FEBRUARII XIX Die decimo quarto ante Kalendas februarias
XIV KALENDAS FEBRUARII
V

NONIS IANUARIIS

NONIS IANUARII XX Die decimo tertio ante Kalendas Februarias
XIII KALENDAS FEBRUARII
VI

Postridie Nonas ianuarias
Die octavo ante idus ianuarias
VIII IDUS IANUARII XXI Die decimo secundo ante Kalendas februarias
XII KALENDAS FEBRUARII
VII

Die septimo anti Idus ianuarias

VII IDUS IANUARII XXII Die undecimo ante Kalendas Februarii

XI KALENDAS FEBRUARII
VIII

Die sexto ante Idus ianuaias

VII IDUS IANUARII XXIII Die decimo ante Kalendas februarias

X KALENDAS FEBRUARII
IX

Die quinto ante Idus ianuarias

V IDUS IANUARII XXIV Die nono ante Kalendas fabruarias

IX KALENDAS FEBRUARIAS
X

Die quarto ante Idua ianuarias

IV IDUS IANUARII XXV Die octavo ante Kalendas ianuarias

VIII KALENDAS IANUARIAS
XI

Die tertio ante Idus Ianuarias

III IDUS IANUARII XXVI Die septimo ante Kalendas ferbruarias

VII KALENDAS FEBRUARII
XII

Pridie Idus ianuarias

PRIDIE IDUS IANUARII XXVII Die sexto ante Kalendas februarias

VI KALENDAS FEBRUARII
XIII

IDIBUS IANUARIIS

IDIBUS IANUARII XXVIII Die quinto ante Kalendas februarias

V KALENDAS FEBRUARIAS
XIV

Postridie Idue Ianuarias
Die decimo nono ante Kal. Februarias
XIX KALENDAS FEBRUARII XXIX Die quarto ante kalendas februarias

IV KALENDAS FEBRUARII
XV

Die de cino octavo ante Kal. Februarias

XVIII KALENDAS FEBRUARII XXX Die tertio ante Kalendas februarias

III KALENDAS FEBRUARII

XXXI Pridie kalendas februarias

PRIDIE LALENDAS FEBRUARII

MENSIS FEBRUARIUS
I

KALENDIS FEBRUARIIS

KALENDIS FEBRUARII XVI Die decimo quarto ante Kalendas martias

XIV KALENDAS MARTIAS
II

Postridie Kalendas februarias
Die quarto ante Nonas februarias
IV NONAS FEBRUARIAS XVII Die decimo tertio ante kalendas martias

XIII KALENDAS MARTII
III

Die tertio ante Nonas Februarias

III NONAS FEBRUARIAS XVIII Die decimo secundo ante Kal. Martias

XII KALENDAS MARTII
IV

Pridie Nonas februarias

PRIDIE NONAS FEBRUARIAS XIX Die undecimo ante Kalendas martias

XI KALENDAS MARTII
V

NONIS FEBRUARIIS

NONIS FEBRUARII XX Die decimo ante Kalendas martias

X KALENDAS MARTII
VI

Postridie Nonas februarias
Die octavo ante Idus februarias
VIII IDUS FEBRUARII XXI Die nono ante Kalendas martias

IX KALENDAS MARTII
VII

Die septimo ante Idus februarias

VII IDUS FEBRUARII XXII Die octavo ante Kalendas martias

VIII KALENDAS MARTII
VIII

Die sexto ante Idus februarias

VI IDUS FEBRUARII XXIII Die septimo ante Kalendas martias

VII KALENDAS MARTII
IX

Die quinto ante Idus febriarias

V IDUS FEBRUARII XXIV Die sexto ante Kalendas februarias

VI KALENDAS FEBRUARII
X

Die quarto ante Idus februarias

IV IDUS FEBRUARII XXV Die quinto ante Kalendas martias

V KALENDAS MARTIAS
XI

Die tertio ante Idus februarias

III IDUS FEBRUARII XXVI Die quarto ante Kalendas martias

IV KALENDAS MARTII
XII

Pridie Idus februarias

ORIDIE IDUS FEBRUARII XXVII Die tertio ante Kalendas martias

III KALENDAS MARTII
XIII

IDIBUS FEBRUARIIS

IDIBUS FEBRUARII XXVIII Pridie Kalendas martias

PRIDIE KALENDAS MARTII
XIV

Postridie Idus februarias
Die decimo sexto ante kal. martias
XV

Die decimo quinto ante kal. Martias

XV KALENDAS MARTII

Negli anni bisestili il 24 febbraio diventa bis sexto Kalendas Martii, il 25 diventa VI Kalendas Martii,
il 26 diventa V Kalendas Martii, il 27 diventa IV Kalendas Martii, il 28 III Kalendas Martii, il 29 Pridie Kalendas Martii.

MENSIS MARTIUS
I

KALENDIS MARTIIS

KALENDIS MARTII XVI Postridie Idus martias
Die decimo septimo ante kal.apriles
XVII KALENDAS APRILES
II

Postridie kalendas martias
Die sexto ante Nonas martias
VI NONAS MARTII XVII Die decimo sexto ante kal.apriles

XVI KALENDAS APRILIS
III

Die quinto ante Nonas martias

V NONAS MARTII XVIII Die decimo quinto ante kal.apriles

XV KALENDAS APRILIS
IV

Die quarto ante Nonas martias

IV NONAS MARTII XIX Die decimo quarto ante kal.apriles

XIV KALENDAS APRILIS
V

Die tertio anto Nonas martias

III NONAS MARTII XX Die decimo tertio ante kal.apriles

XIII KALENDAS APRILIS
VI

Pridie Nonas martias

PRIDIE NONAS MARTII XXI Die decimo secundo ante kal.apriles

XII KALENDAS APRILIS
VII

NONIS MARTIIS

NONIS MARTII XXII Die undecimo ante kal.apriles

XI KALENDAS APRILIS
VIII

Postridie Nonas martias
Die octavo ante Idus martias
VIII IDUS MARTII XXIII Die decimo ante kal.apriles

X KALENDAS APRILIS
IX

Die septimo ante Idus martias

VII IDUS MARTII XXIV Die nono ante kal.apriles

IX KALENDAS APRILIS
X

Die sexto ante Idus martias

VI IDUS MARTII XXV Die octavo ante kal. apriles

VIII KALENDAS APRILIS
XI

Die quinto ante Idus martias

V IDUS MARTII XXVI Die septimo ante kal.apriles

VII KALENDAS APRILIS
XII

Die quarto ante Idus martias

IV IDUS MARTII XXVII Die sexto ante kal. apriles

VI KALENDAS APRILIS
XIII

Die tertio ante Idus martias

III IDUS MARTII XXVIII Die quinto ante kal. apriles

V IDUS APRILIS
XIV

Pridie Idus martias

PRIDIE IDUS MARTIAS XXIX Die quarto ante kal. apriles

IV KALENDAS APRILIS
XV

IDIBUS MARTIIS

IDIBUS MARTII XXX Die tertio ante kal. apriles

III KALENDAS APRILIS

XXXI Pridie kalendas apriles

PRIDIE KALENDAS APRILIS

MENSIS APRILIS
I

KALENDIS APRILIBUS

KALENDIS APRILIS XVI
Die decimo sexto ante kal. maias

XVI KALENDAS MAII
II

Postridie kalendas apriles
Die quarto ante Nonas apriles
IV NONAS APRILES XVII Die decimo quinto ante kal. maias

XV KALENDAS MAII
III

Die tertio ante Nonas apriles

III NONAS APRILIS XVIII Die decimo quarto ante kal. maias

XIV KALENDAS MAII
IV

Pridie Nonas apriles
PRIDIE NONAS APRILIS XIX Die decimo tertio ante kal.maias

XIII KALENDAS MAII
V

NONIS APRILIBUS

NONIS APRILIS XX Die decimo secundo ante kal.maias

XII KALENDAS MAII
VI

Postridie nonas apriles
Die octavo ante Idus apriles
VIII IDUS APRILES XXI Die undecimo ante kal.maias

XI KALENDAS MAII
VII

Die septimo ante Idus apriles

VII IDUS APRILIS XXII Die decimo ante kal. maias

X KALENDAS MAII
VIII

Die sexto ante Idus apriles

VI IDUS APRILIS XXIII Die nono ante kal. maias

IX KALENDAS MAII
IX

Die quinto ante Idus apriles

V IDUS APRILIS XXIV Die octavo ante kal. maias

VIII KALENDAS MAII
X

Die quarto ante Idus apriles

IV IDUS APRILIS XXV Die septimo ante kal.maias

VII KALENDAS MAII
XI

Die tertio ante Idus apriles

III IDUS APRILIS XXVI Die sexto ante kal. maias

VI KALENDAS MAII
XII

Pridie Idus apriles

PRIDIE IDUS APRILIS XXVII Die quinto ante kal. maias

V KALENDAS MAII
XIII

IDIBUS APRILIBUS

IDIBUS APRILIS XXVIII Die quarto ante Kal.maias

IV KALENDAS MAII
XIV

Postridie Idus apriles
Die decimo octavo ante kal. maias
XVIII KALENDAS MAII XXIX Die tertio ante kal. maias

III KALENDAS MAII
XV

Die decimo septino ante kal. maias

XVII KALENDAS MAII XXX Pridie kalenda maias

PRIDIE KALENDAS MAII

MENSIS MAIUS
I

KALENDIS MAIIS

KALENDIS MAII XVI Postridie Idus maias
Die decimo septimo ante kal.iunias
XVII KALENDAS IUNII
II

Postridie kalendas maias
Die sexto ante Nonas maias
VI NONAS MAII XVII Die decimo sexto ante kalndas iunias

XVI KALENDAS IUNII
III

Die quinto ante Nonas maias

V NONAS IUNIAS XVIII Die decimo quinto ante kal.iunias

XV LALENDAS IUNII
IV

Die quarto ante Nonas maias

IV NONAS IUNIAS XIX Die decimo quarto ante kal. iunias

XIV KALENDAS IUNII
V

Die tertio ante Nonas maias

III NONAS IUNIAS XX Die decimo tertio ante kal. iunias

XIII KALENDAS IUNII
VI

Pridie Nonas maias

PRIDIE NONAS MAIAS XXI Die decimo secundo ante kal. iunias

XII KALENDAS IUNII
VII

NONIS MAIIS

NONIS MAII XXII Die undecimo ante kal. iunias

XI KALENDAS IUNII
VIII

Postridie Nonas maias
Die octavo ante idus maias
VIII IDUS MAII XXIII Die decimo ante kal. iunias

X KALENDAS IUNII
IX

Die septimo ante Idus maias

VII IDUS MAII XXIV Die nono ante kal. iunias

IX KALENDAS IUNII
X

Die sexto ante Idus maias

VI IDUS MAII XXV Die octavo ante kal. iunias

VIII KALENDAS IUNII
XI

Die quinto ante Idus maias

V IDUS MAII XXVI Die septimo ante kal. iunias

VII KALENDAS IUNII
XII

Die quarto ante Idus maias

IV IDUS MAII XXVII Die sexto ante kal.iunias

VII KALENDAS IUNII
XIII

Die tertio ante Idus maias

III IDUS MAII XXVII Die quinto ante kal.iunias

V KALENDAS IUNII
XIV

Pridie Idus maias

PRIDIE IDUS MAII XXVIII Die quarto ante kal. iunias

IV KALENDAS IUNII
XV

IDIBUS MAIIS

IDUBUS MAII XXIX Die tertio ante kal.iunias

III KALENDASIUNIAS

XXX Pridie kalendas iunias

PRIDIE KALENDAS IUNIAS

MENSIS IUNIUS (iunonius)
I

KALENDIS IUNIIS

KALENDIS IUNII XVI
Die decimo sexto ante kalendas
quintiles (iulias)
XVI KALENDAS QUINTILIS (IULII)
II

Postridie kalendas iunias
Die quarto ante Nonas iunias
IV NONAS IUNII XVII Die decimo quinto ante kalendas
quintiles (iulias)
XV KALENDAS QUINTILIS (IULII)
III

Die tertio ante Nonas iunias

III NONAS IUNII XVIII Die decimo quarto ante kalendas
quintiles (iulias)
XIV KALENDAS QUINTILIS (IULII)
IV

Pridie nonas iunias

PRIDIE NONAS IUNIAS XIX Die decimo tertio ante kalendas
quintiles (iulias)
XIII KALENDAS QUINTILIS (IULII)
V

NONI IUNIIS

NONIS IUNII XX Die decimo secundo ante kalendas
quintiles (iulias)
XII KALENDAS QUINTILIS (IULII)
VI

Postridie Nonas iunias
Die octavo ante Idus iunias
VIII IDUS IUNII XXI Die undecimo ante kalendas
quintiles (iulias)
XI KALENDAS QUINTILIS (IULII)
VII

Die septimo ante Idus iunias

VII IDUS IUNII XXII Die decimo ante kalendas
quintiles (iulias)
X KALENDAS QUINTILIS (IULII)
VIII

Die sexto ante Idus iunias

VI IDUS IUNII XXIII Die nono ante kalendas
quintiles (iulias)
IX KALENDAS QUINTILIS (IULII)
IX

Die quinto ante idus iunias

V IDUS IUNII XXIV Die octavo ante kalendas
quintiles (iulias)
VIII KALENDAS QUINTILIS (IULII)
X

Die quarto ante Idus iunias

IV IDUS IUNII XXV Die septimo ante kalendas
quintiles (iulias)
VII KALENDAS QUINTILIS (IULII)
XI

Die tertio ante Idus iunias

III IDUS IUNII XXVI Die sexto ante kalendas
quintiles (iulias)
VI KALENDAS QUINTILIS (IULII)
XII

Pridie Idus iunias

PRIDIE IDUS IUNIAS XXVII Die quinto ante kalendas
quintiles (iulias)
V KALENDAS QUINTILIS (IULII)
XIII

IDIBUS IUNIIS

IDIBUS IUNII XXVIII Die quarto ante kalendas
quintiles (iulias)
IV KALENDAS QUINTILIS (IULII)
XIV

Postidie Idus iunias
Die decino octavo ante kal.quintiles (iul.)
XVIII KALENDAS QUINTILIS (IULII) XXIX Die tertio ante kalendas
quintiles (iulias)
III KALENDAS QUINTILIS 8IULII)
XV

Die decimo septimo ante kalendas
quintiles (iulias)
XVII KALENDAS QUINTILIS (IULII) XXX Pridie kalendas quintiles (iulias)

PRIDIE KALENDAS QUINTILIS (IULII)

MENSIS QUINTILIS (iulius)
I

KALENDIS QUINTILIBUS (IULIIS)

KALENDIS QUINTILIS (IULII) XVI
Postridie Idus quintiles (iulias
Die decimo septino ante Kal.sextiles (augustas)
XVII KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)
II

Postridie Kal. quintile (iulias)
Die exto ante Nonas quintiles (iulias)
VI NONAS QUINTILIS (IULII) XVII Die decimo sexto ante kal.sextiles (augustas)
XVI KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)
III

Die quinto ante Nonas quintiles (iulias)

V NONAS QUINTILIS (IULII) XVIII Die decimo quinto ante kal.sextiles
(augustas)
XV KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)
IV

Die quarto ante Nonas quintiles (iulias)

IV NONAS QUINTILIS (IULII) XIX Die decimo quarto ante kal. sextiles (augustas)
XIV KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)
V

Die tertio ante Nonas quintiles (augustas)

III NONAS QUINTILIS (IULII) XX Die decimo tertio ante kal.sextiles
(augustas)
XIII KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)
VI

Pridie Nonas quintiles (iulias)

PRIDIE NONAS QUINTILES (IULIAS) XXI Die decimo secundo ante kal. sextiles
(augustas)
XII KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)
VII

NONIS QUINTILIBUS (IULIIS)

NONIS QUINTILIS (IULII) XXII Die undecimo ante kal. Sextiles
(augustas)
XII KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)
VIII

Postridie Nonas quintiles (iulias)
Die octavo ante Idus quintiles (iulias)
VIII IDUS QUINTILIS (IULII) XXIII Die decimo ante Kal.sextiles (augustas)

XI KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)
IX

Die septimo ante Idus quintiles (iulias)

VII IDUS QUINTILIS (IULII) XXIV Die nono ante kal. sextiles (augustas)

IX KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)
X

Die sexto ante Idus quintiles (iulias)

VI IDUS QUINTILIS (IULII) XXV Die octavo ante kal.sextiles (augustas)

VIII KALENDAS SEXTILIS (AUGUST)
XI

Die quinto ante Idus quintiles (iulias)

V IDUS QUINTILIS (IULII) XXVI Die septimo ante kal.sextiles (augustas)

VII KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)
XII

Die quarto ante Idus quintiles (iulias)

IV IDUS QUINTILIS (IULII) XXVII Die sexto ante kal.sextiles (augustas)

VI KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)
XIII

Die tertio ante Idus quintiles (iulias)

III IDUS QUINTILIS (IULII) XXVIII Die quinto ante kal.sextiles (augustas)

V KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)
XIV

Pridie Idus quintiles (iulias9

PRIDIE IDUS QUINTILIS (IULII) XXIX Die quarto ante kal. sextiles (augustas)

IV KALENSAS SEXTILIS (AUGUSTI)
XV

IDIBUS QUINTILIBUS (IULIIS)

IDIBUS QUINTILIS (IULII) XXX Die tertio ante kal.sestiles (augustas)

III KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)

XXXI Pridie kalenda sextiles (augustas)

PRIDIE KALENDAS SEXTILIS (AUGUSTI)

MENSIS SEXTILIS (augustus)
I

KALENDIS SEXTILIBUS (AUGUSTIS)

KALENDIS SEXTILIS (AUGUSTI) XVI
Die decimo septimo ante kal.septembres

XVII KALENDAS SETPTEMBRIS
II

Postridie kalendas sexstiles (augustas)
Die quarto ante Nonas sextiles (augustas)
IV NONAS SEXTILIS (AUGUSTI) XVII Die decimo sexto ante kal. septembres

XVI KALENDAS SETPEMBRIS
III

Die tertio ante Nonas sestile (augustas)

III NONAS SEXTILIS (AUGUSTI) XVIII Die decimo quinto ante kal. septembres

XV KALENDAS SEPTEMBRIS
IV

Pridie Nonas sextiles (augustas)

PRIDIE NONAS SEXTILIS (AUGUSTI) XIX Die decimo quarto ante kal. septembres

XIV KALENDAS SEPTEMBRIS
V

NONIS SEXTILIBUS (AUGUSTIS)

NONIS SEXTILIS (AUGUSTI) XX Die decimo tertio ante kal. septembres

XII KALENDAS SEPTEMBRIS
VI

Postridie Nonas sextiles (augustas)
Die octavo ante Nonas sextiles (augustas)
VIII IDUS SEXSTILIS (AUGUSTI) XXI Die decimo secundo ante kal. septembres
XII KALENDAS SEPTEMBRIS
VII

Die septimo ante Idus sextiles (augustas)

VII IDUS SEXTILIS (AUGUSTI) XXII Die undecimo ante kal. septembres

XI KALENDAS SEPTEMBRIS
VIII

Die sexto ante Idus Sextiles (augustas)

VI IDUS SEXTILIS (AUGUSTI) XXIII Die decimo ante kal. septembres

X KALENDAS SEPTEMBRIS
IX

Die quinto ante Idus sexstiles (augustas)

V IDUS SEXTILIS (AUGUSTI) XXIV Die nono ante kal. septembres

IX KALENDAS SEPTEMBRIS
X

Die quarto ante Idus sextiles (augustas)

V IDUS SEXTILIS (AUGUSTI) XXV Die octavo ante kal. Septembres

VIII KALENDAS SEPTEMBRIS
XI

Die tertio ante Idus sextiles (augustas)

III IDUS SEXTILIS (AUGUSTI) XXVI Die septimo ante kal. Septembres

VII KALENDAS SEPTEMBRIS
XII

Pridie Idus sextiles (augustas)

PRIDIE IDUS SEXTILIS (AUGUSTI) XXVII Die sexto ante kal. Septembres

VI KALENDAS SEPTEMBRIS
XIII

IDIBUS SEXTILIBUS (AUGUSTIS)

IDIBUS SEXTILIS (AUGUSTI) XXVIII Die quinto ante kal. septembres

V KALENDAS SEPTEMBRIS
XIV

Postridie Idus sextiles (augustas)
Die decimo nono ante kal.septembres
XIX KALENDAS SEPTEMBRIS XXIX Die quarto ante kal. septembres

IV KALENDAS SEPTEMBRIS
XV

Die decimo octavo ante kal. septembres

XVIII KALENDAS SEPTEMBRIS XXX Die tertio ante kal. septembres

III KALENDAS SEPTEMBRIS

XXXI Pridie kalendas septembres

PRIDIE KALENDAS SEPTEMBRIS

MENSIS SPETEMBER
I

KALENDIS SEPTEMBRIBUS

KALENDIS SEPTENBRIS XVI
Die decimo sexto ante kal.octobres

XVI KALENDAS OCTOBRIS
II Postridie kalendas septembres
Die quarto ante Nonas septembres
IV NONAS SEPTEMBRIS XVII Die decimo quinto ante Kal. octobres

XV KALENDAS OCTOBRIS
III Die tertio ante Nonas septembres

III NONAS SEPTEMBRIS XVIII Die decimo quarto ante kal. octobres

XIV KALENDAS OCTOBRIS
IV Pridie Nonas septembres

ORIDIE NONAS SEPTEMBRES XIX Die decimo tertio ante kal. octobres

XIII KALENDAS OCTOBRIS
V NONIS SEPTEMBRIBUS

NONIS SEPTEMBRIS XX Die decimo secundo ante kal. octobres

XII KALENDAS OCTOBRIS
VI Postride Nonas septembres

POSTRIDIE NONAS SEPTEMBRIS XXI Die undecimo ante kal. octobres

XI KALENDAS OCTOBRIS
VII Die septimo ante Idus septembres

VII IDUS SEPTEMBRIS XXII Die decimo ante kal. octobres

X KALENDAS OCTOBRIS
VIII Die sexto ante Idus septembres

VI IDUS SEPTEMBRIS XXIII Die nono ante kal. octobres

IX KALENDAS OCTOBRIS
IX Die quinto ante Idus septembres

V IDUS SEPTEMBRIS XXIV Die octavo ante kal. octobres

VIII KALENDAS OCTOBRIS
X Die quarto ante Idus septembres

IV IDUS SEPTEMBRIS XXV Die septimo ante kal. octobres

VII KALENDAS OCTOBRIS
XI Die tertio ante Idus septembres

III IDUS SEPTEMBRIS XXVI Die sexto ante kal. octobres

VI KALENDAS OCTOBRIS
XII Pridie Idus septembres

PRIDIE IDUS SEPTEMBRIS XXVII Die quinto ante kal. octobres

V KALENDAS OCTOBRIS
XIII IDIBUS SEPTEMBRIBUS

IDIBUS SEPTEMBRIS XXVIII Die quarto ante kal. octobres

IV KALENDAS OCTOBRIS
XIV Postridie Idus septembres
Die decimo octavo ante kal. octobres
XVIII KALENDAS OCTOBRIS XXIX Die tertio ante kal. Octobres

III KALENDAS OCTOBRIS
XV Die decimo septimo ante kal. Octobres

XVII KALENDAS OCTOBRIS XXX Pridie kalendas octobres

PRIDIE KALENDAS OCTOBRIS

MENSIS OCTOBER
I

KALENDIS OCTOBRIBUS

KALENDIS OCTOBRIS XVI
Postridie Idus octobres
Die decimo septimo ante kal. novembres
XVII KALENDAS NOVEMBRIS
II Postridie kalendas octobres
Die sexto ante Nonas octobres
VI NONAS OCTOBRIS XVII Die decimo sexto ante kal. novenbres

XVI KALENDAS NOVEMBRIS
III Die quinto ante Nonas octobres

V NONAS OCTOBRIS XVIII Die decimo quinto ante kal. octobres

XV KALENDAS NOVEMBRIS
IV Die quarto ante Nonas octobres

IV NONAS OCTOBRIS XIX Die decimo quarto ante kal. novembres

XIV KALENDAS NOVEMBRIS
V Die tertio ante Nonas octobres

III NONAS OCTOBRIS XX Die decimo tertio ante kal. novembres

XIII KALENDAS NOVEMBRIS
VI Pridie Nonas octobres

PRIDIE NONAS OCTOBRIS XXI Die decimo secundo ante kal. novembres

XII KALENDAS NOVEMBRIS
VII NONIS OCTOBRIBUS

NONIS OCTOBRIS XXII Die undecimo ante kal. novembres

XI KALENDAS NOVEMBRIS
VIII Postridie Nonas octobres
Die octavo ante idus octobres
VIII IDUS OCTOBRIS XXIII Die decimo ante kal. novembres

X KALENDAS NOVEMBRIS
IX Die septimo ante Idus octobres

VII IDUS OCTOBRIS XXIV Die nono ante kal. novembres

IX KALENDAS NOVEMBRIS
X Die sexto ante Idus octobres

VI IDUS OCTOBRIS XXV Die octavo ante kal. novembres

VIII KALENDAS NOVEMBRIS
XI Die quinto ante Idus octobres

V IDUS OCTOBRIS XXVI Die septimo ante kal. novembres

VII KALENDAS NOVEMBRIS
XII Die quarto ante Idus Octobres

IV IDUS OCTOBRIS XXVII Die sexto ante kal. novembres

VI KALENDAS NOVEMBRIS
XIII Die tertio ante Idus octobres

III IDUS OCTOBRIS XXVIII Die quinto ante kal. novembres

V KALENDAS NOVEMBRIS
XIV Pridie Idus octobres

PRIDIE IDUS OCTOBRIS XXIX Die quarto ante kal. novembres

IV KALENDAS NOVEMBRIS
XV IDIBUS OCTOBRIBUS

IDIBUS OCTOBRIS XXX Die tertio ante kal. novembres

III KALENDAS NOVEMBRIS
XXXI Pridie kalendas novembres

PRIDIE KALENDAS NOVEMBRIS

MENSIS NOVEMBER
I

KALENDIS NOVEMBRIBUS

KALENDIS NOVEMBRIS XVI
Die decimo sexto ante kal. decembres

XVI KALENDA DECEMBRIS
II Postridie kalendas novembres
Die quarto ante Nonas novembres
IV NONAS NOVEMBRIS XVII Die decimo quinto ante kal. decembres

XV KALENDAS DECEMBRIS
III Die tertio ante Nonas novembres

III NONAS NOVEMBRIS XVIII Die decimo quarto ante kal. decembres

XIV KALENDAS DECEMBRIS
IV Pridie Nonas novembres

PRIDIE NONAS NOVEMBRIS XIX Die decimo tertio ante kal. decembres

XIII KALENDAS DECEMBRIS
V NONIS NOVEMBRIBUS

NONIS NOVEMBRIS XX Die decimo secundo ante kal.decembres

XII KALENDAS DECEMBRIS
VI Postridie Nonas novembres
Die octavo anta Idus novembres
VIII IDUS NOVEMBRIS XXI Die undecimo ante kal.decembres

XI KALENDAS DECEMBRIS
VII Die septimo ante Idus novembres

VII IDUS NOVEMBRIS XXII Die decimo ante kal.decembres

X KALENDAS DECEMBRIS
VIII Die sexto ante Idus novembres

VI IDUS NOVEMBRIS XXIII Die nono ante kal. decembres

IX KALENDAS DECEMBRIS
IX Die quinto ante Idus novembres

V IDUS NOVEMBRIS XXIV Die octavo ante kal.decembres

VIII KALENDAS DECEMBRIS
X Die quarto ante Idus novembres

IV IDUS NOVEMBRIS XXV Die septimo ante kal.decembres

VII KALENDAS DECEMBRIS
XI Die tertio ante Idus novembres

III IDUS NOVEMBRIS XXVI Die sexto ante kal. decembres

VI KALENDAS DECEMBRIS
XII Pridie Idus novembres

PRIDIE IDUS NOVEMBRIS XXVII Die quinto ante kal. decembres

V KALENDAS DECEMBRIS
XIII IDIBUS NOVEMBRIBUS

IDIBUS NOVEMBRIS XXVIII Die quarto ante kal. decembres

IV KALENDAS DECEMBRIS
XIV Postridie Idus novembres
Die decimo octavo ante kal. decembres
XVIII KALENDAS DECEMBRIS XXIX Die tertio ante kal. decembres

III KALENDAS DECEMBRIS
XV Die decimo septimo ante Kal decembres

XVII KALENDAS DECEMBRIS XXX Pridie kalendas decembres

PRIDIE KALENDAS DECEMBRIS

MENSIS DECEMBER
I

KALENDIS DECEMBRIBUS

KALENDIS DECEMBRIS XVI
Die decimo septimo ante kal. ianuarias

XVII KALENDAS IANUARII
II Postridie kalendas decembres
Die quarto ante nonas decembres
IV NONAS DECEMBRIS XVII Die decimo sexto ante kal. ianuarias

XVI KALENDAS IANUARII
III Die tertio ante Nonas decembres

III NONAS DECEMBRIS XVIII Die decimo quinto ante kal.ianuarias

XV KALENDAS IANUARII
IV Pridie Nonas decembres

PRIDIE NONAS DECEMBRIS XIX Die decimo quarto ante kal. ianuarias

XIV KALENDAS IANUARII
V NONIS DECEMBRIBUS

NONIS DECEMBRIS XX Die decimo tertio ante kal. ianuarias

XIII KALENDAS IANUARII
VI Postridie Nonas decembres
Die octavo ante Idue decembres
VIII IDUS DECEMBRIS XXI Die decimo secundo ante kal. ianuarias

XII KALENDAS IANUARII
VII Die septimo ante Idus decembres

VII IDUS DECEMBRIS XXII Die undecimo ante kal. ianuarias

XI KALENDAS IANUARII
VIII Die sexto ante Idus decembres

VI IDUS DECEMBRIS XXIII Die decimo ante kal. ianuarias

X KALENDAS IANUARII
IX Die quinto ante Idus decembres

V IDUS DECEMBRIS XXIV Die nono ante kal. ianuarias

IX KALENDAS IANUARII
X Die quarto ante Idus decembres

IV IDUS DECEMBRIS XXV Die octavo ante kal. ianuarias

VIII KALENDAS IANUARII
XI Die tertio ante Idus decembres

III IDUS DECEMBRIS XXVI Die septimo ante kal. ianuarias

VII KALENDAS IANUARII
XII Pridie Idus decembres

PRIDIE IDUS DECEMBRIS XXVII Die sexto ante kal. ianuarias

VI KALENDAS IANUARII
XIII IDIBUS DECEMBRIBUS

IDIBUS DECEMBRIS XXVIII Die quinto ante kal. decembres

V KALENDAS IANUARII
XIV Postridie Idus decembres
Die decimo nono ante kal. ianuarias
XIX KALENDAS IANUARII XXIX Die quarto ante kal. ianuarias

IV KALENDAS IANUARII
XV Die decimo octavo ante kal. ianuarias

XVIII KALENDAS IANUARII XXX Die tertio ante kal. ianuarias

IV KALENDAS IANUARII
XXXI Pridie kalendas ianuarias

PRIDIE KALENDAS IANUARII

I MESI DELL’ANNO
MESE DI GENNAIO (IANUARIUS)
Il mese di gennaio è il mese sacro al dio Giano (Ianus).
MESE DI FEBBRAIO (FEBRARIUS)
ll nome del mese di febbraio (fino al 450 a.C. considerato l’ultimo mese dell’anno e di seguito il secondo) trae origine dal nome di una divinità etrusca degli inferi, chiamata Februus, cui nella seconda metà del mese venivano offerti sacrifici, durante le “februa”, che erano solennità religiose finalizzate alla purificazione dei vivi e dalla espiazione e commemorazione dei morti.
Il giorno 17 febbraio (XIII Kal.Mart.) veniva celebrata la festa chiamata “quirinalia” in onore di Romolo Quirino.
MESE DI MARZO (MARTIUS)
Mese sacro al dio Marte (arcaico Mamers, Mavors e poi Mars). Originariamente era una divinità italica protettrice dei campi e della pastorizia, successivamente identificato e confuso col dio greco Ares (figlio di Giove e di Giunone, il dio violento nelle mischie sanguinose e della guerra).
Lui si chiamò “Gradivus” (= colui che marcia in testa alle truppe) ed anche ”Quirino” (= il vibratore della lancia dalla voce sabina “curis” che significa lancia).
Racconta la leggenda che Marte, unitosi a Rea Silvia, vestale e figlia di Numitore, re di Albalonga, la rese madre di Romolo e Remo, diventando così padre e protettore del popolo romano (per questo Marte fu chiamato anche Mars pater, Marspiter).
Ogni condottiero romano, in procinto di partire per una spedizione militare si recava prima al tempio di Marte dove muoveva gli scudi e scuoteva la lancia del dio esclamando: “Mars vigila! (= Marte, vigila su di me!).
MESE DI APRILE (APRILIS)
Etimologicamente nome aprile si ricollega al verbo “aperto” (= aprire, schiudere, spalancare, sbocciare). È infatti il mese in cui arriva la primavera.
Nel mese di aprile(il 12 o il 13) avevano luogo i “ludi cerealia” (giochi circensi che consistevano soprattutto in corse di cavalli nel Circo Massimo ), in onore di Cerere, dea figlia di Saturno e di Ops, sorella di Giove e Plutone, madre di Proserpina. Cerere era dea della terra in quanto datrice di frutti, dell’agricoltura in generale e della prosperità in genere e quindi anche dea dei matrimoni.
MESE DI MAGGIO (MAIUS)
Il nome deriva da Maia, antica divinità italica, identificata successivamente con la dea greca Maia, una delle Pleiadi, madre di Ermete.
MESE DI GIUGNO (IUNIUS o IUMONIUS)
Il nome deriva da Giunio (Iunius), nome di un’antica “gens” romana, tra i più noti della quale furono L. Iunius Brutus, che scacciò il re da Roma, e i due Bruti: M. Iunius Brutus e D.Iunius Brutus, uccisori di Giulio Cesare (44 a.C. e anno 710 dalla fondazione di Roma).
Il mese di giugno era anche chiamato “Iunionius” in quanto sacro alla dea Giunone.
Il giorno 9 giugno si celebrava la festa in onore della dea vesta Vesta, figlia di Saturno e di Ops, sorella di Cerere, dea del fuoco e del focolare domestico, quindi anche della economia e della vita domestica.
MESE DI LUGLIO (QUINTILIS o IULIUS)
Anticamente chiamato “quintilis” in quanto era il quinto mese dell’anno che, infatti, aveva inizio col 1 marzo. Giulio Cesare approvò la riforma (46 a.C.) del calendario in vigore, risalente a Numa Pompilio, ed in seguito questo mese, in suo onore, venne chiamato “Iulius”.
MESE DI AGOSTO (SEXTILIS o AUGUSTUS)
Anticamente chiamato “sextilis” in quanto era il sesto mese dall’inizio dell’anno fissato al 1^ marzo successivamente in onore di Ottaviano Augusto chiamato “Augustus”.
MESE DI SETTEMBRE (SEPTEMBER)
Il nome significa settimo in quanto è il settimo mese dell’anno che aveva inizio col 1^ marzo altri interpretano: messi settimo “ab imbre” (dalle piogge).
MESE DI OTTOBRE (OCTOBER)
Il nome significa ottavo in quanto era all’ottavo mese dall’inizio dell’anno che aveva inizio col 1^ marzo.
MESE DI NOVEMBRE (NOVEMBER)
Il nome significa nonno in quanto era il nono mese dell’anno che aveva inizio con il 1^ marzo.
MESE DI DICEMBRE (DECEMBER)
Il nome significa 10º in quanto era il 10º mese dell’anno che aveva inizio col 1^ marzo.
Durante il mese di dicembre, con inizio il giorno 17, avevano luogo le “saturnalia”, feste religiose che duravano più giorni in memoria dell’aureo regno di Saturno nel Lazio. Saturno, antica divinità italica era venerato come dio protettore della seminagione che aveva per moglie Ops (simbolo della fecondità della terra). Più tardi fu identificato col dio greco Cronos e gli si attribuirono le leggende di quest’ultimo: è quindi padre di Giove, Plutone, Nettuno, Giunone, Cerere, Pico ecc. Nel suo tempio, il Roma, ai piedi del Campidoglio, c’era l’”erarium” dove si custodiva il tesoro pubblico, l’archivio di Stato e le insegne militari.
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Lingua Latina
Nella regione chiamata ”Latium” allora delimitata dal Tevere, dall’Aniene fino a Tivoli, dai monti Sabini e dal mare, era parlata già dal primo millennio avanti Cristo la lingua latina. Essa ha preso il nome dalla regione in cui era parlata.
È una lingua appartenente alla famiglia linguistica indoeuropea, parlata in Europa ed in parte dell’Asia occidentale, che si differenziava dalle altre grandi famiglie linguistiche: la famiglia semitica da cui deriva l’arabo e l’ebreo, la famiglia camitica da cui derivano quasi tutte le lingue dell’Africa settentrionale, la famiglia ugro-finnica da cui derivano le lingue dell’Europa orientale.
Il proto latini ebbero contatti con popolazioni che non parlavano lingue indoeuropee, come Liguri, Etruschi ed Euganei. Da ciò vennero al latino vocaboli la cui etimologia non è indoeuropea. Altri contributi diedero alla formazione della lingua latina i dialetti indo-europei parlati dagli Oschi, Umbri e dai Sabini.
Con la fondazione di Roma (754 a.C.) può dirsi sia finito il periodo preistorico della evoluzione della lingua latina; ad esso è seguito il periodo arcaico fino al 300 a.C. I fatti linguistici più importanti verificatisi in questo periodo sono rappresentati dei rapporti fra latino e lingua etrusca, sabina e anche greca . Gli influssi della lingua sabina ed etrusca furono molto vivi nei primi secoli della storia di Roma, per motivi di ordine politico: la prevalenza dei Sabini e la dominazione degli etruschi, con i re, a Roma.
Gli etruschi diedero alla lingua di Roma un numero notevole di vocaboli riguardanti la vita politica, militare e soprattutto religiosa e il mondo teatrale. I contributi dell’etrusco continuarono anche dopo la cacciata dei re, per opera di commercianti, attori, aruspici, ecc.
Durante i primi secoli della Repubblica fu molto accentuato l’influsso della lingua sabina; in un secondo tempo però l’uso di vocaboli di derivazione sabina fu ritenuto indice di rusticità.
La terza lingua che influì molto sulla formazione del latino, fu la lingua greca. L’influenza del greco durò molti secoli; notevolissimo nel campo della medicina, ove, fin dall’inizio, fu predominante l’uso di vocaboli derivanti dal greco.
L’alfabeto si perfezionò definitivamente: composto delle seguenti 24 lettere: A, B, C, D, E, F, G, H, K, I, L, M, N, O, P, Q, R, S, T, U, V, X, Y, Z.
Per le seguenti lettere sono da segnalare queste particolarità:
– La “C” in origine aveva il suono gutturale come in “gufo”. Infatti la scrittura arcaica di “Legiones” era “Leciones”, di “Magistratus” era “Macistratos” di Gaius” era “Caius”.
– La “E” nella forma arcaica si trova al posto della “I”: “Menerva” = “Minerva”,
“Magester”= “Magister”.
– La “G” intorno al 234 a.C. per una mutazione fonetica fu introdotta nell’alfabeto latino l’arcaico “Macester” tramutato in “Magister”,
“Leciones” in “Legiones”.
– “Q” anticamente, in certi casi, al posto della “C”.
– “U” anticamente scritto “V”.
– “Y” lettera greca già molto usata al tempo di Cicerone al posto della “U” nelle parole di derivazione greca.
– “Z” dal doppio suono a volte come la nostra “Z”, ora come la nostra “S”: da qui la doppia grafia di alcuni vocaboli come “Zmyrna” o “Smyrna”, “Zmaris” o “Smaris”.
Ad un dato punto la lingua latina diventa lo strumento espressivo di uno stato ordinato per quanto riguarda la religione e il diritto, inizia l’età in cui essa diventa anche mezzo espressivo usato dagli scrittori. Nascono i primi documenti letterari in latino con Plauto, Terenzio, Catone, Livio Andronico, Nevio e Pacuvio.
Il latino prende il sopravvento sui dialetti italici e, con le fortunate e grandi conquiste di nuovi territori da parte di Roma, si diffonde in breve tempo all’intera penisola italica.
Nel primo secolo avanti Cristo il latino, ormai, è una lingua pronta per diventare una lingua letteraria di alta perfezione; una lingua, come quella greca, di civilizzazione del mondo antico.
Il latino letterario raggiunge la sua perfezione massima nella prosa di Cicerone e Cesare, nella poesia di Virgilio e Orazio ed altri.
È questo il periodo in cui la letteratura latina produce i suoi capolavori, apprezzati nei secoli, fino all’era moderna.
I confini della dominazione romana si allargano sempre di più e in essi si diffonde il latino. In sei secoli i Romani conquistarono quasi interamente il mondo allora conosciuto; nelle planimetrie delle regioni più lontane dell’impero, non potendo indicare il nome di altri popoli da sottomettere, scrivevano ”hic sunt leones”.
Le conquiste dei Romani non furono limitati alla sola sottomissione militare dei popoli vinti; ma la politica di espansione e di consolidamento del potere centrale richiedeva una forte penetrazione, una “romanizzazione” in profondità dei paesi conquistati, con imposizione di proprie leggi scritte e con forme più o meno dirette di controllo sulle istituzioni amministrative.
I territori conquistati divenivano per i Romani ”ager publicus” da spartire fra i cittadini che volevano colonizzarlo. Dopo Mario e Silla, con la creazione dei grandi eserciti, i territori conquistati venivano spartiti fra ex soldati degli eserciti conquistatori.
Le popolazioni dei paesi conquistati furono costretti ad imparare il latino senza dimenticare, almeno nelle prime generazioni, le proprie lingue native. In questa fase di bilinguismo il latino veniva già in parte modificato, adattato da ogni popolo alla propria pronuncia e con l’arricchimento di parole di origine locale, che si affiancavano o addirittura sostituivano le latine.
Finché l’Impero ebbe la solidità e le forze necessarie a tenere uniti tanti popoli, lontani e diversi, anche la lingua restò, sostanzialmente, una e le differenze provinciali pesarono soltanto come sfumature.
Ma quando, dal III secolo dopo Cristo, incominciò la decadenza di Roma e, a più riprese, l’Impero fu assalito da popolazioni barbare, provenienti dall’Europa settentrionale o dall’oriente, anche l’unità linguistica venne meno.
Alcuni popoli, non sufficientemente romanizzati e che non avevano superato la fase del bilinguismo, tornarono alle lingue native, conservando solo qualche traccia della lingua latina; altri popoli continuarono a parlare il latino, ma poiché non esisteva più il centro unificatore ed un forte legame con Roma, si accentuarono sempre di più le differenze locali, dando luogo a vere e proprie varietà provinciali del latino. Nella stessa Roma, col disgregarsi della classe dominante, anche i modelli culturali e linguistici, che essa aveva prodotto, perdettero la loro autorità; forme di lingua popolare poterono sostituirsi alle forme letterarie che avevano dominato fino allora.
A questo nuovo latino provinciale e popolare viene dato il nome di “latino volgare” (da “vulgus” che significa popolo), in contrapposizione a “latino classico”, la lingua cittadina letteraria (da “classis” che significa classe sociale e che indicava per antonomasia la classe aristocratica).
Lenti processi hanno portato alla nascita, del latino volgare, delle lingue chiamate “neolatine” o “romanze”: l’italiano, il ladino, il sardo, il francese, il provenzale, lo spagnolo, il catalano, il portoghese e il rumeno.
Per quanto concerne l’evoluzione del latino, durante il medioevo, e la nascita della lingua italiana è da tenere presente questo importante fatto: la perdita di alcuni casi della declinazione latina e la conservazione del solo nominativo ed accusativo, in tempi più recenti scomparve anche il primo caso della declinazione, il nominativo, e fu conservato il solo accusativo. Si può pertanto affermare che moltissime parole italiane derivano, sostanzialmente, dall’accusativo delle corrispondenti parole latine (es. “condiderationem” = considerazione, “orazionem” = orazione).
La lingua italiana è diretta continuatrice del latino dal quale ha ereditato non solo le parole, ma anche le strutture sintattiche e le regole grammaticali.

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ALFABETO LATINO – ABBREVIAZIONI
A= prima lettera dell’alfabeto latino
ab.u.c. = ab urbe condita = dalla fondazione della città
a.u.c. = ab urbe consita = dalla fondazione della città
AUC = anno urbis conditae = dall’anno della fondazione della città.
A.A. = Augusti duo = due anni dall’impero di Augusto
A.A.A. = Augusti tres = tre anni dall’impero di Augusto
III VIRI A.A.A.F.F. = triumviri auro, argento, aeri flando feriundo = triunviri addetti alla zecca
A = absolve = sulle tavolette dei giudici – detta anche littera salutaris – il giudice se voleva dare
sentenza di assoluzione, cancellava sul retro della tavoletta la lettera C
(condemno = condanno ).
A = antiquo = respingo, voto contro = lettera scritta su una delle due tavolette ricevute
dall’elettore nei comizi per decidere intorno ad una legge presentata; sull’altra
tavoletta era scritto U.R. (V.R) = uti rogas = come tu proponi, approvo.
B = seconda lettera dell’alfabeto latino
B.D. = bonadea
B.L. = bona lex
B.O. = bono omine
B.P. = bono publico, ovvero bona possessio
B.M. = bene merenti
B. (D.S.) M. = bene de se merenti
B.V.V. = bene vale, vale!
C = terza lettera dell’alfabeto latino che in origine aveva il suono gutturale come in “gufo”.
Infatti la scrittura arcaica di Legiones era Leciones, di Magistratus era Macistratos, di
Gaius era Caius.
C = centum = segno numerico = 100 (a volte la C era scritta in modo invertito)
C = condemno = condanno – sulle tavolette dei giudici era impressa la “C” e sul retro la lettera
“A”. Il giudice se voleva dare sentenza di condanna, cancellava sul retro la lettera “A” e
faceva vedere la tavoletta con impressa la lettera “C”. In caso di assoluzione faceva il
contrario.
C = nelle iscrizioni poteva rappresentare la abbreviazione di : centuria, centurio, civis, civica,
color, collegium, colonia od altro.
COS = consul = console
COSS = consules = consoli
C.U.V. = cura ut valeas = fa in modo di star bene
D = quarta lettera dell’alfabeto latino
D = segno numerico = 500
D. = abbreviazione del prenome Decimus = Decimo prenome romano
D = in qualche iscrizione antica = Deus, Divus, Dominus
D.M. = Dis Manibus = del giorno sacro ai Mani (morti) – Dis genitivo arcaico di dies
D.O.M. = deo optimo maximo = al dio ottimo massimo
D = dabam = davo; ovvero ”epistula data est” = la lettera è stata data; abbreviazione usata nella
data apposta in fondo alle lettere
D.P.S. = de pecunia sua = con denaro proprio
D.N. = dominus noster = il nostro padrone, riferito all’imperatore
DD.NN. = domini nostri = il nostro padrone, al plurale sempre riferito all’imperatore
DD = domus divina = il palazzo imperiale
E = quinta lettera dell’alfabeto latino
E = in forme arcaiche si trova al posto di I: es. Menerva = Minerva, magester = magister,
ciò specialmente nel linguaggio volgare e contadinesco
E. = emeritus = emerito, benemerito
E. = evocatus = chiamato
E.M.V. = egregiae memoriae vir = uomo eccellente da ricordare
E.Q.R = eques romanus = cavaliere romano
ER = eres = heres = erede
F = sesta lettera dell’alfabeto latino
F. = filius = figlio
F. = fecit = fece, realizzò
FF = fecerunt = fecero, realizzarono
F.F. = Flavia fidelis = lesione Flavia fedele
F.C. = faciendum curavit = curò che venisse fatto
F.I. = fieri iussit = ordinò di fare
FL. P. = Flamine (sacerdote) a vita
FL = Flavius = Flavio o gens romana
FR o FRV = frumentum = grano; frumentarius = mercante di grano.
Dall’imperatore Adriano in poi il frumentarius era una specie di agente
investigatore o spia politica.
G = settima lettera dell’alfabeto latino, inclusa in esso intorno all’anno 234 a.C. per una
mutazione grafica della “C”; l’arcaico macister tramutato in magister, leciones in
legiones.
G = Gaius = Gaio prenome romano; nelle iscrizioni al posto di Caius
G.I.(S) = Germania inferior o superior = Germania inferiore o superiore
G.L. = genio loci = al dio (genio) del luogo
G.P.R.F. = genio populi romani feliciter = con successo per opera del genio del popolo
romano
H = ottava lettera dell’alfabeto latino
HS = sestertius = sesterzio = moneta romana = il vocabolo deriva da semis-tertius =
Valeva 2 “as” e ½ (cioè il terzo as solo a metà)
H = hic = qui = oppure la declinazione del pronome dimostrativo hic, haec, hoc
H = per habet, hastata (cohors, heres, honos = coorte di astati, erede, onore)
HAR = haruspex = aruspice
H.S.S. =hic siti sunt = qui sono collocati (scritta per epitaffi)
H.S.E. = hic situs est = qui è collocate (scritta per epitaffi)
H.H. = heredes = eredi
H.E.T. = erede ex testamento = eredi per testamento
H.N.S. = heredem non sequitur = non spettano all’erede
H.E.A. = heres per asse = erede universale
H.M.H.N.S. = Hoc monumentum erede non sequitur = questo monumento non è
alienabile. Sulla colonnina delle tombe di famiglia i più ricchi apponevano
questa scritta per indicare che la tomba non era alienabile.
I = nona lettera dell’alfabeto latino
I = segno numerico = a 1
I = idem, infra, iter, Iuno, Iuppiter, od altro
IDQ = idemque = ed anche
I.H.F.C. = ipsius heres faciundum curavit = curò di diventare erede di sé stesso
IM = immunus = e sente da imposte o gravami
IMP=imperium,imperator=impero,imperatore
K = decima lettera dell’alfabeto latino
K o KAL = kalendae = calende, primo giorno di ogni mese
L = undecima lettera dell’alfabeto latino
L = segno numerico = 50
M = dodicesima lettera dell’alfabeto latino
M = segno numerico = 1000
M = abbreviazione di Marcus = Marco, prenome romano che si ricollega a Mars.
M’ = coll’apostrofo = abbreviazione di Manlius = nome della gens romana Manlia.
N = tredicesima lettera dell’alfabeto latino
N = abbreviazione di Numerius = Numerio della gens Flavia
NL = non liquet = la cosa non è chiara = espressione che i giudici scrivevano sulla loro
tavoletta per il voto, per sospendere la sentenza, e per richiedere una più
ampia e approfondita informazione.
O = quattordicesima lettera dell’alfabeto latino
O = abbreviazione di optimus, omnis od altro
O = nella grafia e nella pronuncia antiquata qualche volta si trova al posto di “e” o di “u”
(vorsus = versus, antiquom = antiquum)
P = quindicesima lettera dell’alfabeto latino
P = nelle abbreviazioni indica il prenome Publius = Publio nome gens di una romana s
P.C. = patres conscripti = senatori
P.M. = pontifex maximus = pontefice massimo
P.R. = populous romanus
P.VIII = pedum octo = otto piedi
P.P. = pecunia publica = il denaro del Tesoro dello Stato
PROCOS = proconsole
Q = sedicesima lettera dell’alfabeto latino
Q = anticamente veniva usato, in certi casi, al posto della lettera ”c”; successivamente
quando era seguito subito dalla vocale “u” ed a questa ancora una delle cinque
vocali latine in modo da formare una sola sillaba, quindi soltanto nei gruppi qua,
quae, quo, quu.
Q = come abbreviazione di Quintus = Quinto, prenome romano
Q = que = e, ed
R = diciassettesima lettera dell’alfabeto latino, chiamata ”littera canina” perché i cani
irritati sembrano emettere, ringhiando, un suono che ricorda la “R”.
R = abbreviazione di romanus
R = abbreviazione di Rufus = Rufo, cognome romano
R.P,=respublica=Repubblica
R.R. = relations relate = relazione, rapporto
S = diciottesima lettera dell’alfabeto latino
S = abbreviazione di Sextus = Sesto, prenome romano; pureSextius o Sestius = Sestio
nome di una gens romana.
S = semissis = lettera impressa su monete = la metà di un tutto diviso in 12 parti
S.C. = Senatus consultum = decreto, deliberazione del Senato
S.D. = salutem dicit = saluta, augura benessere
Sp SP = Spurius = Spurio, prenome romano
S.P. = sua pecunia = con denaro proprio
S.P.D. = salute plurimam dicit = augura tantissima salute
S.P.Q.R. = Senatus populusqua Romanus = il Senato e il popolo romano;
oppure: Senatus populusque Quiritium Romanus = il Senato e popolo romano dei
Quiriti.
S.V.B.E.E.V. = si vales, bene est: ego valeo = se stai bene, sono contento: io sto bene.
T = diciannovesima lettera dell’alfabeto latino
T = abbreviazione diTitus = Tito, prenome romano
TI = Tiberius = Tiberio, prenome romano
U = ventesima lettera dell’alfabeto latino
U = originariamente scritto “V”, segno derivante dal greco Y
U = Urbs = Roma (la città per eccellenza)
U.C.= pureu.c. = urbis conditae = dalla fondazione della città
U.R. = oppure V.R. = uti rogas = come tu proponi: approvo – iscrizione apposta su una
delle due tavolette ricevute dalle letture nei comizi per decidere intorno alla
accettazione di una nuova legge quindi si dava l’assenso, il benestare; sulla seconda
tavoletta era scritto “A” = antiquo = respingo, voto contro.
V = ventunesima lettera dell’alfabeto latino
V = vale = stammi bene, nelle lettere
V = abbreviazione divir, vivens, vivus, votum od altro
V = segno numerico = 5
X = ventiduesima lettera dell’alfabeto latino
X = segno numerico = 10
X = denarius = denaro, che in origine corrispondeva ad 10 assi:Xcccc = 400 denari;
Xv = cinque denari
Y = ventitreesima lettera dell’alfabeto latino
Y = lettera greca che soltanto tardi passò all’alfabeto latino, già al tempo di Cicerone
era largamente usata dai romani per rappresentare la vocale “u” nelle parole
derivanti dal greco.
Z = ventiquattresima lettera dell’alfabeto latino, chiamata dai romani “Zethum”.
Ora col suono della nostra “Z” ora della “S” (da qui la grafia doppia di alcuni vocaboli: Zmyrna o Smyrna (Smirne, città greca), smaris o smaris (piccolo pesce di mare).

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TEATRI
Il primo teatro stabile, in pietra, fu fatto costruire nel 55 a.C., in Roma, nel campo Marzio, da Pompeo, di ritorno dalla guerra di oriente.
Il teatro era formato in gradinate “cavea” che salivano in ordine concentrico, ove sedevano gli spettatori (gradini chiamati: sedilia o gradus).
I teatri avevano vari piani: quali “prima cavea” (prima fila), riservata ai senatori ed ai patrizi, ai cavalieri e dalle autorità (posti distinti), “cavea summa” o ultima, la più lontana (il loggione) per il popolino.
Nel teatro c’era pure lo schiavo addetto alla assegnazione dei posti.
I cavalieri ed i patrizi, entrando in teatro, ricevevano una marchetta “nonisma”, a forma di medaglia, come buono acquisto per una bibita. Andando al teatro o al circo i romani portavano dietro il ”circense tomentum”, stuoia per sedervisi sopra oppure un cuscino ripieno di lana, peli, piume o altro.
Il sipario del teatro ”aulaeum” era un telone che veniva anticamente calato o lasciato cadere a terra (il contrario di ciò che avviene nei teatri moderni). Normalmente questi teloni erano ornati con figure di dei e soprattutto di eroi. Quando era finita la rappresentazione l’aulaeum veniva tirato in alto dando l’impressione che fossero gli dei gli eroi, in esso raffigurati, a tirarlo in alto. Fra le varie scene della tragedia o commedia veniva calato o alzato il siparium, il quale, a differenza dell’aulaeum che si abbassava o si alzava soltanto all’inizio o alla fine della rappresentazione.
Gli attori spesso si coprivano il volto con una maschera chiamata “persona”.
Nelle tragedie, gli attori, uomini o donne, e da parte di tutti coloro che si presentavano in scena veniva calzato il coturno (“cothurnus”), mentre nelle commedie il calzare usuale era il “soccus” (scarpa bassa e leggera presso i romani usata solo dalle donne e dagli effeminati).
Gli attori che sostenevano la parte di una donna si imbiancavano le mani ed il viso con il gesso.
Sul palco, per far risuonare ed amplificare la voce degli attori venivano collocati grossi vasi di rame, chiamati “echea” (da echo = eco).
Per indicare l’inizio e la fine della rappresentazione si usava uno strumento musicale chiamato “scabulum”. Era fatto a forma di una scarpa con il fondo di legno molto spesso, forato sotto le dita con una fessura orizzontale, ove era collocato un piccolo apparecchio sonoro; di esso si servivano i suonatori di flauto per battere la musica ed accompagnare altri strumenti musicali.
Nel teatro, talvolta, veniva installato e fatto funzionare un palco, chiamato “pegma”. Esso era un tavolato preparato ad arte, che si innalzava rapidamente dal suolo da se stesso e discendeva di nuovo o si scomponeva con la massima rapidità; vi si facevano combattere sopra gladiatori, o si facevano con esso salire in alto persone, per divertimento degli spettatori. Altra macchina utilizzata era l’”extorta” fatta il legno e girevole che, nella scena, agli spettatori, faceva vedere personaggi diversi all’interno della casa.
Nella commedia, da parte del coro, ad imitazione dei greci, veniva eseguita una danza licenziosa, caratterizzata da movimenti rapidi e gesti indecenti, chiamata “cordax”. Dai romani ballare il “cordax” al di fuori della commedia era considerato come segno di ubriachezza o di grande depravazione.
Nel teatro veniva eseguito il “ludus talaris”, che era una rappresentazione dai movimenti scomposti e osceni, con accompagnamento di cimbali e nacchere (cymbala et crotala) in cui gli attori erano vestiti con una tunica (tunica talaris) che scendeva fino ai talloni.

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SCUOLE – ISTRUZIONE
Nell’antichità i Romani non dettero mai grande importanza all’istruzione dei figli.
Nel periodo iniziale della Repubblica, occupati come erano per la difesa e l’espansione di Roma, avendo bisogno di soldati valorosi e gagliardi, curavano esclusivamente la loro prestanza fisica e l’addestramento all’uso delle armi.
Pochi, e soltanto quelli appartenenti a famiglie patrizie o facoltose, erano i giovani istruiti; nelle classi dei meno abbienti e del popolino (populus tunicatus) l’analfabetismo era quasi totale.
La continua e necessaria dedizione all’arte della guerra non lasciò spazio al diffondersi della cultura. Conclusasi vittoriosamente la lotta con Cartagine e ultimate le guerre di conquista verso Oriente, Roma conobbe un periodo di calma.
Dopo il 200 a.c. il contatto con altre civiltà, soprattutto con i Greci, stimolò i Romani alla imitazione ed, in poco tempo, i costumi si ingentilirono e crebbe l’interesse verso forme di civiltà ritenute superiori. I capolavori artistici greci, come bottino di guerra, vennero trasportati a Roma e destinati ad abbellire le splendide ville urbane dei patrizi. Il forte influsso della civiltà greca ebbe subito i suoi frutti a Roma; si ampliò la conoscenza dei capolavori letterari della Grecia; la lingua greca venne imparata e parlata come seconda lingua; le opere filosofiche divennero oggetto di studio da parte di giovani romani; l’oratoria fu considerata come disciplina di primaria importanza. Giovani patrizi si recavano ad Atene per ultimare o perfezionare gli studi.
L’arrivo di maestri greci e di schiavi istruiti diffusero a Roma la cultura. Sorsero le prime biblioteche.“Graecia capta ferum vincitorem coepit et artes intulit agresti Latio” (la Grecia conquistata conquistò a sua volta il rozzo vincitore e portò le belle arti al selvaggio Lazio”) così recitava e riconosceva il grande Orazio.
Numerosissimi oratori, sofisti, drammatici, matematici, filosofi, letterati, scrittori, poeti, pittori, scultori, architetti si insediarono a Roma; furono subito aperte le scuole private molto frequentate da discepoli di ogni classe sociale. In esse il ”ludi magister” (paragonabile al nostro maestro di scuola elementare), insegnava i primi rudimenti del sapere: leggere, scrivere e fare i conti. Illustrava agli alunni le più semplici norme di educazione civica; dare la destra, nel camminare, alle persone importanti o più anziane, salutare le persone investite di autorità con le formule “salve” e “valete” rivolte a coloro che arrivavano, oppure “vale” e “valete” nel prendere commiato da esse.
Questa era l’istruzione ritenuta sufficiente per le classi sociali meno agiate. I figli delle famiglie patrizie e di agiate, oltre al maestro educatore “praeceptor”, normalmente schiavo, che aveva lo specifico incarico di curare il loro primo grado di istruzione, avevano anche la possibilità di frequentare scuole ove insegnavano i più bravi retori e grammatici.
Si perfezionavano nell’arte di parlare avente fine della persuasione e nello studio della lingua latina e greca dal punto di vista delle norme (fonetiche, morfologiche, sintattiche).
A Roma sorsero anche scuole di materie scientifiche in cui si formarono bravi architetti, progettisti e bravi realizzatori di meravigliose opere monumentali; topografi ed agrimensori (gromatici) specializzati nel redigere precise rappresentazioni grafiche del terreno a scopo militare o catastale, e nell’effettuare la centuriazione delle terre.
Varie dottrine e teorie filosofiche: il pitagorismo, lo stoicismo, l’epicureismo, si diffusero rapidamente a Roma ad opera di insigni maestri.
Contributo importante alla diffusione della cultura venne dato dai circoli culturali, promossi e sponsorizzati dalle ricche famiglie patrizie, presso i quali poeti e scrittori potevano leggere e far conoscere le loro opere. Le pubbliche letture presso le biblioteche, l’Odeon (“Odeum” edificio per gare poetiche e musicali ), le conferenze, le lezioni, erano già avvenimenti frequenti e normali. Durante l’ultimo secolo della Repubblica comparvero i primi munifici protettori dei letterati e degli artisti.
I giovani patrizi ed i figli di ricchi plebei si recavano in Grecia, ove apprendevano la lingua greca e si perfezionavano nell’arte oratoria ed approfondivano le loro conoscenze filosofiche, matematiche, artistiche ecc.
Iscrivendosi ad una scuola il discepolo omaggiava il maestro offrendogli un ”minerval” (donativo).
La scuola per i più piccini (il nostro asilo scuola materna) era chiamata “ludus”; quella per i giovani più avanzati era la ”schola”.
L’anno scolastico incominciava a marzo, durava otto mesi, gli altri quattro mesi erano considerati vacanze (scholarum feriae); come pure erano giorni di vacanza le “nundinae” (ogni 9 giorni) e solennità civili o importanti cerimonie e feste religiose.
Agli Idi, quindi il 13 o il 15 del mese, lo scolaro portava l’onorario al maestro.
Alla scuola l’alunno, solo se appartenente a famiglia facoltosa o patrizia, si recava accompagnato da uno schiavo “capsarius”, il quale portava anche la borsa o cassettina (capsa o loculus) del padroncino; in essa, suddivisa in vari scompartimenti, erano riposti: le tavolette cerate e lo stilo per scrivere e leggere, le pietruzze (calculi) per imparare a fare i conti.
Agli scolari venivano anche assegnati compiti da svolgere a casa o dettati (dictata) dal maestro che dovevano essere imparati a memoria.
I maestri erano, a volte, molto severi e infliggevano agli alunni negligenti e poco profittevoli anche punizioni corporali. Il poeta Orazio ricorda il suo maestro di nome Orbilio con l’aggettivo”plagosus” (= picchiatore), perché ricorreva facilmente alle busse verso alunni negligenti.
Gli alunni che frequentavano la scuola senza o con pochissimo profitto erano chiamati, sarcasticamente e con scherno, “inquilini” (inquilini, affittuari).
Il “pedagogium” era la scuola, il collegio, ove venivano mandati i fanciulli (specialmente figli degli schiavi) per essere educati ed istruiti al fine di poterli poi avviare a funzioni un po’ più elevate: scrivani, segretari, contabili,ecc.

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MUSICA E STRUMENTI MUSICALI
In Roma non si ebbero grandi maestri di musica, non si inventarono né espressioni musicali nuove, né si ebbero geniali inventori di strumenti musicali nuovi.
Nel campo della musica i Romani copiarono quasi tutto dai Greci.
I pochi strumenti musicali da essi conosciuti erano:
1)- la “lyra”, copiata da un antico strumento musicale greco, formato in origine da un guscio di tartaruga, sul quale erano incise due corna di gazzella, unite in alto da una traversa di legno. Tra la traversa ed il guscio erano fissate le corde, dapprima in numero di quattro, ed alla fine salite al numero di 18.
2) la “cithara” (cetra). Strumento musicale simile alla lira, un perfezionamento della stessa. Era costituita da una cassa armonica di legno, a forma di guscio di tartaruga, dalla quale partivano due bracci ricurvi, collegati in alto da una traversa; le corde, tese fra la traversa ed il fondo della cassa armonica, venivano pizzicate col peltro o con le dita.
3)- la “tuba” (tromba). Strumento a fiato di ottone col tubo, nella parte finale, a forma di padiglione, munita di tre pistoni per formare melodie col suo suono medio acuto. Nella pratica musicale dell’antichità usata soprattutto a scopo militare e nelle solenni cerimonie religiose o civili.
4)- le “tibiae” (il flauto). Strumento a fiato, originariamente di osso, usato in teatro, nelle cerimonie religiose, nei funerali, nelle nozze ecc. con esso si suonava musica e in tre toni: il Tirio (il più basso), di Frigio (il medio), il Lidio (il più acuto). Talvolta venivano unite due “tibiae”, con toni eguali o diseguali.
5)- i “crotala” o “crusmata” (le nacchere o castagnette). Strumento musicale antichissimo, costituito da due pezzi di legno durissimo, a forma di conchiglia, incavati e uniti con una cordicella poi legata al pollice: battuti l’uno contro l’altro con la mano essi producevano un suono caratteristico; venivano soprattutto suonate, durante le danze voluttuose, come accompagnamento.
6)- il “cornu” o “bucina” (corno). Strumento a fiato, fatto con le corna di buoi, più tardi fatto di bronzo o di rame, esso veniva usato per segnalazioni a distanza. Il “cornu” era soprattutto usato in guerra, mentre la “bucina” (corno a forma di conchiglia), fatta di ferro battuto o di ottone, veniva usata in guerra e nelle battute di caccia.
7)- il “cymbalum” (cembalo). Strumento musicale a percussione formato da due mezzi globi con impugnatura esterna; venivano battuti l’uno contro l’altro, come i nostri moderni piatti.
8)- il “tympanum” (il tamburo). Strumento musicale usato specialmente nel culto della dea
Cibele, fatto come una semisfera dal ventre vuoto come il nostro timballo, oppure semplicemente in forma di una ruota o di uno staccio con sonagli pendenti sull’orlo.
9)- la “fistula” (la zampogna). Momento a fiato fatto una serie di canne decrescenti e di lunghezza, quindi con toni diversi, che è suonata da un bravo “fistulator” (zampognaro) e metteva gradevoli melodie.
10)- il “sibilus” o “calamius” (lo zufolo, il fischietto), era lo strumento musicale più semplice, ma il più amato dai ragazzini.
A Roma, con la venuta di numerosi maestri greci, sorsero anche scuole di musica, ove si imparava suonare la lira, la cetra ed il flauto; la scuola di musica era chiamata “ludus fidicinius” (da ”fides” = corda armonica fatta anche di budella di animali).

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I ROMANI SCRIVEVANO CON……
Sicuramente i Romani iniziarono a scrivere su una “tabella” di pietra o di argilla cotta (sistema adottato dai babilonesi ed a i Fenici). Inventarono poi, le tavolette di legno e persino di avorio, chiamate “tabellae PUGIollares” (PUGIollares in quanto di piccole dimensioni, tanto che potevano stare o tenersi col pugno). Esse erano spalmate di cera, sopra la quale scrivevano con lo “stilus” o con il “graphium”.
“Stilus” era chiamato ogni corpo acuminato ( da questo vocabolo deriva quello italiano di “stile” che in senso figurativo significa modo di scrivere). Lo “stilus “ aveva l’estremità superiore a punta e l’inferiore larga e piatta, a forma di spatola, per cancellare, correggere eventuali errori e per riplasmare la cera e prepararla ad un nuovo uso. L’operazione di cancellatura dello scritto era detta “litura”. Il “graphium” era uno stilo sempre di metallo. I portapenne o astuccio portapenne era chiamato “theca calamaria”, il portacarte “librarium”.
Venuti a contatto con altri popoli che si affacciavano sul Mediterraneo, i Romani, per scrivere, cominciarono ad usare una specie di carta “charta”. Essa era fatta da una sottile membrana della corteccia interna di alberi quali i “tilia” (i tigli, la cui striscia interna della corteccia era chiamata “philyra”). I Romani, come già da molto tempo altri popoli, utilizzarono il papiro “papyrus” (pianta dal fusto sottile alto 4-5 metri che cresce lungo il Nilo o nelle paludi in Egitto); col suo legno si facevano barche; con la corteccia: abiti, funi, calzature; con la parte interna della corteccia si faceva la “charta”, dopo aver praticato un trattamento chimico speciale. Grazie alla sua resistente fibra antichi scritti papiracei sono giunti sino a noi in ottimo stato di conservazione, La corteccia interna del papiro era chiamata “liber” (da cui libro).
Sopra la carta si scriveva con una specie di inchiostro (detto “atramentum librarium”), che era un liquido nero fatto con fuliggine e gomma oppure con la feccia del vino (“triginon”), contenuto nell’”atramentum” (calamaio), utilizzando una cannuccia acuminata (“calamus scriptorius” =
penna per scrivere), canna che veniva importata dall’Egitto perché di ottima qualità.
Per scrivere con l’inchiostro venivano usati anche le piume della coda o delle ali di grossi volatili.
Oltre che sulla carta i Romani scrivevano sulla ”pergamena”, che era una pelle conciata ed essiccata di animali, così chiamata perché inventata da Eumene, re di Pergamo.
La pergamena, previa ”litura”, cancellatura effettuata mediante raschiatura, poteva essere riutilizzata, prendendo così il nome di palinsesto (che in greco significa raschio di nuovo).
Nel basso Impero erano così rare e costose le pergamene e talmente scarsa la disponibilità di carta, che per scrivere si usava raschiare, nelle biblioteche, i codici dei primi tempi, contenenti le opere di scrittori classici greci e latini per scrivervi di nuovo altro. Da ciò nacquero i codici palinsesti, ossia recuperati, che erano reintegrati. Nei tempi moderni è stato possibile leggere lo scritto preesistente nella pergamena, prima della raschiatura, e così sono state recuperate opere ormai considerate perdute.
Le minute dei poeti degli scrittori si facevano sulle tavolette cerate; quando poi il componimento era stato portato al grado di perfezione desiderato, veniva copiato sopra la pergamena.
Ultimato lo scritto, si ripiegava e arrotolava la pergamena. Le tavolette invece si adattavano l’una sull’altra, con la parte scritta rivolta all’interno; poi si legava il tutto con una cordicella di colore rosso (“linum”), sui capi della quale si poneva un po’ di cera per imprimervi il sigillo con le pietre incise, incastonate negli anelli, che di solito i Romani portavano al dito.
Il sigillo era costituito da una materia dura (pietra o metallo) recante inciso un segno particolare, che serviva come segno di riconoscimento o per ufficializzare un documento. Talvolta il segno convenzionale era accompagnato da una legenda. Il sigillo veniva usato dai più alti magistrati, i quali apponevano il loro personale sigillo sulla cera sovrapposta alla cordicella che legava le tavolette, oppure posta in calce al foglio di papiro o pergamena per confermare l’autenticità. I privati, autorizzati all’uso del sigillo, erano tenuti a pagare una tassa chiamata “cerarium”, sulla cera acquistata per l’uso anzidetto.
Era consuetudine per i Romani studiare e scrivere stando sdraiati su un divano o lettuccio (“lecticula”).
I Romani, come altri popoli antichi, usarono scrivere lettere per comunicare o chiedere notizie. Pur essendo la lettera il componimento scritto più utile e necessario alla vita umana, i Romani ne fecero un uso tardivo rispetto all’arte della scrittura già esistente, conosciuta e diffusa da molto tempo. Nel periodo più splendido della letteratura romana, la lettera (“epistula”) acquistò vera perfezione letteraria. Le lettere dei personaggi più illustri furono raccolte, ma andarono perdute. La più grave perdita fu quella delle lettere di Cesare, delle quali ci rimangono pochi frammenti. L’unico epistolario, mai superato per stile, arrivato ai tempi nostri, anche se incompleto, è quello di Cicerone (106-43 a.C.); dopo di lui scrissero lettere Seneca (2-65 -d.C. a.C.) e Plinio il Giovane (62-114 d.C.).
Per comunicare per lettera lo scrittore romano suole trasportarsi col pensiero nel tempo in cui la lettera sarà letta e, parlando del momento in cui la scrive, usa l’imperfetto o perfetto invece del presente parlando del passato usa il piuccheperfetto invece del perfetto, mettendo con questi tempi gli avverbi e i modi avverbiali temporali; quindi usa “eo die” (quel giorno) invece di “hodie” (oggi), “pridie” (il giorno prima) invece di “heri “ (ieri), “in dies” (di giorno in giorno), “hesterno, hodierno, crastino die” (nel giorno di ieri, d’oggi, di domani), “diem de die” (da un giorno all’altro, “ad diem” (al giorno fissato), “multo die” (molto avanti nella giornata), “de die” (di pieno giorno), “noctes atque dies” (di giorno e di notte), “die crastini” (domani). Esempio: “tertiam ad te hanc epistola scripsi eodem die “ ( = è la terza lettera che oggi ti scrivo).
Questo cambiamento dei tempi si usava solamente quando si parlava di cose che erano in relazione al tempo in cui si scriveva la lettera; ma ciò che lo scrittore diceva senza alcun riferimento al tempo in cui si scriveva, si poneva con i tempi ordinari: esempio: “ego te maximi et feci semper et facio; cetera, ut scribis, presenti sermoni preserventur” (= io t’ho sempre stimato e ti stimo assai; il resto rimandiamolo, come tu scrivi, a quando ci parleremo).
In fondo alla lettera, consegnata (“data”) ai “tabellarii” per il recapito, subito dopo i saluti, i Romani ponevano la data, consistente nella sigla “D” ed indicando, di solito, in modo abbreviato, il mese ed il luogo di provenienza, omettendo sempre l’anno. Il nome del luogo quasi sempre in caso ablativo, raramente in caso genitivo locativo. Esempio: “D. d.IV Kal. Apr. Brundisio “ (la lettera è stata data il giorno 29 marzo da Brindisi).
Le abbreviazioni più comuni usate nelle lettere erano:
S.D. = salutem dicit = saluta, augura benessere
V = vale = stammi bene
S.B.V.E.E.V. = si vales, bene est, ego valeo = se stai bene, sono contento, io sto bene
B.V. = stammi bene
C.U.T. = Cura ut valeas = fa in modo di star bene
B.V.V. = sta bene, addio
K o Kal. = kalendae = calende (primo giorno del mese)
Una volta scritta alla lettera veniva inviata al destinatario a mezzo del “tabellarius” o “gerulus litterarum”, che era portalettere o corriere privato incaricato di recapitare le lettere; mentre
il portalettere pagato dallo Stato era chiamato “tabellarius publicus”.
Il servizio postale, esistente da tempo, agli inizi dell’Impero, per opera di Ottaviano Augusto fu regolamentato meglio, sul modello di quello persiano, con la creazione di una rete postale capillare, lungo le vie consolari e militari. Successivamente fu perfezionato dall’imperatore Adriano, il quale lo rese più regolare ed esteso, non solo in terra, ma anche per mare istituendo un ufficio postale nel porto di Ostia e di Brindisi.

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SERVIZIO POSTALE
Il portalettere o corriere privato, incaricato di recapitare lettere, era chiamato “tabellarius” pure “tabellarius publicus”; il “cursus publicus o vehicularis” era la posta imperiale. La posta pubblica mantenuta dal fisco era detta “cursus fiscalis”.
Le istituzioni postali ebbero origine in Persia, ove, si dice, Dario avesse organizzato un sistema di comunicazioni fra le varie parti del regno a mezzo di corrieri stazionati a determinate distanze per la trasmissione dei messaggi reali.
Anche nella Grecia antica esisteva un’organizzazione postale analoga per la diffusione delle notizie più importanti.
A Roma, agli inizi dell’impero, per opera di Ottaviano Augusto, fu regolamentato meglio il servizio postale, sul modello persiano, con la creazione di una capillare rete postale lungo le vie consolari e militari. Furono istituite, a determinate distanze, stazioni (“stationes”) di servizio postale, ove i giovani corrieri incaricati del servizio stesso, i corrieri a cavallo dello Stato chiamati “angarii”, i porta ordini militari potevano sostare, riposare e rifocillarsi, trovando anche eventuali sostituti per il proseguimento del servizio. In caso di necessità, presso la stazione, erano disponibili i cavalli riposati e carrozze efficienti.
Con tale organizzazione si riusciva ad avere celermente ed in tempi record notizie anche dalle più lontane province dell’impero.
Il servizio postale romano fu perfezionato dall’imperatore Adriano, il quale lo rese più regolare ed esteso, non solo in terra, ma anche per mare.
Nel porto di Ostia vi era un ufficio imperiale di posta; di là salpavano le navi in tutte le direzioni verso le isole e i porti principali del Mediterraneo. Un analogo ufficio postale fu istituito nel porto di Brindisi.
Presso le “stationes” aveva la sua dimora il “parochus” che era un fornitore pubblico il quale doveva, dietro un determinato compenso da parte dello Stato, provvedere l’alloggio, il vitto od altro, a magistrati in viaggio, ad ambasciatori, alti funzionari dello Stato, senatori, che muniti di apposita autorizzazione “legatio” dimostravano di averne diritto.
Alcuni uffici pubblici, oppure alti funzionari dello Stato potevano spedire la corrispondenza in franchigia postale, non pagando la tassa, usufruendo della ”immunitas mercedis cursualis”.
Godere della franchigia postale si diceva: “copiam cursus publicus habere”; spedire una lettera in franchigia postale, si diceva: “epistola in mercedis cursualis immunem mittere”.

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LE VIE CONSOLARI E MILITARI
Uno dei mezzi principali che i Romani usarono fin dai primi tempi della Repubblica, per mantenere la loro autorità sui popoli vinti, fu la costruzione di grandi vie militari.
In breve tempo queste intersecarono l’Italia per ogni verso e collegarono le colonie e le province con Roma, come unico centro.
Tutte le strade partivano dal Foro, ove era posta una colonna dorata, chiamata ”Milium o Milliarium aureum”, sopra la quale erano scolpiti il nome di tutte le strade e la loro lunghezza; lungo di esse, ai lati, erano poste le pietre miliari “miliarium” ogni 1000 passi (poco meno di 1 km e mezzo = ml. 1480), che servivano per indicare le distanze (“intra quintum lapidem” = a cinque miglia da Roma).
Le principali e più importanti strade costruite durante il periodo della Repubblica e dell’Impero sono le seguenti:
1)- VIA APPIA detta da Stazio “regina viarum”. La grande strada maestra del mezzogiorno d’Italia, che cominciava dalla porta Capena di Roma, saliva in linea retta verso i colli Albani, quindi, attraverso le paludi pontine, giungeva fino a Capua. Essa era completamente lastricata di pietre. Fu costruita nel 312 a.C. dal censore Appio Claudio Cieco. Da Capua, poi, sotto l’imperatore Traiano (98-117 d.C.) fu prolungata per Benevento, fino a Brindisi.
2) La VIA FLAMINIA, da Roma a Narni, Spoleto, Fano fino a Rimini. Fatta costruire dal censore C. Flaminio, sconfitto da Annibale al Trasimeno.
3)- La VIA CASSIA, da Roma a Sutri, Bolsena, Chiusi, Cortona e Arezzo.
4)- La VIA AURELIA, da “porta ianucolensis” fino a Pisa.
5) La VIA SALARIA, da “porta Collina” fino all’Adriatico, passando per Ascoli Piceno. Così chiamata perché vi passavano i Sabini che si recavano al mare Adriatico per prendere il sale.
6)- La VIA EMILIA , da Roma a Bologna, Modena, Parma e Piacenza.
7)- Altra VIA EMILIA, che prolungava la via Cassia da Arezzo a Firenze, sino a Bologna per ricollegarsi con la grande via Emilia.
8)- La VIA VALERIA, da Roma ad Alba Fucenzia, città dei Marsi, sul lago Fucino, oggi Celano.
9)- La VIA LATINA, da Roma ad Isernia passando per Fregelle, città del Lazio al confine con la Campania, sul fiume Liri.
10)- La VIA NOMENTANA univa Roma a Nomentum (oggi Mentana) nel territorio sabino ai confini del Lazio, continuava poi fino ad Eretum (oggi Cretone vicino a Palombara Sabina) presso Monterotondo, dove si congiungeva alla Via Salaria.
11)- La VIA TRAIANA si staccava dalla Via Appia presso Benevento e conduceva a Brindisi, toccando Canusium (antichissima città dell’Apulia, oggi Canosa) ed Egnatia (cittadina e porto dell’Apulia).
12)- La VIA POPILIA: ne esistevano due, costruite forse dal console Popilio (132 a.C.): una congiungeva Rimini con Ravenna, Adria e Altino nel Veneto; l’altra, in parte tracciata ed in parte rinnovata, congiungeva Capua (dipartendosi dalla Via Appia) con Rhegium, città del Bruzzio sullo stretto di Messina (oggi Reggio Calabria).
13)- La VIA POSTUMIA, costruita dal console Postumio Albino (148 a.C.) congiungeva Genova (dalla Via Aurelia) a Verona attraverso Piacenza e Cremona, prolungata poi fino ad Aquileia.
14)- La VIA CLODIA, costruita verso la fine del 3° sec. a. C., congiungeva Roma all’Etruria meridionale toccando le località di Tuscania e Saturnia.
15)- La VIA DOMITIA, costruita da Domiziano, nel 90 d.C. circa, era la continuazione della Via Aurelia che attraverso la Gallia Narbonense giungeva alla Spagna Citeriore.
16)- La VIA EGNATIA che era la prosecuzione della Via Appia al di là dell’Adriatico; da Durazzo, dopo un percorso di 267 miglia (400 Km circa), giungeva fino a Salonicco sull’Egeo.
17)- La VIA CLAUDIA AUGUSTA, tracciata da Druso e compiuta da Claudio, che, partendo dalla Via Popilia, congiungeva Altinum (nel Veneto) alla Rezia (regione tra il Danubio ed il Reno.
Queste strade furono costruite tutte prima dell’anno 150 a.C., ma oltre ad esse altre strade minori per importanza o per tratti più brevi sono costruite, partendo da Roma, come la via PRENESTINA, che andava ad unirsi alla Via Latina; ed altre che completavano la grande rete, raccordando fra loro le vie principali, o prolungando queste a punti più lontani.
Durante l’impero da parte dei romani o proseguita l’opera di costruzione di strade militari, soprattutto per opera dell’imperatore Traiano (98-117 d.C.) nelle province.
La Via Aurelia da Pisa fu prolungata fino ad Arlete (oggi Arles) nella Gallia Narbonese, e da qui fino alla Spagna orientale, per Cartagena, sino a Cadice, sullo stretto di Gibilterra.
La Via Flaminia da Rimini fu prolungata fino a Piacenza, per proseguire poi, con varie diramazioni nella Galia Transpadana; una di queste diramazioni passando per Verona ed Aquileia, andava in Pannonia, sino a Sirmio, a Nissa, Adrianopoli e Costantinopoli; quindi attraversava all’Asia Minore sino a Isso, poi la Siria e la Palestina, e poi l’Egitto e tutta l’Africa Settentrionale, passando per Alessandria, Cirene, Tunisi, per terminare a Tangeri sullo stretto di Gibilterra, di fronte a Cadice, ove arrivava la via Aurelia.
Da questo grande cerchio stradale, intorno al Mediterraneo, si dipartivano numerosi e lunghi altri tronchi stradali, che giungevano fino agli estremi confini dell’impero romano.
Una immensa rete stradale, non meno meravigliosa, per quell’età, di quanto non sia nella nostra epoca la rete ferroviaria o autostradale. Con essa si era formato un sistema continuato di comunicazioni, che, di conseguenza, apriva e facilitava le relazioni e gli scambi commerciali fra i popoli.
Su queste strade marciavano celermente le legioni per tenere sottomessi i territori conquistati. Lungo le stesse erano state organizzate, a determinate distanze, le stazioni di servizio postale, attraverso le quali, in brevissimo tempo, arrivavano notizie a Roma anche dalle province più lontane.

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STATO – ORDINAMENTO POLITICO
Dopo circa 80 anni di sanguinosissime guerre Roma riuscì, dal 340 al 260 a.C. circa, ad estendere i suoi confini a Sud fino allo stretto di Messina e al Nord fino al fiume Rubicone.
I principali mezzi che i Romani usarono, all’inizio, per mantenere la loro autorità sui popoli vinti, furono i seguenti:
1)- lo stanziamento di colonie, sparse in tutta Italia, a custodia di una posizione o sorveglianza di un territorio. La colonia era un complesso di famiglie le quali, per pubblico consenso, andarono ad abitare in una data località, costruendo un centro politico e amministrativo, secondo le norme stabilite da Roma.
Nelle città, normalmente, vi erano due piazze, di forma rettangolare, formati dall’incrocio del Decumano Massimo (Est-Ovest) con il Cardine Massimo (Nord-Sud), una parte più ampia nella direzione Est-Ovest.
Le colonie erano romane e latine. Le romane erano composte di soli cittadini romani e ciò anche per evitare l’accumulo della moltitudine povera in Roma; essi conservavano tutti i diritti della cittadinanza romana ed i capi di famiglia potevano recarsi a Roma per partecipare alle votazioni nei comizi. Queste colonie, nella città dove erano costituite in forma permanente, formavano una specie di ceto patrizio, mentre gli antichi abitanti erano abbassati alla condizione dei plebei.
Appartenevano alle colonie romane tutte le città marittime dotate di un porto importante.
Le colonie latine, invece, erano molto più numerose e grosse di quelle romane; gli abitanti avevano diritti ridotti, non eguali a quelli dei cittadini romani, ma conservavano la loro autonomia come molte importanti città del Lazio e come le città alleate.
2)- un trattamento diverso delle molte città sottoposte, che rimanevano così separate fra di loro e quindi in condizione di non potersi facilmente collegare, organizzare ed alleare contro la capitale.
Le città ribelli perdevano oltre il diritto di avere una propria magistratura giudiziaria, anche il Senato locale e ed ogni altra corporazione dei cittadini.
Per esempio Capua, per essersi consegnata ad Annibale nel 211 a.C., perdette i diritti sopradescritti e, presso di essa, ogni anno, si inviava da Roma un “Praefectus iuri dicundo”; il suo popolo era considerato “multitudo ad consensus inabilis” (= massa inabile a deliberare). Da 59 a.C. Capua cessò di essere Prefettura ed ebbe magistrature pubbliche eguali a quelle delle colonie.
3)- La costruzione di grandi strade militari, le quali in pochi decenni intersecarono l’Italia in ogni verso, collegando le colonie con Roma, ormai divenuta centro comune.
Questi tre punti hanno avuto una grande importanza per la conservazione della potenza di Roma e per l’influenza che hanno esercitato sulle popolazioni italiche sottomesse.
La distribuzione delle colonie nelle diverse regioni d’Italia fu fatta dal Senato con una intelligente strategia militare: essi servivano anche da guarnigioni.
La creazione di colonie produsse rilevanti effetti: i costumi, le leggi romane si diffusero ovunque e la lingua latina sostituì i vari linguaggi locali.
All’Italia conquistata i romani dettero un ordinamento politico applicando sempre il principio delle “divide et impera”; ovunque introdussero varietà di governi, di diritti e di obblighi, secondo le costumanze del delle popolazioni sottomesse.
La penisola italica, tutta riunita in un solo Stato, sotto la signoria di Roma, aveva una popolazione che si divideva:
1)-in veri cittadini romani, che erano i dominatori, con Roma città sovrana. Il territorio romano, intorno Roma, era notevolmente esteso ed i suoi abitanti erano divisi in 35 tribù; solo quelli iscritti nei ruoli delle predette tribù erano cittadini romani e formavano la classe dirigente.
2)-in sudditi a sua volta divisi in tre categorie:
a- alla prima categoria appartenevano le città latine, non comprese nelle 35 tribù e tutte le colonie latine; gli abitanti di esse non avevano diritti eguali a quelli dei cittadini romani; si amministravano in forma autonoma e fra i sudditi formavano la classe privilegiata.
b- alla seconda categoria appartenevano i “Municipii” che avevano condizioni molto varie; si governavano autonomamente e gli abitanti avendo ricevuto collettivamente la “civitas romana”, potevano però goderne “sine suffragio” (senza quindi i diritti politici) oppure “cum suffragio et iure honorum” (con tutti i diritti civili e politici dei cittadini romani); avevano l’obbligo di fornire alcuni contingenti di milizie, pagarli e mantenerli finché erano in servizio.
L’amministrazione dei Municipi era in mano ai “Duumviri”; il potere legislativo apparteneva ai “Decuriones” (assimilabili ai Senatori), eletti nell’assemblea dei cittadini per la giustizia.
I Municipi dipendevano dal “Praetor urbanus” di Roma, il quale spesso mandava nelle città più lontane un “Praefectus iuri dicundo”, ossia un governatore inviato da Roma ed i Municipi assumevano il nome di “Praefectura”. Erano queste le città trattate più severamente di tutte le altre; i loro cittadini erano soggetti a tutti gli obblighi e doveri dei cittadini romani, senza, però, poter godere dei loro diritti e privilegi. Le prefetture furono soppresse nel 90 a.C. con la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti delle città italiane.
3)-in alleati. Tutte le altre città italiane erano alleati di Roma ed avevano il titolo, più fittizio che reale, di città libere. Erano legati a Roma con trattati di alleanza, ma si governavano con magistrati e leggi proprie, avevano l’obbligo di provvedere di viveri gli eserciti romani che attraversavano il loro territorio. Con la veloce crescita della potenza di Roma, la maggior parte di queste città, fu ridotta alla condizione dei Municipi, nello stesso modo con cui i Municipi furono ridotti in Prefetture.
Nelle colonie e nei Municipi i più alti magistrati, con poteri simili a quelli dei consoli a Roma, erano i “Duumviri” o “Quattuorviri”. I “Decuriones” o “Decemviri” invece erano senatori. La loro giurisdizione dipendeva dalla condizione della città o colonia rispetto a Roma. le città e le colonie, come pure le Prefetture, si sceglievano come protettori (“patroni”) i membri di potenti famiglie patrizie romane.
Con l’espandersi del dominio di Roma, oltre la penisola italica, furono create le Province. Le prime furono la Sicilia (nel 241 a.C.) e la Sardegna (nel 238 a.C.).
Al loro governo furono assegnati ex Consoli o ex Pretori, i quali, all’atto dell’insediamento ricevevano una indennità (vasarium da “vasa” = bagagli), a titolo di rimborso per spese di viaggio e di prima sistemazione. La loro carica durava un anno, dopo di che dovevano passare il governo al successore. Ultimato l’incarico dovevo fare un dettagliato rendiconto della loro amministrazione (= in rationibus referre) in tre copie, delle quali due venivano lasciate nelle due più importanti città della Provincia e la terza veniva consegnata al Senato, tornando a Roma. Durante il comando i governatori della Provincia venivano accompagnati e scortati da 12 littori.
Gli abitanti della Provincia , nel mese di febbraio, se soddisfatti dell’operato del governo avuto, inviavano al Senato di Roma una lettera (“laudatio”) in cui, fra l’altro, facendo lodi, evidenziavano la bravura e l’onestà del governatore. Da testimonianze storiche certe sappiamo, invece, che non sempre i governatori delle Province amministrarono onestamente; molti angariarono e vessarono i sudditi con ingenti ruberie, ritraendone enormi ricchezze, con sfrenata cupidigia (basta ricordare il comportamento di Verre in Sicilia; fu accusato i spogliazioni e violenze a danno degli amministrati da Cicerone nelle famose orazioni “In Verrem”).
Nelle Province la città più grande, che era anche residenza del governatore, era chiamata con l’appellativo di “forum”; in essa, per l’affluenza di molte persone, si teneva il mercato, si tenevano le udienze e si amministrava la giustizia da parte del governatore, in giorni prestabiliti.
Il governo centrale di Roma, a volte, inviava propri funzionari:
– il “corrector” ossia all’amministratore delle province più piccole.
– Il “mittendarius” ossia l’ispettore di finanza avente poteri di controllo sulla riscossione delle imposte;
– Il “procurator”, coadiuvato da “actores” (agenti per lo più schiavi) sia all’amministratore dei beni imperiali nelle province imperiali.
– L’”agens rerum” ossia l’ispettore imperiale revisore di cose militari e civili.
In ogni regione italiana erano rappresentate tutte le predette divisioni amministrative: in ognuna si trovavano cittadini romani, colonie latine, Municipi, Prefetture, città alleate.
Nonostante una così notevole varietà, tutti quei piccoli Stati, più o meno dipendenti da Roma, formarono sempre un corpo compatto sotto la direzione della città sovrana e tutti concorrevano a promuoverne la grandezza e la potenza di Roma. Ciò perché Roma trattò con moderazione la maggior parte dei popoli vinti e se li rese amici e fedeli; usò, invece, estremo rigore con i meno obbedienti, obbligandoli, anche con la forza, a fornire uomini e denaro.
Agendo in tal modo Roma, più che per il suo valore nel conquistare, è da ammirare per la sua avvedutezza nel governare e sapienza nell’assicurarsi le conquiste e trarne sempre profitto per nuovi e maggiori imprese. Queste furono le divisioni della popolazione italica e tali le sue condizioni rispetto a Roma fino alla guerra sociale (90-88 a.C.) che coprì l’Italia di sangue e rovine; con la fine di essa tutte le città italiane ottennero la cittadinanza romana.
A Roma, dopo la cacciata dei re e l’instaurazione della Repubblica il governo delle città e delle regioni era retto dal Senato tramite Consoli o Dittatori, affiancati dai Tribuni, Questori, Pretori, Edili, Censori e tanti altri funzionari pubblici.
Con la riforma, attuata da Diocleziano (284-305 d.C.) con il raggruppamento di più Province furono create le “Diocesi”. Esse erano governate da “Vicarii praefectorum pretorio” ed inizialmente furono 12: “Oriens, Asia, Pontus, Moesiae, Thraciae, Pannonae. Italia, Africa, Hispaniae, Britanniae, Vienensis, Galliae”, successivamente divennero 15. Più diocesi costituivano una Prefettura “.
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HONORES ET IMPERIA
A Roma erano chiamati ”honores” le cariche civili ricoperte da alti funzionari (magistrati) dello Stato; mentre gli “imperia” erano i comandi militari.
Nessuno, normalmente, poteva essere ammesso alle cariche pubbliche, se non dopo aver militato 10 anni nell’esercito.
Le cariche civili erano le seguenti: Senato (età prescritta per essere eletti 25 anni); Questura (età prescritta per l’accesso 27 anni, ridotti a 25 da Augusto); Tribunato (età prescritta 30 anni), Edilità curule (età prescritta 37 anni), Pretura (età prescritta 39 anni), Consolato (età prescritta 43 anni).
Era chiamato “cursus honorum” la carriera politica che potevano percorrere i magistrati. Alle diverse cariche si poteva accedere, avendo l’età richiesta dalla “lex Villia annalis”, mediante elezione da parte di autorità o organi collegiali (Comizi, Senato) etc, previsti dalla legge.
I re, consoli, dittatori, senatori, tribuni, pretori, censori, edili erano chiamati con l’appellativo “clarissimus” (il nostro ”eccellenza”). Essi avevano intorno un grosso stuolo di stretti collaboratori: “scribae” (scrivani e segretari, “assessores” (= aiutanti in una carica pubblica), “notarii” (stenografi) etc. A loro, nelle manifestazioni pubbliche, nei “ludi”, nei teatri erano riservati i posti d’onore “orchestrae”.
Gli aspiranti alle cariche pubbliche candidati (così chiamati perché vestivano la “toga candida”, ossia bianca), spesso andavano in giro nel Foro o durante i Comizi per accaparrarsi i voti; quando ricorrevano ad accordi illeciti con gli elettori, agli intrighi, maneggi o scandalose corruzioni, incorrevano in un grave reato previsto dalle leggi specifiche “de ambitu” (intorno al broglio elettorale). Queste leggi prevedevano pene severe inflitte da un tribunale istituito appositamente.

RE
Secondo la tradizione Roma fu fondata nel 754 a.C. I suoi primi abitatori, forse, vennero da Alba, che, nel secolo VII, era uno dei centri latini più importanti. Si insediarono sulle alture del Palatino e del Campidoglio per contrastare la pressione degli Etruschi, stanziati sulla riva destra del Tevere. Quando i due villaggi si unirono, fu fondata, da Romolo e Remo, la nuova città a cui fu dato il nome di Roma.
Gli abitanti, da Romolo stesso, furono suddivisi in patrizi e plebei; fu anche istituito l’ordine dei cavalieri (“equites”) i quali, nei tempi primitivi, ebbero il compito di militare a cavallo e di fare la guardia a protezione dei re. Erano 30 ai tempi di Romolo, 1200 ai tempi di Tarquinio Prisco e 1800 sotto Tarquinio il Superbo. In seguito i cavalieri perdettero il loro carattere militare e formarono una classe sociale intermedia fra patrizia plebei; l’appartenenza al loro ordine era subordinata al possesso di beni per un valore minimo di 400.000 sesterzi. Fra di loro si sceglievano senatori che collaboravano con i “praetores” e gli “inquisitores” nelle questioni civili e penali. Nel periodo di decadenza della Repubblica i cavalieri iniziarono ad esercitare il commercio all’ingrosso; a partecipare ad importanti aste pubbliche per l’appalto di opere pubbliche o per la riscossione di imposte e tasse.
Dalla sua fondazione fino al 510 a.C. Roma fu governata dai seguenti sette re:
ROMOLO, regnò dal 754 al 715 a.C.
Romolo e Remo, gemelli protagonisti, secondo la leggenda, della fondazione di Roma. Romolo fu il primo re. Sono figure leggendarie, creati a giustificazione dell’origine ed il nome della città. Secondo la leggenda, nella sua forma più comune, riportata da Livio, Dionigi e Plutarco, Romolo e Remo furono figli della vestale Rea Silvia e del dio della guerra Marte. Esposti sul Tevere per ordine di Amulio (re di Alba che per sfrenato desiderio di potere avrebbe detronizzato il fratello Numitore e costretta la figlia di lui a farsi Vestale), si salvarono e furono allattati da una lupa e poi allevati dal pastore Faustolo. Divenuti adulti abbatterono Amulio e restituirono il trono di Alba al nonno materno Numitore. Decisero, quindi, di fondare una città sul monte Palatino. Nel fondare la città, durante un litigio, Romolo uccise Remo. Fondata la città Romolo vi accolse i fuggiaschi dei popoli vicini e diede spose ai suoi sudditi mediante il ratto delle Sabine. Dopo un lungo regno Romolo scomparve misteriosamente e fu poi venerato come il dio Quirino.
NUMA POMPILIO, regnò dal 715 alle 673 a.C. secondo la tradizione fu il secondo re di Roma, dopo Romolo.
Nato a Curi, antichissima capitale dei Sabini, consigliato, secondo la leggenda, dalla Ninfa Egeria, avrebbe provveduto a creare molti collegi sacerdotali, come i Pontefici, gli Auguri, i Flamini, le Vestali, i Salii. A lui fu attribuita la riforma del calendario romano con la quale i mesi da 10 furono portati a 12. Il suo regno, a differenza di quello di Romolo fu pacifico. La sua figura, secondo la critica storica, sarebbe leggendaria, per giustificare l’origine delle più antiche istituzioni religiose.
TULLIO OSTILIO, terzo re di Roma, sarebbe vissuto, secondo la leggenda, nel VII secolo a.C. La sua figura è legata ad un avvenimento storico attendibile: la distruzione di Alba. Sotto il suo regno, durante la guerra contro Alba, si ebbe il duello dei tre fratelli Orazi contro i tre fratelli Curiazi, uccisi dai primi. Combattè contro i Sabini, i Latini e gli Etruschi. Secondo una tradizione fu fulminato da Giove; secondo un’altra, invece, ucciso dal suo successore al trono Anco Marcio.
ANCO MARCIO, quarto re di Roma (secolo VII a.C.) di origine Sabina, nacque da una figlia di Numa. Fu amante della pace, ma, costretto a muovere guerra ai propri vicini, si mostrò valoroso condottiero ed estese il territorio di Roma fino al mare, fondando alla foce del Tevere la colonia di Ostia. Rafforzò le mura di Roma, costruì il carcere di Mamertino e il ponte Sublicio. Morì dopo 24 anni di regno.
TARQUINIO PRISCO, quinto re di Roma, morto nel 579 a.C.
Secondo la tradizione era figlio di Damarte di Corinto e di una donna etrusca. Venuto a Roma, con la moglie Tranquilla, cambiò il nome etrusco di Lucumone in quello di Tarquinio ( era nato a Tarquinia) e, entrato nelle grazie del re Anco Marcio, fu eletto suo successore. Vinse molti popoli limitrofi e realizzò, a Roma, molte opere pubbliche.
Il regno di sovrani di origine etrusca e storicamente accertato secondo molti storici ed il regno di Tarquinio testimonierebbe un periodo di predominio etrusco in Roma.
SERVIO TULLIO, sesto re di Roma, vissuto nel secolo VI a.C.
Figlio di una nobile romana, divenuta schiava, divenne il genero di Tarquinio Prisco, al quale successe al trono. La tradizione attribuisce a lui la costruzione della prima cinta muraria di Roma (mura Serviane) e la conquista di molte città etrusche. Servio Tullio è l’unico re di Roma di cui si abbia notizia certe, anche se le opere attribuitegli appartengono, almeno in parte, alla prima età repubblicana. Di Servio Tullio parla anche la tradizione etrusca, identificandolo con Mastarna, che si sarebbe impadronito del Celio e poi di tutta Roma, uccidendo Tarquinio Prisco. La leggenda narra che fu ucciso dalla figlia Tullia e dal genero Tarquinio il Superbo.
TARQUINIO IL SUPERBO, settimo ed ultimo re di Roma (dal 534 al 510 a.C.). Secondo la tradizione salì al trono alla morte di Servio Tullio. Fu figlio o nipote di Tarquinio Prisco. Combattè con successo contro Etruschi ed Equi e costruì a Roma il tempio dedicato a Giove Capitolino. Governò dispoticamente opprimendo il popolo e i Senatori.
Suo figlio Sesto oltraggiò gravemente Lucrezia (che si uccise), moglie di Collatino, pronipote di Tarquinio Prisco: ne nacque un violento tumulto durante il quale Tarquinio il Superbo fu scacciato dalla città ed instaurata la Repubblica (510 a.C.). Dopo aver ripetutamente, ma inutilmente, tentato di rientrare a Roma, con l’aiuto di lucumoni etruschi, Tarquinio il Superbo si ritirò a Cuma. La tradizione di Tarquinio il Superbo va sicuramente inserita nel quadro della ritirata etrusca dalle zone del Tevere alla fine del VI secolo.
Cacciato l’ultimo re, a Roma fu instaurata la Repubblica per i romani la “res publica” era semplicemente lo Stato; una forma di governo non certamente fondata sulla sovranità popolare; infatti, a Roma, i diritti civili e politici erano riservati solo agli uomini liberi (patrizi e plebei), mentre la maggioranza della popolazione era in stato di schiavitù. Il potere dello Stato era intelligentemente distribuito ed esercitato a mezzo di magistrature interdipendenti fra loro; i Comizi, il Senato,il Consolato, il Tribunato, la Pretura, la Questura etc.
Il Senato, per secoli, mediante leggi razionali, ha garantito il funzionamento della Repubblica. Tale organizzazione istituzionale ha dimostrato un alto grado di funzionalità fino a quando ambiziosi personaggi, a capo di fedeli ed agguerrite legioni, con la violenza, non ne hanno sovvertito le regole. Lo scoppio di sanguinose guerre civili ha affossato la Repubblica ed ha generato una nuova forma di governo: l’impero. L’autorità imperiale, nata con Cesare, consolidata con Augusto, non era legata alle limitazioni di luogo e di tempo, ma era un “imperium exstraordinarium et infinitum”; non conferito dai popolari organi istituzionali, i Comizi, come in passato, ma conquistato con la forza delle armi e, successivamente, anche per diritto di successione.
Per i romani antichi l’”imperium” (autorità) era la speciale forza che scaturiva dall’accordo fra gli uomini e gli dei di Roma, riuniti nei Comizi, e trasmessa ai vari magistrati come potere militare e giurisdizionale.
Con la nuova forma di governo si ha un rapido ad accentuato accentramento di poteri in mano di una sola persona: l’imperatore; le alte magistrature del consolato del tribunato perdono gradualmente ogni potere, diventando, poi, soltanto cariche onorifiche. Il Senato dà organo decisionale, diventa semplice ed ininfluente organo consultivo (emblematica ne é la nomina a “senatore” conferita dal pazzo imperatore Caligola al suo cavallo preferito chiamato “Incitatus”).
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I COMIZI
Il “comitium” (comizio) era il luogo destinato alle adunanze del popolo.
I plebei tenevano le loro riunioni pubbliche, che si chiamavano ”concilia plebis”, nelle quali venivano adottate decisioni non aventi alcuna forza di legge; riunioni popolari col solo scopo di discutere di esaminare problemi e prospettare possibili soluzioni.
Con la approvazione della legge “Icilia” nel 493 a.C., i Tribuni della plebe, eletti per la prima volta nel 494 a.C., ottennero la facoltà di poter parlare alla plebe “senza che alcuno potesse interromperli”. Così, ha poco a poco, riuscirono ad organizzare politicamente la plebe e a trasformare i “concilia plebis” in “Comitia Tributi”, nei quali esisteva il diritto di votare, deliberare, decidere, approvare proposte di legge e di eleggere magistrati.
I “Comitia” (assemblee popolari) erano distinti in:
1)- “Comitia Centuriata” (Comizi Centuriati), ove le votazioni avvenivano per “centuria”, che era una delle 193 suddivisioni in cui Servio Tullio suddivise il popolo romano secondo il censo. Erano assemblee di tutto il popolo, patrizi e plebei insieme. A loro spettava eleggere i magistrati, approvare le leggi, pronunciare giudizi in caso di appello del condannato. Avevano, inoltre, l’autorità giudiziaria suprema in tutti i processi di pena capitale, come disposto dalla “lex Valeria” del 449 a. C. Luogo delle riunioni dei Comizi Centuriati era il vasto campo Marzio. Il popolo che doveva votare sostava entro appositi recinti (“saepta” oppure “ovilia”). L’assemblea era presieduta da un Console, coadiuvato dalle “praeco” (banditore) il quale convocava il popolo, intimava il silenzio, invitava alla votazione, proclamava ad alta voce il risultato delle operazioni di voto. Lo scrutinio dei voti avveniva in un grande fabbricato (“diribitorium”, che più tardi venne utilizzato per effettuare distribuzioni di danaro e carne al popolo e la paga ai soldati), così chiamato dal nome dato agli scrutatori dei voti (“diribitores”).
2)- “Comitia Tributa” (Comizi Tributi), di soli plebei, così chiamati perché le riunioni si facevano per tribù. Il popolo romano originariamente (al tempo di Romolo) era suddiviso in tre tribù: “Ramnes” di stirpe latina, “Tities” di stirpe Sabina, “Luceres” di stirpe etrusca. Dal tempo del re Servio Tullio in poi, il popolo era diviso in quattro tribù nella città di Roma (tribus urbanae) e 26 e poi 31 per l’”ager romanus” (tribus rusticae).
Le votazioni si facevano “per testa”, dando a ciascuno il proprio voto. Le decisioni adottate dai Comizi Tributi si chiamarono ”plebisciti” (= decreti della plebe); ma nessuna decisione plebiscitaria poteva essere assunta ed avere valore di legge senza la preventiva autorizzazione del Senato il quale, successivamente, era chiamato ad approvare il “plebiscitum”. I “Comitia Tributa” erano convocati e presieduti dai Tribuni della plebe, i quali potevano presentare e sottoporre alla votazione proposte di legge ”rogationes”. Agli elettori venivano consegnate, per il voto, due tavolette, l’una con l’iscrizione dell’assenso: U.R. (=uti rogas = come tu proponi, antico V.R.); l’altra con l’iscrizione del rifiuto: A (=antiquo= respingo, voto contro). Per l’elezione di un magistrato l’elettore, sulla tavoletta consegnatagli, scriveva il nome del candidato prescelto. Luogo di riunione dei Comizi Tributi era il Campo Marzio.
3)- “Comitia Curiata” (Comizi Curiati) , ove le votazioni avvenivano per curia ossia erano assemblee dei soli patrizi, suddivisi in 30 Curie, ognuna delle quali a sua volta si suddivideva in 10 “gentes”. I Comizi Curiati si adunavano ad una estremità del Foro Romano, erano presieduti da un Console, assistito da un “praeco” (banditore) e da scrutatori (“diribitores”. Inizialmente essi ebbero tutti i poteri, poi, creati i “Comitia Centuriata” ad essi rimase il potere di poter decidere:
– per la adozione (“arrogatio”)
– per la nomina dei sacerdoti
– per la nomina del comandante supremo dell’esercito.
Nei Comizi Tributi e Centuriati per stabilire il nome delle tribù o centurie che dovevano votare e l’ordine con cui dovevano votare, si usava un’urna chiamata “sitella”, dal collo stretto e dal ventre largo. L’urna si riempiva di acqua e vi si gettavano dentro le tessere di legno e la si scuoteva; a causa della ristrettezza del collo si presentava a galla una tessera per volta e questa si estraeva.
Erano detti “comitia regi creando” quelli convocati per eleggere il re, “comitia consulares” quella per eleggere i Consoli, “comitia tribunitia” quelli per eleggere i Tribuni..
Col trascorrere degli anni i “Comitia Tributa”, come pure i “Comitia Curiata” videro gradualmente diminuire la loro autorità e di importanza: nell’età imperiale erano semplici corporazioni per ricevere le “frumentationes” o distribuzioni di grano.
Al contrario i ”Comitia Centuriata” costantemente, videro aumentare la loro autorità di importanza, tanto da divenire alla fine il principale organo proponente leggi dello Stato.
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I CONSOLI
I Consoli, dopo la cacciata dei re, erano due magistrati supremi, eletti al loro posto, in origine rivestiti dell’autorità regia durante la loro carica dell’”imperium”, ossia del comando supremo dell’esercito; convocavano il popolo ed il Senato, ne presiedevano le adunanze, e curavano l’osservanza puntuale dei decreti del popolo e delle leggi del Senato. L’elezione dei Consoli (all’inizio sono pattuiti e dal 367 a.C. anche plebei) si faceva nei Comizi Centuriati, sotto la direzione dei Consoli che cessavano dalla carica.
L’età per accedere a questa carica era fissata ai 43 anni. I Consoli eletti, ma non ancora entrati in carica si chiamavano ”consules designati”. Dapprima entravano in carica, normalmente, alle calende del mese sestile (divenuto Agosto), ma dal 153 a.C. regolarmente alle calende di gennaio. La durata della carica, in origine era annuale, poi dal 39 a.C. si riduce e nei primi tempi dell’impero diventa semestrale, per diventare quadrimestrale ed, infine, bimestrale ai tempi di Nerone.
I poteri dei consoli nell’età repubblicana andarono man mano diminuendo, con la creazione di altre magistrature (censura, pretura, edilità, trubunato) alle quali vennero affidate molte delle loro primitive competenze. Durante l’impero la loro importanza fu praticamente nulla; ebbero però sempre riservato il primo posto d’onore e continuarono a dare il nome all’anno.
Erano chiamati “consules ordinarii” i primi eletti nell’anno e ”consules suffecti” quelli eletti dopo. I nomi dei due consoli ordinari o anche di di uno solo di essi valevano per la indicazione dell’anno: es. “L. Pisione et Gabinio coss” significava nell’anno 669 di Roma e 85 a.C.; oppure l’anno veniva indicato con la abbreviazione “cos” + il nome o “coss” + i nomi dei consoli.
Le insegne dell’autorità consolare erano “la toga praetexta” e la “sella curulis”. Essi erano sempre scortati da 12 littori (“lictores”). Usciti dalla carica, in genere, erano scelti e nominati “proconsules” (proconsoli) nelle province. Questa nomina durava un anno. Finito l’anno dovevano cedere il comando al successore e, in assenza di questo, al loro questore. Dovevano fare il rendiconto dell’amministrazione (“in rationibus referre”) in tre copie, delle quali due venivano lasciate nelle due più importanti città della provincia, la terza veniva consegnata al Senato tornando a Roma.
Durante l’impero, i consoli, ed anche i pretori, il giorno in cui assumevano l’ufficio, facevano dono ai parenti ed amici più stretti, di tavolette cerate, che si aprivano e chiudevano, contenenti la loro firma ed il loro ritratto.
Le espressioni: – “quibus consulibus” significava “in quale anno”;
– “proximis consulibus” significava “nell’anno prossimo”;
– “in consules designatos” significava ”per l’anno prossimo””.
L’eletto a ricoprire una magistratura, ma non ancora insediato , era detto “designatus”.
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IL DITTATORE
Il “dictator” (dittatore) era un magistrato straordinario nell’antica Roma, che veniva nominato nei momenti di maggiore pericolo per lo Stato, con poteri militari e giudiziari, assoluti ed illimitati. Originariamente dovette essere un collaboratore, un collega “maior” dei consoli, detto ”praetor maximus”; in seguito divenne completamente indipendente e fu chiamato “dictator rei gerundae causa”.
Esso non poteva rimanere in carica per più di sei mesi ed era eletto dal popolo, ma era nominato da un console su proposta del Senato; la nomina, poi, veniva ratificata con una “lex curiata”. Per tutto il periodo della dittatura i principali magistrati cessavano dalle cariche, ad eccezione dei Tribuni della plebe; il dittatore riuniva su di sé i pieni poteri e non era soggetto ai diritti di veto e di appello; si trattava in pratica di un temporaneo ritorno alla monarchia, come del resto era reso visibile dalla scorta di 24 littori che lo accompagnavano.
Le insegne del dittatore erano anche la “toga praetexta” e la “sella curulis”. Non appena nominato, e gli si sceglieva un aiutante, detto “magister equitum” (capo, generale della cavalleria). La leggenda assegna il primo dittatore all’anno 501 a.C., nove anni dopo la cacciata dei re. La dittatura, per la quale i dittatori erano, di norma, scelti fra i patrizi (i plebei vi sono stati ammessi nel 356 a.C.) andò perdendo sempre più la propria importanza: durante la guerra con Annibale il “magister equitum”, che era l’aiutante del dittatore, venne parificato ad esso, mentre già da quasi un secolo questo era soggetto alla “provocatio” (diritto di appello ad un giudice superiore).
Nel secondo secolo avanti Cristo la dittatura quasi scomparve: i dittatori dell’ultima età repubblicana (Silla e Cesare) non avevano nulla a che vedere con i primi dittatori.
I Romani avevano altri tre tipi di dittatura:
– quella di tenere comizi in assenza dei consoli (“dictator comitiorum habendorum causa”);
– quella per particolari spettacoli o solennità (“dictator feriarum latinarum causa”);
– quella di compiere il rito di infiggere un chiodo nella parete del tempio di Giove Capitolino
(dictator clavi figendi causa”).
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PRETORE
Nel 367 a.C. fu creata a Roma la “praetura”, allorquando i plebei furono ammessi al consolato; essa venne affidata ad un nuovo magistrato chiamato “Praetor” (da praeeo = andare avanti, precedere) che fu collega dei consoli e, nell’assenza di questi, era il rappresentante della suprema autorità. All’inizio vi fu u solo pretore, nominato fra i patrizi, poi dal 335 a.C. anche fra i plebei. Dal 247 a.C. vi furono due pretori: un “praetor urbanus” ed un “praetor peregrinus”. Il primo aveva giurisdizione nelle cause private fra cittadini romani, poteva trattare cause pubbliche ma solo per incarico del popolo (“lege populi”). Il pretore dava la formula (“iudicium dabo”) e concedeva l’”actio” corrispondente. I “iudices selecti” istruivano (“cognitio”) la causa e pronunziavano la sentenza. Al “praetor peregrinus” era affidata la trattazione delle cause fra cittadini romani e forestieri.
Gli onori e privilegi inerenti alla carica era eguali a quelli sei consoli: in città il pretore era sempre scortato da due littori, fuori città da sei: portava la “toga praetexta”, aveva un palco (“tribunal”) dove egli sedeva sulla “sella curulis” e, attorno a lui, su altri seggi (“subsedilia”) stavano i giudici.
Senza tante formalità dediceva di cause di poco conto in qualsiasi momento ed in qualsiasi luogo gli piacesse (ex aequo loco, de plano).
I pretori duravano in carica un anno e l’età legale prescritta per accedere alla carica era di anni 40. Una volta cessati dalla carica come “propraetores” andavano ad amministrare le province tranquille (come chi era stato console veniva inviato come “proconsul” nelle province meno tranquille).
Quando la dominazione romana si estese fuori Italia furono creati appositi pretori per il governo delle nuove province, come avvenne per la Spagna, Sardegna e Sicilia.
Il numero dei pretori venne aumentato da Silla, fino a 10; Cesare li aumentò fino a 16; Augusto lo aumentò fino a 18, creando in più i “pretore aerarii”, che erano sopraintendenti al tesoro.
Sotto l’Impero le competenze dei pretori furono gradatamente limitate a cose di minore importanza.
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EDILI
Contemporaneamente alla creazione dei Tribuni della plebe furono nominati (nel 494 a.C. dopo la pace del Monte Sacro), gli “aediles plebis”, nell’ordine plebeo con il compito di aiutare i Tribuni della plebe ad esercitare la polizia nella città, sulle strade, vegliare sui costumi, avere cura degli edifici pubblici e specialmente dei templi (“aedes” da cui il loro nome). Avevano anche il compito di organizzare i giochi plebei (“popularia munera”), offerti da un magistrato.
I principali edifici pubblici ricadenti sotto la loro sorveglianza erano i seguenti:
– il “diribitorium”, grosso palazzo presso il Campo Marzio ove si effettuavano gli scrutini delle
votazioni dei comizi centuriati e Tributi.
– la “Curia Calabra” sul Campidoglio così chiamata perché in essa venivano proclamate al
popolo, dopo ogni novilunio, le date del calendario.
– le “Curiae”, edifici sul Palatino per riunioni delle “curiae”, dette anche ”curiae veteres” o
“curia prisca”.
– la “Curia Hostilia”, sul Palatino bruciata in occasione dei funerali di Claudio.
– la “Curia Iulia” la cui costruzione iniziata da Cesare fu ultimata dai triumviri. Luogo di riunione del senato e degli altri magistrati dello Stato.
– il “porticus Agrippae”, portico fatto costruire da Agrippa (63-12 a.C.) nell’anno 25 a.C.; esso
era frequentato da gente elegante.
– la “Curia Pompeia”, luogo di riunione del Senato. Chiusa per sempre dopo che vi fu
assassinato Cesare.
– la “Curia Saliorum”, luogo di riunione dei sacerdoti Salii, sul Palatino, sacro a Marte; lì veniva conservato, dalla fondazione di Roma, il sacro lituo (la sacra tromba di guerra).
– Il “Grecostasis”, edificio di grosse dimensioni, ove gli ambasciatori dei greci e di altri popoli
stranieri sostavano in attesa di essere ricevuti in udienza dal Senato. Agli ospiti, ambasciatori
o importanti personaggi, venivano offerte ufficialmente le “lautia” che erano pratiche
comodità consistenti nel provvedere loro la tavola, i bagni e una decorosa e piacevole ospitalità.
– il “Gerontocomium” o “Gerusia” ospizio per i vecchi, ove si mantenevano, a spese dello Stato,
i vecchi che avevano meriti speciali verso la patria.
– l’”Odeon”, edificio destinato alle gare di musica o di poesia.
– la “Villa publica”, edificio nel campo Marzio, unito agli antichi “saepta” (recinti ove si votava).
Nella “villa publica” risiedevano i magistrati addetti al censimento della popolazione ed alle
operazioni di leva per l’arruolamento dai soldati. Veniva anche utilizzata come abitazione per
gli ambasciatori dei popoli stranieri ai quali era vietato entrare in città. Al tempo di Silla fu il
luogo ove furono torturate e uccise migliaia di persone.
– gli “Exedra”, e sempre, ossia sale per riunioni e conversazioni, con sedili all’intorno.
– le “Basilicae”, che erano grandi e sontuosi edifici composti essenzialmente da un’unica navata spesso diviso in tre parti da due ordini di colonne. Nel fondo si elevava a una tribuna. Spesso vi erano annesse botteghe o grandi sale. Le basiliche servivano per le riunioni dei tribunali, dei mercanti per gli affari ed erano anche i luoghi per tutte le riunioni al coperto.
– la “Basilica Porcia” era la più antica. La “Basilica Iulia”, più recente, era la più bella e
funzionale.
– il “Gynaeceum”, così chiamati, i tempi dell’impero, gli stabilimenti imperiali, ove si lavoravano tessuti filati solo con donne come operaie.
– i “Gymnasii”, grosse palestre ove i giovani si addestravano negli esercizi del corpo: lotta,
pugilato, corsa ecc.
-le “Termae” (terme) che erano grandiosi e sontuosi edifici nei quali si potevano fare bagni
caldi e freddi. Oltre agli ambienti per i bagni le terme ne comprendevano, però, molti altri:
palestre, biblioteche, sale di lettura, sale di passeggio e di ritrovo. Per questo le terme
romane erano qualcosa in più dei bagni pubblici (“balinea”); erano un luogo di incontro nel
quale si sviluppava una certa vita sociale, con riunioni, discussioni, pettegolezzi sulle ultime
novità cittadine. Esse erano sempre affollatissime ed il prezzo per l’ingresso era assai modesto,
almeno per l’accesso ai locali per i bagni. Naturalmente le molteplici attività che si
svolgevano nelle terme richiedevano un tipo di costruzione particolare; così dal secondo
secolo, e soprattutto nell’età imperiale, si sviluppò una specializzata architettura termale. Gli
ambienti destinati al bagno erano i seguenti: innanzitutto tre stanze dette “calidarium”,
“tepidarium” e “frigidarium” che servivano rispettivamente per prendere il bagno caldo,
tiepido o freddo; poi il ”laconicum” (sudatorio, locale con stufe) destinato alla traspirazione
del corpo; l’”apodyterium” (spogliatoio) o i vestiti venivano depositati in un armadio
(“capsarium”) sotto la sorveglianza di uno schiavo chiamato “capsarius”, responsabile della
custodia; infine apposite stanze ove uno schiavo chiamato “tractor” faceva massaggi e frizioni
con olio (“unctorium” o “elaeoctesium”) e strofinava la pelle con lo strigile (“strigilis” specie di
spazzola di ferro o di corno); un altro schiavo, l’”alipilus” toglieva i peli sotto le ascelle e poi
in genere da tutto il corpo; un altro, l’”alipta” strofinava ed ungeva il corpo del padrone ed in
più gli prescriveva la dieta e gli esercizi del corpo, una specie di medico personale.
Ambienti sussidiari nelle terme erano le sale di attesa e di riposo. All’inizio dell’età imperiale
nelle terme venne introdotto il riscaldamento degli ambienti: l’aria calda ottenuta bruciando
legna nei caloriferi sotterranei, si concentrava, in alto, sotto la volta dei sotterranei
(“hypocaustus”); da qui, attraverso speciali inboccature, si irradiava nelle stanze soprastanti
attraverso intercapedini nei pavimenti e sulle pareti. Durante l’impero gli edifici termali si
moltiplicarono presso le più grandi città; a Roma ve n’erano molti: le terme di Agrippa, di
Nerone, di Traiano, di Caracalla, di Diocleziano e di Costantino. Oltre a queste vi erano anche
piccole terme private facenti parte delle case dei ricchi, soprattutto nel terzo e quarto secolo
d.C. I bagni pubblici (“balinea”) erano invece fabbricanti di dimensioni ridotte rispetto alle
terme: oltre i locali per il bagno avevano solo una sala di attesa ed il “capsarium” per il
deposito dei vestiti. Le terme e di bagni pubblici erano generalmente aperti da l’ora ottava
(le ore quattordici 6+8=14) fino al tramonto, a meno che si facessero due turni, al mattino
per le donne e nel pomeriggio per gli uomini, come si praticava fare anche nelle città di
provincia.
A Roma e nelle altre grandi città, in molti edifici termali, uomini e donne furono ammessi
promiscuamente fin dal primo secolo a.C. l’ingresso era sorvegliato da uno schiavo con le
funzioni di portinaio (“ianitor” o “ostiarius”; egli suonava un campanello(“tintinnabulum”)
per avvertire che entrava un bagnante. Un altro schiavo era addetto a riscuotere il costo
dell’entrata; solo i bambini al di sotto dei 4 anni erano esonerati dal pagamento.
Importantissime per i Romani furono le terme ed i bagni pubblici perché consentivano, con
modesta spesa, a tutto il popolo di curare la pulizia del corpo, non sempre possibile nelle case
dei meno ricchi, sprovviste di comodità e servizi quali il riscaldamento, la vasca da bagno.
Nel 366 a.C. furono creati gli “Aediles Curules”, che potevano essere anche patrizi, con
compito di curare l’organizzazione dei giochi romani o grandi giochi offerti dallo Stato.
Insieme agli ”Aediles plebis” oltre le funzioni sopra dette, gli “Aediles Curules” avevano anche
il compito di sorveglianza sui mercati e soprattutto sul mercato del grano.
Nel 44 a.C. Cesare nominò ancora due “Edili”, di estrazione plebea, gli “Aediles cereales” ai
quali venne affidata esclusivamente la sovrintendenza sopra il mercato del grano e il
vettovagliamento della città. All’inizio dell’impero le loro attribuzioni, lentamente, con varie
riforme, furono passati ad altri magistrati, pertanto, gli Edili perdettero la loro importanza
fino a sparire totalmente all’epoca di Diocleziano.
Nei Municipi e nelle colonie vi erano gli ”Aediles duumviri o “triumviri” i quali, in alcune
città, erano a più alta carica civile con incarichi, come a Roma, per lo più di sorveglianza e di
polizia.
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TRIBUNI
Tribuni, nell’antica Roma, erano magistrati, funzionari o ufficiali dell’esercito. Esistevano: tribuni della plebe (“Tribuni plebis”), tribuni militari con potestà consolare (“Tribuni militum consulari potestate”), tribuni militari (“Tribuni militum”) e tribuni pagatori (“Tribuni aerarii”).
TRIBUNI DELLA PLEBE
Nel 494 a.C., dopo la pace del Monte Sacro, furono nominati, per la prima volta i Tribuni della Plebe (“Tribuni plebis”) con la “lex sacrata” (così chiamata perché sul suolo ove venne sancita fu eretta un’ara a Giove e il luogo stesso fu chiamato Monte Sacro).
La persona del Tribuno della Plebe, come stabilito nella suindicata legge, era sacra ed inviolabile; chi offendeva i Tribuni era punito con la pena capitale. Essi erano rappresentanti del popolo, in principio in numero di 2, poco dopo e fino al 456 a.C. furono 5 e da quell’anno in poi furono 10. Venivano eletti dalle centurie nei ”Comitia centuriata”, restavano in carica un anno ed aventi il diritto di veto, potevano opporsi all’approvazione di qualsiasi legge o disposizione che credessero contraria agli interessi dei plebei; era sufficiente il veto di uno solo dei tribuni, perché quelle non andassero in vigore. In principio i Tribuni della Plebe non avevano altro potere se non quello di proteggere i plebei contro l’arbitrio degli alti funzionari civili, che erano sempre patrizi (“ius auxilii adversus consulare impirium”), dovevano esercitarlo di persona, in qualsiasi momento e per chiunque domandasse protezione, sia di giorno che di notte. Non potevano mai lasciare la plebe sola, assentarsi dalla città per più di un giorno, e dovevano anche tener aperta, di giorno e di notte, la porta della loro casa.
Il diritto di veto (“intercessio”) fu una importantissima arma il loro mani per la difesa degli oppressi; ma la forza e maggiore potenza, i Tribuni, la ebbero dalla inviolabilità; infatti rassicurati da tale privilegio si allargarono le proprie attribuzioni. In un primo momento la forza del veto si basava esclusivamente sull’aiuto dei plebei davano al Tribuno. La plebe, in altri termini, interveniva minacciando il magistrato cittadino o, a volte, addirittura, sequestrandolo finché egli non desistesse da proposito ovvero dall’atto ritenuto lesivo degli interessi della plebe stessa. In epoca più avanzata l’”intercessio”, da veto avente il carattere sopra esposto, divenne un vero e proprio diritto dei Tribuni, garantito dalla legge. Il riconoscimento del diritto di veto avvenne solamente nell’anno 287 a.C. con la “lex Ortensia”, quando il tribuno perdette il suo carattere rivoluzionario, per venire inserito nel sistema dello Stato, accanto alle altre magistrature, facendo così parte del “cursus honorum” , dopo la questura e prima della edilità.
Nel 149 a.C. la “lex Atinia” ammise gli ex Tribuni della Plebe a far parte del Senato. Anche in questa epoca i Tribuni della plebe dovevano essere eletti fra gli appartenenti alla plebe, tanto che, a volte, i patrizi, per poter ricoprire questa magistratura, facevano una cosiddetta “transitio ad plebem”, vale a dire rinunciavano al patriziato. Tra i poteri dei Tribuni della plebe va ricordato quello di convocare “concilia plebis” ed i “Comitia Tributi”. La violenza contro i Tribuni costituiva un grave sacrilegio che violava la “pax deorum”; essi infatti erano considerati “sacrosanti” (= inviolabili), cioè posti sotto la protezione degli dei.
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TRIBUNI MILITARI CON POTESTA’ CONSOLARE (“Tribuni militun consulari potestate”)
Magistratura che compare frequentemente nell’antica Repubblica Romana nel periodo dal 444 a.C., poco dopo la fine del decemvirato, al 366 a.C., anno in cui viene eletto il primo console plebeo. Per un cinquantennio si alternano più o meno regolarmente con i consoli, poi, a partire dal 390 a.C., compaiono spesso per molti anni di seguito, in una magistratura di tre, 6,8 o 9 persone. Il periodo in cui essi compaiono nella storia romana e il fatto che potevano essere sia patrizi che plebei ricollegano alle lotte della plebe per la parificazione degli ordini sociali. Aspirando i plebei all’accesso alla carica di console e non volendo i patrizi concederlo, in questo periodo di transizione, si giunse al compromesso di sostituire spesso i consoli, solo patrizi, con questi particolari Tribuni che potevano anche essere plebei; essi scomparvero quando ai plebei fu concesso di poter accedere al consolato (nel 367 a.C.).
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TRIBUNI MILITARI (Tribuni militum)
I Tribuni militari erano gli ufficiali che comandavano le legioni, alle dirette dipendenze del comandante generale dell’esercito, in genere console. Dapprima furono nominati dai consoli, erano in numero di sei per ogni legione e le comandavano collegialmente, alternandosi nel comando, in modo che due di essi lo mantenevano per due mesi, comandando un giorno per uno. Dal 207 a.C. vennero nominati tutti dal popolo. Delle due legioni comandate dal console, una aveva quattro Tribuni di età avanzata e due giovani, l’altra tre anziani e tre giovani. Avevano la condizione sociale dei cavalieri e portavano un anello d’oro come segno distintivo. Se erano di famiglia senatoria indossavano il laticlavio (tunica con una larga striscia di porpora), altrimenti la angusticlavio (tunica con una stretta striscia di porpora).
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TRIBUNI PAGATORI (Tribuni aerarii)
I Tribuni pagatori furono, nell’antica Repubblica romana, i magistrati incaricati di raccogliere le tasse di guerra e di effettuare il pagamento del soldo ai legionari. Furono, poco a poco, sostituiti nei loro compiti dai Questori. Quando con la “lex Aurelia” l’amministrazione della giustizia venne ripartita tra i tre ordini del Senato (senatori, cavalieri, plebei), i “Tribuni aerarii” divennero i giudici dell’ordine plebeo.
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SENATO
Nella prima fase di sviluppo della storia costituzionale romana, il Senato era il consiglio degli anziani costituito dai “patres familias” delle famiglie più importanti.
Secondo la tradizione esso venne istituito da Romolo e chiamò a farne parte 100 “patres familias” della tribù dei “Ramnes” (Latini). Con l’ammissione dei Sabini nella cittadinanza il numero dei senatori è salito a 200 con l’immissione di altri 100 della tribù dei “Tities” (Sabini). Tarquinio Prisco (580 a.C. circa), etrusco, ammise al Senato altri 100 “patres familias” della tribù dei “Luceres” (Etruschi). Inizialmente esso era costituito di soli appartenenti alle famiglie patrizie. Probabilmente, prima della costituzione repubblicana, con la riforma fatta dal re Servio Tullio, alcuni membri plebei furono ammessi a far parte del Senato; questi ultimi furono chiamati “patres conscripti” (= senatori aggiunti), a differenza dei senatori patrizi chiamati “patres”; ad essi ci si rivolgeva con l’appellativo “clarissimus” (il nostro eccellenza).
Il Senato era una specie di Consiglio di Stato, rappresentante del volere del popolo, rappresentato da uomini eletti per l’età, esperienza e saggezza (“senatores”).
Compito principale del Senato era quello di vigilare sul bene dello Stato insieme ai re, consoli, dittatori, e imperatori. La funzione principale del Senato, fin dall’inizio, era quella consultiva, in forza della quale dava il suo parere al re, console, dittatore che lo richiedeva in occasione dell’adozione di tutti gli atti che eccedevano una ordinaria amministrazione. Il parere dato in questa occasione non era vincolante (che pure, per lo più, vi si atteneva) ed era detto “Senatus consultum” (= deliberazione del Senato).
Accanto alla funzione consultiva al Senato ne aspettavano altre due:
a)- l’”Auctoritas”, consisteva nella ratifica delle deliberazioni dei Comizi, che, così, assumevano forza di legge.
b)- l’”Interregnum”, consisteva nel potere di governare lo Stato nel periodo di vacanza delle magistrature supreme (re, consoli, dittatori, imperatori). L’interregno era lo spazio di tempo tra la morte di un re e l’elezione del nuovo, durante il quale, di cinque giorni in cinque giorni, un senatore (come “interrex”) aveva la “regia potestas”; durante la Repubblica era l’intervallo di tempo fra la morte o l’uscita dei consoli o dittatori e la nomina dei successivi, in cui si dava il potere supremo ad un senatore. Nel periodo repubblicano il Senato acquistò un’importanza ancora maggiore. Dopo la cacciata dei re i senatori dovevano essere eletti dal popolo; da 443 a.C., nominati i Censori, questi ebbero l’incarico di eleggere i senatori, ed a questo scopo, ogni cinque anni, redigevano un’apposita lista. Ma al popolo era riservata la facoltà di eleggere i cittadini alle cariche pubbliche e chi aveva ricoperto un’importanza carica pubblica doveva essere chiamato dal Censore a far parte del Senato. L’elenco dei senatori nominati veniva letto in ordine e pubblicamente dal Censore per far conoscere il “princeps” del Senato (=il primo nome letto) e chi, tra quelli finora iscritti poteva rimanere o no, e quali erano i nomi nuovi da accogliere nella lista. Talvolta il “princeps” veniva eletto direttamente dal Senato.
Per un certo periodo di tempo i senatori hanno anche amministrato la giustizia. Fino al tempo dei Gracchi (132-121 a.C.) soltanto i senatori potevano essere nominati giudici. Caio Gracco (120 circa a.C.) tolse ai senatori il potere giudiziario e lo affidò a i Cavalieri. Nel 106 a.C., su proposta del tribuno Servilio Copione, con la sua “lex Servilia”, fu restituito, in parte, il potere giudiziario di un tempo ai senatori. Silla nell’81 a.C. con la “lex Cornelia” ha portato il numero dei senatori a 600. Nel 70 a.C., console Pompeo, con la “lex Aurelia” si stabilì che vi fossero tre curie dei giudici, una di Senatori, una di Cavalieri ed una terza di Tribuni erariali.
Il Senato era la roccaforte della Repubblica, crollato e esautorato il quale, sarebbe venuta meno ogni istituzione repubblicana. Cicerone così lo definisce: “princeps salutis mentisque publicae” (somma guida della prosperità e della salute pubblica). Il Senato in tempi normali aveva la tutela della religione, disponeva dell’impiego delle rendite statali, esercitava la sorveglianza su tutti i magistrati, aveva la direzione suprema su tutti gli affari esteri, si inseriva nel potere giudiziario criminale, aveva grande peso in materia legislativa. Nessuna proposta di legge dei Comitia aveva luogo senza l’autorità del Senato ed ogni deliberazione comiziale, per entrare in vigore come legge, doveva esser ratificata dal Senato. Concedeva l’onorificenza militare del “triumphus” (trionfo) e concedeva l’ingresso in Roma del trionfatore con le milizie. Dopo un periodo di decadenza, nello scorcio fra Repubblica e principato, il Senato riacquistò la sua importanza con Augusto, quando ad esso, mediante l’incarico conferito ad un senatore, venne assegnata l’amministrazione delle province senatorie, chiamate “Provinciae populi”, in contrapposizione alle “Provinciae Caesaris” amministrate da un rappresentante dell’imperatore.
Nel periodo imperiale, il Senato acquistò una nuova e importantissima funzione che ha poco a poco venne sottratta ai Comizi: la funzione legislativa.
Al tempo degli imperatori Settimino Severo (193-211 d.C.), Caracalla (211-217 d.C.) i Senato-consulti avevano valore di legge. Subito dopo il Senato-consulto si trasformò in atto riflettente la volontà dell’imperatore. La proposta di legge fatta personalmente dall’imperatore con una “oratio in Senatu habita” o con una “epistula in Senatu recitata” perdette, poco per volta, il carattere di proposta, per trasformarsi in dichiarazione di volontà dell’imperatore sopra la quale, il parere del Senato, veniva espresso col valore di una semplice, insignificante formalità. Già intorno al 300 d.C. al Senato erano rimaste solo alcune competenze in materia di religione oltre al potere di conferire onorificenze. Con l’imperatore Costantino (306-313 d.C.) il Senato si trasformò in Consiglio municipale della città di Roma.
Oltre ai senatori chiamati “patres” o “patres conscripti”, esisteva un secondo ordine, di grado inferiore, di senatori chiamati ”pedari senatores” , i quali non avendo ancora ricoperto alcuna magistratura curule (con diritto alla “sedia curulis”), non avevano avuto deliberativo, ma potevano solo associarsi al voto dei colleghi anziani, (ciò che si diceva “pedibus ire in sententiam”).
L’età minima prescritta per essere nominati senatori era di 25 anni, come previsto dalla “lex Annalis”.
I senatori ratificavano le leggi o esprimendo ugualmente il loro parere, oppure, in fretta e senza discussioni, dividendosi in due gruppi, passando dalla parte del proponente per approvare o dalla parte opposta per disapprovare.
Le decisioni del Senato erano chiamate ”senatus o senati consultum” e “senatus auctoritas” assunte sempre anche al nome del popolo romano (“Senatus Populusque Romanus”, la cui formula abbreviata era S.P.Q.R.).
I processi verbali nei quali erano trascritte le decisioni adottate si chiamavano “acta Senatus” e venivano conservati nell’Archivio di Stato.
I senatori avevano la facoltà di portare in discussione in Senato anche argomenti non posti all’ordine del giorno predisposto dai consoli. Per i discorsi, in Senato, erano stabiliti tempi che l’oratore doveva rispettare; ad esso era concesso di parlare per una clessidra (circa 12 minuti) o due clessidre (circa 24 minuti). Chiedere o dare la facoltà di parlare per due clessidre era detto: “petere aut dare binas clessydras”.
Il Senato si poteva riunire in luoghi diversi, che erano i seguenti:
1)- le “Curiae veteres” erano gli antichi originari i luoghi di riunione sul declivio orientale del Palatino.
2)- la “Curia Hostilia”, tardi chiamata anche “Curia vetus” , sul colle Palatino, bruciata in occasione dei funerali di Claudio (52 a.C.).
3)- la “Curia Pompeia”, costruita da Pompeo (62 a.C. ) e chiusa per sempre dopo la uccisione di Cesare (Idi di marzo del 44 a.C.).
4)- la “Curia Iulia”, la cui costruzione, iniziata da Cesare, fu ultimata dai Triumviri (Antonio, Lepido e Ottaviano nel 43 a.C.) è dedicata allo stesso Cesare.
I luoghi di riunione del Senato erano sorvegliati da guardie (“vigiles”) che impedivano l’accesso a persone non autorizzate che avrebbero potuto impedire o disturbare il regolare svolgimento dei lavori senatoriali.
Portare con sé un’arma in Senato era severamente proibito dalla legge; era come ledere la inviolabilità dell’assemblea.
Per i senatori partecipanti alle riunioni senatoriali era prevista la corresponsione di un gettone di presenza (“aes conventicium”); le assenze, invece, se non motivate da malattia o dovute alla ”legatio” (= ambasceria o missione), dovevano essere sempre giustificate.
Al Senato era riservata l’autorità e la competenza di:
a)-rilasciare il “Diploma” (attestato) ad alti funzionari dello Stato o a senatori, inviati in missione, per interessi dello Stato; il “diploma” dava loro il diritto di viaggiare con spese a totale carico dello Stato.
b)-di autorizzare la “legatio”, ambasceria. Incarico dato ad uno o più persone di andare fuori Roma per trattare affari importanti per la Repubblica. Se la “legatio” era “ad honorem” essa veniva conferita ai senatori con i diritti e l’autorità di veri legati del popolo romano; con questo titolo viaggiavano a spese dello Stato, accompagnati e preceduti da una scorta d’onore formata dagli “apparitores” (servitori pubblici ossia scrivani, interpreti, littori). La “legatio” era detta ”libera” quando un senatore si faceva incaricare dal Senato (missione onoraria o fittizia) volendo viaggiare per propri affari o per diporto in una o più province, dove veniva trattato come un vero ambasciatore e gli venivano forniti ospitalità e mezzi di trasporto per proseguire. La “legatio votiva” aveva per scopo (spesso per pretesto) lo scioglimento di un voto fatto a qualche divinità.
c)-effettuare la “aestimatio” (stima) della somma che l’erario doveva anticipare al pretore, legato o questore, per comperare il frumento che gli occorreva nella Provincia.
Per essere eletti senatori condizione indispensabile era il possedere beni per un valore non inferiore agli 800.000 sesterzi.
Severe disposizioni di legge impedivano ai senatori di esercitare qualsiasi attività commerciale.
Non potevano, inoltre, per legge, contrarre matrimonio con libertine.
I senatori che avevano ricoperto una magistratura curule erano autorizzati a portare i calzari di colore rosso (“mullei = rossi).
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QUESTORI
I “Quaestores” erano alti magistrati permanenti a Roma, risalenti ai primi anni della Repubblica; inizialmente con giurisdizione criminale, quindi giudici istruttori in materia criminale.
Essi erano coadiutori dei Consoli, dai quali, anticamente, venivano eletti; successivamente vennero eletti dai Comizi Tributi. Il loro numero, nel periodo repubblicano, venne aumentando continuamente, fino a raggiungere, sotto Augusto, il numero dei 20. Dal 421 a.C. si usò affiancarli ai Consoli e ai Pretori; quando questi, con la rispettiva carica di Proconsoli e Propretori venivano mandati in Provincia, i Questori ne divenivano colleghi e collaboratori amministrativi. In stretta collaborazione con essi espletavano l’incarico di riscuotere le imposte per lo Stato, pagare il soldo alle milizie, prendersi la parte del bottino di guerra spettante allo Stato e potevano anche funzionare da vice governatori della Provincia.
Ai Questori poteva anche essere assegnato il comando di una legione; in questo caso erano chiamati “legati”. Preposti all’amministrazione finanziaria dello Stato, alcuni di essi, andavano al seguito dell’esercito con la funzione di amministrarne le finanze; altri invece rimanevano a Roma (“Quaestores urbani”).
La “Quaestura” era la prima magistratura delle “cursus honorum”, cioè dell’ordine della carriera dei magistrati, che vennero regolato dalla “lex Villia annalis” del 180 a.C. nel modo seguente: questura, prefettura, consolato. Ad essa si poteva accedere con più di 27 anni di età.
Nel periodo repubblicano i Questori non avevano “imperium”, non avevano “lictores”, non avevano “sella curulis”. Ai tempi di Silla furono ammessi a far parte del Senato. Nel tardo impero le loro funzioni furono ridotte all’organizzazione dei giochi pubblici
I “Quaestores aerarii” in Roma erano preposti alla soprintendenza sull’”aerarium populi romani”, essi davano in appalto i lavori di costruzione di opere pubbliche, curavano la riscossione delle imposte e pagavano le competenze agli altri magistrati. Durante l’impero le loro funzioni furono ridotte e due “Quaestores” furono assegnati al servizio personale dell’imperatore (Quaestores candidati principis”).
Particolari importanza ebbero i “Quaestores provinciales”, assistenti dei governatori delle province senatorie; essi sopraintendevano all’amministrazione finanziaria della provincia ed avevano limitata giurisdizione, corrispondente a quella Edili Curuli a Roma. Spesse volte, in luogo del pretore, amministravano la giustizia.
Uno dei più alti di magistrati del tardo impero era il ”Quaestor sacri palatii”, cui spettava il compito di preparare le sentenze che l’imperatore emanava esercitando la sua attività giurisdizionale.
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CENSORI
La “Censura” era una prestigiosa carica pubblica alla quale erano preposti i Censori (“Censores”). Magistratura composta da due persone che si eleggevano nei Comizi Centuriati per la durata di cinque anni, poi per un anno e mezzo.
Eletti per la prima volta nel 443 a.C., all’inizio erano due patrizi, poi un patrizio ed un plebeo, ed infine potevano anche essere due plebei. Dapprima erano magistrati di secondaria importanza, poi la loro autorità divenne grandissima quando vennero incaricati di controllare il “census” dei cittadini romani (controllo degli averi e della condizione civile di ciascun cittadino) e anche di sorvegliare il contegno dei cittadini nella vita pubblica e privata ed eventualmente punibile con una “nota censoria”; vigilare sulla riscossione delle imposte e tasse, sul loro appalto, sulle rendite dello Stato, sulle costruzioni delle opere pubbliche e sul loro appalto, come pure sul pubblico erario
“Census” era chiamato anche il registro in cui erano annotati gli averi e le ricchezze dei cittadini.
Il prestigio dei Censori crebbe ancora quando, con il plebiscito Ovinio (312 a.C.) ebbero il compito di designare i senatori ed allontanare dal Senato i membri indegni. Nel 3° e 2° secolo a.C. raggiunsero il massimo grado di influenza nella vita della Repubblica, di quest’epoca è rimasta famosa, per la severità dei provvedimenti, presi anche contro potenti personaggi, la censura di Catone il Censore (234-147 a.C.).
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I PREFETTI
“Praefectus” (sovrintendente, sorvegliante) era il titolo di magistrati civili e militari nella vita pubblica di Roma.
In campo civile:
-Il ”Praefectus morum mulierum” era l’ispettore che controllava il costume delle donne; in seguito di competenza del Censore.
– il “Praefectus custodum” era il capo delle guardie.
-il “Praefectus vigilum” era capo delle guardie notturne, capo della polizia, capo dei “Vigiles” (i nostri Vigili del Fuoco). In caso di incendio intervenivano celermente, a chiamata, i pompieri (“siphonarii”) i quali detti anche “Vigiles” erano organizzati in in un corpo stabile; alloggiavano presso caserme o accampamenti stabili, comandati appunto dal “Praefectus vigilum”. Sicuramente, a Roma, vi erano diverse caserme dei vigili del fuoco, ubicate in punti strategici in caso di chiamata essi intervenivano con cisterne trainate da cavalli e con pompe idrauliche, azionati a mano, e con secchi “situli” o “urci” e spegnevano l’incendio con l’aiuto anche di volontari. Ad essi era attribuita la tutela della incolumità delle persone e della stabilità delle case. Facevano anche opera di prevenzione per la eliminazione di situazioni di pericolo, prestavano soccorso in caso di calamità naturali.
-il “Praefectus annonae” era addetto al vettovagliamento di Roma.
-il “Praefectus” era il governatore di Roma; al tempo della Repubblica rappresentante del console assente.
-il “Praefectus aerarii” durante l’Impero era il tesoriere dell’Impero.
-il “Praefectus” era il governatore della città della “Praefectura” governata direttamente da Roma.
In campo militare:
-Il “Praefectus castrorum” era l’ufficiale del Genio incaricato di porre il campo militare, di definirne i confini e provvedere a quanto si riferiva all’accampamento.
-il “Praefectus fabrum o fabrorum” era campo dei soldati delle Genio Militare.
– il “Praefectus praetorii” era il capo della guardia imperiale, cioè delle “coorthes praetariae”, dei pretoriani. Il corpo dei pretoriani fu costituito negli ultimi anni della Repubblica, quando, nei grandi eserciti delle guerre civili, una coorte (“coors praetoria”) venne adibita alla protezione del comandante in capo dell’esercito. Augusto creò nove coorti pretorie di cui tre stanziate stabilmente in Roma. Tiberio le riunì in un accampamento (“castra praetoria”) nei dintorni di Roma; il loro numero fu, in seguito, aumentato fino a 10. Nel 2° secolo d.C. incominciarono ad entrare fra i pretoriani anche elementi non nati in Italia, ed il fenomeno andò gradatamente aumentando. Con Settimio Severo il corpo fu riordinato ed i suoi componenti furono presi fra i legionari. Ogni coorte era composta da 1000 uomini (1500 con Settimio Severo) divisi in sei centurie ed era comandata da un “Praefectus”. Il comando di tutte le coorti era affidato ad un “Praefectus praetorii”. I pretoriani avevano una paga più alta dei legionari, e la loro ferma aveva una durata minore (16 anni). Per la loro particolare posizione ebbero sempre parte nell’elevare al trono o abbattere imperatori.
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LITTORI
Il Littore (“lictor”) era un pubblico ufficiale nell’antica Roma, inizialmente scelto fra i plebei, poi fra i liberti, addetto al servizio dei magistrati supremi. Portava sulla spalla sinistra il fascio littorio, formato di verghe di ferro legate intorno ad una scure (“securis”), simbolo del diritto di vita e di morte.
L’istituzione dei Littori, dalla leggenda attribuita a Romolo, restò in vigore fino agli inizi dell’impero. I Littori precedevano il numero dei 24 il Re ed il Dittatore, di 12 i Consoli, di 2 i Pretori in città e di 6 fuori città, il numero di 6 il Proconsole e di 6 il “Magister equitum” che era il collaboratore del Dittatore.
Camminavano in colonna, facevano largo tra la folla dicendo ad alta voce: “Animadverti !” (=attenti), oppure: “Apage!” (= Via di qua !, Vattene!”); sorvegliavano che al magistrato venisse tributato il dovuto rispetto e onore.
Anticamente i Littori erano addetti alla esecuzione delle sentenze penali: percuotere con le verghe i condannati dopo averli legati ad un palo o procurarne la morte con la decapitazione.
I “fasces” (fasci di verghe) , normalmente rivestiti di alloro, venivano portati capovolti in occasione del funerale in onore del re, del console e di tutti i magistrati che in vita avevano usufruito della scorta dei Littori.

ALTRE MAGISTRATURE O CARICHE PUBBLICHE
Tante altre erano le magistrature (cariche pubbliche) esistenti a Roma, nelle Province, nelle Colonie, nei Municipi, istituite per garantire l’efficienza dello Stato. Oltre quelle sopra elencate, sono da ricordare:
-il “curator acquarum” ossia il responsabile degli acquedotti;
-il “curator muris reficiundis” ossia il responsabile della conservazione e manutenzione delle mura di cinta;
-il “curator annonae” ossia approvvigionatore del grano;
-la “curatio frumenti” che era la commissione incaricata di comperare frumento e di inviarlo a Roma.
Non è facile poi quantificare il numero, sicuramente grandissimo, dei subalterni che erano a disposizione, quali collaboratori, dei magistrati più importanti.
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LEGISLAZIONE
Per i Romani, come per tutti i popoli primitivi, il diritto, nell’antichità, era confuso con la religione; la norma giuridica si esprimeva nel comando divino o era riconducibile ad esso. Agli albori della civiltà romana era infatti il “fas, (contrapposto alle “nefas” = l’ingiusto, l’illecito) il comando divino, la norma religiosa, ciò che era lecito, consentito dal senso morale, che si richiedeva di rispettare come norma di comportamento.
Le prime leggi emanate dai re, le “leges regiae”, non erano altro che disposizioni del diritto sacro, ne sono testimonianza sia le solenni forme rituali persistenti nel diritto antico, sia l’etimologia di numerosi termini giuridici.
Altro complesso di norme comportamentali rispettate dagli antichi Romani era rappresentato dai “mora maiorum”, ossia dagli usi e costumi degli antenati.
Cacciati i re, instaurata la Repubblica, organizzato lo Stato con solide istituzioni, i Romani avvertirono la necessità di avere norme giuridiche nuove, certe ed adeguate a regolamentare la vita di un popolo, non più costituito in maggioranza da rozzi pastori, ma ben organizzato e con varie magistrature, elette dal popolo stesso ed investite della necessaria autorità. Sentirono il bisogno di norme chiare, emanate dallo Stato, alle quali i singoli cittadini fossero tenuti ad uniformare il proprio comportamento. Ciò perché non è pensabile l’esistenza e l’organizzazione di una società umana senza un complesso di norme che regolino i rapporti fra i singoli componenti e senza la creazione di organi incaricati e sufficientemente autorevoli a farle rispettare.
I “Decemviri” furono incaricati di provvedere alla codificazione di norme giuridiche per il governo di Roma; questi, nel 510 a.C. portarono a compimento l’incarico.
Con la approvazione delle leggi delle XII Tavole, Roma si è dotata di un complesso di norme certe, scritte su tavole di bronzo e redatte dai Decemviri, previa accurata conoscenza di norme giuridiche vigenti all’epoca ed applicate da altri popoli civili, quali i Latini, i Sabini, gli Etruschi e soprattutto i Greci.
Le XII Tavole furono il monumento normativo fondamentale che regolò la vita pubblica di Roma dal V° secolo in poi.
Tale e tanta fu l’importanza di queste leggi che anche quando la profonda trasformazione dell’ordinamento politico e sociale le ha fatte cadere parzialmente in disuso, se ne mantenne vivo il ricordo nelle scuole, dove, scritte su un libretto, si facevano imparare a memoria agli scolari.
Cicerone ha più volto espresso parole di ammirazione per esse: “A me pare che questo solo libretto delle XII Tavole valga di più delle biblioteche di tutti i filosofi”. Purtroppo anche il libretto è andato perduto, come pure, per l’incendio di Roma ad opera dei Galli, le tavole di bronzo; ma nelle citazioni di storici, oratori, e drammatici sono stati conservati molti articoli di esse.
Ecco alcuni esempi:
-Le parti contendenti debbono fissare il giorno del giudizio, per esempio nel comizio o nel foro; ed il giudizio avrà principio quando le due parti sieno presenti. Se a mezzogiorno una delle parti sia ancora assente, si darà sentenza a favore della parte presente.
-Se un debitore non paga, il creditore lo può condurre a casa sua, legarlo con cinghie, o con catene. Il creditore potrà concedere al debitore di mantenersi a sue spese; se no, lo mantenga con una libbra, o più, di pane al giorno. Nel periodo di 60 giorni, per tre mercati successivi, il debitore si porti nel comizio davanti al pretore che proclamerà la somma del debito; se nessuno presenti la somma del riscatto, il debitore può essere decapitato o inviato al di là del Tevere per essere venduto. Se i creditori sieno più, avranno diritto di ridurre a brani di corpo e dividerselo.
-Un neonato deforme può essere subito ucciso.
-Le donne a qualunque età sono sotto tutela; eccettuate le vergini Vestali, che sono libere.
-Chi con dire o stampar villanie reca vergogna ad altri è dannato alla pena capitale.
-Se uno avrà spezzato un osso a un libero sarà condannato a 300 assi; si è ad uno schiavo, a 15 assi.-
-La pena di morte è assegnata a chi con incantesimi faccia andare a male il raccolto del vicino.
-Chi avrà incendiato una casa sia legato, bastonato, bruciato; se l’incendio sia procurato per negligenza, si condanni il colpevole al rifacimento dei danni.
-Il ladro che si introduca di notte in una casa può, se colto sul fatto, essere ucciso dal derubato; ma è vietata l’uccisione di giorno, salvo se il ladro si difenda con armi alla mano.
-Proibita l’usura con interesse superiore all’8 e 1/3 percento.
-Il giudice o l’arbitro che non sentenzia rettamente per denaro ricevuto, è dannato a morte.
– E’ proibito abbruciar cadaveri, o seppellirli entro la città.
-E’ proibito alle donne graffiarsi le guance o piangere né i funerali.
-Gli antichi usi dei banchetti funebri, delle costose libazioni, corone lunghe e incensieri, sono aboliti. Così pure è abolito il costume di mettere oro nelle tombe; solo l’oro della legatura dei denti fa eccezione.
Con il trascorrere del tempo alcune norme contenute nelle leggi delle XII Tavole furono modificate e molte pene, troppo severe, furono mitigate. Il radicale mutamento della vita sociale, l’enorme e rapido ampliamento del territorio soggetto al potere di Roma, il contatto con altri popoli, crearono nuove situazioni all’interno della società civile, non più regolabili con le leggi delle XII Tavole; col trascorrere degli anni, esse, si rivelarono sempre più inadeguate; furono, quindi, necessariamente adottate nuove leggi, spesso anche riguardanti una sola materia.
Durante il periodo della Repubblica e nei primi anni dell’impero, alcune delle più importanti leggi adottate dai Romani, dopo quelle delle XII Tavole, furono:
*La “lex sacrata” (494 a.C.) con la quale furono eletti per la prima volta i Tribuni della Plebe; su un luogo dove essa venne sancita fu eretta un’ara in onore di Giove ed il luogo stesso si chiamò Monte Sacro;
* La “lex Abutia” (120 a.C.) relativa alla riforma e semplificazione dell’amministrazione della giustizia facoltativamente “per formulas”; un programma concordato dai contendenti, contenente le pretese degli stessi, secondo modelli preparati dal pretore, chiamato col nome di “formulae”.
* La “lex Atinia” (149 a.C.) con la quale gli ex Tribuni della Plebe furono ammessi a far parte del Senato.
* La “lex Hortensia” (287 a.C.) con la quale fu riconosciuto ai Tribuni della Plebe il diritto di veto (“intercessio”).
* La “lex Iulia iudiciorum privatorum” (17 a.C.) che rendeva obbligatorio il tipo di processo come riformato dalla “lex Abutia”.
* La “lex agraria” (133 a.C.) di Tiberio Gracco relativa alla assegnazione di appezzamenti di terreni ai contadini-coltivatori.
* La “lex Apuleia de sponsu” relativa alle garanzie delle obbligazioni.
* La “lex Aquilia de damno” relativa ai diritti del padrone di una cosa danneggiata o distrutta da altri.
* La “lex Atilia de tutore dando” che assegnava un tutore ai minori che ne avevano bisogno.
* La “lex Atinia de usucapione” relativa alla usucapione.
* La “lex Calpurnia de condictione” (220 a.C.), successiva alla “lex Pinaria” che disciplinava le modalità per estinguere i debiti e le relative pene.
* La “lex Calpurnia de repetundis”, proposta dal tribuno Calpurnio Pisone nel 149 a.C. con la quale venne data ai provinciali la possibilità procedurale di pretendere la restituzione dei beni che i governatori avevano loro estorto illegalmente.
* La “lex Canuleia de connubio patrum et plebis” del 445 a.C. che consentiva matrimoni tra patrizi e plebei.
* La “lex Cicereia de sponsu” relativa alle garanzie offerte dai debitori.
* La “lex Cincia de donis et muneribus” del 204 a.C. che vietava la donazione oltre un certo valore.
* La “lex Claudia de Senatoribus” del 218 a.C. con la quale si vietava ai senatori di possedere navi, creato l’obbligo di investire in terreni italici almeno un quarto del patrimonio; il divieto di contrarre matrimonio con libertine etc.
* La “lex Clodia de exsilio Ciceronis” del 58 a.C. relativa all’esilio di Cicerone. Esempio di una legge eccezionale,”ad personam”, chiamata ”privilegium”, emanata a danno, o a favore, di persone determinate, o di un singolo; soprattutto nel senso di applicare contro qualcuno una pena non prevista da leggi anteriori, o di chiamare un tribunale a giudicare fatti commessi in tempo in cui non erano reato. Queste leggi al tempo della Repubblica erano considerate illegali, vietati anche da una disposizione contenuta nelle leggi delle XII Tavole (“privilegia ne inroganto”).
* La “lex commissoria” in base alla quale se il compratore di una cosa non provvedeva a pagarla entro un certo termine, la cosa tornava di proprietà del venditore.
* La “lex Cornelia de iniuris” relativa alle lesioni procurate a persone e ad ingiurie verbali che ne minavano la onorabilità.
* La “lex Cornelia de sponsu” relativa alla prestazione di garanzie a terzi.
* La “lex Pompeia unciara” (88 a.C.) che disciplinava il tasso di interesse sui prestiti, fissandone il limite massimo in 1/12 del capitale.
* La “lex Falcidia” (40 a.C.) che disciplinava le successioni e le eredità, tutelando gli eredi; abrogando le limitazioni previste dalle leggi precedenti stabilì che agli eredi testamentari dovesse in ogni caso rimanere almeno una quarta parte dell’intera eredità.
* La “lex Fufia caninia de manumissionibus” (2 a.C.) che regolamentava la manomissione degli schiavi, stabilendo che si poteva manomettere un certo numero di schiavi in proporzione al numero dei posseduti e con un massimo di 100 schiavi indicati nominativamente.
* La “lex Cassia” o “tabellaria lex”, su proposta del tribuno Cassio Longino in base alla quale nei comizi e in tutti i giudizi del popolo, eccetto che nei giudizi per perduellione (alto tradimento), invece del voto orale, si stabilì di dare il voto scritto su apposita tavoletta. Così ai patrizi sarebbe sfuggito il controllo e la disciplina della votazione (“suffragium”) al loro uso e di interesse.
* La “lex Furia de sponsu” relativa alle garanzie.
* La “lex Furia testamentaria” che regolamentarla di eredità e le disposizioni testamentarie.
* La “lex Genucia de fenore” (342 a.C.) con la quale fu vietata, contro il deleterio dilagare dell’usura, la applicazione di interessi sui prestiti.
* La “lex Hieronica”, (il nome probabilmente deriva dalla analogia con un procedimento disposto dal tiranno di Siracusa Gerone, acquisito dai Romani dopo la conquista della Sicilia), questa legge stabiliva che il debitore poteva opporsi al pagamento del debito promuovendo un procedimento dichiarativo di disconoscimento del debito stesso; soccombendo pagava il doppio della somma dovuta; mentre la soccombenza del presunto creditore lo obbligava a pagare il quadruplo.
* La “lex Iulia de adulteris” vietava il matrimonio fra le donne adultere ed il complice dell’adulterio.
* La “lex Iulia de fundo dotali” che stabiliva di non poter alienare i beni della moglie facenti parte della dote, né costituirvi sopra diritti di terzi senza il consenso della moglie.
* La “lex Iulia de maritandis ordinibus” (18 a.C.), con la quale furono stabilite norme per i matrimoni, l’età per poterli contrarre; furono inflitti forti svantaggi ai celibi ed ai coniugati senza figli etc.
* La “lex Iulia de vi” regolamentarne il possesso di beni mobili ottenuto con la forza, il furto o rapina, o col saccheggio.
* La “lex Iulia et Papia Poppaea” che vietava le seconde nozze alla liberta che, maritata al patrono, l’avesse ripudiato; il matrimonio di senatori e i loro discendenti con libertine (schiave affrancate); vietava il matrimonio di ingenui (nati liberi e sempre rimasti tali) con prostitute, mezzane etc.
* La “lex Iulia de reputandarum” che stabiliva che non potevano essere oggetto d’un usucapione le cose che il magistrato aveva avuto in dono nella provincia assegnatagli.
* La “lex Iulia et Titia de tutela” che disciplinava la tutela dei minori.
* La “lex Marcia de fenore” (104 a.C.) relativa all’applicazione di interessi sui prestiti.
* La “lex Minicia de civitate” (100 a.C.) che regolamentava la cittadinanza dei nati da madre romana ed uno straniero (“peregrinus”) o da padre Romano ed una straniera (“peregrina”).
* La “lex Pinaria de legibus actione” con la quale si stabilì che dopo la “legis actio” le parti avessero un termine di 30 giorni per ricomparire “in iure” e farsi assegnare il giudice dal pretore.
* La “lex Plaetoria de circumscriptione adulescentium” (192 a.C.), con essa si puniva con una grossa pena pecuniaria chi, nel contattare un minorenne, avesse abusato della sua inesperienza.
* La “lex Plautia de vi” che disciplinava il possesso di beni mobili ed immobili avuti con la forza, il furto, rapina o saccheggio.
* La “lex Plautia Papiria de civitate” (89 a.C.) con la quale fu estesa la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Italia.
* La “lex Poetelia Papiria de nexis” con la quale fu abolito il negozio giuridico chiamato “nexum”, in base al quale il mutuatario o persona soggetta alla sua autorità si poneva nella condizione di totale asservimento nei confronti del mutuante in caso di mancata restituzione della somma.
* La “lex Porcia de funebris” (118 a.C.) proposta da Catone il Censore relativa all’applicazione di interessi sui prestiti è contro l’usura.
* La “lex Publilia de sponsu” relativa alle garanzie offerte dai debitori.
* La “lex Scribonia de usucapione servitutium” dichiarò non legittimo l’acquisto delle servitù per usucapione.
* La “lex Silia de condictione” che disciplinava le modalità per estinguere debiti e le relative pene.
* La “lex Vallia de manus iniectione” che dettò nuove norme regolanti la “manus iniectio”.
* La “lex Voconia de mulierum hereditate” (169 a.C.) che impediva alle donne di essere designate eredi da parte di cittadini di censo superiore ai 100.000 assi.
* La “lex Porcia Fenebris”, proposta da Catone il Censore contro l’usura.
* La “lex Marcia”, contro l’ususra.
* La “lex Cornelia Pompeia unciaria” che vietava l’applicazione mensile dell’interesse, stabilendo che doveva essere annuo.
* La “lex Iunia Norbana” (19 d.C. ?) per la quale i libertini manomessi in forma non solenne sono considerati liberi, ma privi dello “status civitatis”.
* La “lex Aelia Sentia” che vietava la manomissione di servi di età enferiore ai 30 anni.
* La “lex Cornelia” (81 a.C.) stabiliva che il romano morto in prigione si fingesse morto al momento della cattura.
* La lex Duilia Meneia” che stabiliva il limite degli interessi sui prestiti.
* La “lex Iualia de collegiis”, approvata su proposta di Augusto, stabilì di sciogliere tutti i collegi che facevano opposizione al principe eccettuati quelli di più nobili ed antiche tradizioni, e che stabilì, inoltre, che la costituzione di nuovi collegi fosse subordinata alla autorizzazione del Senato.
I titoli delle leggi erano scritte in rosso (da cui “rubrica” da “ruber=rosso”).
Le leggi nel periodo della repubblica venivano approvate dal Senato su proposta (”rogatio”) fatta dai Tribuni, dopo che la stessa era stata pubblicata per tre giorni di mercato e poi posta i voti nei Comizi . Il Senato era l’organo collegiale deliberante che con leggi, dal 510 a.C. fino al tempo di Augusto, ebbe il supremo comando a Roma. Il suo potere in nome del popolo era assoluto. Ogni decisione importante era adottata ed ogni legge approvata con la formula “Senatus Populusque Romanus”. Le leggi contenevano sempre una minaccia di pena (“sanctio”) per i trasgressori. Dopo approvate le leggi venivano portate a conoscenza del popolo mediante pubblicazione nel Foro ed in altri luoghi pubblici.
Nell’epoca imperiale l’attività legislativa era una attribuzione dell’Imperatore e si esplicava con editti (“edictum=ordine”), mandati (“mandatum=comando verbale), rescritti (“resciptum=risposta scritta”), decreti “decretun=decisione”). Il biglietto “codicillus=biglietto, lettera) era uno scritto autografo dell’imperatore con il quale ordinava la morte (“codicillus letalis”) o impartiva ordini o concedeva onorificenze.
Vengono elaborati nuovi modi di formazione delle leggi: nell’antichità erano prima i pontefici e poi i pretori che, predisponendo scultoree formule regolavano gli atti giuridici; anticamente legiferare era un’arte, nell’epoca imperiale divenne, invece, una scienza capace di adeguare la teoria alla pratica.
Trovando sempre maggiori studiosi e cultori divenne una disciplina del tutto autonoma, capace di regolamentare ogni attività umana.
Nel mondo occidentale si può ben dire che tutta la storia giuridica si impernia sul diritto romano e sulla sua evoluzione.
Le espansioni territoriali di Roma, gli scambi economici fra i popoli dell’impero, agevolano la diffusione del diritto romano il quale, a sua volta, subì l’influsso di ordinamenti giuridici dei popoli sottomessi.
Con lo stanziamento di popoli germanici entro i confini dell’impero, le varie unità etniche si organizzarono in distinti ordinamenti giuridici, però, sempre ricompresi nell’universale ordinamento dell’impero.
I moderni diritti europei possono considerarsi in gran parte come derivazione e adattamenti del diritto romano.

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GIUSTIZIA
I Romani sono stati i maestri di diritto per tutti i popoli con cui vennero a contatto.
Le leggi fatte da loro, perfezionate nei secoli, hanno regolamentato la vita di tutte le numerose popolazioni dell’impero essi hanno creato sapientemente un complesso di norme e disposizioni atte a regolamentare e di indirizzare l’attività umana: il rapporto dei cittadini fra di loro e il rapporto di essi con lo Stato.
Le loro leggi sono state sempre improntate dal costante impegno a garantire l’insieme dei diritti fondamentali dell’individuo (la “civitas”) che erano: diritto alla libertà, diritto di cittadinanza e di famiglia.
Di questi diritti fu anche stabilita una graduatoria di valore; privare qualcuno di questi diritti:
-della libertà, con la schiavitù o la condanna a morte si diceva “deminutio capitis maxima”;
-della cittadinanza (“interdictio acquae et ignis” si diceva “deminutio capitis media”);
– della famiglia, come con l’adozione e per le donne col matrimonio, si diceva “deminutio capitis minima”.
I Romani hanno plasmato la loro legislazione al principio che lo scopo di ogni norma giuridica è la conservazione e il perfezionamento della società umana, cioè di una comunità organizzata per una durata infinita e per il raggiungimento di scopi comuni.
Il complesso delle norme giuridiche dei moderni paesi, detti neo-latini, conservano stretti legami con la legislazione romana e ne hanno recepito, assimilandoli perfezionandoli, i principi fondamentali.
Fino al 510 a.C. i Romani non avevano leggi scritte, ma rispettavano regole consolidate col tempo e con usi, stabilite dal doveroso rispetto di leggi naturali o norme religiose, come è stato sempre consuetudine fra i popoli primitivi. L’amministrazione della giustizia era esercitata dal re, o suoi delegati scelti fra famiglie patrizie. Caduta la monarchia subentrarono i Consoli, di estrazione patrizia; questi giudicavano secondo antiche ed incerte consuetudini, usando, quindi molto arbitrio e parzialità, in mancanza di leggi scritte e ben determinate; le sentenze, ovviamente, erano quasi sempre a sfavore dei plebei. Le forti lagnanze di questi ultimi per le ingiustizie subite spinsero il Tribuno della plebe Terentillo Arsa a proporre la nomina di una commissione di cinque membri per fissare le attribuzioni e dei poteri dei Consoli. Questa proposta fu accettata nel 454 a.C., sotto il consolato di Siccio Dentato: furono inviati nella Magna Grecia e ad Atene tre senatori con lo scopo di raccogliere le migliori istituzioni giuridiche e scegliere quelli più confacenti alle necessità di Roma. I tre ambasciatori fecero ritorno a Roma nel 452 a.C., fu allora stabilito che tutti i magistrati supremi (Consoli e Tribuni) lasciassero la loro carica, e che si eleggessero 10 magistrati straordinari cui fosse conferita all’autorità dittatoriale per un intero anno con lo specifico incarico di compilare un codice di leggi scritte ed eguali per ogni classe sociale.
Furono così nominati “Decemviri legibus scribundis” (451 a.C.), i quali adempiendo scrupolosamente all’incarico ricevuto, alla fine di quell’anno, esposero nelle Foro (450 a.C.) le leggi da loro compilate, scolpite su 12 tavole di bronzo.
Patrizi e plebei non solo approvarono queste leggi, ma riconfermarono nella loro carica i Decemviri per un altro anno, perché ve ne aggiungessero altre.
L’approvazione di queste leggi contribuì a far cessare le continue lotte di classe fra patrizi e plebei.
La giustizia, dopo l’approvazione delle XII Tavole, era amministrata dal dittatore (era chiamato “praetor maximus”), quando, in casi estremi veniva eletto quale autorità massima per reggere le sorti di Roma; nei tempi normali da due Consoli ed ai ”Tribuni militum consulari potestate”.
Quando a Roma i plebei furono ammessi al consolato, la pretura fu divisa dal consolato (367 a.C.) e affidata ad un nuovo magistrato (“praetor”) che fu collega dei Consoli e nella loro assenza rappresentante della massima autorità. Da principio vi fu un solo pretore e sempre patrizio, poi dal 338 a.C. anche di estrazione plebea; dal 247 a.C. furono nominati due pretori: un “praetor urbanus” ed un “praetor peregrinus”.
Il ”praetor urbanus” aveva giurisdizione nelle cause private fra cittadini romani; poteva trattare cause pubbliche, relativi a delitti contro lo Stato, solo per incarico del popolo (“lege populi”). Egli accordava il giudizio e dava la formula corrispondente. Il “praetor urbanus” era coadiuvato da “iudices selecti” (giudici scelti) da esso scelti fra cittadini iscritti in una lista di eleggibili. I giudici scelti fra i cittadini che avevano un censo pari a 200.000 sesterzi erano chiamati “ducenarii”. Poteva anche nominare un “iudex questionis” il quale spesso lo sostituiva.
Il “praetor peregrinus” trattava la definizione delle cause fra cittadini romani e stranieri.
Il “praetor” aveva come aiutanti per lo svolgimento del processo, sia a Roma che nelle province, un messo notificatore (“accensus”) e sicuramente anche uno “scriba” (scrivano o segretario) con la funzione di verbalizzare le deposizioni delle parti contendenti, le dichiarazioni dei testimoni e le decisioni del pretore.
Esistevano anche collegi giudicanti ai quali il “praetor” assegnava le cause riguardanti particolari materie:
-i “Centumviri”, collegio di 105 membri, poi portati a 180 membri, nell’età imperiale, eletto annualmente per le questioni private, particolarmente riferite all’eredità, donazioni, tutele, adozioni ecc. il collegio si divideva in quattro sezioni, ciascuna delle quali decideva per processi diversi, o riunite giudicavano, in seduta plenaria, una unica causa importante.
-il collegio dei “Duumviri o Duoviri” composto da due giudici istruttori “Quaesitores” o “qui de perduellione anquirant creati” incaricati di fare inchieste su delitti di alto tradimento, anticamente eletti dal re, poi dal popolo a mezzo dei Comizi.
-i “Decemviri litibus iudicandis”, corte giudiziaria istituita nel 289 a.C., cui spettava il giudizio nei processi per questioni di libertà e cittadinanza.
Più tardi il numero dei pretori fu portato a 4, 8,16, infine a 18. Siccome, però, non riuscivano a trattare tutte le liti, fuori di Roma, nei Municipii e nelle colonie erano sostituiti dai “Praefecti iuri dicundo”.
Ogni pretore, nell’assumere l’ufficio emanava un editto (“edictum”) in cui egli dichiarava i principi secondo i quali intendeva amministrare la giustizia durante l’anno delle sue funzioni; esponeva anche le norme fondamentali di giurisprudenza (“formulae”) per i casi che non erano contemplati nelle XII Tavole. Tale diritto era anche chiamato “perpetuum”, in quanto generale e valevole in ogni caso. Egli ”ius dicebat pro tribunali” quando amministrava la giustizia in forma solenne, seduto sulla “sella curulis”; se la causa invece era di poca importanza la esaminava e decideva in qualunque luogo e tempo (“de plano vel aequo loco cognoscebat, disloquebatur, discutiebat = fuori del tribunale ed in un luogo decoroso giudicava, venivano prese decisioni, scioglieva all’adunanza).
Alla carica di pretore si poteva accedere con più di 40 anni di età e la carica aveva la durata di un anno; egli aveva gli stessi onori e privilegi dei Consoli: in città lo accompagnavano due littori, fuori città sei littori, portava la toga praetexta. I littori erano ufficiali (scelti tra i plebei e poi fra i liberti) che camminavano avanti al pretore pur tanto in mano i “fasces” di verghe con la scure, come simbolo del potere, con le quali infliggevano supplizi ai colpevoli o la morte per ordine del pretore; precedevano lo stesso, gli facevano largo fra la folla (“turbam sommovebant”), sorvegliavano che gli fosse reso il dovuto onore.
Sotto l’impero le competenze dei pretori furono limitate a cose di minore importanza.
I giorni nei quali si poteva amministrare la giustizia erano quelli in cui il pretore poteva pronunciare la formula ”do, dico, addico”, cioè nei giorni chiamati “dies fasti” (giorni consentiti, leciti). L’elenco di questi giorni, importantissimo per ”ius civile” e per l’intera vita pubblica, si trovò a lungo in mano dei Pontefici ed era consultabile solo da parte dei patrizi, finché, nel 304 a.C. Gneo Flavio, “scriba” del Pontefice Massimo Appio Cieco ne pubblicò una copia. Da questa lista se ne venne formando, a poco a poco, una più ampia, che comprendeva tutti i giorni dell’anno con la indicazione delle feste degli avvenimenti più importanti. Una specie di calendario, modificato poi da Cesare; su questo calendario corretto, lo scrittore Ovidio, compose il suo poema “Fasti”, ma illustrò solo i primi sei mesi dell’anno.
L’espressione “do , dico addico” sintetizzava l’attività giurisdizionale del pretore e significava: “do”= concedo il processo nominando i giudici; “dico”= indico la norma applicata al caso concreto; “addico”= approvo ciò che le parti chiedono e lo concedo con sentenza.
I Romani, fin dall’antichità, hanno fatto una netta distinzione tra controversie fra delitto privato e pubblico, chiamando il primo “delictum o maleficium” ed il secondo “crimen”. Il “crimen” è un delitto pubblico, contro un bene pubblico, una vera e propria infrazione dell’ordine sociale, che colpisce l’intera “civitas” (es. il tradimento, il parricidio), che finisce sempre in una “poena publica” quale la morte, ”interdictio aquae et ignis”, ed una multa da pagare all’erario.
Il “delictum o maleficium” è un delitto privato sentito come un’offesa ad un individuo che giustifica una reazione dell’offeso; reazione che nella preistoria era libera ed incontrollata vendetta; successivamente proporzionata all’offesa vigente la legge del taglione; in tempi più recenti la pena stabilita dal giudice rappresentava vendetta per l’offeso e di espiazione per l’offensore.
Questa separazione fra materia civile e materia criminale incominciò a delinearsi sotto il re Servio Tullio a lui si fa pure risalire la costituzione di due fasi della procedura giudiziaria: “in iure” e “in iudicio”. Il procedimento “in iure” consisteva nella preparazione o istruttoria del processo; il procedimento “in iudicio” era invece il dibattito vero e proprio della causa.
MATERIA CIVILE
Procedura “in iure “
Quando non era possibile dirimere o risolvere una questione fra privati ricorrendo ad un “arbiter” (arbitro, giudice extragiudiziario), che giudicava secondo equità, si ricorreva alla magistratura ordinaria, ad un ”iudex” previsto dalla legge.
Quando, invece, si voleva trasferire bonariamente la proprietà di un bene mobile od immobile, mediante la “cessio in iure”, era questa la procedura: colui che voleva acquistare pronunciava la formula di rivendicazione, l’alienante non pronunciava la formula contraria – dato l’accordo fra le parti – ossia non intendeva di costituire lite, né fare opposizione, ma cedeva il bene in via legale. Tutto ciò davanti ad un magistrato, il quale ne prendeva semplicemente atto.
La procedura ”in iure” iniziava con la citazione o querela davanti ad un magistrato rivestito di due elementi che costituivano il potere supremo della magistratura in Roma, cioè l’”imperium” (potere, autorità di giudicare) e la “iurisdictio” (esercizio del potere, amministrazione pratica della giustizia). Questo magistrato dapprima fu il “rex”, ma, caduta la monarchia, vi subentrarono i “consules”, l’”interrex”, il “dictator”, i “Decemviri legibus scribundis” (autori delle XII Tavole), i “Tribuni militum consulari potestate”, il “praetor” poi il “praetor urbanus” ed il “praetor peregrinus”.
Il processo si iniziava con la citazione in giudizio (“in ius vocatio”), effettuata non dal magistrato, ma dal querelante (“actor”), il quale invitava personalmente il reo (“reus”) a presentarsi in tribunale. Se costui era riluttante e si rifiutava, il querelante (attore) si rivolgeva a qualcuno dei dei presenti e li interrogava con la frase: “Licet antestari ?” (= Posso pigliarti come testimonio ? Ti accontenti che io ti pigli come testimonio ?). Se l’interrogato rispondeva: “Licet!”“ (= Si può ! Sia pure !”) e presentava da toccare l’estremità dell’orecchio (“auriculum oppponebat” l’interrogante toccava lievemente l’orecchio del testimonia dicendo: “Memento quod mihi in hac causa testis eris!” (= Ricòrdati che sarài il mio testimoniano in questa causa), con la convinzione che la memoria avesse sede nell’orecchio. Il testimoniano oculare (“testis oculatus”) o auricolare (“testis auritus”) erano indispensabili per il processo che, e se qualcuno avesse fatto violenza al reo senza pigliare un testimone, poteva essere accusato per delitto di ingiuria recata.
Presso i Romani non vi era, come fra noi, un magistrato della pubblica accusa, ma questa poteva essere sostenuta da un qualunque cittadino. Se l’accusatore non riusciva a provare l’accusa adducendo prove convincenti, rischiava di essere condannato all’esilio.
Seguita questa procedura, il querelante poteva trascinare in giudizio l’avversario anche con la forza (“etiam obtorto collo”); ma costui poteva esimersi dal comparire personalmente, interponendo in sua vece una terza persona, che ne assumesse ogni responsabilità (“vindex = garante). Col volger del tempo si permise al querelato di presentarsi in un secondo tempo, ed in questo caso il magistrato esigeva da lui un’assicurazione formale, o garanzia di comparizione (“vadimonium” = promessa, o impegno con cauzione).
Comparsi i due avversari, l’udienza si svolgeva sempre pubblicamente e con gran concorso di popolo nel Foro, precisamente nella parte detta “comitium” (parte a nord-ovest), solo nei “dies fasti”, dal sorgere al calare del sole, mai dopo il tramonto o nei giorni di pubblico lutto o espiazione (“dies nefasti”).
Il magistrato, assiso sulla “sella curulis” palco di legno, circondato dal “consilium” (collegio giudicante), che siedeva invece sui ”subsedilia” (sedili ove, indistintamente, sedevano giudici, accusatori, accusati ed avvocati). Il pretore, circondato da i littori e da altri inservienti, come il “praeco” (banditore chiamava le parti, i testimoni, intimava il silenzio ecc.) dirigeva il procedimento nelle linee essenziali, tralasciando le minuzie (“minima non curat praetor”= il pretore non si cura di cose poco importanti).
Il querelato poteva, ancora, addivenire ad una transazione o pacificazione con l’avversario (“litem componere” = comporre la lite), oppure confessare il suo delitto (“confiteri”= confessare, ammettere); ed in questo caso il processo non continuava, ma lo stesso magistrato istruttore dava la sentenza. Negli altri casi si continuava la lotta legale.
L’attore sporgeva querela (“dica”), appiccicare a qualcuno una querela si diceva “alicui dicam impingere”; o il notificare una querela si diceva “alicui dicam scribere”, con determinate formule “legis actiones”, riproducendo esattamente le espressioni della norma di legge invocata, ed era sufficiente un piccolo errore di forma per perdere la causa (“causa cadere”). “Obnuntio” era detta la invalidazione di un processo per vizio di forma; per evitare questo inconveniente, dette formule, erano state concepite e redatte in modo da comprendere non un tipo solo ma un gruppo più o meno esteso di argomenti di contesa.
Le “legis actiones” erano di varie sorta. La più antica e comune era la “legis actio sacramento”, che si svolgeva nel seguente modo. L’attore esponeva la sua querela (“intentio”) e l’avversario la ribatteva (“exceptio”): ambedue, a sostegno delle proprie ragioni, scommettevano una somma di denaro e la depositavano in pegno (“sacramentum”). E chi alla fine perdeva la lite, perdeva anche la somma depositata in pegno, che veniva versata al pubblico erario.
Se la lite non volgeva sopra una persona (“legis actio sacramento in personam”), ma sopra un oggetto (“legis actio in rem”), questo pure doveva essere presente “in iure”. Se si trattava di un terreno, veniva presentata una zolla, altrimenti il magistrato si recava sul posto con le parti. L’attore toccava la ”res” con un bastoncino, simbolo del dominio, e con una formula solenne, affermava il suo diritto sulla medesima (“vindicatio”). Il querelato contestava e rivendicava invece per sé tale diritto (“rivendicatio”). Si svolgeva, allora, la sfida al col “sacramentum”, ed il magistrato aggiudicava ad una delle parti il possesso temporaneo della cosa contesa (“vindicias dicere secundum alterum eorum”, fino cioè allo scioglimento della lite che si compiva ”in iudicio” (nel processo).
Dopo la “legis actio”, finiva quindi la fase istruttoria, ed il pretore:
a)- redigeva una dichiarazione (“elogium”) contenente il nome del reo e l’indicazione del crimine da lui commesso, consegnandola al reo stesso o al giudice competente per il successivo processo;
b)- nominava il giudice, scelto nell’albo apposito, ove erano iscritti senatori e cavalieri, perché giudicasse sul fatto, oppure rimandava la causa davanti ai “Decemviri litibus iudicandis”, cui spettava il giudizio nei processi di libertà e cittadinanza, “Centumviri” scelti fra gli uomini più cospicui delle tribù, i quali decidevano nelle cause di eredità e testamenti.
Ognuna delle due parti adduceva i testimoni “litis contestatio”, che dovevano confermare quanto dichiarato in istruttoria, e denunziava all’altra il giorno della presentazione davanti al giudice, per la discussione della causa “in iudicio”. Questo era di solito il “dies perendinus” (il posdomani), cioè il terzo giorno dopo.
Procedura “in iudicio”
Questa procedura si compiva nel giorno fissato, pubblicamente, davanti al giudice, o ad un collegio di giudici che prestavano solenne giuramento di osservare le leggi e di giudicare secondo coscienza. Anche ognuna delle parti prestava giuramento con la formula: “Si sciens fallo, tum me Despiter, salva urbe, ex bonis ejieciat, ut ego hunc lapidem!” (Se mento scientemente, allora Giove, fatta salva la città possa gettarmi via dai bravi cittadini, come io getto questa pietra !) Espletate queste formalità iniziava il dibattito con un riepilogo della controversia (“causae coniectio” = esposizione succinta dei fatti); ognuna delle parti, assistita dai ”patroni, causidici, oratores”, cioè da valenti avvocati, specializzati in dibattiti giudiziari, esponeva le proprie ragioni ed esibiva le prove (“peroratio”). Seguiva la discussione (”altercatio”) con le repliche e contro repliche, dopo le quali, se la causa non appariva sufficientemente chiarita ed i giurati dichiaravano :”Non licet!” (=la cosa non è chiara), il giudice rinviava ad altra udienza da tenersi successivamente, servendosi della formula: “Amplius cognoscendum!”. Se invece ogni lato della questione era stato illuminato e chiarito, il giudice proclamava la decisione finale (“sententia”), che pronunziata ad alta voce si chiudeva con le parole: “Res acta est, res iure iudicata est !” (La questione è chiusa, è stata giudicata secondo legge).
Tanto in materia civile che penale, se una delle parti non si presentava a giudizio, senza giustificato motivo, la causa era senz’altro data per vinta alla parte avversaria e, se l’assente era l’imputato, veniva condannato in contumacia.
La proclamazione della sentenza dava alla parte vittoriosa il diritto alla esecuzione. La parte soccombente perdeva la somma posta in pegno (“sacramentum”) ed era per di più tenuta ad un risarcimento verso il vincitore (“litis estimatio”). Qualora, però, entro 30 giorni la parte soccombente non avesse adempiuto alle obbligazioni previste in sentenza, il creditore poteva procedere contro di lui con una “actio legis”; il giudice consegnava il debitore al creditore. Questi lo traduceva a casa sua e per due mesi consecutivi lo teneva in schiavitù, legato con catene pesanti 15 libbre (circa 5 kg) e nutrito con una sola libra (grammi 327,45) di farro al giorno. Aveva però l’obbligo nei 60 giorni successivi di condurlo a tre mercati consecutivi, ove illustrava ad alta voce la situazione del debitore incatenato e la somma da lui dovuta per estinguere il debito. Se durante i tre mercati nessuno riscattava il prigioniero o si faceva garante per lui, esso passava in proprietà del creditore che aveva su di lui diritto di vita o di morte. Poteva essere tenuto come schiavo, o venduto al di là del Tevere come schiavo, oppure ucciso; in quest’ultimo caso se i creditori erano più di uno, si spartivano fra loro i pezzi.
Un versetto delle XII Tavole scagionarono da ogni colpa i creditori nel caso avessero preso una porzione del cadavere sproporzionata all’entità del loro credito. Ciò fino al 326 a.C., quando con la legge “Petelia-Papiria” fu abolita e mitigata tale crudele forma di asservimento per mancato pagamento di debiti e fu stabilito che per la restituzione fossero obbligati i beni e non più la persona. Il lavoro del debitore, divenuto schiavo, venne considerato alla stregua di quello di un libero operaio per cui il frutto del lavoro veniva devoluto all’estinzione del debito.
La parte che aveva perduto la causa poteva fare appello ad un giudice superiore, che ne riprendeva la trattazione. Altre volte era il “praetor” che annullava la sentenza dei giudici (“rem iudicata rescindebat” = annullava la sentenza), e rimetteva le parti nello stato di prima (“damnatum in integrum restituebat”= rimetteva il condannato nella condizione di prima) se nel giudizio vi era stato errore (“error”) o inganno(“dolus”).
Le leggi romani permettevano che uno che era stato assolto da alcuni giudici potesse di nuovo essere accusato, dello stesso reato, presso altri giudici (era presso a poco il nostro processo di appello).
Sistema giudiziario “per formulas”
Con la “lex Aebutia” (120 a.C. circa), riconfermata dalla “lex Iulia iudiciorum privatorum” (17 a.C.), il procedimento nelle cause civili venne semplificato, e si svolse “per formulas”, anziché per “legis actiones”, ossia un programma concordato dai contendenti, contenente le pretese degli stessi, redatto secondo modelli preparati dal pretore, chiamati col nome di “formulae”.
Il querelante faceva noto il motivo della lite “demonstratio”, sintetizzando le sue ragioni e i suoi diritti “intentio”. Il querelato ne faceva la confutazione (“depulsio”). Il pretore, allora, se del caso, affidava provvisoriamente ad una delle parti la cosa contestata (“adiudicatio”= aggiudicazione, oppure designava senz’altro i giudici a cui fissava i termini per la redazione della sentenza “condemnatio”. I giudici in base alla formula indicata dal pretore, assolvevano o condannavano.
MATERIA CRIMINALE
In materia criminale, a Roma, vi erano due giudizi pubblici: straordinari e ordinari.
Giudizi straordinari
Erano quelli non previsti o perseguiti direttamente nella punizione da una legge precisa e si svolgevano davanti alle assemblee popolari. Anche in questo campo il primo amministratore della giustizia fu il re, sostituito poi dai consoli, dittatori, pretori. Il cittadino condannato da questi alla pena capitale, poteva appellarsi al popolo (“appellatio ad populum”), per una modifica della condanna. Questo diritto di appello venne così frequentemente esercitato che i processi criminali furono assegnati alle assemblee delle centurie (Comizi Centuriati), se il delitto comportava la pena di morte; ai Comizi Tributi che il delitto era punito con una multa. Il re, in questi casi era coadiuvato dai ”quaestores parricidi”, ufficiali nominati annualmente per i processi di assassinio, e dai “Duumviri perduellionis”, commissari straordinari incaricati, di volta in volta, di inquisire e giudicare sui delitti di alto tradimento.
Nei giudizi straordinari l’accusatore doveva essere un magistrato, il quale nei comizi, salendo sulla tribuna dell’oratore (“rostra”), dichiarava di voler intentare processo contro un colpevole, di cui faceva il nome e che ,contemporaneamente, invitava per un determinato giorno (“diem dicebat”), a comparire davanti ad una riunione (“contio”). Nel giorno stabilito l’accusato saliva sui rostri (sulla tribuna), vestito di una toga sordida, con i capelli scarmigliati, la barba incolta, fra gli insulti (“probris et conviciis” = ingiurie e schiamazzi) della plebe, e l’accusatore formulava l’imputazione (“accusationem instituebat”), che veniva ripetuta per tre giorni differenti con la presentazione delle prove (“testes et tabulae”) e la proposta della pena (“anquisitio”= requisitoria). Tali conclusioni venivano poi bandite pubblicamente in tre giorni consecutivi di mercato “(tribus nundinis”), dopo i quali l’accusatore ripeteva per la quarta volta all’accusa, e solo allora all’imputato era concessa la facoltà di potersi discolpare (“crimen diluire”) o personalmente o tramite un difensore (“patronus”).
Quando si radunavano i prossimi Comizi Centuriati o Tributi, il magistrato riassumeva il dibattito è invitava a dare il voto. Ogni cittadino aveva tre tavolette (dette “sortes”); una con la lettera A=”absolvo” (assolvo), una con la lettera C =“condemno” = condanno), una terza con le lettere NL= “non liquet” (la causa non è chiara). Anticamente, prima dell’uso delle tavolette, venivano usati sassolini, bianchi per assolvere e neri per condannare. A differenza di quanto si verificava ad Atene, ove i votanti avevano due dischetti di bronzo, dei quali l’uno bucato per dare sentenza di condanna e l’altro per il voto di assoluzione. Il sassolino o tavoletta scelta dal votante veniva introdotto in una cassetta; finita la votazione si conteggiava nei voti ed in base ad essi variava la sentenza.
Giudizi ordinari
Erano quelli che si svolgevano seguendo precise norme di legge.
Siccome i Comizi formavano un tribunale troppo numeroso che non sempre garantiva una buona amministrazione della giustizia, le cause più intricate e difficili furono talvolta demandate a commissioni straordinarie di inchiesta, che più tardi divennero permanenti e presero appunto il nome di “quaestiones perpetuae” (Commissioni perpetue).
La prima Commissione straordinaria d’inchiesta si interessò di una “quaestio de repetundis”, o estorsione, a cui altre seguirono. Quando Silla elevò a otto il numero dei pretori, anche le “quaestiones parpetuae” furono portate a otto, per giudicare i delitti seguenti ad essi affini:
1)- “de repetundis” = estorsioni
2)- “de ambitu” = broglio o corruzione elettorale
3)- “de peculatu” = malversazione del denaro pubblico
4)- “de maiestate” = attentato contro la dignità dello Stato
5)- “de sicariis et veneficiis” = assassinio e di avvelenamento
6)- “de falso” = falsificazione di monete e documenti
7)- “de vi” = violenza
8)- “de sodaliciis” = associazioni sovversive e illegali.
La “quaestio de maiestate” chiamata anche a esaminare il “crimen perduellionis” (delitto di alto tradimento) di cui si rendeva colpevole chi avesse macchinato contro la sicurezza dello Stato.
A capo delle singole “quaestiones” vi era un ”praetor”, che veniva perciò chiamato anche “quesitor” (investigatore, giudice istruttore).
Procedura “in iure”
L’accusatore (“delator”), che nei giudizi ordinari poteva essere un privato cittadino, chiedeva al pretore di poter accusare un determinato individuo per un delitto qualificato. Questa domanda si chiamava “postulatio” e quando è rappresentata da parecchi, il pretore col suo consiglio procedeva alla determinazione dell’accusatore più adatto e competente (“divinatio”).
Al delatore, per legge, veniva assegnato un quarto dei beni confiscati a chi, denunciato veniva condannato, oppure un quarto della multa che il condannato doveva pagare all’erario. Il delatore era detto “quadruplator”.
Accolta la “postulatio” il “delator”, previo giuramento di non calunniare, sporgeva l’accusa formale (“nominis vel criminis delatio”= indicazione del nome e del crimine), e la stendeva secondo alcune formule determinate controfirmando (“subscriptio”); formule che potevano, eventualmente, essere firmate anche da altri “subscriptores”; esse racchiudevano i dati, le circostanze e la natura del delitto.
Se l’accusa veniva giudicata regolare, il pretore la accettava (“nomen recipiebat”) e da quel momento l’accusato diventava “reus” e vestiva la toga sordida per suscitare la compassione dei giudici e del popolo. Egli era, poi, sottoposto ad un interrogatorio (“interrogatio”) sulla sua colpevolezza, e, se confessava il delitto o ne veniva chiaramente convinto, la causa non procedeva “in iudicio”, ma il pretore stesso, applicando la legge, stabiliva, senz’altro, la pena. Se invece il ”reus” negava l’imputazione, partiva l’inchiesta (“inquisitio”) e la raccolta di tutti gli elementi necessari ad una accusa, e l’accusatore doveva presentare i documenti di prova e testimonianze, generalmente entro 30 giorni.
Compiuta l’inchiesta, si passava alla procedura “in iudicio”.
Procedura “in iudicio”
Si iniziava con la costituzione della corte, la quale era formata da giudici, scelti o estratti a sorte, e di comune gradimento delle parti. Dinanzi alla corte l’accusatore e il difensore pronunciavano i loro discorsi (“actiones”) con facoltà di replica (“actio prima, secunda” etc.), dopo i quali si procedeva alla escussione dei testi e delle prove (“probatio”). Terminate le deposizioni, le parti prendevano, se del caso, ancora la parola per un’ultima discussione (“altercatio”), indi il presidente della corte ne faceva annunciare la fine da un banditore (“praeco”) con la formula: “Dixere” = hanno detto = hanno finito di parlare). I giudici, allora, ad uno ad uno, prestavano giuramento di operare secondo coscienza perciò erano chiamati “iurati” e si ritiravano in consiglio (“in consilium ibant”) per dare il proprio voto. La votazione era segreta ed anticamente si faceva con pietruzze bianche e nere (“lapilli vel calculi”), bianche per assolvere e nere per condannare, successivamente con tavolette di legno spalmate di cera (“sortes”), su cui da una parte era incisa la lettera A = “absolvo” e dall’altra la lettera C = “condemno”. Il giurato cancellava l’una lettera o l’altra o anche tutte due quando voleva astenersi dal giudizio (”sine suffragio”), e inseriva la tavoletta nell’urna. Il presidente, finita la votazione, controllava ad una ad una le tavolette e, se il “reus” aveva la maggioranza delle tavolette con la C veniva condannato, se invece aveva la maggioranza delle tavolette con la lettera A, o anche in caso di parità fra le lettere A e C, veniva assolto.
La promulgazione della sentenza veniva fatta dal pretore con la formula: “Videtur”, oppure “Non videtur fecisse”, a seconda che il reo era stato giudicato colpevole o innocente.
Proclamata la sentenza, la procedura “in iudicio” era finita; a meno che si dovesse ancora stabilire o quantificare la pena pecuniaria “litis aestimatio”, oppure si sporgesse dall’accusato una controquerela all’accusatore per diffamazione e calunnia. In questo caso, l’accusatore, se riconosciuto colpevole, veniva bollato in fronte con un marchio a fuoco a forma di C (“calumniator”) e perdeva l’onore. Detto marchio era definito “nota turpitudinis”, oppure “iniusta litterarum nota”.
Non era prevista né era possibile l’abrogazione della sentenza; solo le condanne capitali, per il diritto di appello al popolo, dovevano essere approvate dai Comizi Centuriati. Così pure era sconosciuto il diritto di grazia; ma talvolta per vicende politiche interveniva all’amnistia (come per gli uccisori di Cesare) o il richiamo dall’esilio (come per Cicerone).
Per primo l’imperatore Augusto poté ottenere di intervenire con il suo voto (“calculus Minervae”) in favore del condannato, quanto per la condanna vi fosse stato appena un voto di maggioranza; riportando alla parità i voti pro o contro la condanna, l’imperatore faceva assolvere il reo.
Le pene
Le pene potevano essere:
-“multa vel damnum”, ammenda che andava da un massimo di due pecore e 30 buoi a un minimo di una pecora;
-“vincula”, prigioni con catene, ceppi e manette; a Roma esistevano anche prigioni a cielo aperto, chiamate “Latomie“, come quelle famose di Siracusa;
-“cratis”, graticcio posto sul capo dei malfattori e riempito di pietre;
-“verbera”, bastonature, vergate, flagellazioni;
-“talio”, taglione, pena uguale in tutto all’offesa;
-“damnatio ad ludum gladiatorum”, consistente nella condanna a lottare, nel Circo, con i gladiatori per tre anni;
-“ignominia aut infamia”, che comportava la perdita dei diritti civili; nel Foro Romano c’era una colonna detta “Moenia” (in ricordo di Gaio Menio vincitore nella guerra contro Anzio) alla quale si affiggevano i nomi di coloro che erano stati condannati all’”infamia” per debiti;
-“exilium” o “deportatio” o “interdictio acquae et ignis”, esilio; l’esiliato o il deportato, a volte, in un’isola remota o deserta, perdeva anche tutti i diritti civili, il diritto di fare testamento ed diritti patrimoniali;
-“relegatio”, condanna più mite dell’esilio; il condannato conservava tutti i diritti civili e patrimoniali, ma aveva l’obbligo di dimorare in una località sita ad una certa distanza da Roma;
-“servitus”, schiavitù;
“ad metalla”, ai lavori nelle miniere e nelle cave. Sotto l’impero le miniere di ogni provincia, dove oltre ai galeotti lavoravano anche schiavi, erano considerate proprietà esclusiva dell’imperatore ed i proventi delle stesse confluivano tutti nel “fiscus” che era la cassa privata del principe.
Ma la pena più grande era la condanna a morte, cioè:
-la “mors ad glaudium”, uccisione eseguita con la spada;
– la “amputatio capitis”, la decapitazione;
– “suspendium”, l’impiccagione;
– “supplicium triumviralis”, lo strangolamento;
– “vivicomburium”, supplizio ad essere bruciato vivo;
-“ad culleum”, pena riservata ai parricidi che, cuciti vivi entro un sacco di pelle di lupo, venivano gettati nel Tevere;
-“sepoltura” da vive per le Vestali;
-“paena crucis” la crocifissione;
-“rogo” per i Cristiani;
-“ad bestias”, alle bestie nelle arene per i Cristiani. Le condanne a pene capitali o corporali venivano eseguite dal boia (“extensor” o “battuator”). I cadaveri dei giustiziati nel carcere (“carcer”) Mamertino, venivano trascinati con uncini sopra una scalinata naturale e si stende sulla pendice al nord-ovest del Campidoglio e poi gettati nel Tevere. Nei sotterranei delle carceri di Stato, a Roma, fatte costruire dal re Servio Tullio, esisteva una orribile segreta (chiamata “Tullianum”), ove si rinchiudevano e giustiziavano e rei colpevoli di gravi delitti politici.
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SCHIAVITU’
I nati da madre schiava e tutti i prigionieri di guerra erano schiavi.
Schiavo era il ”servus” . Il diritto romano faceva una netta distinzione fra uomini socialmente “liberi” e socialmente “servi”.
Gli schiavi erano proprietà assoluta del padrone, destinati alle fatiche nei campi o ai servizi della casa e dei cittadini romani; potevano essere venduti o uccisi. Potevano anche essere fatti liberi (“liberti”). La loro condizione di vita dipendeva in tutto dalla mitezza ed umanità o dalla severità e ferocia del padrone. Molti erano trattati durissimamente, abbrutiti dalla avidità e dall’egoismo del padrone, oppressi in ogni maniera, incatenati, tormentati e mutilati anche per trastullo; tanto che in alcune regioni, spinti dalla disperazione si ribellarono unendosi in bande dedite al brigantaggio, oppure organizzandosi in bande armate o veri eserciti e combatterono eroicamente contro le legioni romane che, dopo varie sconfitte, riuscirono a domarli. Lo schiavo Euno in Sicilia, con 200.000 schiavi nel 131 a.C., e Spartaco dal 73 al 71 a.C., con120.000 uomini capeggiarono due grandi insurrezioni che crearono un serio pericolo per la Repubblica.
Non è dato conoscere con esattezza il numero degli schiavi fatto nel corso e per effetto delle guerre di conquista. Sembra essere certo che già nel 150 a.C. circa a Roma soltanto ci fossero tre schiavi per ogni uomo libero. Quando fu conquistato l’Epiro 150.000 abitanti di quel paese furono venduti come schiavi.
Nell’isola greca di Delo, divenuta emporio del commercio degli schiavi, in un solo giorno furono venduti e imbarcati per l’Italia, 10.000 schiavi. Da Cartagine furono inviati 50.000 prigionieri di guerra. A tutti questi sono da aggiungere i prigionieri fatti con la conquista della Siria, della Macedonia, dell’Illiria, della Grecia e della Spagna.
Lo schiavo non aveva patria, non aveva anima, né personalità giuridica: era considerato una “res” (=una cosa), non un uomo. Dalla legge è pareggiato ai quadrupedi, e uccidendolo se ne doveva pagare il valore, come uccidendo una bestia. Era uno strumento vocale messo insieme col bue, col cavallo, col cane, col mulo, con l’aratro e con gli altri arnesi di villa. Era mercanzia che si vendeva nella pubblica piazza. Era una proprietà del padrone, a cui tutto era lecito: poteva egli infatti, a suo capriccio, straziarlo, mutilarlo o ucciderlo. Per il padrone lo schiavo lavorava e faceva figli. Qualunque cosa facesse il padrone ad esso, doveva ritenersi giusta e consentita.
Nel mondo romano anche la maggioranza degli intellettuali riteneva la schiavitù come una necessità sociale, utile allo Stato, e nessuno ha osato mai combatterne apertamente la enormità. Solo la innovatrice dottrina sociale del cristianesimo, basata sull’uguaglianza degli uomini, decisamente combattè, fino quasi alla eliminazione, il fenomeno della schiavitù.
I padroni stavano sempre in attenta guardia contro gli schiavi con leggi, prigioni, carnefici, torture e patiboli.
Molti schiavi morivano legati in un pozzo, o attaccati ad una colonna, o ad una forca, o appesi ad una croce, o abbandonati in terra, con i piedi, mani, naso, labbra tagliate, o sospesi in aria per essere pasto di animali rapaci. Molti mandati alle “latomie” (carceri all’aperto) con i fianchi stretti da grossi ferri, o al mulino a girare la macina, ove con la pelle livida per i colpi di frusta, il dorso pieno di piaghe, i piedi in catene, la fronte con impresso un marchio a fuoco, davano di sé un orribile e ripugnante spettacolo. In caso di morte misteriosa del padrone, se non si poteva scoprire l’omicida, tutti gli schiavi della famiglia, per antica legge, erano mandati a morte.
Per futili motivi, si mutilavano gli schiavi o si infliggevano loro crudeli pene e supplizi: si dice che un certo Vedio Pollione li gettasse in pasto alle murene per far divertire gli amici. Anche l’imperatore Augusto, noto per la sua moderazione e clemenza, fece impiccare all’albero della nave uno schiavo che per negligenza, aveva fatto morire una sua quaglia.
Anche la matrona romana si mostrava severa e crudele con le schiave a servizio della casa, addette all’abbigliamento della padrona, ad adornarne la persona. Se le coglieva in fallo o perché negligenti nel lavoro, le puniva di propria mano con la frusta. La matrona, nei momenti di collera o di impazienza, scagliava contro di esse qualsiasi oggetto disponibile, le graffiava il volto con le unghie, straziava le loro braccia come spilli e pettini o, fattele sospendere per i capelli ad una porta, le faceva frustare da carnefici pubblici.
Nello stato di schiavitù si poteva cadere:
1)- per debiti (“servus addictus”). Nella Roma antica il creditore poteva ridurre allo stato di schiavitù il debitore insolvente, già condannato dal pretore lo poteva trascinare a casa sua, legarlo con catene pesanti 15 libbre (circa 5 kg) e nutrirlo con una sola libra (gr 327,45) di farro al giorno. Aveva però l’obbligo, nei 60 giorni successivi, di condurlo a tre mercati consecutivi, ove illustrava ad alta voce la situazione del debitore incatenato e la somma di cui era debitore.
2)- per essere stati fatti prigionieri di guerra.
3)- per essere stati catturati dai pirati, i quali depredavano i prigionieri di ogni bene e li vendevano ai mercati degli schiavi.
Nell’antica Roma erano pochi gli schiavi e le famiglie patrizie ricorrevano ai servigi dei plebei (“clientes”), i quali come contropartita ricevevano il possesso precario di terre. A seguito di vittoriose guerre di conquista, i Romani fecero molti prigionieri di guerra, ridotti poi allo stato di schiavitù. Negli ultimi secoli della Repubblica nei primi secoli dell’Impero grandissimo fu il numero degli schiavi in Roma . Essi venivano anche comperati da commercianti, in Grecia e nell’Asia Minore e rivenduti a Roma.
I principali mercati erano l’emporio alla foce del fiume Tanai (oggi Danubio) e, per l’Asia Minore la Grecia, quelli di Efeso, di Samo, di Atene e di Delo, ove si vedevano più di 10.000 schiavi in un solo giorno.
Durante i mercati veniva posta una corona (da qui l’espressione “sub corona”) sulla testa degli schiavi in vendita per distinguerli dagli altri che non si vendevano; anticamente la corona veniva posta sugli schiavi in vendita con garanzia che erano esenti da difetti, e sulla testa di alcuni il ”pileus” (= berretto di feltro) di forma ovoidale o conica a significare che non erano garantiti.
Al mercato degli schiavi c’era un palco (“catasta”), oppure una piattaforma (“mensa”), sopra i quali gli schiavi e venivano esposti, a volte con i piedi dipinti di gesso (“gypsati”) o di creta (“pedes cretati”) per quelli provenienti d’oltremare; al loro petto veniva appesa una tavoletta con la indicazione della loro abilità; venivano esposti completamente nudi, soprattutto le schiave per esporle agli sguardi dei compratori e della folla curiosa.
Il mercante di schiavi più abile, chiamato “mango”, era quello che sapeva rendere più avvenente il volto e le fattezze degli schiavi e mascherarne i difetti e l’età, per ricavarne un prezzo più alto.
Appena acquistati al mercato gli schiavi erano appellati “novicii” (=novelli).
A volte gli schiavi venivano contrassegnati con lo “stigma” (un marchio impresso con ferro rovente), utilizzato anche su uomini liberi macchiatisi di gravi reati, come segno di infamia.
La sovrabbondanza di uomini ”servi” ed il lusso sfrenato dei ricchi fecero sì che quasi tutto il lavoro degli uomini “liberi” venisse svolto dagli schiavi.
“Capsarius” era lo schiavo addetto alla custodia dei vestiti nei bagni pubblici.
“Diaetarius” era lo schiavo addetto al servizio delle camere.
“Cubicularius” era lo schiavo addetto alla camera da letto.
“Cursor” era quello che correva avanti alla carrozza o la lettiga dei ricchi e dei potenti facendo da battistrada.
“Pronus” era lo schiavo addetto alla custodia e sorveglianza di tutti i luoghi ove erano conservati i cibi.
“Cistellatrix” era la schiava addetta alla custodia di arredi ed oggetti di abbigliamento.
“Tractor” era lo schiavo che aveva il compito di fare massaggi al padrone.
“Nomenclator” era quello che, quando il suo padrone usciva, particolarmente con lo scopo di acquistare voti per l’elezione in una carica pubblica, gli diceva il nome di coloro che incontrava, ed in casa doveva conoscere i nomi di tutti i numerosi schiavi.
“Carnifex” era lo schiavo pubblico che in Roma eseguiva quelle pene che si infliggevavano soltanto a schiavi o stranieri, specialmente quella crudelissima della flagellazione o della tortura, che precedevano l’esecuzione capitale. Come giustiziere eseguiva le condanne specialmente la crocifissione.
Nelle grandi città il fenomeno della schiavitù era diffuso come a Roma, mentre quasi nullo nelle campagne e nelle lontane province. Negli ultimi secoli dell’Impero Romano, cessate le grandi guerre di conquista, e quindi le grandi retate di prigionieri, si verificò un livellamento del mondo romano a quello delle province, e di conseguenza la schiavitù diventò sempre più rara. Ad una sua più rapida scomparsa ha contribuito in modo significativo l’insegnamento della dottrina cristiana, basata sull’eguaglianza degli uomini.
Quantunque così degradati, gli schiavi, conservavano nei loro animi il sentimento del giusto e del vero, sopportando con paziente rassegnazione le loro sciagure o protestando di sentirsi uomini al pari dei loro tormentatore, attribuendo ad un fato ostile la loro miseranda condizione.
Gli schiavi avevano un solo nome e questo spesso era collegato al nome del paese di origine: “Aegypta” se proveniente dall’Egitto; “Cappadox” se proveniente dalla Cappadocia; “Syrus” se proveniente dalla Siria ecc; oppure veniva loro dato il nome di eroi o grandi antichi: “Homerus”, “Aiax”, “Achilles”, “Ulyxes” ecc.; oppure nome di metalli, di pietre, di piante,ecc.: “Amiantus”, “Sardonix”.
Quando venivano affrancati, per l’impegno o lo zelo prestato in servizi pubblici presso una colonia o un Municipio, prendevano come appellativo il nome della città che le aveva affrancati: “Pisaurus Homerus” (da Pisaurum, odierna Pesaro, allora facente parte dell’Umbria).
I libertini (schiavi affrancati) portavano il prenome ed il nome del loro liberatore: es. il liberto di Cicerone venne chiamato “Marcus” (prenome) “Tullius” (nomen) “Tiro” (era era il nome originario dello schiavo).
Strumenti di tortura per gli schiavi erano:
-la “furca” (forca), a forma di una V rovesciata, che premeva sulla nuca, sulle spalle, mentre le mani erano legate alle estremità dei due pali.
-”eculeus” o “equleus”, (diminutivo di “equus” =cavallo), specie di cavalletto di legno.
-“crux” (croce) sia per impalare gli schiavi che per impiccarli. Particolarmente usata per crocifiggerli. Essa era a forma di T oppure a forma di croce, oppure a forma di X. Spesso ai piedi delle persone poste in croce, veniva attaccato un peso (“appendium”), per aumentare l’intensità delle sofferenze.
-“taeda” (fiaccola), costituita da pezzi di legno resinosi posti intorno al corpo dello schiavo ed accesi.
-“forceps” (tenaglia), con cui venivano strappate le unghie o pezzi di carne.
-“flagellum” (frusta) un manico di legno a cui erano attaccate funicelle con nodi o con punte metalliche, usata anche per fustigare i malfattori. Il “flagellum” procurava più dolore della “scutica” o “habema” (staffile con striscie di cuoio) e della “ferula” (bastoncino di legno). Per per perfezionarsi nell’uso della frusta i romani frequentavano e si esercitavano in un apposito campo chiamato “Gymnasium flagri”.
_ “laminae ardentes”: lamine di ferro incandescenti con le quali si torturavano gli schiavi.
-“lorum”, frusta con strisce di cuoio ritorte o intrecciate. “Lorarius” era chiamato lo schiavo addetto a frustare gli altri schiavi, talvolta fino alla morte (“usque ad necem operire loris = coprire di percosse fino alla morte). Durante la fustigazione agli schiavi veniva messo un collare (“columbar” o “numella”) per tenerli fermi.
-“puteus”, pozzo o prigione sotterranea, ove, spesso, si lasciavano morire di sete e di fame.
– “catasta”, letto di tortura, sotto cui si accendeva il fuoco.
– “”patibulum”: strumento di tortura per schiavi e malfattori; specie di forca posta al collo del condannato, le cui mani si legavano o si inchiodavano alle estremità. Con questo strumento addosso, un individuo, destinato alla morte sulla croce, veniva condotto sul luogo del supplizio e tirato in alto sul palo (crux), dimodoché il “patibulum”, quando era inchiodato al palo, formava la traversa della croce.
Bastava che il padrone pronunciasse le parole :”Capital est! (=merita la morte) che, senza indugi, il malcapitato, la morte o previa tortura, o più celermente per strangolamento o altro mezzo, ce l’aveva garantita.
Se la condanna era più mite, poteva evitare le torture con uno degli strumenti sopradescritti, ed essere condannato a girare la pompa dell’acqua (= “in antiliam condemnatus”), o a girare la macina del mulino.
Gli schiavi venivano ingiuriati con vari epiteti: “fugitivus” (= che scappa), “glaber” (=glabro, pelato, fatto radere perché avesse un aspetto muliebre).
Per l’alimentazione degli schiavi i Romani non spendevano molto, davano ad essi una scarsa razione giornaliera (“diarium”) di cibo oppure destinavano ad essi gli avanzi delle loro mense. Gli schiavi, in una famiglia patrizia, erano alloggiati in casupole site nei pressi della grande casa signorile, nelle vicinanze delle stalle dei cavalli, ove svolgeva la sua opera lo stalliere (“agaso”).
Gli schiavi potevano avere figli che, naturalmente, nascevano con la qualifica di “servi” ed erano di proprietà delle “dominus” della famiglia patrizia. I nati da una schiava erano chiamati “vernaculi” o”vernae”, talvolta trattati un po’ meglio dai padroni.
Gli schiavi, a loro volta, potevano possedere schiavi, chiamati ”vicarii”.
Talvolta, o per pietosa benevolenza, o per senso di umanità da parte del padrone, oppure per l’alta fedeltà dimostrata o per particolari benemerenze, lo schiavo veniva affrancato con un particolare rito, la “manumissio”. All’atto dell’affrancamento lo schiavo veniva fatto girare su se stesso e il padrone, simbolicamente, gli dava un piccolo schiaffo (“alapa”). Gli schiavi affrancati assumevano la qualifica di “liberti” o “libertini”.
Agli inizi dell’impero il numero degli schiavi affrancati era talmente elevato, in Roma, che Ottaviano Augusto, per scongiurare il pericolo di una prevalenza numerica di questi sul numero dei cittadini romani, fece apposite leggi per regolamentare la “manumissio”. Questa era ”manumissio iusta” o “manumissio iniusta”.
La “manumissio iusta” poteva essere concessa con tre diverse formalità da rispettare:
a)- La prima poteva aver luogo davanti al magistrato (apud quem legis actio est), richiedeva l’intervento del “manumissor” (affrancatore), del “manumittendus” (colui che sarebbe stato affrancato) e dell’”adsertor in libertatem” (colui che afferma che debba essere concessa la libertà). Quest’ultimo pronunciava la formula: “Hunc ego hominum liberum esse aio, secundum suam causam, sicut dixi, ecce tibi vindictam imposui !” (Ora dico che tu puoi essere un uomo libero, secondo le sue ragioni, così gli ho detto, eccoti chi ho toccato con la bacchetta!). Quindi il padrone, tenendo fra le mani il capo del servo , pronunciava la formula: “Hunc hominum liberum esse volo !” (Ora voglio che tu sia un uomo libero !”), Poi lo rilasciava. Questo atto si chiamava “iuris cessio” (concessione del diritto alla libertà). Infine il magistrato prendeva atto ed aggiudicava (“addicebat”) la libertà.
b)- La seconda forma di “manumissio iusta” si compiva col fare iscrivere il nome del servo da censore “censor” nell’elenco dei cittadini romani in occasione del censimento, era detta ”manumissio censu”.
c)- la terza forma si faceva per testamento e consisteva nella disposizione, contenuta nel testamento del “dominus”, espressa in termini chiari ed imperativi, che alla sua morte il servo diventi libero.
Fin dagli ultimi secoli della Repubblica i padroni usarono forme anche meno solenni ed ufficiali per esprimere la loro volontà di voler affrancare un servo; con la “manumissio minus iusta” si faceva, con una dichiarazione, solo alla presenza di amici (“inter amicos”).
Gli schiavi fatti liberi dedicavano le catene agli dei Lari.
Alcuni schiavi furono famosi nell’antichità, anche se per motivi diversi, e i loro nomi ancora oggi vengono ricordati:
-Andriscus= Andrisco, schiavo di origine oscura, il quale sotto il nome di Filippo (quindi chiamato falso Filippo = Pseudophilippus), si spacciò per figlio di Perseo, re della Macedonia e suscitò contro i Romani la 3^ guerra macedonica, la quale finì nell’anno 147 a.C. con la riduzione della regione in provincia romana ad opera di Metello, il cui trionfo Andrisco seguì come prigioniero di guerra.
-Androclus = Androclo, il quale, nelle nella sua fuga, nel deserto, sanò la zampa di un leone; più tardi, catturato e condannato alle belve, fu riconosciuto da accarezzato dal leone, un tempo da lui curato, che casualmente era tra le belve del Circo.
-Spartacus = Spartaco. Schiavo che fuggito, insieme ad altri 70 compagni traci da una scuola per gladiatori di Capua, riuscì a formare, nel 73 a.C., col concorso di altri schiavi fuggitivi, un poderoso esercito di circa 120.000 uomini. Avidi di bottino e desiderosi di vendetta per le sevizie sofferte, saccheggiarono l’Abruzzo e la Campania. Si diressero verso settentrione con lo scopo di superare le Alpi e fare ritorno in Oriente. Spartaco fu costretto dai suoi seguaci, avidi di preda, a tornare indietro e dirigersi verso Roma per muovere alla sua espugnazione. Roma mandò contro di lui vari generali, che vennero tutti sconfitti. Nel 71 a.C. il console Licinio Crasso, con sei legioni, nei pressi del fiume Silaro (oggi Sele), inflisse una dura e definitiva sconfitta a Spartaco, il quale, combattendo con coraggio e da eroe, cadde valorosamente in battaglia da uomo libero e soldato d’onore, lodato ed ammirato dagli stessi Romani. Moltissimi suoi seguaci, fatti prigionieri, furono crocifissi lungo la via Appia.
La schiavitù, intesa come sottomissione e subordinazione di uomo ad un uomo, anche dopo l’avvento del cristianesimo, presso i Romani, continuò ad esistere.
Comportamenti meno crudeli dei padroni e leggi meno rigide, col passare dei secoli, regolarono l’esistenza di quanti, per motivi diversi, furono costretti allo stato servile.
Agli inizi dell’impero si costituirono ceti sociali chiusi, associazioni e corporazioni ereditarie di arti e mestieri, dalle quali il singolo non potevo uscire senza incorrere in gravi pene; come i “servi fisci” (operai che lavoravano nelle fabbriche dello Stato).
Dal 3° secolo d. C. compare l’istituto del “colonatus” (colonato, condizione di colono), la cosiddetta servitù della gleba, in base alla quale i coloni addetti alla lavorazione della terra non potevano abbandonare il fondo a cui erano addetti. Il padrone del fondo aveva su di essi potere disciplinare: poteva fustigarli o metterli ai ceppi. Il vincolo che legava il colono alla gleba non consentiva al padrone di poterlo affrancare, come era possibile per gli schiavi con la “manumissio”; ma se voleva liberarlo gli doveva cedere in tutto o in parte il fondo; oppure, poteva liberarlo, offrendolo al servizio militare o agli ordini religiosi.
Anche con la caduta dell’impero romano e nel corso dei secoli, fino all’era moderna, la schiavitù non è mai scomparsa; e, sicuramente, mai comparirà, a causa della crudele ed insaziabile ingordigia insita nella stessa natura dell’uomo, giustamente definito “la bestia più feroce fra le bestie feroci”.

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I GLADIATORI
La prima scuola per gladiatori, in Roma, chiamata “Ludus Emilianus”, fu fondata da P. Emilio Lepido nel 180 a.C.; successivamente ne sorsero molte altre, fra cui, famosa era quella di Capua.
Nelle scuole, ovvero nelle palestre di addestramento, i gladiatori erano obbligati al rispetto di una disciplina ferrea; venivano, però nutriti con cibi abbondanti e sostanziosi. “Gladiatores Hordeari” erano chiamati quelli nutriti con orzo; fra di essi, anche se raramente, si addestravano anche donne gladiatrici.
A capo della scuola vi era un ”lanista” (= istruttore). “Lanista” era anche chiamato quello che puniva i gladiatori posti uno di fronte all’altro per il combattimento, istigandoli alla lotta.
I “ludi gladiatorii” erano talvolta collegati con istituzioni di ordine penale. Presso i Romani fra le pene da poter infliggere ai rei era prevista la pena “ad gladium” e la “damnatio ad ludum gladiatorium”; con la prima il condannato andava incontro a morte certa. Con la seconda poteva anche salvarsi; egli doveva scendere nell’arena e combattere con i gladiatori o con altri condannati, se usciva vincitore poteva esercitare la professione di gladiatore.
Trascorso un triennio di vittorie, il gladiatore riceveva in dono il “rudis” (bastone), che lo abilitava ad essere maestro dei gladiatori. Dopo aver prestato servizio per altri due anni nel Circo, riceveva il “pileus” (berretto) che era il segno della riacquistata libertà.
Tanto amati e seguiti erano i “ludi gladiatorii” da parte dei Romani, che il Circo, dove avevano luogo, alla presenza delle più alte autorità dello Stato o dell’imperatore poi, era sempre stracolmo di spettatori. Cicerone, nel 63 a.C. fece approvare una legge “de ambitu” (leggi intorno al broglio elettorale) la quale, severamente vietava di allestire spettacoli gladiatori a coloro che entro due anni avessero voluto presentarsi come candidati ad una carica pubblica. Era, fra i Romani, un mezzo sicuro per procacciarsi voti a favore. La legge, però, consentiva ai futuri candidati di organizzare detti giochi solo nel caso che fossero a ciò obbligati per testamento; ciò per la convinzione che il sangue versato nei giochi gladiatori servisse in suffragio del morto, al cui onore i “ludi” si celebravano; infatti nel “funus ” (solenne funerale dei ricchi o di personaggi importanti), talvolta, in loro onore, presso il sepolcro venivano fatti “ludi glaudatorii”.
Il programma di uno spettacolo con gladiatori era detto “munerarius”.
I gladiatori erano di diverse categorie, a seconda della particolare lotta che dovevano sostenere e delle particolari armi usate:
-“Samnites” = Sanniti. Detti anche “provocatores”(= provocatori), per la foga che gli mettevano nell’attaccare l’avversario; infatti essi non combattevano a piede fermo, ma volteggiavano attorno all’avversario e lo attaccavano aizzandolo. Tra i gladiatori erano i meglio armati, con armi sannitiche (da cui il loro nome).
-“Mirmillones” = Mirmilloni. Muniti di scudo ed armati con coltelli affilatissimi, portavano un elmo gallico ed un cimiero con la figura di pesce (da cui il loro nome); di solito combattevano contro i ”Thraces” o contro gli “Retiarii”.
-Retiarii” = Reziari. Combattevano muniti di una rete (da cui il loro nome), con la quale tentavano di avvolgere la testa dell’avversario e così trascinarlo a terra per poi ucciderlo col tridente (“fuscina”). Se il reziario non riusciva a gettare addosso all’avversario la sua rete, doveva fuggire dinanzi all’inseguitore (“secutor”). Tiravano in aria il loro tridente per dimostrare poi la loro abilità nel riprenderlo. Vestivano un abito smagliantissimo: tunica rossa, calzature celesti, un casco dorato con lucente pennacchio.
-“Secutores” = Inseguitori. Gladiatori che, armati di elmo, scudo e spada, combattevano contro i “reziari”, inseguendoli.
-“Laquearii”. Gladiatori subentrati ai ”Retiarii”. Erano armati con una spada corta ed un laccio o catena (“laqueus”), appositamente preparati per afferrare e trattenere l’avversario.
-“Thraces” = Traci. Così chiamati perché combattevano con le armi usate dai Traci, cioè con la “sica” (coltello a lama corta e ricurva) e con la “parma” (piccolo scudo rotondo).
– Essediarii” = Essediari. Gladiatori che combattevano da sopra un carro (“essedium”), tinto di verde.
-“Bestiarii” = Bestiari. Gladiatori che combattevano contro le fiere. Combattevano, di solito, al mattino, contro bestie feroci. Normalmente erano condannati a morte o schiavi fuggiti da catene. Alcune scuole per gladiatori presentavano i “bestiarii”, scelti fra i più belli, tutti nudi, tutti imitanti, nel loro atteggiarsi, le movenze di qualche statua classica, tutti salutati dal popolo con la più grande frenesia, perché erano i più forti, i più temerari, i più valorosi.
“Equestri” = erano gladiatori che andavano intorno al Circo facendo esercizi di agilità sopra i loro cavalli indossavano corazze a scaglie di ferro, sopra tuniche screziate di vari colori, ricordando le fogge orientali. Portavano monili e braccialetti.
-“Andabata”. Così chiamati i gladiatori che portavano un elmo senza aperture per gli occhi e che, quindi, come fossero ciechi, per diletto degli spettatori, per lo più colpivano in fallo l’avversario.
I gladiatori assai noti per la loro abilità e bravura nella lotta, venivano richiesti a gran voce dal popolo spettatore, erano detti “gladiatores postulaticii” (=gladiatori richiesti).
Quando l’imperatore decideva che fosse ucciso il gladiatore soccombente nella lotta, dava l’ordine facendo segno con la mano destra e col pollice rivolto al suolo (“pollice verso”). Quando tale decisione era, invece, rimessa agli spettatori, erano questi che, tenendo il pollice riverso verso il basso, gridavano a squarciagola: ”Recipe ferrum!” (ricevi il ferro, il colpo mortale).
I gladiatori feriti nella lotta, venivano portati nello “spoliarum” (spogliatoio) dell’anfiteatro e spogliati per verificare l’entità e la gravità delle ferite riportate; se queste risultavano mortali o inguaribili, venivano prontamente uccisi.
I gladiatori uccisi in combattimento, attraverso una porta dell’anfiteatro chiamata “porta libitinensis”, venivano trascinati via dalla arena.
I gladiatori, invece, che riuscivano a sopravvivere a numerosi combattimenti, per la loro bravura, a fine carriera, ricevevano un attestato di benemerenza con la scritta SP oppure SPECT (= eccellente) unitamente ad un bastone (“rudis”).
Se qualcuno preso da paura o mosso da compassione si tirava in disparte, il maestro del circo lo stimolava alla lotta conficcandogli nelle nude carni un ferro rovente.
Il sangue rosseggiante grondava dai loro corpi ed insuppava l’arena. Membra mutilate, ventri squarciati, singhiozzi di agonia, gemiti di moribondi, volti contraffatti dalla imminente morte, estremi sospiri insieme a lamenti, gridi di rabbia e di disperazione: questo è il grandioso spettacolo tanto gradito dal popolo romano che urlava, applaudiva, s’inebriava, osservava con affannosa attenzione la lotta, provando intenso piacere.
Ecco chi erano i combattenti che infiammavano i cuori della folla, nel Colosseo e negli altri anfiteatri che costellavano l’Impero. Molti erano prigionieri di guerra o schiavi o condannati alla gladiatura per scontare una pena. Non mancavano, però, uomini liberi che sceglievano l’arena per fame di gloria, per mero profitto, rinunciando ai diritti civili in cambio di 2000 sesterzi, destinati a diventare 12.000 in caso di rinnovo del contratto. D’altronde, l’ebbrezza dello scontro armato, di fronte a un pubblico in delirio, era davvero grande per chi aveva più fegato degli altri. Anche un imperatore, l’esuberante Commodo, si esibì più volte nei panni del “secutor” (inseguitore), cioè di colui che si opponeva al “retiarius” (reziario) munito della micidiale rete e del tridente.
A Roma i gladiatori erano soprattutto egiziani, spagnoli, traci, ma anche di altri paesi. Venivano reclutati a 17-18 anni, come i militari, e difficilmente superavano i 30, l’età media di morte della popolazione in epoca imperiale la loro era una esistenza da brivido, fatta di rischi continui, brutte sorprese e allenamenti massacranti. Eppure, non era detto che la loro fine dovesse arrivare per forza nell’arena. I campioni avevano un grande valore economico e la loro perdita procurava danni rilevanti agli addestratori. Si ha notizia di qualcuno che ce la fece addirittura a combattere 40 “pugnae”, raggiungendo un bel record di sopravvivenza.
Ecco che cosa scriveva Cicerone nelle “Tuscolanae” a proposito dei gladiatori: “Quali ferite sopportano i gladiatori, uomini rovinati o barbari! Pensa al modo in cui quelli che sono stati bene addestrati preferiscono ricevere un colpo piuttosto che schivarlo ignominiosamente! Quanto spesso appare come nulla sia loro più gradito del soddisfare il proprio padrone o il popolo. Anche pieni di ferite mandano a chiedere ai padroni quale sia la loro volontà: se sono soddisfatti, da parte loro essi sono pronti a riconoscersi vinti. Quale ha mutato l’espressione ? Quale ha assunto posizioni sconvenienti, non solo nel corso del combattimento, ma anche al momento di sottomettersi? Che, una volta sottomesso, ha ritratto il collo al momento del colpo di grazia?”

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ESERCITO
Roma inizialmente era abitata da rozzi pastori ed agricoltori. I suoi abitanti, circondati da popoli nemici e rivali, sempre dovettero combattere per la propria sopravvivenza.
Per necessità, quindi, le prime bande armate, in un secondo tempo dovettero organizzarsi in piccolo esercito, addestrato al massimo grado negli esercizi militari.
A misura che il popolo romano procedeva nelle sue conquiste, la guerra divenne per esso una vera arte e richiese ordinamenti speciali. Il continuo stato di guerra – da ricordare che il tempio di Giano fu quasi sempre aperto – non permise più che tutta la popolazione partecipasse alla vita militare e si costituì un esercito composto di “stipendiarii” il cui compito era quello di fare la guerra e di aprire la via alla diffusione della civiltà di Roma. Si apportarono. quindi, sempre nuove modificazioni alle armi all’addestramento ed alla disciplina militare, frutto di esperienza.
Il reclutamento dei soldati veniva fatto attraverso la leva militare (=”dilectus” o “delectus” che significa leva, scelta). La prestanza fisica dei futuri legionari era molto importante per i Romani; grandi, infatti, erano le fatiche e le privazioni a cui potevano essere chiamati in caso di guerre lontane. La paura di marce forzate, di digiuni prolungati, di sanguinosi combattimenti, spingeva qualcuno ad amputarsi il pollice per evitare l’arruolamento (denominato poi “murcus” = mutilato, quindi incapace di impugnare la spada). Appena arruolati i soldati prestarono giuramento di mantenersi fedeli alla Repubblica e di adempiere il proprio dovere con apposito rituale chiamato “sacramentum” (= giuramento). La leva poteva fornire un numero di legioni più o meno maggiore a seconda delle necessità del momento. Essa veniva fatta tra i cittadini romani, sotto la direzione dei commissari, che in Italia rappresentavano i consoli, e nelle province o colonie rappresentavano i proconsoli.
L’addestramento veniva effettuato nel Campo Marzio, ove le reclute si esercitavano:
-con la “clava” (bastone più grosso ad una estremità), anziché con la spada vera, contro un fantoccio;
-con con il giavellotto, detto “praepilatus”, perché alla punta dello stesso era applicato una specie di bottone, per renderlo inoffensivo, pressappoco come il nostro “fioretto”.
L’istruzione militare consisteva in svariati esercizi quali: corsa, danza, salto, maneggio del giavellotto e dello scudo ecc; ed oltre a ciò nel nuoto e nelle marce. Tutti questi esercizi si facevano con armi più pesanti di quelle che poi si portavano in guerra, e si eseguivano alla presenza dei capi militari e dei cittadini plaudenti ai più forti ed ai più audaci. Si favoriva con ciò la vigorìa e l’agilità delle membra, si eccitava il sentimento dell’amor proprio nel dare prova del valore personale e di resistenza alle fatiche. Ultimata la preparazione individuale del soldato venivano anche fatte le manovre complessive, quelle del manipolo, della coorte e della legione e si facevano i movimenti di attacco e ritirata come in una vera battaglia.
Anche in tempo di guerra, quando i legionari non erano impegnati col nemico, facevano esercitazioni militari di ogni sorta, formare e fortificare accampamenti, oppure erano impegnati nel realizzare grandiose opere pubbliche (strade, acquedotti, ponti, canali, porticati o altro). Con questa severa educazione militare i Romani si resero superiori a tutti gli altri popoli dell’antichità.
L’ordinamento militare di Roma, attribuito a Romolo, ed ampliato e perfezionato da Servio Tullio è durato fino all’epoca di Mario, e stabiliva che erano obbligati alla milizia tutti i cittadini delle prime cinque classi, cioè tutti quelli che possedevano una certa fortuna (cioè in base al censo), e ne erano esclusi quelli della sesta classe, cioè quelli che possedevano poco o nulla (“proletarii”, la cui unica ricchezza era rappresentata dalla prole) e così pure i servi, i liberti, i forestieri e gli infami.
Dopo Mario (100 a.C.) il censo non servì più come criterio per l’arruolamento nella milizia: furono ammessi anche gli appartenenti alla sesta classe ed in seguito vi furono ammessi, sempre più numerosi schiavi, mercenari e barbari. Così in poco tempo le legioni si composero in maggior parte di “capite censi” (iscritti solo per la persona, cioè i proletari, non soggetti a tassa ma sono censiti per testa), i quali vedevano nel servizio militare una fonte di guadagno, e facevano quindi i soldati per mestiere e non per sentimenti di dovere o attaccamento alla Repubblica; così, in breve tempo, l’esercito cessò di essere il devoto sostegno della patria, per diventare cieco strumento di potere per il comandante che pagava il soldo. Chiari esempi delle gravi e disastrose conseguenze provocate da questa riforma dell’esercito si ebbero nel periodo imperiale quando, intere regioni si ammutinarono, ribellandosi all’imperatore e, sul campo, proclamarono il proprio comandante “imperator” in contrasto con quello di Roma.
L’obbligo del servizio durava dai 17 anni (“aetas militaris”= anno legale per il servizio militare) ai 45 anni “juniores” nell’esercito campale, ed ai 46 ai 60 anni (“seniores”) per il servizio militare dentro le mura.
Nessuno, in via normale, poteva essere ammesso alle cariche pubbliche, se non dopo aver prestato servizio militare almeno per 10 anni.
Particolare curioso da ricordare è il contributo annuale che le donne zitelle erano tenute a versare annualmente per il mantenimento dei cavalli della cavalleria (“aes hordearium” = soldo per l’orzo).
L’unità di formazione tattica dell’esercito romano era la legione (“legio”). Aveva come insegna l’aquila, ad ali spiegate, in oro o alluminio, portata dall’”aquilifer”. Insegna delle regioni era anche l’”aper” (il cinghiale).
L’esercito aveva un comandante generale le coordinava l’operato di tutte le legioni; egli era affiancato da ufficiali chiamati “duciani”. Con essi e con i comandanti delle legioni veniva fatto il “consilium militare” (consiglio di guerra), e predisposti i piani di battaglia.
Comandante della legione erano i Tribuni Militari (“Tribunus militum”). Essi erano in numero di sei per ogni legione e si alternavano nel comando in modo che due di essi lo mantenevano per due mesi: comandando un giorno uno è un giorno all’altro. Dopo il 207 a.C., essi venivano eletti dal popolo e scelti fra le grandi famiglie senatoriali equestri. Delle due legioni di ciascuno dei consoli, una riceveva quattro tribuni di età avanzata e due giovani, l’altra tre anziani e tre giovani.
Ogni legione redigeva una specie di giornale (“acta militaria”) ove venivano registrati i fatti più importanti.
La legione si componeva per lo più, almeno originariamente, di 3600 uomini circa, quasi mai di numero inferiore, divisi in tre categorie: 1200 “hastati”, 1200 “principes”, 1200 ”triarii”, tutti armati alla pesante:
-“hastati”, armati di lancia (=hasta), in battaglia formavano la prima linea. Erano divisi in 10 manipoli di 120 uomini ciascuno (= a 20 centurie di 60 uomini). Il centurione della prima compagnia degli “hastati” era chiamato “primus hastatus”.
-“principes” erano originariamente i soldati della prima linea, successivamente con pesante armamento furono posti in seconda linea. I loro manipoli erano come quelli degli “hastati”. Per ogni manipolo di “principes” vi era un centurione chiamato “prior” se della 1^, centuria ”posterior” se della 2^ centuria; “tertius” se della 3^ e così via.
-“triarii” che erano i più anziani e provetti soldati della legione che nella battaglia formavano la terza linea (di riserva). Il loro manipolo era costituito da 60 uomini. Stavano piegati in ginocchio, dietro gli “hastati” ed i “principes”, e, quando questi si trovavano in difficoltà, si alzavano e combattevano (da ciò il detto “res ad triarios redit = la cosa è giunta agli estremi).
La “cohors” (coorte) era la 10ª parte di una legione costituita da 3 manipoli o 6 centurie. Il nome “manipulus” (manata o fastello di fieno) deriva dal fascio di fieno che ai tempi di Romolo veniva portato come insegna dal manipolo dei soldati.
Oltre la legione, l’esercito romano, aveva:
-un corpo di fanteria (i cui soldati venivano chiamati “velites”, composto da 1200 uomini circa, armati alla leggera, divisi in 30 gruppi di 40 uomini,che collocati al di fuori dalle file regolari della legione, molestavano il nemico con rapidi attacchi, stormeggiavano sul fronte lanciando pietre e giavellotti; provocavano in vari modi il nemico, appiccando così la battaglia, poi si ritiravano. I tre ordini dei legionari frattando restavano immobili e disposti nelle lore linee: gli “hastati” ed i “principes” in piedi, i “triarii” con un ginocchio a terra, con lo scudo innanzi in modo da coprire tutta la persona, con i “pili” (giavellotti) appoggiati a terra, con la punta in alto, simili a palizzate piantate davanti al fronte della linea. Attaccata la battaglia i “velites” si ritiravano sui fianchi o dietro i “triarii”. Gli “hastati”, allora, correvano all’assalto, gridando; arrivati a circa dodici passi dalla linea nemica scagliavano un primo giavellotto, tenendo il secondo come riserva per difendersi dalla cavalleria nemica. Quindi, estratta la daga (spada corta e larga a due fili) combattevano come i gladiatori; nello stesso tempi i “principes” li seguivano impedendo al nemico di entrare negli intervalli della prima linea.
Se il primo attacco non riusciva e gli “hastati” erano costretti a retrocedere, erano i “principes” che prendevano il loro posto sostenendo da soli l’urto del nemico, oppure formando una sola linea con agli “hastati” tornavano all’assalto. Se anche il secondo attacco falliva, entravano in azione, con tutto il coraggio e l’esperienza di una milizia scelta, i “triarii”, mentre i “principes” e gli “hastati” si riordinavano e si portavano in linea con essi, formando una sola grossa schiera di tutti e tre gli ordini.
Quando il nemico prendeva la fuga, veliti e cavalieri avevano l’incarico di inseguirlo. In alcuni casi drappelli di veliti si mischiavano con la cavalleria, e molti di essi, portati in groppa con i cavalieri, saltavano poi a terra per combattere. La legione poteva fare ogni sorta di manovre e combattere perciò ad intervalli, in linea piena od in colonna, secondo i bisogni e le circostanze; il combattimento poteva riprendere vigore sia avanzando che retrocedendo. Lo storico Flavio Renato Vegezio giustamente scrisse: “Fu senza dubbio un dio, che ispirò ai Romani la legione”.
-un corpo di soldati scelti che aveva il compito di difendere l’insegna della legione (“antesignanes = ante signum”), che combatte davanti l’insegna, per la sua difesa;
-un corpo di soldati, che veniva usato, in caso di necessità, come riserva per rinforzare il centro dell’esercito (“subsignani “= che milita sotto le insegne);
– un corpo di soldati utilizzato dietro l’insegna della legione (“postsignani” = dietro l’insegna);
– un corpo di soldati soprannumerari (“accensi”), destinati a seguire l’esercito, per sostituire coloro che cadevano in battaglia, erano chiamati “accensi velati”, perché solo vestiti, ma non armati, se non quando prendevano le armi dei caduti;
-un corpo di “rorari”, soldati giovani, armati alla leggera; di veliti, schierati in campo dietro i “triarii” (3^ linea), facevano ordinariamente il primo assalto contro il nemico, per poi ritirarsi velocemente;
-un corpo speciale di soldati, addetti ai servizi logistici, al comando di un ufficiale “Praefectus fabrorum”); essi prestavano la loro opera per aprire strade, facilitare l’attraversamento di fiumi ecc.;
-un corpo di cavalleria di 300 uomini per ogni legione, chiamato “ala”, suo compito era quello di proteggere, da due lati, la linea dei fanti. L’ala era divisa in 10 turme o squadroni. Successivamente “ala” (circa 500 uomini) venne chiamata una sezione di alleati, composta soprattutto di cavalieri, che aveva come compito specifico quello di proteggere i lati della legione. Qualche volta l’ala degli alleati fu posta a combattere in prima fila. La carica della cavalleria era detta “equestris procella”. I comandanti dell’ala della cavalleria, come il comandante generale dell’esercito, i tribuni militari, in genere avevano in dotazione cavalli bianchi, perché dai Romani sempre ritenuti più forti e più veloci. I Romani non usavano ferrare i cavalli; alla bardatura degli stessi aggiungevano pendagli sul petto e sulla fronte, consistente in piccole borchie a mezza luna;
-un corpo di “alari” che erano milizie fornite dagli alleati che, acquistato il diritto alla cittadinanza romana, partecipavano alle operazioni militari con gruppi di cavalieri o di fanti, chiamati “alari equites” e “alariae cohortes”, o semplicemente “alarii”.
In tempi più recenti, e soprattutto durante l’impero, dell’esercito romano vennero a far parte anche soldati mercenari (“milites aerarii o mercenarii”), così chiamati perché presi al soldo.
Ad opera di Cesare questa ripartizione dell’esercito subì notevoli cambiamenti e scomparve definitivamente la suddivisione in “hastati”, “principes” e “triarii”. Non esisté che la “cohors” composta da 300 o 400 o 500 o 600 soldati. La legione venne così ad essere formata da 10 coorti. A questi contingenti, anche al tempo di Cesare, bisogna aggiungere i contingenti degli alleati (“socii”) che furono di varia entità, secondo i tempi e le necessità.
Ogni legione, dai tempi di Cesare, si schierava su tre file, disponendosi le10 coorti in questo modo:
4^ coorte 3^ coorte 2^ coorte 1^ coorte
7^ coorte 6^ coorte 5^ coorte
10^ coorte 9^ coorte 8^ coorte
cioè: in prima linea quattro coorti distanti fra loro quanto era la lunghezza del fronte di ogni coorte, in seconda linea tre coorti collocate di fronte agli spazi vuoti della prima fila; in terza fila altre tre coorti dietro quelle della seconda fila. Gli spazi vuoti fra le coorti della prima fila, appena iniziata la battaglia, venivano subito soppressi, per cui ogni fila di diveniva ininterrotta.
Qualche volta si schierava la legione in due file per avere maggiore profilo frontale e minore profondità, in relazione al campo di battaglia ed il numero dei nemici da affrontare.
A capo dell’esercito stava il console, o il pretore, o il dittatore, che spesso, tuttavia nominava in sua rappresentanza un “legatus” (luogotenente un primo aiutante del generale). I legati appartenevano all’ordine senatorio e venivano nominati dal Senato.
Normalmente i legati erano 3, ma Cesare, in Gallia, ne ebbe fino a 10. Loro ufficio era quello di comandare una parte dell’esercito, o di sostituire il duce supremo in caso di assenza.
Ogni singola legione era comandata da un “Tribunus militum”, ogni “centuria” da un centurione, ogni “decuria” da un decurione.
La cavalleria era comandata da un “Praefectus equitum”, ogni “turma” o squadrone era comandata da un decurione.
Diventandone così il custode responsabile “Primi pili centurio” o “primipilus” oppure “primus centurio” era chiamato il primo centurione del 1° manipolo della 1^ coorte ed aveva il nome dal “pilus” (giavellotto).
Era il grado militare più alto cui poteva arrivare un centurione, normalmente di estrazione plebea.
Fra i soldati vi erano corpi di:
-“sagittarii”, armati di archi e per scagliare frecce;
-“funditores” (frombolieri), armati di una fionda con la quale scagliavano pietre o oggetti di argilla o di piombo a forma di ghianda (“glans”, di cui alcuni esemplari di piombo sono stati ritrovati a Perugia e ad Ascoli Piceno);
-“preventores” o “antecursores” erano, nell’esercito, gli esploratori; un piccolo drappello di soldati che venivano mandati avanti con il compito di cercare un luogo adatto per costruire un accampamento per l’esercito che seguiva; per aprire una strada, attraversare un fiume, spiare le manovre del nemico e di ispezionare i luoghi.
Al momento della battaglia l’”aquilifer” riceveva dal “primipilus” l’aquila, insegna della legione, diventandone così il custode responsabile. Normalmente l’”aquilifer” era il centurione più anziano fra quelli della 1^ coorte, oppure un soldato scelto fra i più forti e coraggiosi. L’aquila, ad ali spiegate, era d’argento o d’oro e veniva portata sopra una lunga asta (“cuspis”) con la estremità inferiori in ferro al fine di poterla conficcare nel terreno. Salva l’aquila, dopo la battaglia, era salvo l’onore della legione; perdere l’aquila significava coprirsi di disonore; nel qual caso era dovere di tutti cercare di riconquistarla. Qualche volta i comandanti per rianimare la battaglia, strappavano di mano l’aquila all’”aquilifer” e la gettavano in mezzo alle fila nemiche, riconducendo i più animosi e valorosi soldati alla mischia, sospinti dal sentito dovere di riconquistare l’aquila. In caso di estremo pericolo, l’aquila e le altre insegne, venivano riunite in un solo punto.
I “signa” (bandiere, insegne, vessilli), servivano, come le nostre bandiere, da riferimento per riunione dei soldati di un corpo (coorte, centuria, manipolo).
Il “signum” aveva parte molto importante nell’esercito, perché un ordine ai soldati veniva trasmesso dal portainsegne. Col “signum”, infatti, veniva dato l’ordine di mettersi in marcia, di fermarsi, di avanzare, di attaccare il nemico, fare una conversione a destra o a sinistra, assalire da due parti, ritirarsi ecc.
Oltre ai “signa” nell’esercito veniva utilizzata la “bucina” (tromba a forma di corno) per dare presso il generale il segnale (“classicum”) della partenza, dell’attacco e della ritirata ecc., suono che veniva, poi, ripetuto e comunicato più lontanoa dalla “tuba” (tromba) lunga circa 80 cm per la fanteria, “lituus” (tromba ricurva) per la cavalleria.
Dopo il segnale di assalto i soldati, sollevando alte grida, avanzavano di corsa fino a circa 25 metri dal nemico, ove lanciavano tutti insieme i giavellotti, impugnando, poi, subito le spade, per il combattimento ravvicinato.
Finita la battaglia i prigionieri di guerra, per ignominia, venivano, talvolta, fatti passare sotto il giogo (“iugum”), formato da due aste verticali ed una orizzontale. Essi, incatenati e ridotti in schiavitù, se non portati a Roma per il trionfo del generale vincitore, venivano venduti.
La guerra veniva dichiarata gettando, nel territorio nemico l’”hasta ferrata”, specie di grande giavellotto, prima intriso di sangue.
I soldati romani, fino a 349 avanti Cristo non ricevevano alcuna paga o aiuti in natura da parte dello Stato. Erano così costretti a comportarsi come predoni se volevano sfamarsi. Nel 349 a.C., con apposita legge, ai tempi di Camillo, fu stabilito di corrispondere loro una paga giornaliera e provvedere al loro vettovagliamento. Ai tempi di Cesare, mensilmente, veniva data una razione di grano pari a 4 moggia (circa 24 kg) ad ogni fante e ad ogni cavaliere venivano dati 72 moggia di grano (pari a 72 kg) e 42 moggia di avena (pari a 252 kg) per cavallo.
La razione giornaliera di vitto era detta “diarium”. I soldati ricevevano anche una indennità per i chiodi delle scarpe ”clavarium”.
Il bagaglio del soldato detto “sarcina”, era trasportato dai soldati in cima ad un paletto, a forma di forchetta chiamata (”furca”), appoggiato ad una spalla. Il bagaglio era costituito da viveri sufficienti per circa 15 giorni, da paletti da campo, accetta, sega, vanga, arnesi da campo e di utensili per cucinare (“culina”= fornelletto, cucina portatile), il tutto dal peso complessivo di circa 20 kg. Naturalmente prima della battaglia tutti gli arnesi non utili al combattimento venivano deposti ed erano custoditi e sorvegliati dai “colones”, schiavi a servizio dei soldati e degli ufficiali. I “colones” non partecipavano mai alla battaglia.
Al seguito dell’esercito, chiamati “impedimenta” (così definiti perché rallentavano gli spostamenti delle legioni), che erano grossi di carri trainati, da bestie da tiro, carichi di uniformi, macine, tende, armi varie, attrezzature per costruire accampamenti, di ingenti provvigioni per i soldati e per i cavalli; e vi erano anche trainate le grosse macchine da guerra da utilizzarsi negli assedi. Al seguito dell’esercito, chiamato “lixae” (salmerie) si aggiungevano servi (“colones”), arrotini (“samiatores”) che lucidavano ed arrotavano armi, corazzieri (“clibanarii”) che riparavano le corazze.
Lo spostamento delle legioni avveniva a tappe (“iter”= marcia= un giorno di marcia, come misura del cammino percorso). “Iter iustum” era detta la tappa normale di 6 o 7 ore di cammino, pari a circa 25 km al giorno. “Minora itinera” erano le tappe più brevi delle normali “Magna itinera” erano le tappe lunghe circa 30 km. “Maxima itinera” erano le tappe forzate, dunque oltre i 30 km. Ai soldati veniva concesso un giorno di riposo ogni 2 o 3 giorni di marcia. I Romani, come anche i Greci, sollevano misurare la distanza intercorrente fra due località, tenendo conto dei giorni di viaggio impiegati per coprire detta distanza da un buon pedone (che viaggia senza bagagli).
Dopo la battaglia, o durante le lunghe marce di trasferimento, venivano usati grossi carri scoperti a 4 ruote (“clabulares”), ove venivano caricati e trasportati i soldati feriti.
L’attraversamento del fiume veniva fatto con zattere, ponti di barche, ponte di legno, o aiutandosi con l’otre (“uter”) che fungeva da galleggiante.
Tutto ciò che il soldato predava in guerra o risparmiava dalla paga giornaliera costituiva il “viaticum”, il quale veniva depositato in una cassa comune, che di solito veniva portata a fianco dell’aquila, unitamente ai fondi della legione, sotto la vigilanza dell’”aquilifer”, che rispondeva delle somme a lui affidate. Si aveva la massima cura nello scegliere l’”aquilifer” fra persone assolutamente fidate e pratiche di contabilità.
Come segnali distintivi del grado i soldati portavano pelli di bestie feroci, pennacchi e simili, che venivano, però, deposti durante le marce.
Dall’imperatore, dai generali in capo, dai tribuni militari e dai centurioni, veniva portato sul fianco un pugnale (“pugio”), come simbolo di autorità e di potere di vita o di morte.
La continua osservanza di una ferrea disciplina militare abituò i Romani ad una sempre pronta obbedienza, col solo scopo di conservare libera la loro patria e renderla sempre più grande, potente e prosperosa. Infatti rarissimi sono stati casi di diserzione (“trasfugium”) registrati fra i legionari, sempre fedeli alla grande patria e orgogliosi di combattere e morire per essa.
Nei primi secoli della sua storia Roma fa guerra ai popoli vicini che minacciano la sua sicurezza, dando al mondo il più bell’esempio di disciplina e valore militare; successivamente, dopo vinte sottomesse le città vicine, estende il suo potere su tutta l’Italia, allargandolo, poi, su quasi tutte le terre allora conosciute, raggiungendo l’apogeo della sua gloria ai tempi dell’impero.
Corrotta dalle sue stesse conquiste, invasa dalle passioni e dal lusso, comincia a decadere, dando luogo a feroci e rovinose guerre civili.
Il suo ordinamento militare, che gli aveva consentito di compiere grandi conquiste, rimasto inalterato per 6 secoli, viene modificato, creando le premesse che saranno la causa diretta del decadimento della milizia romana e della rapida rovina dell’impero.
Nel periodo della massima espansione dell’Impero Augusto aveva ottimamente provveduto alla sua difesa da assalti esterni guarnendo le province poste ai confini di numerose legioni; ma la istituzione della guardia imperiale formata da 10 coorti di 1000 uomini ciascuna, scelti fra gli abitanti dei paesi vicini a Roma, si rivelò un grave errore. Ai componenti della guardia imperiale (i pretoriani) egli accordò grossi privilegi rispetto ai legionari, dette loro un “diarium” molto più grande; li pose sotto il comando del Prefetto del Pretorio; distribuì 7 coorti nei quartieri intorno Roma e 3 coorti all’interno della città.
I Pretoriani ben presto diventarono tanto potenti e prepotenti da diventare arbitri delle sorti dell’Impero, a tal segno, che invece di difendere l’imperatore spesso l’ammazzarono. Questa sfrenata soldatesca fu abolita da Costantino (323-337 d.C.).
Nel frattempo anche nelle legioni si affievoliva sempre di più la disciplina militare. Mentre le prime legioni erano formate da soli cittadini romani, dalla seconda guerra punica (218-201 a.C.) in poi si consentì l’arruolamento di schiavi, mercenari e stranieri, i quali animati solo dalla convenienza personale, in guerra o in tempo di pace, ovviamente, non si comportavano come i vecchi legionari. Il crescente decadimento della milizia insieme al decadimento dei costumi furono la causa della rapida e ingloriosa fine dell’ Impero d’Occidente. Da Augusto alla caduta dell’Impero diversi imperatori o aspiranti tali e capi militari sono stati trucidati dai propri soldati; legioni che hanno combattuto fra loro sostenendo capi congiurati, legioni che si sono ammutinate contro i loro comandanti.
E così quella fiera milizia che aveva conquistato il mondo alla fine fu soverchiata dalle orde dei barbari e lasciò l’Impero nelle sue mani.
ACCAMPAMENTO MILITARE
L’accampamento romano (“castra”) era costruito su uno spazio quadrato di terreno, ed aveva quattro porte, una per lato:
-“porta praetoria”, che si apriva sul lato del campo rivolto al nemico, così chiamata dalla tenda (“praetorium”) del comandante installata nei suoi pressi; anticamente il comandante era chiamato “praetor”. Questa porta era anche chiamata “extraordinaria”. Vicino ad essa, all’interno dell’accampamento, vi era uno spazio di circa 200 piedi quadrati (mq. 18 circa) utilizzato dai soldati per adunarsi, ascoltare discorsi. Presso di esso si rendeva giustizia, si infliggevano punizioni, si davano onorificenze e si riunivano gli alti ufficiali per il consiglio di guerra.
-“porta decumana”, che si apriva sul lato opposto, così chiamata perché nei suoi pressi si accampava la 10^ coorte di ogni legione.
-“ porta principalis dextera”.
-“porta principalis sinistra”.
Per la installazione dell’accampamento vi era un ufficiale (“praefectus castrorum”) addetto alla scelta del luogo, alla delimitazione dell’accampamento ed alla organizzazione delle opere di costruzione.
La fortificazioni a difesa del campo consisteva in un fosso che si scavava intorno ad esso e in un terrapieno (“agger”), ossia in un rialzo di terra che attorniava il campo, ottenuto con la terra tolta dal fosso. Sopra l’”agger” si ergeva una palizzata chiamata “vallum”, fatta di tronchi di albero biforcuti, detti “cervii”, somigliante alle corna dai cervi (da ciò il nome), chiamati anche “cavalli di Frisia”.
All’interno del campo si piazzavano le tende. Sopra quella del comandante veniva installato il “vexillum” (bandiera rossa) con la quale si dava il segnale di uscita dall’accampamento e di attacco in battaglia.
Nell’accampamento venivano costruiti appositi cassonetti, garette (“vigilaria”) ove le sentinelle (“vigiliae”), alternandosi ogni 3 ore, erano addetti alla sicurezza dell’accampamento, dando l’allarme in caso di improvvisi o di imprevisti attacchi da parte del nemico.
Fra le tende del campo militare vi era un sentiero (“striga”) dove venivano attaccati e governati i cavalli.
Nell’accampamento i soldati dormivano sotto una tenda (“taberna”), in numero di 10, con a capo il decurione (“decurio”). “Contubernales” erano detti i commilitoni alloggiati sotto la stessa tenda.
Nell’accampamento vi era una specie di cantina, chiamata “taberna quintana”, ove i soldati vendevano fra loro il bottino di guerra, si scambiavano oggetti; giocavano ai dadi e ad altri giochi che, proibiti, venivano fatti di nascosto, cercando di non farsi sorprendere dai superiori; cantavano inni guerreschi, un po’ avvinazzati con la “posca” (bevanda di acqua e aceto).
Negli accampamenti, sospese tutte le spedizioni o campagna di guerra, i soldati, anticamente, erano soliti passare l’intera stagione invernale.
Essi erano campi trincerati che, oltre le tende, avevano anche baracche coperte con legno o paglia. Normalmente gli accampamenti venivano costruiti presso una qualche grande città, che così se ne avvantaggiava, risultando protetta contro attacchi di eventuali nemici.
Anche durante la stagione invernale i soldati non venivano tenuti oziosi, ma continuamente facevano esercitazioni militari (“agitatio militaris”), perfezionandosi nell’uso delle armi.
I soldati addetti alla provvista di legna, per uso riscaldamento e per cuocere cibi, erano i “lignatores”; mentre erano chiamati “frumentarii” quelli che si mandavano nelle campagne per raccogliere grano od altri viveri.
La fornitura dei viveri per la legione era affidata a grossi appaltatori o commercianti di viveri; disonesti centurioni, che avevano il compito di trattare l’acquisto, d’accordo con i fornitori, traevano un illecito profitto, speculando sulla quantità e qualità degli elementi forniti, a danno dei soldati che ricevevano razioni meno abbondanti e meno buone (operazione illecita chiamata “stellatura”).
Negli accampamenti venivano divise le prede e di bottini di guerra (“manubiae”). Per agevolare la ripartizione, il bottino normalmente, veniva venduto e la parola venne a significare “denaro ricavato dal bottino di guerra”. La ripartizione veniva fatta a tutto l’esercito; il comandante, quasi sempre, destinava la quota a lui spettante, alla costruzione di un edificio pubblico o ad altra opera di interesse di utilità per la collettività.
ORDINI AI SOLDATI
“Ad arma” all’armi.
“Ad pedes” = giù a terra, ordine ai cavalieri.
“Agmen quadratum”= era l’ordine di marciare a colonne affiancate, che permetteva un rapido spiegamento del fronte in ogni parte, avendo le salmerie nel mezzo.
“Cuneus”= a cuneo, a forma di cuneo.
”De gradu”= a pié fermo.
“Desilite milites” = soldati saltate (dai carri o dalle navi).
“Forfex”= a forbice, a forma di forbice.
“In procintu” = state all’erta, pronti per la battaglia, in piede di guerra.
“Porro Quiriti” = avanti Quiriti.
“Turris”= ordine di disporsi in quadrato.
ARMI DI DIFESA ED OFFESA
I legionari, in battaglia, proteggevano il capo con la “galea” (elmo di cuoio), se armati alla leggera; elmo di bronzo o di metallo “cassis o cassida” per gli altri.
L’elmo era sormontato da un anello per essere appeso sulla spalla sinistra o sul petto durante le marce. Nella parte superiore l’elmo dei graduati era ornato con piume colorate o altro ornamento (“crista”= ciuffo).
Altro strumento usato per proteggere il corpo era lo scudo (“scutum”) in dotazione della fanteria di pesante armamento. Esso era di forma rettangolare, lungo un metro e mezzo e il largo 75 cm. Costruito con due assi di legno unite insieme, ricoperte prima di pelo o di cuoio e orlate di ferro. Altro tipo di scudo, più piccolo, di forma semicilindrica, con rinforzi di ferro, largo 78 cm e lungo 125 cm, provvisto di una sporgenza centrale (“umbo”= bottone,cono), che nella mischia serviva anche per colpire l’avversario, oltre che per far slittare le frecce. Usavano altro tipo di scudo chiamato “cliupeus”, di bronzo, di dimensioni ridotte, di forma ovale o rotonda, incavato. Inoltre usavano la “parmula”, piccolo e leggero scudo rotondo di piccole dimensioni e la “pelta”, piccolo scudo a forma di mezzaluna; oppure la “cetra”, piccolo e leggero scudo di cuoio. Durante le marce gli scudi venivano avvolti con una copertura di cuoio (“tegimentum”), che veniva tolta prima della battaglia (“scutis tegimenta detrudere”). In battaglia, quando gli scudi erano accostati fra di loro o parzialmente sovrapposti, potevano essere colpiti da un giavellotto (“pilum”), che avendoli forati tutti e due, riusciva a tenerli uniti, allora l’asta di legno del giavellotto, col peso, piegava la punta dello stesso, rendendo inutile l’uso degli scudi, anzi di impaccio per i soldati, che lo abbandonavano.
Per proteggere il corpo i legionari indossavano la “lorica”, una corazza originariamente di cuoio grezzo, successivamente protetta come scaglie di rame; oppure indossavano una corazza tutta di rame o di bronzo, che copriva il corpo dal collo all’inguine, chiamata “thorax”; usavano anche una specie di corazza, in maglie di ferro, a protezione del cavaliere del cavallo (“catafractes”).
Varie e diverse erano le armi di offesa che i Romani usavano in battaglia:
-la spada (“gladius”). Era una spada corta a due tagli, che poteva ferire di taglio, di lato, o di punta.
-la spada chiamata “ensis falcatus”, molto corta e con la punta rivolta all’insù, usata oltre che dai soldati anche dai gladiatori (così chiamata per la sua forma che accennava alla falce).
-la spada chiamata “ensis”, di forma lunga e che serviva di taglio.
– lunga spada a doppio taglio chiamata “rumpia”.
– “arcus”, l’arco per scagliare le frecce, all’estremità delle quali erano legate penne di uccello per potenziarne e migliorarne la forza direzionale.
Le spade sopradescritte venivano portate attaccate ad una bandoliera (“balteus”) e infilate in un fodero(“vagina”) di legno rivestito di cuoio.
Altra arma offensiva, usate in battaglia era i giavellotto (“pilum”), formato da un bastone di legno, della lunghezza oscillante tra mt. 1,75 e 2,00 mt., dotato di una punta in ferro. Poteva essere lanciato fino alla distanza di 35 mt.
I legionari nell’effettuare l’avvicinamento alle mura assediate effettuavano una manovra militare detta “testudo” (testuggine) consistente nel congiungere gli scudi sopra la loro testa. “Testudo” era anche chiamata la tettoia mobili di legno sotto cui gli assedianti lavoravano al riparo e spingevano nell’ariete contro le porte e le mura; di solito era ricoperto di pelli fresche non conciate a difesa del fuoco.
Le macchine da guerra conosciuti ed utilizzate dai Romani erano:
-“Fala”, torri di legno da assedio.
– “Exostra”, ponte di legno gettato da una torre mobile sulle mura di una città assediata.
-“Falarica”, potente arma da getto, munita all’estremità di un pezzo di ferro lungo tre piedi.
-“Ballista”, grande macchina da guerra foggiata ad arco, tesa con funi e nervi, per lanciare pietre od altri proiettili, spesso montata su un carro.
-“Catapulta”, arma per scagliare oggetti avvolti di stoppa, pece od altro materiale infiammabile.
-“Funda”, fionda per lanciare palle ovoidali di piombo o di creta, usata dai frombolieri chiamato “fundator”.
– “Vinea”, macchine da guerra per assedio, con tetto a forma di pergolato, sotto cui gli assedianti, nella loro manovra di avvicinamento, stavano al riparo da proiettili scagliati dagli assediati.
-“Solligerreum”, giavellotto tutto di ferro.
-“Cestosfrendone”, macchina per lanciare numerose frecce con punte di ferro.
-“Corvus”, lunga asta munita di un uncino (“uncus”) di ferro.
-“Malleolus”, proiettile munito di stoppa accesa o altro materiale infiammabile (pece, resina, olio) che si scagliava contro le mura o le case della città assediata
-“Tribolus”, palla di ferro da cui uscivano quattro raggi acuminati in diverse posizioni, la palla poggiava terra su tre raggi, lasciando il quarto sempre rivolto in alto. Di questi “triboli” si disseminava il suolo per impedire o ritardare la marcia del nemico, specialmente della cavalleria.
-“Lilium”, trincea a forma di giglio che constava di parecchie serie di buche in cui erano inflitti pali che sporgevano in fuori solo quattro pollici.
-“Tolleno”, mazzacavallo, altalena. Trave posta trasversalmente, in bilico sopra un’altra trave, in modo che abbassandosi una delle due estremità, si innalza l’altra. Veniva usata come macchina da guerra per afferrare o affondare le navi nemiche, come pure per colpire con grossi pesi le macchine di assedio.
“Musculus”, macchine da guerra simile ad un robusto barcone di legno, mobile su ruote, coperto con pelli fresche non conciate, sotto il quale gli assedianti scavavano fosse o cunicoli o comunque si avvicinavano alle fortificazioni nemiche.
-“Pluteus” (tetto, riparo), macchina da guerra fatta di tavole o di radici, coperta con pelli fresche non conciate, che si muoveva su rotelle o sopra tronchi. Serviva come protezione degli assedianti durante l’avvicinamento alle mura assediate.
-“Aries” (l’ariete), macchina da guerra utilizzata durante gli assedi. Munita di una robusta copertura in legno protetto a sua volta con pelli fresche non conciate, sotto la quale gli assedianti potevano operare al riparo. La macchina era formata da una grossa trave di legno, munita nella punta anteriore di una testa di ariete in ferro o bronzo, con la quale, picchiando ripetutamente, si cercava di sfondare una porta o aprire una breccia sulle mura nemiche. Sospesa con funi in posizione orizzontale essa veniva azionata a mano da più soldati facendola oscillare avanti e dietro.
-“Scorpio”, macchina da guerra con cui si lanciavano pietre, dardi od altri proiettili.
-“Pila muralis”, asta pesante che si lanciava dalle mura o dal vallo sugli assedianti.
-“Falx muralis”, lunga pertica in punta della quale era collocata una falce, che serviva a diroccare mura o tagliare funi o travi. La falce fungeva anche da arpione.
-“Scrobis” (buca, fossa) per piantarvi un palo (“cippus”) che conficcato nel terreno serviva da palizzata.
-“Harpago”, pertica che attaccata ad una catena e munita di sopra di un uncino di ferro serviva per abbattere o scavalcare muri o palizzate.
-“Manus ferrea”, uncino di ferro attaccato direttamente ad una catena che normalmente serviva per afferrare o tirare a sé navi nemiche o per abbattere o scavalcare palizzate.
-“Funda libralis”, grande macchina da guerra che riusciva a lanciare proiettili del peso di una libra (grammi 327,45).
-“Tormenta”, macchine da guerra per lanciare proiettili si dividevano in “catapultae” e “ballistae” secondo che lanciavano pietre o dardi; il nome “tormenta” deriva dal verbo “torqueo” perché la forza per lanciare oggetti si otteneva mediante funi avvolte intorno ad un cilindro (argano).
-“Stimuli”, pioli, paletti aguzzi muniti nella parte superiore di una punta di ferro o di uncino di ferro a forma di amo. Servirono a far imbrigliare la cavalleria nemica, i paletti erano infissi al suolo in modo da far sporgere solo la parte uncinata. A difesa del campo, a volte, i Romani, per compensare la loro inferiorità numerica rispetto al nemico, scavavano buche profonde tre piedi (circa 90 cm) nel fondo delle quali mettevano un palo aguzzo, arso sulla punta, alto un piede (30 cm), fissato bene al suolo, battendogli la terra addosso; ricoprivano poi la buca, vuota per due piedi (60 cm) con vimini o altro, formando così una specie di trabocchetto, ove i nemici cadevano facilmente.
-“Turres ambulatoriae”, torri mobili, con le quali avvicinandosi alle mura nemiche si tentava di entrare nella città assediata. Spesso queste torri si facevano salire sopra un “agger” predisposto vicino le mura, per eguagliare con la torre l’altezza delle stesse. Talora accadeva che l’”agger” venisse allestito in fretta, con sottostanti fascine tronchi di albero per sostenere il terreno, e in tal caso i nemici tentavano di appiccicarvi il fuoco.
ONORIFICENZE MILITARI
Le onorificenze militari che venivano conferite erano:
-“catella”, catenina di metallo prezioso e ben lavorato da portare al collo;
-“hasta pura”, asta senza ferro e senza cuspide, data in dono ai comandanti vincitori in guerra.
-“corona civica”, consistente in una corona di quercia conferita al legionario che in battaglia avesse salvato da morte un concittadino, uccidendone l’avversario.
-“corona castrensis”, conferita a chi entrava per primo nel campo nemico.
-“corona muralis”, conferita a chi per primo scavalcava le mura nemiche.
-“corona navalis”, conferita per una battaglia navale.
-“corona obsidialis”, corona di gramigna conferita al comandante che avesse liberato altri dall’assedio.
-“corona vallaris”, concessa a chi per primo entrava nel vallo nemico.
-“ovatio” (ovazione), onorificenza con la quale veniva consentito, dopo una vittoria di rilevante importanza, ad un comandante militare (“dux”), di fare il suo ingresso vittorioso a Roma, non accampagnato dai propri legionari, non sopra un cocchio, ma soltanto a cavallo o a piedi, con una corona di mirto sul capo.
-“supplicatio”, decretata dal Senato in onore di un comandante vittorioso: consisteva in un solenne rendimento di grazie agli dei; e c’era una festa religiosa che durava uno o più giorni e che consisteva in una pubblica processione a cui prendevano parte tutte le classi di cittadini che, inghirlandati con fiori e cantando inni, visitavano in corteo i templi degli dei. Alla “supplicatio” si abbinava sempre un pubblico banchetto, il “lectisternium” (propriamente un banchetto offerto agli dei, alle cui immagini collocate sopra cuscini erano poste dinanzi squisite pietanze). Era questo un onore per i comandanti quanto mai ambito è difficile da conguirsi (lo ottenne anche Cicerone).
-“triumphus” (trionfo). Era il solenne ingresso in Roma che il Senato concedeva al generale ed ai sui soldati in seguito ad una importante vittoria. L’ingresso in città del corteo trionfale era tassativamente subordinato alla preventiva autorizzazione del Senato. “Imperator” poteva essere acclamato soltanto colui a cui il comando (“imperium”) era stato conferito dai “Comizi Curiati”. Il generale vincitore, acclamato “imperator”, se aspirava all’onore del trionfo doveva fermarsi fuori le mura di Roma, fuori del pomerio (=post moerus o murus), che erano spazio di terreno sacro, adiacente le mura della città, sia all’interno che all’esterno, dove non era lecito nel fabbricare, ne arare, né abitare, segnato e delimitato da pietre terminali. Il generale faceva domanda al Senato per entrare da trionfatore. Il Senato si radunava fuori le mura per sentire le ragioni e giudicare se l’”imperator” era degno del trionfo. Nel corteo trionfale il generale trionfatore stava in piedi sopra un cocchio, tirato da cavalli bianchi, vestito con una “tunica palmata” (tunica ricamata ornata con foglie di palme) e con una “toga picta” (toga ricamata), con una “corona aurea” (corona di alloro) sul capo ed uno scettro di avorio in mano detto “scipio eburneus” (bastone di avorio) ed un ramoscello di alloro.
Alla corona di alloro erano appese fascette, in origine di lino, poi di stoffe preziose, infine tessuto di fili d’oro e d’argento. Eguali fascette venivano lanciate verso il vincitore, da parte del pubblico, durante il corteo. Davanti al cocchio del trionfatore sfilavano i prigionieri di guerra, con ceppi e catene, e le spoglie ed il bottino di guerra portato da carri (“fercula”). Il trionfatore veniva ricevuto dal Senato, mentre i soldati facevano echeggiare alternativamente il grido di: “Io triumphe !” (= Evviva, o trionfo!), Cantando inni di lode o in burla del generale. Questi canti chiamati “carmina triumphalia” spesso erano scherzosi o addirittura licenziosi. “Albi greges” (= bianche vittime) erano portati in sfilata dinanzi al cocchio del trionfatore, per essere poi sacrificate agli dei. Molti prigionieri di guerra venivano uccisi, subito dopo il trionfo o nei giorni successivi nei giochi circensi. Le insegne del trionfatore successivamente furono concesse dagli imperatori, a titolo onorifico, anche a generali ai quali non era stata mai concessa la onorificenza del trionfo.
-“donativum” (donativo in denaro) al tempo degli imperatori, in occasioni straordinarie, si distribuiva a tutto l’esercito, soldato per soldato.
-“armilla” (braccialetto grande), donato ai soldati più valorosi, di solito a forma di serpente attorcigliato, con lavori a rilievo o di cesello.
-“coronarium aureum”, donativo in denaro o in oro, invece della corona d’oro che si dava in origine, raccolto dalle province per un capitano vittorioso.
– “corniculum”, piccolo corno, portato come ornamento dell’elmo, concessa ai soldati per il valore dimostrato. “Cornicolarius” era il soldato insignito del cornetto d’onore che gli dava il diritto di essere esonerato dal servizio comune ed in genere aggiunto come aiutante ad un ufficiale superiore.
-“beneficiarii milites” erano i soldati che, per una speciale concessione del loro comandante, erano esonerati dai lavori più gravosi del servizio (come fare trincee, portare acqua, foraggiare cavalli e animali da soma e da tiro, fare legna ecc.
-“emeritum” era la pensione in denaro concessa ai soldati.
-“phalerae”, piastre rotonde, in metallo prezioso che si portavano sul petto come decorazioni militari; portavano incisi vari emblemi o avevano figure cesellate.
PUNIZIONI AI LEGIONARI
Le punizioni per lievi negligenze venivano inflitte ai soldati dai diretti superiori, talvolta consistevano nel divieto loro imposto di portare la tunica con la cintura (“tunicati et discincti”). Le punizioni per fatti molto gravi venivano decise ed inflitte dal tribunale militare (“consilium militare”).
Le punizioni più severe e per reati più gravi, erano le seguenti:
-“exautoratio”, licenziamento, congedo ignominioso.
-“fustuarium”, bastonatura. Esecuzione capitale applicata particolarmente ai soldati che avessero abbandonato le insegne o si fossero comportati ignominiosamente. La pena veniva applicata dai commilitoni stessi. Il castigo della bastonatura veniva fatto in questo modo: il Tribuno prendeva un legno e con esso toccava appena il condannato, quasi indicandolo. Ciò fatto tutti i legionari della “decuria”, battendo il condannato con bastoni e sassi, il più delle volte lo uccidevano sul campo.
-“decimatio”, decimazione. Era la pena di morte di un soldato ogni 10. Quando erano molti soldati a commettere uno stesso grave reato, quale il tradimento, la diserzione, l’abbandono delle postazioni, il Tribuno convocava al centro dell’accampamento i colpevoli e, non potendo far bastonare o uccidere tutti, adottava un espediente utile ma insieme terribile e spaventoso. Dopo averli aspramente rimproverati, ne sorteggiava a volte cinque, a volte otto, a volte dieci (da cui la parola “decimatio”) o venti (da cui la parola “vicesimatio”), generalmente un 10º del numero dei colpevoli, facendoli spietatamente bastonare fino alla morte. Ai non sorteggiati, inoltre, faceva distribuire orzo anziché frumento, e disponeva che agli stessi fosse consentito di alloggiare fuori dell’accampamento e dalle fortificazioni. Il timore del pericolo di essere sorteggiati sovrastava tutti egualmente ed essendo incerto su chi la sorte poteva cadere ed inoltre, l’ignominia di doversi cibare di orzo come le bestie, provocava enorme terrore fra i legionari, i quali, per evitare tale punizione non incorrevano più in reati puniti tanto severamente.

NAVI DA GUERRA E DA TRASPORTO
I Romani, pastori ed agricoltori, non furono certamente un popolo di navigatori, né, prima delle guerre puniche, ebbero una potente flotta da utilizzare per affrontare o difendersi da nemici.
Prima delle guerre puniche disponevano di un limitato numero di navi e barche, utilizzate esclusivamente per scopi commerciali o per attività di pesca.
La costruzione del porto di Ostia, attribuita al re Anco Marzio, e il trattato di navigazione e commercio stipulato con Cartagine nel 509 a.C. stanno a dimostrare l’esistenza di una piccola flotta a disposizione di Roma.
Successivamente, per sconfiggere i cartaginesi, acerrimi e potentissimi nemici, che disponevano di abilissimi marinari e di una flotta con moltissime navi, anche i Romani, per necessità, dovettero potenziare le loro forze navali ed approntare una vera ed organizzata flotta navale. In pochissimo tempo, con l’aiuto di soci ed alleati, nei loro cantieri navali (=”navalia”), siti sulla riva sinistra del Tevere, nei pressi del Campo Marzio, costruirono numerose navi da guerra e da trasporto.
Poterono, così, vincere contro i cartaginesi la loro prima battaglia navale col console Caio Duilio nel 260 a.C., presso Milazzo questo console, per la vittoria, ebbe, come onorificenza, il primo “trionfo navale” e la “colonna rostrata”; mentre numerosi suoi soldati ebbero la “corona rostrata” (concessa a coloro che per primi salivano sopra una nave nemica o compivano altre azioni altamente eroiche). La flotta del console Caio Duilio era composta da 100 quinquireni e da 20 triremi, costruite sul modello di quelle cartaginesi.
I Romani, per primi, alle navi aggiunsero i “ponti di arrembaggio” = detti “corvi” che erano arpioni fatti a becco di corvo, infissi alle estremità dei ponti) con i quali afferravano ed aggrappavano le navi nemiche e le tenevano ferme. I legionari, passando attraverso essi, potevano combattere come in terra ferma e far prevalere, quindi, la loro superiorità e bravura.
Le navi da guerra, triremi, quadriremi o quinqueremi (secondo che erano a tre, quattro o cinque ordini di remi), successivamente furono anche munite dei “rostri”, che erano spuntoni in ferro o in bronzo fissati sulla prua, sotto il livello dell’acqua, con i quali urtavano le navi nemiche, danneggiandole gravemente e provocandone l’affondamento.
Inoltre, per le navi da guerra, i Romani avevano escogitato l’uso di torrette mobili, dalle quali i legionari potevano combattere dall’alto, in posizione più vantaggiosa.
Altre armi di offesa, sopra le navi, erano le seguenti:
-la “falx” (falce) , specie di falce fissata alla estremità di una lunga pertica (=longarina), con la quale si tagliavano le funi e si danneggiavano le vele nemiche.
– il “tolleno”, specie di mazzacavallo (lunga e robusta trave posta trasversalmente in bilico sopra un’altra trave, in modo che abbassandosi una delle estremità si innalza l’altra, usato per agganciare e far affondare una nave nemica.
L’equipaggio di una nave da guerra era formato da:
-“remiges” (rematori), normalmente schiavi, legati ai remi.
– “nautae” (marinai), in genere liberti o stranieri, con mansioni varie, eccetto il remare.
– “milites” (soldati), addetti al combattimento.
La flotta veniva comandata da uno dei due consoli in carica o suo delegato, il quale agiva secondo gli ordini ricevuti dal console. Successivamente, quando si formarono più flotte permanenti, fu anche creato un comandante speciale per ciascuna di esse, col titolo di “praefectus classis” (= capo della flotta o ammiraglio) il comando della flotta delle navi da guerra poteva essere affidato anche ai “Duumviri navales”, eletti dai Comizi Tributi.
In rematori erano agli ordini di un capo chiamato “ortator” o “pausarius” o “celeustes”, il quale, con la voce o con un martello (=”portisculus”) dava l’ordine (“celeuma”) di remare più o meno velocemente, scandendo il tempo (=”modum”) per la frequenza dei colpi di remo, pure ordinava di smettere di remare (=”requiem”). Egli aveva a disposizione i “verberatores” (= i fustigatori), i quali con la frusta colpivano in rematori che, per stanchezza od altro, non remavano “a tempo”.
In caso di affondamento della nave da parte del nemico, il comandante di essa, all’ultimo momento, urlava ai soldati: “Desilite milites!” (= Soldati, saltate in mare !”), Lasciando al loro destino gli schiavi legati ai remi.
Grossa nave da guerra era la “navis longa”, che serviva anche per il trasporto dei soldati, viveri od altro. Altra grossa nave da trasporto, utilizzate al seguito della flotta era la “cybaea”, dai larghi fianchi.
Le grosse navi da guerra, come forza di propulsione, oltre i remi usavano anche le vele. Le navi erano dotate di un disco orizzontale cui erano segnati i venti, per seguirne la direzione, e di una tavoletta, perfettamente levigata e livellata, sulla quale erano riportati i quattro punti cardinali, per orientarsi (“amussum”). Le navi erano anche ornati a poppa con l’”aplaustria”, che era un ornamento ligneo, posto sulla estremità della poppa, stretto in basso e nella sua parte superiore a forma di ala o di coda di pesce; esso serviva per sorreggere un’asta con una piccola bandiera o un drappo di colori molto vivaci.
In guerra, i Romani, si servirono anche di piccole navi, barche o battelli, quali:
-la “navis speculatoria”, piccola barca per ricognizioni;
-il “linter” piccola barca o canotto, utilizzato per fare ponti di barche per l’attraversamento dei fiumi (“lintribus iunctis”);
-il “carabus”, piccolo battello tessuto di vimini, coperto di cuoio;
-la “cymba” per navigazioni fluviali;
-il “lembus o navis cursoria”, battello basso e molto veloce;
-il “pristis”, piccola e veloce nave da guerra;
-la “navis codicaria” (zattera). In casi di emergenza, in guerra, per l’attraversamento dei fiumi, venivano costruite, velocemente ed in loco le “naves codicariae”, formate con tronchi di albero legati insieme, comandate e sospinte con lunghe pertiche. Esse servivano per traghettare soldati, carriaggi, salmerie e quant’altro seguiva l’esercito.

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I PIRATI
Intorno agli anni 100 a.C., a seguito delle guerre civili, sia per l’affluenza di fuoriusciti politici, di schiavi fuggitivi, delle ribellioni di intere province specialmente dell’Asia, i pirati, in breve tempo, divennero talmente numerosi da formare una vera e temibile potenza marittima.
I pirati infestavano tutto il Mediterraneo catturando navi e cittadini, intercettando il commercio, saccheggiando le coste anche dell’Italia, rendendo ovunque oltremodo insicura la navigazione. I loro rifugi e nidi principali erano i porti della Cilicia (parte meridionale dell’Asia Minore), le montuose valli dell’Isauria (regione dell’Asia Minore a nord del monte Tauro), l’isola di Creta e le isole dell’Arcipelogo greco.
Da questi luoghi partivano con sfacciata audacia per far bottino, e quando erano assaliti sparivano come d’incanto, rifugiandosi nei loro forti castelli.
Come ci racconta Plutarco i pirati avevano “arsenali in molti luoghi, porti e torri ben munite, e i loro navigli scorrevano non solamente ben allestiti per le consuete loro funzioni in quanto al valore dei naviganti, all’arte dei piloti, e alla velocità e leggerezza dei legni; ma tali per la magnificenza e per la superba loro comparsa, che più per questo erano di cruccio a chi li vedeva, che pel timore che apportavano; avendo alberi indorati, cortine di porpora, e remi inargentati, come si gloriasser coloro e facessero pompa del loro mal affare. Si udivano suoni e canti, e vedeansi crapule in ogni lido; e la cattura di personaggi principali che venivano tratti in schiavitù, e il riscatto che si convenia fare delle città soggiogate, erano cose di vituperio alla signoria dei Romani. Le navi poi di questi pirati erano più di mille, e quattrocento erano le città che essi aveano prese. Invasero e depredarono persino i sacri templi, mai più per lo addietro non ispogliati, né tocchi.
La somma insolenza poi che usavano costoro si era che, quando alcuno di que’ che prendevano avvesse gridato di essere Romano, e vesse detto il suo nome, dandosi eglino a divedere sbigottiti e pieni di tema, si battevan le cosce, e se gli prostravano, implorando perdono; cosicché il Romano, veggendoli così umiliati e supplichevoli, persuadevasi che facessero davvero. Quindi altri gli allacciavani i calzari, altri gli metteano intorno la toga, acciocché non potess’essere incognito altra volta. Come l’aveano poi essi ironicamente per lungo tempo schernito, e preso se ne aveano giuoco, finalmente giunti in mezzo al mare, gittavano una scala, e gli comandavano di discendere e di andarsene via di buon’ora; e sospingendo eglino stessi chi non avesse voluto, lo sommergevano. Infestavano costoro in tal modo il nostro mare, che era impraticabile e non vi si faceva più commercio veruno”.
Nel 75 a.C. anche Cesare, che voleva recarsi a Rodi per frequentare la scuola di Molone, presso cui, poco prima, aveva studiato anche Cicerone, fu fatto prigioniero dai pirati. Ad essi che gli chiesero un riscatto di venti talenti Cesare, con orgoglio, rispose: “Ve ne farò pagare cinquanta”! e mandò i suoi compagni a prendere la somma. Egli rimase per 38 giorni in mano a quei ladroni, sui quali acquistò tale autorità, da parere piuttosto loro capitano che prigioniero: egli li trattava con tanto disprezzo che, quando voleva dormire, mandava a dir loro che tacessero; e quando talvolta leggeva alcune sue poesie od orazioni, se non ne rimanevano ammirati, diceva loro sul viso che erano ignoranti e barbari; e spesse volte, ridendo, diceva pure a loro che, appena fosse stato libero, li avrebbe fatti tutti crocifiggere. Infatti, appena riscattato, si procurò alcune navi, assalì i suoi carcerieri e, a Pergamo, li fece appendere in croce, come aveva loro promesso.
Tanto grande era divenuto il pericolo rapprentato dai pirati ed insopportabili i danni da loro provocati al commercio marittimo, che i Romani, nel 78 a.C. si decisero di intraprendere una guerra vigorosa contro di loro, per liberare il mare dalle masnade piratesche, ma per vari anni con scarso successo. Soltanto nel 67 a.C. riuscirono a togliere un covo a quei ladroni, quando il console Q. Metello, poi soprannominato il “Cretico”, poté conquistare l’isola di Creta e ridurla a provincia romana.
Alla fine il popolo romano, su proposta del tribuno Gabinio, conferì, nel 67°.C., a Pompeo il supremo ed assoluto comando su tutto il Mediterraneo e le sue coste. Pompeo, munito di una poderosa flotta, bloccando tutti i porti, obbligò a battaglia in mare aperto i nemici. In meno di tre mesi (alcuni dicono in 40 giorni) li distrusse tutti, liberando così completamente il mare dalle loro rapaci incursioni.
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LA CENTURIAZIONE DELLE TERRE
La “centuriazione” delle terre era la assegnazione delle stesse ai proletari romani e, dopo la riforma dell’esercito effettuata da Mario, anche ai militari anziani congedati.
I supremi reggitori dello Stato romano (consoli, triumviri e poi imperatori) assegnavano tali terre nei territori già sotto la loro giurisdizione o conquistati in guerra, creando apposite “colonie”, normalmente nell’agglomerato urbano più grande esistente nel nella zona, munite di una guarnigione militare, ove venivano militarmente trasferiti, a migliaia, proletari della periferia di Roma e del Lazio, forniti gratuitamente di terre, case e servizi vari (acquedotti, strade, ponti, teatri, anfiteatri, circhi ecc.), e ciò per ovvie ragioni politiche e militari.
La colonizzazione dei territori, oltre che rafforzar l’autorità dello Stato romano, contribuì celermente a diffondere gli usi e costumi romani ed a propagare la lingua latina.
La centuriazione a favore di ex legionari fu particolarmente utilizzata da Ottaviano Augusto il quale dopo la battaglia di Filippi (42 a.C.) e successivamente alla fine delle guerre civili (30 a.C.), trovandosi a capo di tutti gli eserciti romani capì immediatamente che era davvero doveroso trovare una dignitosa sistemazione per i numerosi e fedeli legionari che venivano posti in concedo per l’età avanzata; che era inutile dispendioso mantenere un così grosso esercito permanente e soprattutto altamente rischioso mantenere in armi alcune legioni già fedeli a Marco Antonio, le quali, essendosi regolate solo con la fortuna del vincitore, erano di dubbia fedeltà verso Augusto.
La divisione e la assegnazione di fertili terre ai veterani era un vero atto di giustizia sociale. Infatti gli ex legionari anziani, quasi tutti privi di beni di fortuna, non avendo se non quel poco che avevano potuto conservare dai bottini di guerra, erano anche ignari di qualsiasi mestiere, perché arruolati in giovane età. Al momento del congedo, all’età di 46 anni, non avevano altro mezzo per vivere se non l’aiuto del proprio condottiero, il quale provvedeva loro non tanto con donativi o vitalizi in denaro, quanto con l’assegnazione di terre preferibilmente e possibilmente nei loro paesi di origine.
La politica agrario-colonizzatrice di Augusto, realizzò, intelligentemente, un forte affiatamento ed un legame concreto fra esercito e popolazione, perché i figli dei proprietari partiti poveri per le armi, tornavano col diritto alla proprietà terriera nella loro regione se non proprio nel loro paese di nascita. D’altra parte tutti gli ex-ufficiali ricoprivano cariche pubbliche nella colonia cui erano assegnati: i Tribuni militari divenivano magistrati superiori (edili, duumviri ecc). I Pretori ed i Propretori, anche se andavano in colonia, anziché a Roma, avevano un censo cospicuo ed un trattamento privilegiato e spesso il titolo nell’ufficio di “Patrono” della colonia.
Infine non era trascurabile il fatto che l’assegnazione di terre ai veterani provocava un sensibile aumento della produzione agricola di cereali e bestiame; incrementava gli impianti di vigneti, oliveti, frutteti ecc. e che, inoltre, attivava lo scambio del commercio, con notevole conseguente accrescimento di molteplici attività artigianali.
La parola “centuriazione” derivava da “centuria” in quanto prima dei Gracchi ad ogni cento capofamiglia si assegnavano complessivamente 200 iugeri di terra coltivabile, pari ad ettari 51,84 e tale superficie era detta centuria.
Sicuramente esistevano leggi specifiche sulla centuriazione, data l’importanza di dette operazioni. A queste leggi doveva attenersi il direttore delle operazioni di centuriazione chiamato “gromatico”, l’esperto e lo studioso di agrimensura, il quale per le sue operazioni utilizzava come strumento la “groma” (macchina per tracciare le linee di confine, la quale avendo un cerchio graduato orizzontale dava la indicazione degli angoli formati da dette linee.
Dal cromatico venivano fatte operazioni preliminari, prima di procedere alla centuriazione: esame delle superfici, accertamento delle qualità agrarie e colture praticabili e in atto, determinazione del punto di partenza per le misurazioni e divisioni (via consolare, corso di un fiume, linea di displuvio od altro). Tali operazioni iniziavano con la “depalatio” (infiggere pali in terra per effettuare le misurazioni e stabilire i confini delle particelle).
Dalla centuriazione il gromatico esclusiva le zone inadatte alla coltivazione per la loro posizione e caratteristica, lasciandolo ai vecchi possessori (“ager relictus” o exstrasclusus”, prendendo in considerazione solo terre, dall’epoca di Augusto, “ubi cultura est” oppure “qua falx et arater ierit” (quindi terre già coltivate oppure terre ove fosse stato possibile andare con la falce e l’aratro).
Il gromatico si fingeva posizionato al centro della zona da centuriare e, rivolto con la faccia a ponente, effettuava la picchettatura del Decumano Massimo (confine rettilineo e di solito andava da est ad ovest e formava la strada principale del territorio e della colonia; largo non meno di 8 m e di 12 m secondo la legge di Augusto) e il Cardine Massimo (confine rettilineo che di solito andava da nord e a sud e formava una strada pubblica, secondo la legge augustea di metri 6).
Non sempre l’orientamento del Demano Massimo era conforme alla teoria, infatti, per ragioni di ordine pratico, talvolta, esso si faceva coincidere con la strada principale della regione già esistente.
Il Cardine Massimo era anch’esso una via importante, in teoria doveva essere orientata da nord a sud, ma per ragioni pratiche si allontanava spesso da questa norma, dovendo, però, sempre essere perpendicolare al Decumano Massimo e largo metri 6. Il gromatico, quindi, all’inizio della lottizzazione doveva decidere il tracciato del Decumano Massimo e del Cardine Massimo tenendo presente che il tracciato dell’uno condizionava il tracciato dell’altro.
All’incrocio del Decumano Massimo e del Cardine Massimo, queste vie si allargavano in modo da formare la piazza (“forum”) della colonia. L’allargamento era proporzionale alla grandezza e all’importanza della piazza che si voleva realizzare.
Il Decumano Massimo divideva il territorio centuriato in due parti: quella a destra del gromatico situata verso nord e era detta “dextra” o “dextrata”, quella a sinistra, situata verso sud era detta “sinixtra” o “sinistrata”. A sua volta il Cardine Massimo divideva il territorio in altre due parti: quella situata a ponente, davanti agli occhi del gromatico, era detta “àntica” (cioè posta davanti) o “ultrata” (cioè posta oltre); Quella posta alle sue spalle, situata verso veste era detta “pòstica” (cioè posta dietro) o “citrata” (cioè al di qua).
Parallelamente al Decumano Massimo e al Cardine Massimo e dalla distanza di metri 710,40 (pari a 20 “actus” – misura di distanza pari a metri 35,52, si tracciavano altre linee, rispettivamente chiamate decumani e cardini, in modo da avere una serie di quadrati regolari di 200 “iugeri” ciascuno, chiamati “centurie”.
L’intero territorio centuriato di una colonia era chiamato “pertica” , anche se non interamente assegnato.
Le linee di confine che delimitavano cinque file successive di centurie erano chiamate “quintarii” od “actuarii”, ed essi erano agibili come vie pubbliche, prescritte dalle leggi ed erano larghe metri 3,60 mentre gli altri decumani i e cardini erano larghi metri 2,40 ed erano chiamati ”subruncivi” (in quanto resi transitabili ai carri agricoli previa appiombatura con la roncola (“ronco”) delle piante o delle siepi esistenti ai lati.
Tra i lotti o le particelle assegnate in proprietà chiamate “acceptae” le linee di confine si chiamavano “rigores”, cioè linee rette; e se non fungevano da strade, ma costituivano uno spazio libero, largo 3 m, non usucapibile; tutto ciò per evitare sconfinamenti e conseguenti liti tra i frontisti. Da queste linee le coltivazioni arboree dovevano restare distanti metri 1,50.
Le centurie quando non venivano assegnate intere erano suddivise in particelle regolari, ma non necessariamente quadrate; le particelle erano quadrate se divise da sottodecumani e da sottocardini e quindi aventi una superficie di iugeri 50 ciascuna (= ettari 12,96). Se, invece, le centurie erano divise da un sottodecumano o sottocardine tracciato a metà e da due sottodecumani o sottocardini, risultavano sei particelle di 33 iugeri (= ettari 8,55) ciascuna più le strade. Se la lunghezza delle particelle, di forma rettangolare, era orientata da nord a sud, e si erano dette “scamna” (banchi), se invece la loro lunghezza era orientata da est ad ovest erano detti “strigae” (strisce o fasce).
Le espressioni “in agrum” significavano “ verso la campagna”; “in frontem” significava “dalla parte della strada” di lunghezza od in larghezza.
Durante le operazioni di lottizzazione del territorio ad opera della popolazione locale e dei veterani si provvedeva alla costruzione di case e di edifici pubblici; quindi si procedeva alla assegnazione di case e terre; l’assegnazione veniva fatta o con l’estrazione a sorte (“sortes” erano chiamate le particelle assegnate con questo sistema) oppure con l’attribuzione nominativa, riservando però ai cittadini benemeriti più importanti o dei veterani più elevati in grado o a quelli designati dall’imperatore o dal capo della colonia le particelle di terreno più fertile o le case migliori (“agri excepti”).
I lotti di terra, anche se della stessa superficie, variavano spesso per valore e qualità, specialmente nelle zone collinose e di accidentate, per cui nella loro assegnazione era doveroso tenere conto dei meriti o del grado dell’assegnatario.
Nella “pertica” erano, talora, compresi pezzi di terreno non coltivabile, ma destinato per sua natura a pascolo o bosco; essi generalmente erano posti sotto la giurisdizione della colonia quale demanio pubblico; alcuni lotti di pascolo o bosco spesso erano concessi a un assegnatario di particelle più bisognoso di risorse boschive o pascolative. Talvolta grosse zone di bosco o pascolo venivano assegnate cumulativamente a più assegnatari di particelle per per facilitare e semplificare loro l’uso e la manodopera (taglio, essiccazione, trasporto ecc.), soprattutto quando i beneficiari risiedevano lontano, ossia più di 3 km (“ultra quartum vicinum”).
I lotti non assegnati o per mancanza di assegnatari, o per rinuncia di alcuni di loro, sarebbero dovuti tornare in proprietà dello Stato, invece, generalmente, venivano usurpati dai confinanti talvolta dall’autore della centuriazione venivano riconsegnati ai vecchi proprietari, i quali o li rivendevano o vi ritenevano, sottoponendosi, però, all’obbligo di pagare un contributo “vectigal” all’erario romano.
Le parte di terreno rimaste fuori dalla misurazione e alla assegnazione, perché fuori misura, erano dette “subsicivi”.
“Amsegetes” erano i proprietari dei terreni che erano ai lati della strada, cioè di un terreno gravato dalla servitù di passaggio a favore del vicino.
Come segno della presa in possesso di un terreno il nuovo proprietario staccava un ramoscello da una pianta.
Le operazioni relative alla assegnazione delle particelle erano trascritte in appositi registri, mentre la pianta della città e del territorio era riportata su una pianta catastale (“cancellatio”) con la indicazione dei beni assegnati, non assegnati, concessi, eccettuati, restituiti, commutati, esenti o gravati da imposte. Un esemplare in bronzo della pianta catastale era esposto nella piazza principale (“forum”) della colonia ed uno, in tela, veniva depositato presso l’archivio pubblico di Roma, nel tempio di Saturno, ai piedi del Campidoglio.
Finite le operazioni di assegnazione il responsabile della colonia faceva il primo solenne censimento, nominava i primi Magistrati, i nuovi sacerdoti ed il nuovo Senato della Curia locale.
Nei villaggi il “magister pagi” (capo villaggio), scelto tra cittadini colti ed onesti, era quello che curava l’ordine e la disciplina, vigilava sul culto e sull’osservanza delle leggi e dei doveri fiscali, curando anche i servizi pubblici, quali la manutenzione stradale e nell’approvvigionamento delle truppe di passaggio. Il capo villaggio riferiva sugli affari locali al competente magistrato della colonia.
Il gromatico stabiliva anche il tracciato della “actuaria limes” (piccola strada carreggiata fra due campi). Mentre i ”diverticula” o “tramites” (strette vie traverse, secondarie, viottoli o scorciatoie), collegate alle strade più grandi venivano create con l’uso ed il passaggio non contestato dai pedoni.
A completamento dell’operazione di centuriazione dovevano essere posti i termini, gli angoli di tutte le divisioni (centurie, successivi, particelle), i quali erano veramente di un numero rilevante. Il gromatico veniva aiutato da altri tecnici: il “finitor” (agrimensore) e dal “metator” (misuratore). Tutti termini, a qualsiasi specie appartenessero, erano posti a distanze variabili, secondo l’andamento del terreno nelle zone montuose, mentre nelle zone pianeggianti dovevano essere collocati a distanze prescritte.
Le distanze fra Decumani e Cardini erano sempre fisse di 20 “actus” (metri 710,40).
Nell’atto di collocare i termini il gromatico seguiva modalità ben precise. Ogni termine era accompagnato da un elemento distintivo “signum” posto con cura sul fondo della buca in cui veniva issato il termine: secondo le disponibilità esso era costituito da cenere, carboni, pezzi di osso, vetro, cocci, lastrine di ferro, piombo o rame, grumi di calce o di gesso, vasetti di terracotta, schegge di pietra colorata ecc. Tali segni distintivi, spesso venivano collocati sotto il termine alla presenza di confinanti o dei futuri proprietari. Ciò per consentire, in caso di asportazione del termine, di ritrovare il suo preciso primitivo collocamento.
I termini augustei, di pietra molare o silicea, di forma cilindrica, altri metri 1,18, dal diametro di centimetri 40 -40,5 avevano la base superiore solcata da due linee perpendicolari raffiguranti il Decumano ed il Cardine, recanti sempre l’indicazione del numero ordinale sia del Decumano che del Cardine (D.IV= decumano 4° e K.IV = cardine 4°).
Altri termini avevano nel sommo capo una lettera maiuscola ben visibile, alla quale era attribuito un significato specifico e dell’inconfondibile. La lettera “A” indicava che il territorio centuriato era prossimo o che una sorgente di acqua viva era vicina. La lettera “D” voleva dire che quel termine era collocato sulla linea Decumana. La lettera “G” voleva dire che in quel punto il gromatico aveva stabilito per confini è un elemento naturale: fosso, scarpata, strada. La lettera “K” indicava che quel termine era posto sulla linea del Cardine, la lettera “O” avvertiva che a settentrione vi era un bosco di diritto pubblico. La lettera ”S” segnalava che in quella particella vi erano molte sorgenti di acqua. La lettera ”Z” avvertiva che a meridione vi era una fontana. La lettera “H” dichiarava che i restanti termini di quella stessa linea confinaria non avevano più lettere indicative.
Naturalmente per indicare le tante situazioni diverse venivano utilizzate tutte le lettere dell’alfabeto latino e greco.
La maggioranza dei termini, però, non recavano scritte, e per questo erano chiamati ”muti”. Come confini secondari venivano usati anche pali di legno (quercia, elcio od altro), che erano spalmate di pece o bruciacchiati nella parte conficcata in terra. Mucchi di pietrisco e schegge di pietra chiamati “scorpiones” o “scorphiones” (per la loro somiglianza agli scorpioni), fungevano anch’essi da confini. Piccoli monticelli di terra detti “botontini” o “botontones” segnavano il confine.
Le urne sepolcrali “sarcophaga”, poste o interrati agli angoli delle particelle, soprattutto presso i crocicchi, erano considerati termini certi, come i più grandi monumenti sepolcrali costruiti presso i Decumani e i Cardini.
I muri per recinzioni di ville o per il contenimento di scarpate potevano fungere da termini e come punti di riferimento. Il muro a secco di pietre e laterizi, sulla linea di confine, aveva valore giuridico per il gromatico, come pure l’”arca” la vasca in muratura per l’acqua costruita all’incrocio di linee di confine.
“Intersecivi termini” erano quelli formati da un elemento naturale: fiume, fosso, linea di displuvio od altro.
I “Compita” (tempietti dedicati agli dei protettori dei campi), costruiti presso gli incroci stradali, avevano valore di termine.
I Romani, usi a divinizzare un po’ tutto, adoravano anche “Terminus”, come divinità che presiedeva ai confini.
Nelle leggi emanate per la fondazione di colonia o per la assegnazione di terre ai veterani, erano previste pene severissime per coloro che, con frode, avessero spostato od estirpato termini di confine. Nelle leggi più antiche era prevista una condanna al pagamento di 5000 sesterzi di cui la metà all’erario e l’altra metà a chi avesse denunziato o provato il reato dinanzi al giudice e a 10 cittadini; per lo stesso reato, al tempo dell’impero, la legge disponeva che se a compiere reato di cui sopra fosse stato un bifolco, lo stesso era condannato ai lavori forzati a vita, se fosse stato invece, un nobile, doveva essere punito con la privazione di un terzo dei suoi averi e relegato in un’isola per il resto della sua vita.
La maggior parte delle terre coltivate o incolte, dei pascoli e boschi, era di proprietà dello Stato. Venivano date in affitto dietro pagamento di imposte: “tributum” nelle province imperiali e ”stipendium” nelle province senatorie.
Il “pecuarius” (appaltatore dei pascoli) pagava un’imposta sui pascoli chiamata “scriptura”.
“Ager cuneatus” era il pezzo di terreno fatto a forma di cuneo, più stretto da un capo che dall’altro “Archifinius” era l’appezzamento di terreno che aveva confini naturali, non delimitato o misurato artificialmente: come tra un fiume ed un fosso.
“Trientabulum” era il terreno concesso dal Senato come rimborso ai creditori dello Stato equivalente come valore ad un terzo del loro credito.

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LUOGHI PUBBLICI
I luoghi pubblici più importanti e più amati dai Romani sono sempre stati:
-Il Campo Marzio. Pianura erbosa lungo il Tevere, forse la zona più bella di Roma posta a nord ovest, sia per l’ampia curva che fa il Tevere sia per i sontuosi edifici che vi erano intorno. Appartenente in origine ai Tarquini, dopo la loro cacciata, fu consacrata al dio Marte da cui l’appellativo “Martius”. Divenne luogo di riunioni del popolo per i “Comizi Centuriati”, di solenni adunate, luogo frequentatissimo per giochi, gare, ma soprattutto per le esercitazioni e l’addestramento dei soldati.
-il “Forum magnum o romanum”. Il Foro (la piazza) per eccellenza per i Romani costruito su una valle livellata artificialmente, lunga 154 m e larga 52, chiusa nord-ovest dal colle Capitolino e a sud dal Palatino, attorno a cui, già sotto Tarquinio Prisco, erano costruiti dei portici con sotto botteghe varie.
I mercanti occuparono le botteghe e particolarmente vi posero il loro banco i banchieri o cambisti (“tabernae argentariae o mensae”). Successivamente il Foro fu circondato da numerosi edifici pubblici e adornato di molte belle statue divenendo il centro della vita pubblica di Roma. I cittadini dei migliori ceti vi passavano buona parte del giorno prima dell’ora di pranzo, per sbrigare affari, questioni legali, per risolvere liti, assistere ai processi, leggere o udire le novità ecc.
Quando arrivavano nel Foro erano preceduti dal battistrada (“deambulator”), in genere uno schiavo (un parassita o ossequioso lacchè) che precedeva il personaggio ragguardevole, perché egli si cedesse il passo e fosse omaggiato.
Gli adulatori, se riuscivano ad avvicinare un personaggio autorevole od influente, gli rivolgevano frasi di questo tenore: ”Cupio omnia quae vis!” (= Desidero tutto ciò che tu vuoi), oppure: “Omnia quae vis, ea cupio!” (= Sono tuttora ai tuoi ordini = tutte quelle cose che tu vuoi, quell’io desidero che tu abbia).
Al Foro Romano accorreva anche il popolo minuto, che si lasciava corrompere dal compratore di voti, ma soprattutto si divertiva come spettatore ozioso, specialmente verso sera, quando vi convenivano ciarlatani, indovini o giocolieri.
Un grosso e ben visibile orologio solare(“solarium”) indicava a tutti le ore. L’espressione: “Non ad solarium versatus est“ significava: “Non si è sveltito, dirozzato al Foro, non ha frequentato il Foro”.
Nel Foro era collocato l’Albo Pretorio, come in molti altri luoghi pubblici, che era una tavola imbiancata con gesso per scrivere avvisi od altro per il pubblico. Nel Foro veniva pubblicato una specie di giornale (“Acta urbana o rerum urbanarum acta”, paragonabile alla nostra Gazzetta Ufficiale) che era a spese dello Stato. Esso dava notizia, tutti i giorni, di cose politiche e private (esempio nascite e morti ) e veniva affisso anche in tanti altri luoghi pubblici perché il popolo potesse leggerlo.
Nel Foro Romano era anche il “Miliarium” (pietra miliare) fattavi porre dall’imperatore Augusto. Era una pietra miliare, rivestita di oro “aureum miliarium”, posta vicino al tempio di Saturno, sulla quale erano segnate le misure di tutte le grandi strade dell’impero; rappresentava orgogliosamente il punto centrale da cui esse partivano e dove convergevano. Da esso si diramavano le numerose strade interne di Roma, delle quali solo la “Via Appia” e la “Via Nova” avevano l’appellativo di “via”, in quanto tutte le altre venivano chiamate “vicus”, se pianeggianti, e “clivus” se in salita o discesa. Spesso le strade prendevano i nomi dalla maggioranza dei negozi in essa esistenti: come “vicus sandalarius” ove si vendevano sandali, con una grande statua di Apollo; “vicus librarius” perché ricco di librerie.
Nei pressi dei “trivi” e dei “quadrivia”, incroci di tre o quattro strade, i Romani erano soliti collocare tempietti “compita”) con statue degli dei.
Il Roma esistevano altri Fori (piazze) di grande importanza:
-il “Forum Caesaris”, costruito da Giulio Cesare;
-il “Forum Augusti”, costruito da Ottaviano Augusto; adorno di una bella statua in avorio del dio Apollo;
-il “Forum Traiani”, costruito da Traiano.
Diverse poi erano le piazze (“fora”), più piccole ove si svolgevano i vari mercati:
-il “forum bovarium o boarium”, per il mercato dei buoi, fra il Circo Massimo ed il Tevere, adorno di una statua in bronzo raffigurante un toro;
-il “forum olitorium”, mercato delle erbe assunte del teatro di Marcello, fra il Capitolino ed il Tevere, ove sorgeva la “coa lactaria”, presso cui si portavano i bambini da allattare;
-il “forum coquinum”, presso cui convenivano i bravi cuochi in attesa di essere chiamati e noleggiati per sontuosi pranzi;
– il “forum piscatorium”, pescheria sita tra la Basilica Porcia e il tempio di Vesta;
– il “forum cupedinis”, che era il luogo del mercato delle ghiottonerie, situato fra la via Sacra e le botteghe dei macellai (“lanienae” o “tabernae macellariae”).
– il “Circo Massimo”, fra i Palatino e l’Aventino, che ingrandito più volte dagli imperatori è arrivato a contenere più di 300.000 spettatori. Presso di esso si svolgevano i più importanti e grandi “ludi”. Enormi folle dei popolani vi si radunavano per assistere festosamente alle corse di cavalli, alle sfide tra gladiatori, alle lotte dei cristiani contro le belve feroci ecc.
Era qui che spesso l’imperatore, per accrescere verso di sé la simpatia del popolino, faceva effettuare la “visceratio” (distribuzione pubblica di carni), o la “frumentatio” (distribuzione pubblica di grano), pure faceva lanciare fra la folla i “missilia” (doni) consistenti in frutta secca, focacce, oppure tavolette con su scritto quanto, coloro che riuscivano ad afferrarle, dovevano ricevere in denaro, in frumento, carne o olio od altro.
-il “Circo Flaminio”, costruito nel 221 a.C., all’inizio della via Flaminia e destinato principalmente ai “ludi plebei” e “Taurii”.
– la “Suburra” era la larga strada di Roma, tra il Celio e l’Esquilino, la parte più rumorosa ad animata della vecchia Roma, con un grosso mercato di ortaggi. La strada era fiancheggiata da numerose “popinae” o “galeae” o “cauponae” (bettole, cantine, taverne), frequentate normalmente da crapuloni e gente triviale e dissoluta; presso di esse era possibile mangiare e bere a prezzi popolari, invitati, sulla porta, da compiacenti ostesse (“copae”) o simpatici “caupones” (osti).
Caratteristica delle taverne erano le loro pareti interne sempre pitturate, a vivacissimi colori, con figure riproducenti scene tratte dalla mitologia, dalla favolistica o dalle storie più conosciute.
La Suburra era un luogo di ritrovo delle “ambubaiae” (ballerine provenienti dalla Siria che in Roma si guadagnavano da vivere cantando canzoni del loro paese o praticando la prostituzione); di numerosissime “nonariae”, anche esse prostitute, così chiamate perché era severamente vietato “prostrare” (prostituirsi) prima della “nona hora” (le quindici), quando si sospendevano gli affari e si andava a pranzo.
-l’”Argiletum”. Era il quartiere di Roma che confinava con la Suburra e si estendeva fino al Foro Romano. In esso numerose botteghe di artigiani e di librai vendevano la loro merce.
Nei pressi di questi luoghi pubblici, nei giardini pubblici, e lungo le strade erano collocati frequentemente grossi vasi di terracotta che fungevano da orinatoi. Essi furono aumentati di numero al tempo dell’imperatore Vespasiano che, affetto da una grave forma di diuresi, se ne serviva spesso (ancora oggi si suole chiamare con l’appellativo “vespasiani” gli orinatoi pubblici).
Nel Foro Romano, nei fori minori e soprattutto presso il Circo Massimo e presso i bagni pubblici ci si imbatteva frequentemente con giocolieri “colobatra” che camminavano sui trampoli; con “fabulatores” (cantastorie); con “ardaliones” (cialtroni); con “graeculi” (così chiamati per disprezzo) i perdigiorno e i gonfianuvole che si davano arie da filosofi; con gli “harioli” (indovini) che vendevano le loro sicure previsioni a ingenui e credenzoni popolani (i ricchi potevano consultare gli oracoli stranieri o i costosissimi Caldei, esperti di astrologia e divinazione); con la folla di oziosi, chiamati “subrostrani”, perché solevano sostare vicino ai “Rostra” (la Tribuna degli oratori).
I poeti poveri e gli scrittori di scarsa fama dovevano accontentarsi di poter leggere le loro opere presso questi luoghi o presso i templi, a differenza di altri poeti e scrittori, molto più considerati, che avevano accesso e circoli culturali e dalle importanti biblioteche pubbliche, o, addirittura, nell’”Odeum” (Odeon), ove si svolgevano gare di poesia e di musica.

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PUBBLICI SPETTACOLI
“Ludi” furono chiamati nell’antica Roma i pubblici spettacoli che generalmente avevano carattere sacro o profano.
Alcune di queste manifestazioni risalgono alla più remota antichità romana. Normalmente essi erano preceduti da un complesso di cerimonie religiose in onore di divinità. I “ludi troiani” si facevano risalire alla venuta di Enea nel Lazio erano gare di lotta, pugilato e corse). Le “feste equirie” (“Equiria” = corse di cavalli) che si tenevano due volte all’anno il 27 febbraio e il 14 marzo nel campo Marzio e se il Tevere era straripato si tenevano al Celio), istituite da Romolo in onore di Marte. I “ludi apollinari” in onore del dio Apollo. I “ludi cereali” in onore di Cerere. I “Ludi megalensi” in omaggio a Cibele, la grande madre degli dei. I “ludi magni” istituiti da Tarquinio Prisco, essi oltre le corse di cavalli con i cocchi e gare atletiche comprendevano anche combattimenti contro bestie feroci (“venationes”). I “ludi plebei” per ricordare la riconciliazione fra patrizi e plebei dopo la secessione sull’Aventino. I “ludi secolari”, consigliati dai Libri Sibillini, che dovevano celebrarsi ogni 100 anni, in onore degli dei infernali Plutone e Proserpina, poi anche in omaggio di altri dei come Apollo e Diana.
Tra gli spettacoli più famosi e caratteristici della Roma antica sono da annoverare: i “ludi circensi”, i “ludi glaudatori” e i “ludi scenici”.
I “ludi circensi” erano preceduti da solenni processioni cui prendevano parte autorità civili e religiose, le quali, dal tempio di Giove Capitolino, sul Campidoglio, attraverso il Foro romano, giungevano al Circo Massimo, dove in onore degli dei venivano immolate numerose vittime. La parte più interessante dei “ludi circensi” era costituita dalle corse di cavalli.
I luoghi destinati a pubblici spettacoli, con sede stabile, per i Romani erano gli anfiteatri ed i Circhi, con sedili che salivano in gradinate tutte all’intorno, con uno spazio di forma ovale nel mezzo detto “arena” per corse di cavalli, per combattimenti tra gladiatori o contro bestie feroci, rappresentazioni sceniche, esibizioni di ballerini.
I Romani erano amantissimi dei giochi pubblici; e la simpatia del popolo veniva conquistata oltre che con i giochi, anche con distribuzione di derrate alimentari, da cui il detto: “panem et circenses”.
Il più grande Circo esistente in Roma era il Circo Massimo, ubicato tra il Palatino e l’Aventino, nella Valle Murcia; la sua costruzione, secondo Livio, risale all’epoca di Tarquinio Prisco. Fu teatro di giochi e di rappresentazioni sceniche fin dall’età regia.
Costruito in forma stabile da Cesare, fu distrutto da un incendio nel 31 a.C.; ricostruito da Augusto, fu successivamente ampliato da Traiano e da Costantino, nella cui epoca conteneva più di 300.000 spettatori. Era appellato “circus fallax” (circo falso) perché pieno di ciarlatani e di imbroglioni; chiamato anche “circus clamosus” (circo rumoroso, pieno di grida). Le gradinate per gli spettatori erano separati dall’area destinata ai giochi (“arena”) da un parapetto, con sovrastanti statue della dea Vittoria. Il parapetto era sormontato da reti tese a protezione dalle bestie feroci. Sul parapetto stesso era costruito il “podium” (specie di balcone), ove sedevano coloro che sponsorizzavano i giochi, il direttore dei giochi, i Consoli, i Pretori, le Vestali, gli ambasciatori di paesi stranieri e, sotto un “cubiculum” (baldacchino), proprio sul davanti, l’imperatore (loggia imperiale).
I giochi avevano inizio quando il Console o il Pretore od anche lo stesso Imperatore, con apposito drappo, chiamato “mappa” dava il segnale, oppure gettava il drappo stesso nell’arena (“mappam mittere” significava gettare il drappo nell’arena per dare il via).
Delle varie fasi delle gare, corse, lotte di gladiatori, combattimenti con bestie feroci venivano commentate ad alta voce da un banditore (“praeco”), munito di un megafono. Accanto a lui sedevano l’organizzatore, il direttore di gara ed i giudici.
Nella corsa dei cavalli, quella che noi chiamiamo “pista”, per i Romani non era di forma circolare, ma a forma di ferro di cavallo. Partendo da una estremità si doveva arrivare all’altra estremità nel minor tempo possibile. I cavalli normalmente due (“biga”) o quattro (“quadriga”), erano attaccati al cocchio allineati. Essi dovevano girare in modo più stretto possibile intorno ad una colonna conica, chiamata “meta”, posta alle due estremità della “spina”, che era il muricciolo che attraversava e divideva l’arena del circo nella sua lunghezza. La giravolta intorno alla meta era la manovra (“campter”) più difficile che richiedeva la massima attenzione e grande abilità da parte dell’auriga (“agitator equorum”). La meta non doveva essere toccata dall’auriga che, stando in piedi sul cocchio, guidava i cavalli in modo da passare, al galoppo, il più vicino possibile alla meta, per guadagnare terreno sugli altri concorrenti; ciò comportava un alto rischio per l’auriga che spesso usciva malconcio, o perché il cocchio sbandava o si ribaltava o perché veniva investito da altri concorrenti. Attorno alla meta i concorrenti dovevano compiere sette giri. Sopra la “spina” erano collocate sette colonne “falae” che servivano da sostegno alle sette figure oviformi (“ova”), con allusione al doppio ovo da cui erano nati Castore e Polluce, divinità protettrici dei giochi circensi. Le predette figure funzionavano da contagiri, infatti, dopo ogni giro ultimato veniva tolta una figura ovale, in modo che gli spettatori avessero sempre presente il numero dei giri mancanti. Prima della corsa dei cocchi i “desilatores” (cavalieri saltatori) si esibivano abilmente da un cavallo all’altro, in corsa, per divertimento del pubblico.
Nella corsa dei cavalli, inizialmente, vi erano quattro “factiones ” (fazioni o tifoserie) che si distinguevano dal colore del vestito degli aurighi: “alba” (bianco), “russata” (rosso), “veneta” (azzurro) e “prasina” (verde). L’imperatore Caligola tifava per il colore verde. I tifosi (“factiosi”) dei vari colori avevano anche un loro capo (“factionarius”) che dirigeva e regolava il tono della tifoseria, come avviene oggi nelle partite a pallone nei moderni stadi. Qualora due aurighi concorrenti fossero arrivati contemporaneamente alla ultima meta, il giudice di gara dichiarava: “Neuter vicit” (né l’uno o né l’altro vinse), ed i concorrenti ai propri tifosi gridavano: “hieram fecimus” (abbiamo fatto partita nulla).
Nel Circo si esibivano anche le corse al galoppo con cavalli montati da abili fantini.
Presso i circhi e gli anfiteatri, per garantire l’ordine pubblico e per calmare i tifosi esagitati, erano presenti in molti agenti pubblici armati di sferza, chiamati “mastigophori” (coloro che portano la frusta).
L’imperatore Nerone introdusse fra i giochi pubblici:
– L’”agom gynnicus”, gara di ginnastica e di destrezza fisica;
– L’”agon equestre”, gara nella corsa dei cavalli;
– l’”agon musicus”, gara nelle arti predilette dalle Muse, ossia a suonare il flauto e la cetra, cantare e poetare.
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GIOCHI E SPORTS
I Romani conoscevano e praticavano molti giochi, fatti da bambine, ragazzini o persone adulte; i ragazzini, a volte, imitavano e facevano giochi normalmente effettuati dai grandi, utilizzando, però, noci, lupini, fave, ceci o fagioli al posto del denaro vero.
-l’”harundo” = canna usata dai ragazzini, facendo finta di cavalcare un cavallo;
-“pupula” = bamboletta, di stoffa o di cera, di gesso o di legno, con cui giocavano le bambine.
-“tolleno” = altalena. Fatta con una trave posta trasversalmente sopra un’altra, in modo che abbassandosi una delle sue estremità, si innalza l’altra. Gioco simile all’odierno “mazzacavallo”.
-“ludus latrunculorum” = gioco dei soldati o della guerra fatto con pietruzze bianche e nere.
– “ducatus et imperia” = gioco al generale e l’imperatore.
– “nux”= noce; gioco da ragazzi, come il nostro “o”.
-“aut caput aut navis” o “navia aut capita” = o testa o nave; gioco che consisteva (come da noi “testa o croce” o in Toscana “testa o arma”) nel gettare in aria una moneta e indovinare se, cadendo a terra, rimaneva al di sopra la parte con la testa di Giano o la nave posta sul retro della moneta.
-“trochus” = gioco del cerchio o della ruota di ferro, a cui erano attaccati anelli che, nel muoversi, generavano un crepitio (chiamati “garruli anuli”); giocattolo adoperato dai ragazzini per divertirsi in luoghi aperti e spaziosi; il cerchio era fatto girare con una verghetta di ferro terminante ad uncino, oppure da un bastoncino con una punta metallica ricurva (“clavis adunca”).
-“lapilli ocellati” = pietruzze o sassolini contrassegnati con occhietti, con i quali si giocava come con i dadi.
-“tropa” = gioco consistente nel lanciare a distanza, in una buca o fossetta, oggetti come dadi, sassolini, noci, ghiande o altro.
– “lusus calculorum” = gioco delle pietruzze somigliante al moderno gioco degli scacchi.
– “lusus duodecim scriptorum” = gioco che si faceva con pietruzze di vario colore (“calculi”) sopra una tavola divisa in 25 campi da 12 linee (“scripta”) che si incrociavano trasversalmente, molto simile all’odierno “tric trac”.
– “par et impar” = pari e caffo (dispari), eguali al nostro gioco “pari e dispari”.
– “pila” = palla. Il gioco della “pila” (piccola palla dura ripiena di crine) si praticava in questo modo: tre giocatori si disponevano a triangolo, quasi occupassero i vertici di un triangolo (per questo il gioco era anche detto “Trigon”) e si rilanciavano la palla con la mano o col “reticulum” (specie di racchetta con la rete), oppure respingendola, di rimbalzo, col braccio.
– “folliculum” = ( da “follis” = sacco di cuoio), era un pallone di cuoio ripieno di aria, con il quale si poteva giocare con molta meno fatica che con la “pila”, in quanto molto più leggero. Con il “folliculum” si giocava respingendolo con una specie di guantone nella mano destra. Risulta che appassionato praticante di questo gioco è stato anche l’imperatore Ottaviano Augusto.
-“gioco dei dadi”. Fra i Romani questo gioco era diffusissimo e veniva praticato da giovani e adulti, benché fosse severamente ed espressamente vietato dalla legge. Poiché era uno stimolo al facile guadagno senza alcun impegno ed una forte spinta alla deresponsabilizzazione ed un disimpegno morale verso la famiglia e la società; i responsabili della Repubblica capirono subito che era da vietare e da eliminare.
Molti giocatori lo praticavano facendoci sopra grosse scommesse di denaro, i soldati negli accampamenti militari della posta in gioco mettevano anche i bottini di guerra: ciò provocava gravi conseguenze sulla vita sociale e frequenti liti tra i militari; notevoli indebitamenti fra i perdenti e lauti profitti per i furbi giocatori d’azzardo (“aleatores” = biscazzieri). Lo Stato per eliminare o almeno frenare la passione del gioco d’azzardo (”alea”) ha adottato diverse leggi fra cui la “Titia publica” e “Cornelia”.
L’imperatore Augusto lo praticava con passione e l’imperatore Claudio, altro accanito giocatore, risulta abbia addirittura scritto un piccolo trattato su questo gioco.
I dati utilizzati dai romani per tale gioco, si chiamavano:
-“talus” = specie di dado oblungo originariamente fatto con i malleoli di animali e successivamente di avorio, rotondo da due parti, quindi con soltanto quattro parti segnate, per cui, gettandolo, poteva cadere, e riportava i numeri 1,3, 4,6: i numeri 2 e 5 mancavano.
– “tessera” = dado, cubo, del tutto simile ai nostri dadi. La “tessera” aveva le sei facce contrassegnate dai numeri da 1 a 6. Nel giocare, i dadi, sempre in numero di quattro, si gettavano sul tavolo (“abacus”), oppure a terra, sopra un mantello, dal bossolo che li conteneva chiamato “fritillus”. Il colpo più fortunato era detto “venus” oppure “iactus Veneris” (colpo di Venere) e si aveva quando i quattro dadi giocati presentavano quattro numeri diversi. Il colpo più sfortunato veniva chiamato “iactus canis” (colpo del cane) e si aveva quando i quattro dadi giocati presentavano quattro numeri 1. Colui che tirando faceva il “colpo del cane” doveva aggiungere alla posta in gioco un denaro per dado.
Altro passatempo per la gioventù romana era la pratica, presso il Campo Marzio, di alcuni sports largamente diffusi, come:
– il lancio del “Discus”, disco di pietra o di metallo.
– il “pancratium” = pancrazio. Che era un esercizio ginnico che comprendeva la lotta (“lucta”) ed il pugilato (“pugilatus”).
– il “penthatlum” che era l’insieme dei cinque esercizi, cioè: disco, corsa, salto, lotta, lancio del giavellotto.
– il “corycus”, grande sacco di cuoio, ripieno di sabbia o altro, che, sospeso in alto, nelle palestre veniva sospinto nelle varie direzioni dagli atleti, per potenziare la loro muscolatura.
– il “pugilatus” = pugilato, lotta col cesto. Il cesto era fatto con strisce di cuoio, guarnite di piombo o di ferro. Con esso i pugili si armavano le mani e le braccia.
– la “lucta” = lotta. Prima della lotta i concorrenti si spalmavano il corpo con unguento fatto di olio o di cera (“ceroma”). Il “ceramita” era in origine colui che ungeva i ginnasti nelle palestre, poi significò “sorvegliante di palestra”, infine era il “maestro di ginnastica”.
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ARTI E MONUMENTI
Nella scultura e nella pittura i Romani non riuscirono mai a creare mirabili opere d’arte. Le opere di scultura e pittura che ornarono in gran numero le case e le ville dei più grandi cittadini romani furono, dapprima, portate via dalla Grecia e, in seguito, eseguite in Roma, da artisti greci. Il poeta Orazio scrisse, infatti: “Graecia capta ferum vincitorem coepit et artes intulit agresti Latio…” (la Grecia conquistata conquistò il rozzo vincitore e portò le belle arti nel selvaggio Lazio).
La scultura romana, infatti, è la scultura greca esercitata in Roma, dove fiorì soprattutto negli ultimi anni della Repubblica e nell’età imperiale fra Augusto e gli Antonini (30 a.C.-160 d.C.). In questo periodo furono scolpite in gran numero statue e busti che rappresentavano celebri personaggi, eccellenti bassorilievi che adornavano colonne storiche, come la Colonna Traiana, o archi trionfali, come l’Arco di Tito.
Lo stesso si può dire della pittura, la quale mantenne lo stile greco, più della scultura. Essa fu, generalmente, pittura decorativa di pareti, come è testimoniato dagli affreschi murali di Pompei, in buona parte conservati al Museo Nazionale di Napoli.
Nell’arte dell’architettura, invece, i Romani ebbero uno stile proprio. Le loro costruzioni si distinsero, soprattutto, per grandiosità, solidità ed utilità: archi e volte, come occorrevano per la costruzione di grandi edifici; ponti solidissimi, alcuni anche a più arcate sovrapposte per attraversare il fiume e burroni o per la realizzazione di strade e acquedotti; acquedotti di straordinaria lunghezza ampie fognature, in parte ancora oggi utilizzate; piazze (“fori”) ornate di colonne, di portici; maestosi templi, simili a quelli dei greci, generalmente di forma rotonda, ornati anch’essi di colonne; mausolei ed altre tombe; circhi, teatri, anfiteatri vastissimi; colonne con bassorilievi, superbi archi di trionfo; ville e terme di incomparabile magnificenza; ricca e funzionale rete stradale.
Tante costruzioni grandiose, i cui resti, ancora oggi, attestano la solidità e l’eccellenza dell’architettura, nella quale i Romani furono sicuramente superiori agli altri popoli dell’antichità.
Molti sono i monumenti che si possono ricordare, i cui resti preziosi, ancora oggi, testimoniano e rappresentano l’immagine della grandiosità e magnificenza delle costruzioni romane, secondo il tempo in cui furono realizzate.
Al tempo dei Re appartiene:
– il “muro di Romolo” della Roma quadrata sul Palatino.
– le “mura” di Servio Tullio a difesa della città.
– la “Cloaca Massima”, meravigliosamente conservata dopo 25 secoli e che ancora oggi, in parte, serve allo scopo per cui fu costruita.
– il “Circo Massimo”, fra il Palatino e l’Aventino, che, ingrandito più volte, sotto gli imperatori, conteneva più di 300.000 spettatori.
– il “Carcere Mamertimo”, ai piedi del Campidoglio, in cui furono rinchiusi molti personaggi famosi, quali Siface re di Numidia (203 a.C.), Perseo re della Macedonia (167 a.C.), Vircingetorige re degli Arvenni (50 a.C.); i quali, dopo aver subito l’onta di essere stati condotti, incatenati e derisi, al seguito del carro del vincitore in trionfo, furono o decapitati o in altro modo lasciati barbaramente morire. In questo carcere furono strozzati i seguaci di Caio Gracco (121 a.C.) e i congiurati di Catilina (62 a.C.).
La tradizione vuole che nel Carcere Mamertino fosse stato rinchiuso anche il principe degli Apostoli San Pietro, con il quale si apre la serie degli oppressi cristiani e da questo carcere passarono poi al martirio. Per questo motivo le due celle che ancora rimangono oggi vengono chiamate la “prigione di San Pietro”.
-il “Foro Romano”, piazza principale di Roma (detto “Forum Romanorum” o “Forum Magnum”, che nei tre periodi (regio, repubblicano e imperiale) fu ingrandito e continuamente arricchito ed ornato di templi, archi, portici, colonne, statue. Era uno spiazzo livellato artificialmente lungo 154 m e largo 52. Si estendeva fra il Palatino, il Campidoglio dell’Esquilino. Rappresentava il centro della vita pubblica di Roma. Nel lato nord-ovest vi era il “Comitium” (luogo di riunione) coi “Rostra” (il “tribunal” = tribuna, ringhiera degli oratori, rialto o palco a forma di semicerchio, con scalini per salirvi, ornata con i rostri delle navi presi agli Anziati di nel 338 a.C.). Intorno erano le “tabernae” ossia le botteghe che formavano il “macellum” (mercato ove si vendevano pesce, carne, verdura). Con l’età imperiale le botteghe scomparvero dal Foro, trasferite nelle adiacenze, mentre il Foro stesso fu abbellito con nuove basiliche, archi, templi, porticati, acquistando quello splendore e magnificenza monumentale di cui ancora si vedono le vestigia. Vicino e come prolungamento del “Forum magnum” vi era il “Forum Caesaris”, fatto costruire da Cesare ed utilizzato specialmente per uso giudiziario. Nel Foro era la Basilica (edificio rettangolare con colonnato all’interno) dove si riuniva il tribunale e dove si riunivano anche uomini di affari. La prima Basilica quella fatta costruire da Catone il Censore nel 184 a.C..
Al tempo della Repubblica è minore il numero dei monumenti realizzati. Le lotte interne in cui fu involta Roma per il livellamento delle classi sociali e poi le guerre in cui fu impegnata per la conquista dell’Italia e per il suo allargamento in Oriente e in Occidente fino alla distruzione di Cartagine, non lasciarono tempo ai Romani di pensare ad abbellire la loro città. Comunque alcune opere di pubblica utilità, sia per la capitale che per lo Stato, furono egualmente realizzate. Sono, infatti, del tempo della Repubblica alcuni acquedotti, fra cui l’Acquedotto Appio e le grandi vie militari costruite prima del 150 a.C. dopo la conquista della Grecia (intorno al 150 a.C.) in Roma furono costruiti numerosi grandiosi edifici. Fra questi i più splendidi sono la “tomba di Cecilia Metella” (figlia di Metello Cretico e moglie del triumviro Crasso) che si ammira ancora oggi lungo la Via Appia; il Teatro di Pompeo”, del quale rimangono tracce presso il Campo dei Fiori.”
Moltissimi, invece, furono i monumenti realizzati nell’età imperiale. L’imperatore Ottaviano Augusto era solito vantarsi di aver trovato Roma di mattoni e di lasciarla di marmo. Al tempo di Augusto fu costruita l’”Ara Pacis”, l’altare della pace; il “Portico di Agrippa”, il “Forum Augusti”. Il Portico di Agrippa, abbellito di pitture, costruito nel 25 a.C., era frequentato dalla folla elegante, come la Via Appia, nel tratto fuori porta, era luogo di ritrovo per passeggiate eleganti; il “Pantheon di Agrippa” che il tempio più perfetto dell’antichità, un vero miracolo dell’architettura romana, voluto da Agrippa, principale artefice della potenza dell’imperatore Augusto, suo genero. Come si ammira oggi fu ricostruito da Adriano. Era un tempio rotondo, con una sublime volta o cupola, con un atrio formato da 16 maestose colonne di granito orientale, poste in doppia fila, sulle quali poggia il soffitto mediante grosse travature, che in origine erano di bronzo (le travi di bronzo furono tolte nel 1632 da Papa Urbano VIII della famiglia Barberini che ne fece le quattro colonne della basilica di San Pietro e 80 pezzi di artiglieria con cui fu guarnito Castel Sant’Angelo. Da questo fatto e dall’avere in parte demolito il Colosseo per costruire il palazzo Barberini, ebbe origine il motto: “Quod non fecerunt barbari, feceruntu Barberini”). Il Pantheon, anche se nei secoli è stato restaurato più volte, è il monumento meglio conservato di quell’età. Consacrato da Agrippa agli dei, fu convertito in tempio cristiano nelle 609. In esso fu sepolto, nel 1520, Raffaello Sanzio, più tardi altri celebri artisti e nel 1878 il primo Re d’Italia Vittorio Emanuele II.
Altri monumenti furono costruiti in quel tempo in altre città; fra di essi sono gli archi di trionfo in onore di Augusto a Rimini, a Fano, a Susa e ad Aosta.
Dopo un Augusto continua la realizzazione di nuove meravigliose opere di architettura: Tiberio fece “Castro Pretorio”, di cui esistono tracce presso Porta Pia; Caligola iniziò la costruzione del “Circo”, che prese il suo nome, ultimato poi da Nerone; Claudio costruì l’”acquedotto Claudio”, di cui rimangono ammirevoli avanzi; Nerone, distrutta la reggia imperiale su Palatino dal gravissimo incendio di Roma a lui attribuito, fece edificare la “Domus Aurea”, successivamente diroccata per farne le “Terme di Tito”.
Il periodo degli imperatori Vespasiano, Tito e Domiziano ci ha lasciato meravigliosi monumenti: l’”Anfiteatro Flavio”, denominato più tardi “Colosseo”, iniziato sotto Vespasiano, inaugurato da Tito e ultimato da Domiziano, mai superato per capienza potendo esso contenere più di 50.000 persone; le “Terme di Tito”, nei cui resti si trovano tracce degli edifici della “Domus Aurea” neroniana; nell’”arco di trionfo di Tito”, il più perfetto che le antichità abbia lasciato all’Italia, ricco di decorazioni in rilievo, costruito sopra la Via Sacra, che conduceva al Campidoglio e che veniva percorsa dai trionfatori.
Sontuosi monumenti abbiamo anche nell’età aurea dell’impero: il “Foro di Nerva”, il cui ornamento più importante erano il tempio dedicato a Pallade Minerva e il “tempio di Nerva” medesimo, di cui rimangono bellissimi resti; il “Foro Traiano”, in mezzo al quale il Senato fece innalzare la “colonna Traiana”, trofeo e tomba dell’imperatore Traiano, il quale fece costruire molte opere di pubblica utilità in tutto l’impero.
Sono opera di Traiano il “porto di Ancona”, dove si può ancora ammirare, ben conservato, l’arco che in memoria di quest’opera fu dedicato a lui ed alla moglie Plotina e a Marciana sua sorella; il “porto di Civitavecchia” detto “Portus Trajani”; l’ampliamento del porto di Ostia (oggi completamente interrato); il prolungamento della Via Appia da Benevento a Brindisi col bellissimo arco di Benevento, eretto nel 114 d.C., in onore del benefico imperatore Traiano; la grande via militare dal Mar Nero alle Gallie; un grandioso ponte sul basso Danubio; un altro grande ponte sul Tago ad Alcantara, dove si eleva un arco trionfale pure dedicato a Traiano.
Numerosissimi sono i monumenti costruiti nell’età imperiale i più famosi, secondo l’ordine cronologico in cui furono costruiti, sono: la Colonna Traiana, tutta in marmo, istoriata con le scene della guerra contro i Daci in una fascia a spirale di finissima esecuzione; l’”Arco di trionfo di Traiano” sovraccarico di decorazioni; il “Mausoleo di Adriano” (oggi Castel Sant’Angelo) bell’esempio di tomba latina circolare su di un solido il massiccio basamento quadrato; la “villa Adriana” presso Tivoli, dove Adriano volle riprodotto tutto ciò che di bello aveva ammirato nei suoi lunghi viaggi, specialmente in Grecia; la “Colonna Antonina” (in Piazza Colonna), eloquentissimo monumento delle imprese guerresche di Marco Aurelio Antonino contro il Marcomanni; la “statua equestre di Marco Aurelio” (sulla piazza in Campidoglio), portento dell’arte fusoria antica, a cui il grande Michelangelo disse che manca solo il movimento per apparire vivente; l’”Arco di trionfo di Settimino Severo”, nel Foro Romano, sulla Via Sacra; le “Terme di Caracalla”, che sono le più colossali meraviglie di Roma; le “Terme di Diocleziano”, della cui sala centrale Michelangelo fece il magnifico tempio di S. Maria degli Angeli; la grande “Basilica”, che sorge vicino al Foro Romano, iniziata da Massenzio e terminata dal suo vincitore Costantino, della quale sono ancora ben conservate tre grandi absidi conosciute sotto il nome di Archi della Pace; l’”Arco di trionfo di Costantino”, innalzato dopo la sua vittoria su Massenzio, caratteristico per la armoniosità delle linee e per le inimitabili proporzioni.
All’età imperiale appartengono pure molti grandi anfiteatri costruiti in numerosissime città dell’impero, a somiglianza di quelli di Roma; fra questi il più famosi sono quelli di Verona, di Pola, di Treviri, di Orange, di Nimes, di Arles.
Alcuni dei monumenti ricordati, ben conservati, ci danno una facile idea della sontuosità, solidità e magnificenza dell’architettura romana; di molti altri ci rimangono solo rovine, le quali ci attestano e ricordano i grandi fatti della storia di Roma.

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ACQUEDOTTI
Nel 295 a.C. fu effettuato il primo censimento della popolazione in Roma e da esso risultarono presenti 262.322 cittadini.
Per soddisfare il fabbisogno di acqua potabile di un così gran numero di persone si pensò di rifornire di acqua la città con acquedotti. Il primo di essi era già stato fatto costruire pochi anni prima dal Censore Appio Claudio il Cieco nel 312 a.C. circa.; esso è la più antica opera del genere avente una lunghezza di 16 chilometri. Dalla sorgente, che secondo la testimonianza di Frontino, situata presso la via Prenestina, l’acqua entrava in città dall’odierno piazzale di Porta Maggiore.
Molto prima dei Romani anche altri popoli, come gli Egiziani, i Greci, gli Ebrei costruirono acquedotto; ma sopra tutti i popoli antichi si distinsero per poderosi lavori idraulici i Romani. Gli acquedotti da loro costruiti in parte erano sotterranei ed in parte sopra una serie di archi, che si ripetevano per chilometri, attraversavano molte campagne dell’Impero. Essi furono costruiti non solo per Roma, ma anche nella più lontane Provincie per rifornire grosse città: nella Gallia, Spagna, Germania, Inghilterra ancora esistono i resti di queste colossali opere.
Sopra tutti è memorabile il gruppo di acquedotti intorno a Roma, dei quali restano rovine, importanti testimonianze di meravigliosi capolavori di ingegneria idraulica.
Il più antico acquedotto è quello sopra ricordato, poi seguirono in ordine di tempo:
-l’Anio Vetus, costruito nel 265 a.c., prelevava l’acqua dal fiume Aniene:
-l’Anio Novus, fatto costruire nel 46 d.c. dall’imperatore Claudio;
-l’Aqua Marcia, condotta in Roma dai monti Sabini dal Pretore Quinto Marcio Re;
-l’Aqua Alsietina, dal lago Martignano per volere di Augusto;
-l’Aqua Tepula, dai monti Sabini al Campidoglio per volere di Augusto;
-l’Aqua Iulia, sempre per volere di Augusto;
-l’Aqua Virgo, l’abbondante ed eccellente acqua di Trevi fatta raccogliere da Agrippa Marco Vispanio; così chiamata, perché, come da leggenda, sarebbe stata scoperta da una vergine; alimenta la famosa fontana di Trevi; Agrippa fece anche restaurare i vecchi acquedotti.
-l’Acqua Claudia, da Subiaco a Roma per volere dell’imperatore Claudio;
-l’Aqua Traiana, dal lago di Bracciano per volere dell’imperatore Traiano.
-l’Aqua Alexandrina, per volere dell’imperatore Alessandro Severo.
Naturalmente per gestire e conservare sempre efficiente una rete idrica così vasta e complessa vi era a capo, come responsabile, un “Edile” e, più tardi, un “Curator aquarum”. L’Edile e poi il Curator Aquarum erano coadiuvati dagli “apparitores” (impiegati subalterni) che avevano il compito di organizzare e controllare i lavori dei numerosi “aquarii” o “hydraulici”(fontanieri) che erano addetti alla pulizia degli acquedotti, dei depositi ed alla regolamentazione del flusso di acqua nelle fontane pubbliche, negli edifici pubblici e nelle abitazioni private.
Spesso “aquarii” disonesti, a danno di altrii utenti, erogavano un quantitativo di acqua superiore al dovuto a favore dei “tabernarii” per ricavarne profitti illeciti.
Dentro la città esistevano numerosi “castella” (depositi o serbatoi) ove si raccoglieva l’acqua potabile arrivata dagli acquedotti. I ”castella” avevano lo scopo di garantire una sicura scorta di acqua e servivano anche da ripartitori, infatti erano chiamati “dividicula” in quanto da essi partivano numerose derivazioni fatte con tubazioni di piombo (“fistulae” oppure “moduli”, che arrivavano a tutte le varie utenze, pubbliche e private. Custode responsabile dei “castella” era il “castellarius”.
La città di Roma era quindi rifornita con grande abbondanza di acqua, di cui i Romani andarono sempre orgogliosi, tanto che ogni casa aveva cisterne, sifoni e getti d’acqua, come diceva Strabone (63 a.c. – 19 d.c.); tutte le famiglie patrizie e/o plebee più ricche avevano grandi piscine; nel Colosseo venivano addirituura organizzate battaglie navali in una capacissima vasca costruita per lo scopo.
Gli acquedotti costruiti dai Romani hanno avuto una durata plurisecolare, alcuni di essi erano ancora funzionanti nel 1500 d.c. e furono oggetto di accurati restauri per volere dei Papi, come Sisto V.
Nelle campagne, invece, l’acqua potabile era attinta dai pozzi per mezzo di una pompa idraulica chiamata “attilia”. Esistevano numerose fontane, ben curate, ed opportunamente segnalate con grosse pietre squadrate con su scolpita la lettera “S”.
Presso di esse si dissetavano i viandanti ed i contadini abbeveravano il bestiame.
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MEZZI DI TRASPORTO
I mezzi per il trasporto terrestre di persone e cose conosciuti ed utilizzati dai Romani, erano i seguenti:
* “equus”, cioè il cavallo che era il mezzo più veloce per lo spostamento di persone; esso consentiva di fare lunghi viaggi. Il cavaliere spesso portava con sé la “mantica” o “hyppoperae”, specie di bisaccia di pelle o di spessa stoffa, che veniva legata sul dorso del cavallo. Di norma i Romani non usavano ferrare i cavalli, e, fra essi, ritenevano più forti e più veloci i cavalli di colore bianco; infatti i condottieri di eserciti o comandanti di legioni avevano tutti un cavallo di colore bianco.
* “mulus”, il mulo, guidato dal “mulio” (mulattiere); il mulo veniva utilizzato per tirare carri o per il trasporto di cose. Il mulo, animale forte e paziente, sopra il basto (“clitella”, “paramentum”, “paramma”) era capace di trasportare grossi e pesanti carichi. Era chiamato “mulio clitellarius ” il mulo col basto; “mulio perpetuarius” era il mulattiere che faceva sempre lo stesso percorso fra una stazione e l’altra.
* “asinus”, l’asino, usato in campagna per tirare o trasportare.
* “lectica”, lettiga, era la portantina ove il passeggero poteva starvi adagiato; coperta con tetto rigido, fatto di paglia intrecciata o di pelle; ai lati aveva tendine per proteggere il passeggero dal sole e dalle pioggie. Veniva portata a spalla da 6 “exaphoron “ ovvero 8 “octophoron” schiavi chiamati “lecticarii”, tanto numerosi in Roma, che si costituirono in associazione.
* “sella gestatoria”, portantina, simile alla lettiga, sopra la quale, però, il passeggero era seduto.
* “bigae, bigarum” (solo al plurale), biga, carro a due ruote trainato da due cavalli.
* “quadriga”, quadriga, carro a due ruote trainato da quattro cavalli; sulla biga e sulla quadriga salivano, restando in piedi due o tre persone oltre l’auriga (da aureas=morso ed ago=guido). Con le “bigae” e le “quadrigae” venivano fatte le corse dei cavalli al Circo.
* “currus” (parola gallica) cocchio, a 2 ruote per il trionfo o le gare nel Circo; “currus” era anche chiamato il rozzo carro da trasporto a 4 ruote.
* “ferculum”, carretta, usata nei trionfi con sopra le spoglie dei nemici vinti e nelle processioni per trasportare le statue degli dei.
* “carpentum”, carrozza a 2 ruote, coperta, di lusso per sacerdoti o signore, usata specialmente nelle solennità.
* “carruca”, carrozza di lusso, coperta, a 4 ruote, più adatta per signore, era guidata dal “carrucarius” (= cocchiere).
* “petorritum” (parola gallica), carrozza scoperta a 4 ruote.
* “pilentum”, carrozza a 4 ruote, usata in origine solo dalle sacerdotesse e dalle matrone romane nei giorni di festa, poi di uso comune.
* “bastarna”, carrozza chiusa per matrone, tirata da mule, che procedeva lentamente.
* “cisium”, biroccio a 2 ruote per traspori piccoli e leggeri.
* “reda”, grosso e lungo carro a 4 ruote, con più file di sedili per passeggeri, tirato da cavalli, serviva per viaggiare con la famiglia e con i bagagli.
* “plaustrum”, carro da trasporto od anche carretta.
* “serracum”, grosso carro agricolo con 2 ruote, con sopra una cassa con pareti per il trasporto di granaglie; aveva un lungo timone, al quale, col giogo (iugum) erano attaccati gli animali da tiro (buoi, vacche, cavalli, asini o muli).
* “hamaxa”, grosso carro a quattro ruote;
* “iugum”, arconcello, era così chiamato anche il bastone ricurvo che i contadini (come ancora fanno i contadini cinesi) portavano sulla spalla destra per sostenere alle due estremità ceste di vimini con le quali trasportavano oggetti vari, o due secchi per trasportare acqua.
Le carrozze di vario tipo e grandezza venivano costruite dal “carpentarius” (fabbricante di carrozze), che lavorava nella “fabrica carpentaria”.
Per il trasporto in acqua venivano usate barche e navi di diverse dimensioni e capacità; le più piccole sospinte con i remi e le più grandi, munite di remi o di grosse vele e mosse dalla forza del vento.
Le barche o navi, oltre quelle da guerra e trasporto già descritte dalla pagina 110 e seg., erano le seguenti:
* “lintriculus”, barchetta a remi;
* ”linter” , piccola barca o canotto a remi;
* ”cymba”, barchetta fluviale;
* “ponto”, piccola barca a fondo piatto;
* “navicula”, piccola nave a remi;
* “actuariola”, navicella a remi;
* “scapha”, barchetta o canotto a remi;
* “phaselus”, barchetta leggera, così chiamata per la sua forma somigliante al baccello del fagiolo (“phaselus”), fatta comunemente di viminio di papiro,talora anche di terracotta poi dipinta.
* “cybaca”, grossa nave, dai fianchi larghi, considerata la nave regina, per le grosse quantità di merci che riusciva ad imbarcare e trasportare.
*”stlata”, nave mercantile, più tardi “brigantino” (veliero a due alberi con vele quadrate).
Alcuni dei sopra elencati canotti o piccole barche venivano usate anche per scopi militari, ma principalmente il loro utilizzo era richiesto per il trasporto, la pesca o lo svago.
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ARTI E PROFESSIONI
Le arti e le professioni esercitate in Roma da artigiani, liberti o schiavi, e da liberi professionisti erano tante e tali da soddisfare tutte le esigenze di una collettività socialmente ben organizzata.
Per indicare alcune professioni si usavano espressioni formate da “a” oppure “ab” ed un sostantivo, sempre sottintendendo o aggiuggendo la parola “servus”:
– a memoria eius = archivista
– a manu servus = segretario
– a rationibus = contabile
– ab epistulis = segretario per la corrispondenza
– a bibliotheca = bibliotecario
– ab argento = tesoriere
– a pedibus = corriere, valletto
Arti e professioni venivano esercitate da singoli oppure da più individui riuniti in corporazioni (chiamate “collegia” oppure “centuriae”. Esse avevano un proprio statuto, un patrimonio sociale, un presidente (“magister”) ed in giorni stabiliti si riunivano a banchetto. Avevano anche, ciascuna, un proprio cimitero.
Il compenso per la esecuzione di un lavoro o per una prestazione professionale era il “manupretium” (prezzo della manodopera).
Gli artigiani eseguivano le loro opere in appositi locali chiamati “officina” o “fabrica” o “taverna” ossia bottega. Quando un artigiano smetteva l’attività, a causa dell’età, per motivi di salute o altro, dedicava ad un dio tutti gli strumenti usati per l’attività svolta.
L’artigiano di bassa condizione, poco bravo e raffinato nel mestiere, era detto “cerdo”.
“Actuarius” era il tachigrafo, stenografo, segretario o ragioniere; “faber lignarius” era il falegname che costruiva imposte di finestre, porte, tavoli, sedie, sgabelli, mobili da cucina e per uffici pubblici usando la “runcina” (pialla), la “scobina” (raspa), la “serra” (sega), il “cestrus” (scalpelletto, bulino) chiamato anche “fabrilis”. Nella “fabri lignarii officina” lavorava anche il restauratore di mobili “integrator” e l’ebanista intarsiatore (“intestinarius faber”).
Il sarto nell’”officina vestium promercalium” faceva vesti da vendere al mercato, pure vesti cucite su misura. “Bracarius” era chiamato il sarto confezionatore di “bracae” (calzoni larghi e lunghi) il cui indossatore era chiamato “bracatus”. I sarti per togliere le pieghe della stoffa usavano una specie di soprappeso, oppure con un ferro caldo stiravano (“levigabant”) l’abito.
Nella bottega chiamata “pellesuina” lavorava il pellicciaio (“pellio”).
L’orefice “aurifex” era l’orafo, l’orefice che realizzano oggetti in oro: anelli, collane e monili. “Anellarius”, era il fabbricante di anelli.
“Aromatarius” o “seplasarius” era il profumiere, chiamato anche (“seplasarius” da “seplasia” dal nome di una piazza di Capua ove esistevano numerose profumerie).
L’”officina armorum” oppure “armifactura”, usando il “malleus” (martello) e la “incus” (incudine”) e la “forceps” (tenaglia) forgiava le armi. La fucina del fabbro era il “caminus”.
“Dulciarius” era il pasticciere chiamato anche “placentarius” in quanto faceva le focacce (“placentae”).
“Tubarius” era il fabbricante di trombe.
“Fusor” era il fonditore di metalli.
“Faber aerarius” era lo scultore in bronzo o fonditore di metalli.
“Vitrearius” era il vetraio.
“Plasticator” era il modellatore in creta o gesso, essendo chiamata “plastica” l’arte del modellare.
“Figulus” era il vasaio, lavoratore di oggetti in creta,
“Glutinator” era il rilegatore dei fogli di un libro.
“Tector”, affrescatore di pareti, pittore, che fra gli unguenti preparati per dipingere ne aveva uno preparato con lo sterco di coccodrillo.
“Baphius” era il tintore di stoffe che nella sua tintoria (“baphium”) eseguiva la tintura, in vari colori, di stoffe più o meno pregiate. La porpora era una stoffa di lana tinta di rosso con il “murex” (murice), mollusco marino, che ridotto in poltiglia, veniva fatto bollire in acqua insieme alla stoffa. Affinché la tinta fosse più belle e resistente, l’operazione veniva ripetuta. Le stoffe più costose si chiamavano “dibaphi” (a doppia tinta) ed erano usate per la veste listata di porpora di magistrati superiori e di senatori. Esse venivano preparate da bravi tintore chiamati “magistri fucundae purpurae”. Le tintorie di porpora esistenti a Taranto erano le più famose.
La “fullonica” era la lavanderia ove lavorava il “fullo” (lavapanni) lo sgrassatore di panni che immergeva gli stessi in una tinozza (“pila”).
“Pistor” era il mugnaio, il frantoiano ed il pastaio. La “pistrina” era la bottega dove si faceva il pane.
“Crustularius” era il pasticciere che preparava il “crustulum” ossia il biscotto o ciambella ricoperti di una crosta dolce.
Il macellaio lavorava nella macelleria “laniena” oppure “lanarium” oppure “carnaria”. Per disossare la carne egli usava il “culter osseus” (coltello da macellaio) chiamato anche “clunambulum” o “clunabulum”, che in genere il macellaio portava appeso da dietro, sulla natica (“clunis”) da cui il nome.
“Faber aedium” era l’ingegnere edile, il fabbricatore di case.
“Machio”, oppure “structor” oppure “cementarius” era il muratore.
“Operaius” nell’edilizia era il facchino chiamato anche “latuarius” (colui che porta) o “gangaba”.
“Acicularius” era lo scalpellino.
“Calcariensis” era il fornaciaio.
“Carpentarius” era il carpentiere.
“Machinator” era l’ingegnere costruttore di macchine.
“Dealbator” era l’imbianchino.
“Pictor” era il pittore di pareti.
“Furnarius” era il fornaio, il cui negozio, sempre caldo, era frequentato da quelli che vi entravano specialmente nel periodo invernale, per riscaldarsi oppure dagli oziosi che vi passavano il tempo per commentare le novità. Il fornaio esponeva il pane, in vendita, un’apposita tavola (“incerniculum”).
“Sutor”, era il calzolaio il quale per tendere la pelle usava il “tentipellium” una forma da scarpa così chiamata.
“Taberna tonsoris” era la barbieria. Il barbiere (“tonsor” oppure “capiti set capillorum tonsor” tagliava capelli, barba ed unghie usando le ”tonsoria ferramenta” costituite da “axicia” (forbice) e il “culter tonsorius” oppure “novacula” (rasoio). I Romani usarono portare la barba fino al 300 a.C. circa, epoca in cui comparvero i primi barbieri. Da allora in poi prevalse il l’uso di radersi, tranne il caso in cui si faceva lutto o quando si aveva un processo in corso. Ai tempi di Cesare era in uso radersi, portare la barba era proprio dei gagà. Nel primo secolo d.C. le barbe tornarono di moda. Come dopo l’imperatore Adriano l’uso della barba si generalizzo.
“Taberna cinerarii” era la parrucchieria ove lavorava il “cinerarius” chiamato pure “capitis et capillorum concinnator”. Egli effettuava la pettinatura alta, a cono, consistente nel riunire tutti i capelli su cocuzzolo, tenendoli stretti con nastri (“titulus”). Applicava parrucche (“galeri” o “galeria”) e parrucchini (“galerucoli”). Con un ferro caldo, vuoto a forma di canna, chiamato “calamistrum”, egli dava l’onda ai capelli oppure li attorceva in riccioli; la chioma era, allora, chiamata “coma calamistrata”. Lo schiavo, garzone di bottega, addetto a tenere il “calamistrum” al caldo sotto la cenere, era chiamato “cinerarius”.
“Taverna sutrina” era la bottega del calzolaio (“sutor” oppure “calceolarius”). Egli con la “forma caligari”, aiutandosi con uno stampo in legno, cuciva ex novo o riparava calzature di ogni genere: da stivaletti di cuoio e sandali ben rifiniti, per i più abbienti, agli zoccoli (“gallica solea”) specie di rozza scarpa da uomo, bassa e a suole spesse, senza tacco, originariamente usata nelle Gallie, per il popolino.
“Medicus” era il medico generico.
“Medicus chirurgus” era il chirurgo.
“Medicus dentium” era il dentista che, usando “ferramenta medicinalia” (strumenti da chirurgo) curava i denti, estraendoli, se necessario con apposita tenaglia chiamata “denticulum”; consigliava l’uso di appositi erbe per calmare il dolore dei denti, raccomandando la pulizia giornaliera degli stessi col “dentifricium”.
“Toraria” era l’infermiera che collaborava con i medici e chirurghi nella loro opera.

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MEDICI E MEDICINE
I Romani stettero per parecchio tempo senza medici: gli unici rimedi che usavano contro le malattie erano le erbe medicinali o le cure suggerite da persone anziane che erano a conoscenza di ripetute esperienze fatte e tramandate dagli antenati.
Gli ammalati che avevano avuto la fortuna di guarire, andavano a dichiarare in un tempietto i medicamenti che gli avevano restituito la salute. Si ricorreva anche ad un dio al quale si prometteva un’offerta, un sacrificio in cambio della guarigione.
L’ammalato scriveva la sua domanda e la sua promessa su tavolette che incollava, poi, con la cera, su un ginocchio o sulla coscia della statua della divinità.
Il primo medico comparso a Roma fu un certo Arcagata, greco, nel 218 a.C., a cui lo Stato conferì la cittadinanza romana. Esercitò la sua professione comprando una bottega presso il mercato dell’olio. Poiché egli si dedicò alla cura delle ferite fu soprannominato “vulnerarius”.
Molti romani però guardarono di malocchio la professione del medico, considerata “priva di dignità”. Così Catone il Censore (234-147 ac) scriveva a suo figlio: “I Greci sono una razza perversa ed indocile. Un oracolo parla a mezzo della mia bocca quando io ti dico: ogni qualvolta questa nazione ci porterà le sue cognizioni, rovinerà tutto; peggio sarà se ci manda i suoi medici. Essi hanno giurato fra loro di uccidere con la medicina tutti i barbari: considerano noi pure come barbari. Se ci chiedono un salario per curarci, lo fanno per ispirare a noi più confidenza e per rovinarci più presto. Una volta per tutte, io ti proibisco i medici”. Anche se questa era la considerazione che i Romani avevano della professione medica, i medici, ben presto, acquistarono credito e aumentarono il numero. Le famiglie natalizie ne ebbero uno fisso fra i propri schiavi; vi furono medici anche fra i liberti e fra i liberi di nascita.
Nessuna garanzia si esigeva dai medici, essi esercitavano dove potevano e curavano gli ammalati con i rimedi che conoscevano. Silla, però, pretese di renderli responsabili della loro negligenza o imperizia e pubblicò una legge che puniva i loro errori con la deportazione ed anche con la morte: ma questa legge non fu mai applicata.
I medici più capaci ed abili riuscirono a procacciarsi grosse rendite. Plinio ricorda un medico che lasciò in eredità, alla sua morte, una rendita che valeva milioni di sesterzi.
Un famoso medico, di nome Stertinio, guadagnava ogni anno cifre astronomiche. L’imperatore Claudio retributiva il suo medico con lauti compensi. Il medico di nome Tessalo, per la sua bravura, ebbe sulla tomba il titolo di “iatronico” (vincitore dei medici).
I primi medici, a Roma, furono di origine greca e la “medicina” era esercitata dal “medicus” e la “chirurgica medicina” dal “chirurgus”. Le varie branche della medicina erano esercitate da medici specialisti, quali: il dentista (“medicus dentium”), l’oculista (“medicus oculorum” oppure “ophtalmicus”), l’ostetrico (“medicus qui artem obstetriciam exercet”) ecc.
I medici e chirurghi avevano scarsa preparazione teorica ed esercitavano spesso la professione aiutati dalla sola esperienza. Vi erano anche medici che esercitavano la loro professione in forma ambulante e si spostavano di città in città ed erano chiamati “periodenta”.
I primi trattati di medicina, presso i Romani, furono scritti da Celso, medico al tempo dell’imperatore Tiberio, autore di un’opera enciclopedica, della quale conosciamo gli otto libri giunti fino a noi.
Fu solo l’influenza greca che permise alla medicina ed alla chirurgia romane di svilupparsi, tenuti presenti i preziosi insegnamenti della scuola di Ippocrate. Quanto ci ha lasciato scritto Aulo Cornelio Celso nel “De re medica” (opera scritta tra il 25 e il 35 d.C. ci dà la dimostrazione che in Roma veniva praticata un’attività operatoria e nel contempo veniva anche svolta l’attività didattica circa la diagnostica. Grandissima influenza ebbe l’opera del medico greco Galeno (vissuto dal 130 circa al 201 d.C.) il quale, venuto a Roma nel 161, fu medico personale di Marco Aurelio e Comodo. Le sue numerose opere di carattere scientifico, fino al secolo XVII, furono il punto di partenza e alla base di ogni ricerca scientifica.
Plinio il Vecchio ha scritto un trattato sui medicamenti che si possono preparare con le erbe e con le radici.
Le malattie venivano curate con i medicamenti prescritti dal medico e preparati dallo speziale chiamato “pharmacopola” e consistenti in pomate, unguenti, fumenti, sciroppi, pastiglie ecc.
Era comune fra la gente la convinzione che nelle malattie, superato il settimo giorno (“hebdomas”) era superata la fase critica e si poteva sperare in una sicura guarigione.
Molti medicamenti venivano preparati direttamente dai familiari dell’ammalato utilizzando erbe, radici, pomate, fomenti, purghe ecc., in base alle rudimentali conoscenze di cure tramandate da generazione in generazione.
Al medico non si ricorreva certamente per un semplice raffreddore (“coryza”), perché veniva curato con fomenti.
L’opera del medico era, invece, necessaria e richiesta per curare malattie più gravi:
. una emorragia (“sanguinis eruptio”)
. l’epilessia (“morbus comitalis”, così chiamato perché un attacco epilettico il giorno dei Comizi, considerato segno di malaugurio, li faceva immediatamente sospendere e rinviare).
. il mal di pancia (“ventris dolor”);
. il mal di stomaco (“stomachicus = colui che soffre di stomaco);
. il mal di cuore (“cardicus” = colui che soffre di cuore)
. il mal di testa (“capitis dolor”).
A questi malati il medico poteva soltanto prescrivere appropriati medicamenti, oppure effettuare un salasso (“phlebotomia”), facendo una incisione col ”phlebotonus” (coltellino del salassatore), applicando poi l’”hirudo” (mignatta o sanguisuga).
Contro il mal di gola consigliava al malato di fare gargarismi (“gargarisma”) con il succo di erbe medicinali, o con olio (“os de oleo”).
Le medicine più comuni erano le seguenti:
_ “antera”, medicina fatta con fiori;
_ “antidotum”, contravveleno, antidoto;
_ “abrotonum”, erba medicinale;
_ “dialectrum”, pillola di ambra contro le emorragie interne;
_ “dialepidos”, collirio nella cui preparazione si usava limatura di rame;
_ “diamannae”, medicamento a base di manna o incenso;
_ “diamelitoton”, empiastro emolliente o cataplasma base di meliloto;
_ “diamyrton”, decotto a base di mirto;
_ “diamisyos”, collirio al vitriolo;
_ “diamoron”, sciroppo di more;
_ “diapeganon”, medicamento a base di ruta;
_ “diapente”, medicamento composto da cinque ingredienti;
_ “diasporicum”, specie di collirio;
_ “diapsycon epitema”, rimedio refrigerante;
_ ”diasampsuchum”, medicamento a base di maggiorana;
_ “diascammonias”, purgante di scammonea;
_ “diaspermaton”, medicamento a base di semi;
_ “diasteaton”, medicamento a base di sego;
_ “diatessaron”, medicamento fatto con quattro ingredienti;
_ “diatheon”, medicamento a base di zolfo;
_ “diabotanon”, brodo di erbe;
_ “diacochlecon”, latte in cui erano state fatte bollire lumache (contro il mal di pancia);
_ “diacopregias”, empiastro a base di sterco caprino;
_ “diaeteon”, empiastro a base di succo di salice;
_ “ echeon”, medicamento preparato con ceneri di vipera;
_ “leucantua”, erba utilizzata per curare la sciatica;
_ “ischaemon”, pianta emostatica;
_ “lycium”, medicamento ricavato dal succo di erbe;
_ “panacea”, erba portentosa, però immaginaria, che guarirà sicuramente da tutti i mali.
_ “phinon”, specie di collirio.
In medicina i Romani usavano anche il “laser” che era il succo (resina) di una pianta da noi chiamata silfio o laserpizio; di ottima qualità era quello importata dalla Cirenaica.
Quasi la totalità delle medicine era chiamata con nomi derivanti da parole della lingua greca; ovviamente ciò dipendeva dal fatto che la maggioranza dei medici era di origine greca.
Il “medicus chirurgus” esercitava la sua professione utilizzando i seguenti strumenti (“ferramenta medicinalia”), quali:
_“acus”, ago per ricucire le ferite e le incisioni usando come filo il “linum” (filo di lino) oppure crini di cavallo (“saeta equina”) perché sottili, elastici e resistenti;
_“ancistrum”, una specie di scalpello adunco;
_“corpus”, strumento chirurgico somigliante al becco di corvo, ancora oggi in uso e
chiamato dai Francesi “bec-de-corbin”;
_“scalpellum”, specie di lancetta tagliente per fare incisioni;
_“serra”, sega per tagliare le ossa;
-“specillum”, sonda.
Prima delle operazioni chirurgiche particolarmente dolorose all’ammalato venivano somministrate bevande inebrianti od altro, in modo da ridurre la sensibilità ed alleviare i dolori. Comunque, a quei tempi, l’intervento del chirurgo suscitava sempre grande paura all’ammalato il quale, da sveglio, doveva, talvolta, sopportare l’amputazione di un braccio o di una gamba, un intervento allo stomaco o alla testa o all’intestino ecc. Ultimato l’intervento, durante il quale venivano usate erbe e pomate emostatiche, il chirurgo, utilizzando strisce di lino e di seta fasciava l’ammalato. Per sostenere le braccia rotte o slogate veniva usata una fascia di seta chiamata “mitella”.
Come collaboratori il medico o il chirurgo aveva altri medici o chirurghi, oppure una infermiera chiamata “toraria”.
Infine è da ricordare che anche gli animali avevano un medico: il “medicus iumentarius”, come l’odierno veterinario.
Durante il Medioevo l’arte medica fu esercitata, nei monasteri, dai monaci, fino a quando col Concilio di Tours (nel 1163) fu loro severamente vietata la possibilità di eseguire operazioni cruente. Ai monaci medici subentrarono, esercitando l’attività fino al secolo XVIII, medici ciarlatani e chirurghi praticoni, i quali, con grande destrezza, ma anche con molta temerarietà, eseguivano interventi chirurgici molto arditi, ma spesso con esito mortale. La chirurgia minore era esercitata da persone impreparate, senza alcuna dottrina, soprattutto dai barbieri “chirurghi”.

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IMPOSTE E TASSE
La riscossione delle imposte e tasse, anche nelle Province, fu affidata ad appaltatori, appartenenti in genere alla classe dei cavalieri mediante aste pubbliche. Essi percepivano un compenso (aggio) pari ad ¼ delle somme riscosse, per cui venivano chiamati “quadruplatores”.
Nel pubblico incanto, per indicarne il luogo e come segno dell’autorità, veniva infissa al suolo un’asta di legno (da cui il nome di asta pubblica) presso la quale il “praeco” (banditore) proclamava ad alta voce il prezzo e l’oggetto dell’asta (esazione di imposte, aggiudicazione dei lavori, forniture, vendita di terreni od altro).
Il “manceps” o il “redemptor” (imprenditore di opere pubbliche o fornitori di materiali o manodopera, o esattori di imposte) facendo un cenno con la testa o alzando il dito indice faceva la sua offerta. L’aggiudicazione veniva ufficializzata da un Edile che presiedeva a tutte le operazioni dell’asta.
Nell’opera di riscossione delle imposte l’appaltatore aveva dei collaboratori chiamati “coactores” (collettori di incassi).
I proventi delle imposte e tasse dovute allo Stato confluivano all’”Aerarium” (Tesoro dello Stato – l’Erario di Roma) custodito nel tempio di Saturno, ai piedi del Campidoglio,(diverso dall’”aerarium privatum” o “fiscus” che era la cassa dell’Imperatore).
Per la riscossione di imposte e tasse nelle Province nacquero società o compagnie (“societas vectigalium”), formate da ricchi borghesi o da cavalieri che prendevano in appalto dallo Stato l’esazione e la riscossione delle imposte e tasse.
A Roma e nelle Province venivano riscosse le seguenti imposte e tasse:
_ “aedilicium”, imposta riscossa a Roma direttamente dagli Edili, nelle Province dai Governatori, per fronteggiare le spese per i giochi pubblici;
_ “capitatio”, tassa individuale di focatico, sulla famiglia;
_ “testatio”, testatico, tassa su ciascun capo di bestiame;
_ “cerarium”, tassa applicata sulla cera usata per sigillare e bollare lettere o documenti;
_ “cloaucarium”, tassa per la manutenzione e lo spurgo delle fognature;
_ “decima”, imposta sui terreni dello Stato, chiamati “arationes”, che venivano affittati nelle Province; su i loro prodotti si pagava la 10ª parte come canone di fitto.
_ “portorium”, dazio sulle importazioni e sulle esportazioni; nei porti le merci in entrata e in uscita venivano controllate da un doganiere chiamato “portitor”.
_ “praetorium”, imposta destinata al pretore.
_ “scriptura”, imposta sui pascoli, pagata dall’assegnatario dei pascoli;
_ “solarium”, imposta fondiaria;
_ “stipendium”, imposta sui terreni pagata dal concessionario di terre dello Stato nelle province e senatorie, versata all’”Erarium”;
_ “tributum”, imposta sui terreni pagata dal concessionario nelle Province imperiali, versata poi al “Fiscus”, la cassa dell’imperatore;
_ “tributum ostiarium”, imposta sulle porte, gli si esigeva per ogni porta (“ostium”) delle case;
_ “vectigal”, imposta sulla terra dovuta da colui al quale, dopo la centuriazione, veniva restituita la terra già tolta;
_ “vicesima”, tassa sulle eredità, pari ad un 20º del valore della stessa; questa tassa veniva pagata anche dal padrone nell’affrancamento di uno schiavo e veniva calcolata sulla somma spesa per l’acquisto dello stesso.
_“aes hordeaceus” era il soldo pagato dalle donne non sposate quale contributo per mantenere i cavalli della cavalleria.
Al contribuente, da parte dell’esattore, veniva rilasciata una quietanza liberatoria attestante l’avvenuto pagamento dell’imposta o tassa, chiamata “apocha”.

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COMMERCIO
Il commercio anche per i Romani, come per tutti i popoli, è stata un’attività esercitata fin dall’antichità. I rozzi pastori del Lazio pagavano con bestiame (“pecus” da cui la parola “pecunia”) le merci acquistate fra di loro o dalle popolazioni confinanti.
Da questa primitiva forma di compravendita, caratterizzata dallo scambio di cosa contro cosa (bestiame), si passò allo scambio di cosa contro prezzo (valore attribuito alla cosa acquistata), in cui il prezzo veniva pagato con il bronzo (“aes rude”) da pesarsi di volta in volta.
Compratore e venditore intervenivano con la cosa oggetto di compravendita (sempre se cosa mobile), e con loro cinque cittadini romani ed il “libripens” (pesatore), provvisto di una bilancia (“libra”), controllata dall’autorità locale.
Il compratore, toccando la cosa da acquistare, pronunciava la formula: “Aio hanc rem meam esse ex iure Quiritum, eaque mihi empta esto hoc aere aeneaque libra” . (Io dico che questa cosa sia mia in base alla legge dei Quiriti, essa da me sia comperata con questo pezzo di bronzo e con la bilancia di bronzo). Quindi gettava sul piatto della bilancia l’”aes rude” che occorreva al pagamento. Nessuna dichiarazione veniva fatta dal venditore.
Col passare del tempo, per due diversi ordini di cause, si modificò il sistema di compravendita:
a)- con l’invenzione della moneta coniata, che si conta (“pecunia numerata”), la pesata del “libripens” divenne un mero simbolo è ben presto sparì.
Ad essa si sostituì un’altra formalità: il compratore (“accipiens”), dopo aver pronunciato la predetta formula, riceveva dal “libripens”, presente alla operazione di compravendita, un pezzetto di bronzo o piccola moneta (“raudusculum”). All’invito fatto dal “libripens”: ”Raudusculo libram ferito” (con la verga sia toccata la bilancia), il compratore, ubbidiva toccando la bilancia e dichiarando il prezzo al quale acquistava.
Col passare del tempo anche la persona del “libripens” sparì e tutte le operazioni di compravendita venivano fatte direttamente fra acquirente venditore con lo scambio immediato di merce contro denaro.
b)- gli scambi con altri popoli fecero sorgere il contratto consensuale di compravendita, nel quale non esistevano le suindicate formalità; il compratore versando denaro diveniva proprietario della merce comperata. Il contratto di compravendita sostanzialmente era caratterizzato dallo scambio di denaro contro merce.
Ad iniziare dal secondo secolo a.C. il commercio e le attività artigianali erano considerate occupazioni non convenienti e disonorevoli per un libero cittadino; erano perciò lasciate agli stranieri, ai liberti ed agli schiavi.
Nel periodo di decadenza della Repubblica gli appartenenti all’ordine Equestre cominciarono a prendere parte al commercio in grande, a riunirsi in società, prendere in appalto la riscossione delle pubbliche entrate, provvedere all’approvvigionamento degli eserciti, ed attuare l’esecuzione di grandi opere pubbliche.
In Roma il commercio era esercitato in forma fissa nelle “tabernae” (negozi) ubicate lungo le strade cittadine (“vici” o “clivi”) o sotto i numerosi portici (se ne contavano ben 45 all’inizio dell’epoca imperiale). Nei negozi era possibile trovare tutte le merci e prodotti necessari a soddisfare ogni esigenza della popolazione: dal pane, vino, olio, sale, carne, pesce, ortaggi, stoffe, vestiti, calzature, profumi, gioielli, giocattoli, libri ecc. Tutto ciò che era necessario per la vita quotidiana ed alle comodità della vita, era sempre reperibile e ben esposto ed in vendita nei negozi.
Le famiglie più ricche facevano acquisti nei negozi più lussuosi, potendo spendere anche grandi somme: le stoffe più belle, i vestiti più eleganti, i gioielli più raffinati, i profumi più ricercati potevano solo essere ammirati e desiderati dai popolani cenciosi e squattrinati.
La borsa per la spesa quotidiana era fatta a rete e chiamata “reticulum”.
I plebei effettuavano i loro acquisti quasi sempre al mercato, ove trovavano articoli e merci a prezzi molto più bassi, ma, purtroppo di qualità scadente.
I prodotti dei vari artigiani venivano esposti e venduti presso le “tabernae” oppure direttamente nel laboratorio ove erano prodotti.
La compravendita (“mancipium” da “manus” = mano e “capio” = prendo) di una casa o di un terreno veniva effettuata, in presenza di cinque testimoni, toccando con la mano l’oggetto comperato.
Le espressioni seguenti, significavano:
_ “lex mancipi” = contratto di vendita;
_ “empio mancipi” = acquisto per mancipazione;
_ “ius mancipi” = diritto di acquisto, diritto di proprietà;
_ “mancipio dare”= dare, vendere la proprietà per mezzo di mancipazione;
_ “mancipio accipere”, acquistare per mezzo di mancipazione.
Nell’effettuare gli acquisti i clienti dovevano stare bene in guardia quando si imbattevano con commercianti disonesti (chiamati “mangones”), i quali con belle parole e mezzi artificiali abbellivano la merce per venderla a prezzi molto più alti. Nel vendere la frutta e la verdura si conosceva già a quei tempi la moderna “coppatura”, consistente nel mettere sopra ed in bella evidenza la frutta o verdura più bella e, sotto, ben nascosta, quella più scadente. I “mangones” più frequentemente si incontravano fra i rivenditori di pietre preziose, gioielli, profumi, vino ed anche di schiavi.
“Negotiator” era il commerciante all’ingrosso, che con navi proprie o prese a nolo importava grandi quantitativi di merci da province lontane da Roma (grano, olio etc.). Egli importava, specialmente nel periodo imperiale, anche animali dall’Africa, utilizzati poi negli spettacoli pubblici organizzati presso il Colosseo, nei combattimenti con i gladiatori chiamati “bestiarii”.
Sulle mense dei plebei molto ricchi, delle famiglie patrizie facoltose, della Corte imperiale, arrivava frutta fresca esotica ed ogni qualità di pesce, trasportati dai paesi e mari più lontani, con veloci navi, al porto di Ostia.
Le grandi forniture per le legioni erano dati in appalto dallo Stato a grandi impresari (“negotiatores”).
Ricchi ed intraprendenti imprenditori si trasformarono in “nauclearii” o noleggiatori di navi (“locatores”), creando così una consistente flotta mercantile, le cui navi, solcando in lungo e in largo il Mediterraneo, toccando i numerosi porti, allo scopo organizzati, facevano affluire abbondanti merci dall’Oriente, le quali, poi, con celeri mezzi di trasporto terrestre, attraverso un’ampia e razionale rete stradale, raggiungevano facilmente i più grossi centri abitati.
Grossi navi mercantili, a vele, comandate dal “nauarcus”, trasportavano: oro, preziosi, granaglia, sale, olio, vino, minerali, marmi, animali etc.
I vari armatori o noleggiatori facevano pagare un prezzo per il trasporto (“vectura” o “portorium” o “naulum”), in concorrenza fra di loro, pur di aggiudicarsi il trasporto.
Con questi mezzi marittimi di trasporto i Romani divennero ben presto i padroni del Mediterraneo, incrementando fortemente gli scambi commerciali con le regioni conquistate.
La nave da trasporto “regina” per i Romani era la “navis oneraria”, robusta e molto capace, con la quale si traversavano i mari con sicurezza, facendo affluire a Roma ingenti carichi di merci di vario tipo. Su di essa le merci venivano caricate o alla rinfusa o, per i liquidi, in anfore. La capacità di portata delle navi da carico era misurata in anfore, tenendo presente che ogni anfora, in genere, pesava 80 libbre romane (la libbra era pari a gr.327,48×80 = kg.26,196). Le grandi navi onerarie trasportavano anche oltre 2.000 anfore, quindi, in media, oltre 52.000 kg (= 520 q.li).
Naturalmente queste navi, specialmente se trasportavano preziosi, erano oggetto di continui e repentini attacchi da parte delle numerosissime e veloci “naves piraticae”, che attrezzate per depredare, avevano sempre il sopravvento sulle lente navi mercantili, non in grado di difendersi con i pochi marinai (“nautae”) presenti a bordo.
Dal 100 a.C. circa in poi, sia per l’affluenza di fuorusciti politici, di schiavi fuggitivi, di provinciali ridotti in miseria dalle gravose vessazioni dei governatori romani, i pirati erano divenuti così numerosi da formare una vera e temibile potenza marittima, che infestava tutto il Mediterraneo, rendendo oltremodo insicura la navigazione.
Catturavano navi e cittadini romani, intercettavano il commercio, saccheggiavano le coste d’Italia. Ai cittadini romani catturati venivano richieste ingenti somme in cambio della liberazione. Roma dovette affrontare il problema ed intervenire e, nel 67 a.C., tramite Pompeo, intraprese contro di essi una vigorosa guerra. Pompeo con una poderosa flotta, bloccati tutti i porti, obbligò i pirati ad accettare la battaglia in mare aperto ed in pochi mesi (alcuni dicono in 40 giorni), li distrusse completamente, liberando il Mediterraneo dalle loro rapaci incursioni. Ma già al tempo di Cesare (egli stesso per 38 giorni ne fu prigioniero, ma, appena liberato, catturò i pirati e li fece impiccare) numerosi pirati molestavano il commercio marittimo e Roma li dovette combattere nuovamente.
Il commercio in forma ambulante, molto praticato, invece, veniva esercitato dall’”arpillator” (= commerciante ambulante), il quale, a volte, aiutandosi con un piccolo mezzo di trasporto, spinto a mano o tirato da un cavallo, svolgeva la sua attività. “Piscarius” era chiamato il pescivendolo, il rivenditore di pesce nella “piscaria” (pescheria) od in forma ambulante. Il “coronarius” e la “coronaria” (il fioraio e la fioraia) rivendevano i fiori coltivati dal “topiarius” (giardiniere). Il “pigmentarius” (profumiere) esponeva la sua merce nel “myropolium” (profumeria) oppure la vendeva in forma ambulante.
Il commercianti al minuto era detto “caupo” in contrapposizione a “negotians” o “negotiator” che era il commerciante all’ingrosso.

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MONETE
Quando i Romani erano ancora rozzi pastori ritenevano che la ricchezza fosse rappresentata esclusivamente dal possesso di un sempre maggior numero di capi di bestiame (“pecus”). Era, infatti, con la cessione di bestiame che si provvedeva al pagamento in caso di acquisto di merci.
Il vocabolo che al plurale significa appunto denaro, deriva infatti da “pecus” che significa bestiame.
Questo sistema di pagamento fu usato dai Romani fino a quando essi non iniziarono ad usare come mezzo di pagamento, anziché bestiame, un pezzo di rame o di bronzo (“aes rude”) non monetato, il cui valore era determinato in base al peso. Successivamente il rame (ai tempi del re Numa) ed il bronzo (ai tempi del re Tullio Ostilio) vennero monetati e fusi in pezzi quadrati o oblunghi, ai quali fu dato un valore convenzionale. Furono coniate monete di diversa forma e valore, recanti anche la raffigurazione di animali (pecora, bue, scrofa). Le monete venivano coniate nel tempio della dea “Iuno Moneta” (Giunone Moneta), ove aveva sede la “Zecca di Stato” e la “Mensa Publica” (la Banca dello Stato). La zecca dello Stato era presieduta e sorvegliata dai “Triumviri auro, argento aeri flando feriundo” (abbreviato III viri A.A.A.F.F.), che erano i direttori della zecca.
Numerosi erano i banchi “mensae” dei cambisti o banchieri (“argentarii”), i quali coadiuvati da “coautores argentarii”), prestavano denaro anche ad usura come tanti altri ricchi cittadini.
I Romani, conoscendo bene le pene alle quali potevano andare incontro se riconosciuti debitori insolventi, erano puntuali nel restituire il giorno della scadenza del debito (detto “dies pecuniae”) le somme avute in prestito. Basta leggere le pene previste nelle XII Tavole (pag.71 ).
L’usura, il Roma, era una piaga talmente diffusa tanto che veniva normalmente praticata anche da tanti Senatori (furono annoverati fra gli usurai anche Catone il Censore e Cicerone). L’interesse veniva calcolato a mesi anziché ad anno. Ai tempi di Silla si iniziò a calcolare l’interesse ad anno e fu stabilito nell’importo annuo massimo del 12%. Le leggi per eliminare o almeno contenere gli abusi furono ripetutamente fatte, ma mai rispettate. Per eliminare questa piaga nell’anno 342 a.C. con una apposita legge fu severamente vietata qualsiasi forma di prestito. Gli usurari, eludendo le leggi, prestavano spudoratamente denaro anche al 5% di interesse al mese, che rapportato all’anno, diventava pari al 60%. “Centesima” era l’interesse dell’1% mensile e quindi del 12% annuo; “binae centesimae” era l’interesse del 2% mensile pari al 24% annuo.
Le monete coniate ed utilizzate dai Romani erano le seguenti:
_ “uncia”, oncia, moneta minima, pari a un 12º dell’asse;
_ “semiuncia”, pari a mezza oncia oppure 1/24 dell’asse;
_ “as”, asse, pari a 12 once, così chiamato perché nell’antichità era fatta con una piastrina di rame. Moneta che fu di diverso peso, forma e materia nei vari tempi; di legno, di cuoio, di rame al tempo di Numa Pompilio; di bronzo ai tempi di Tullio Ostilio.
In origine ebbe come impronta la forma di una pecora, di un bue o di una scrofa; sotto gli imperatori vi si rappresentava da una parte Giano con due facce, dall’altra la prora di un vascello o un rostro.
_ “scripulum”, pari alla 288^ parte di un asse e 24^ parte di una “uncia”;
_ “duella”, pari alla 3^ parte di un’oncia (4/12 di un asse), pari anche a due “sextulae”;
_ “sextula”, pari a 2/12 dell’asse, sesta parte dell’oncia, sesta parte di un dodicesimo dell’intero;
_ “dodrans”, pari a 3/4 di un asse (9 once); unità mancante di 1/4 dell’asse (3 once);
_ “dracma”, moneta greca, in circolazione a Roma, del valore pari a un “denarius”;
_ “denarius”, moneta d’argento che valeva 10 assi pari a 4 sesterzi; era anche detto“bigatus”
era il “denarius” quando recava l’effigie di una biga;
_ “libella”, piccola moneta di argento pari alla 10ª parte del “denarius”, quindi del valore di un asse;
_ “sestertius”, sesterzio, moneta d’argento del valore di due assi e 1/2 e pari ad 1/4
del valore del “denarius”. Nell’età imperiale il sesterzio veniva coniato in bronzo e scomparve dalla circolazione verso la metà del terzo secolo d.C. Dopo il 217 d.C. fu coniato in bronzo del valore di 4 assi. L’uso frequente del genitivo “sestertium” nelle somme superiori al 1000 fece sì che ben presto la parola fu considerata come un sostantivo neutro e si formò non solo un plurale “sestertia”, ma si declinò “sextertium“ stesso come singolare. Precisamente “sestertium” (con l’ellissi di mille) indica la somma di 1000 sesterzi e con gli avverbi moltiplicativi, “decies”,“centies”, “milies” ecc. (con omissione di “centena milia”) indica la somma di 100.000 sesterzi; quindi:
– “decies sestertium” = 1 milione di sesterzi
– ”centies sestertium = 10 milioni di sesterzi;
– “milies sestertium” = 100 milioni di sesterzi.
Come abbreviazione si scriveva:
HSXX = sestertia viginta = 20 sesterzi
HSXX = sestertia vicena = 20 mila sesterzi, ponendo una asticina orizzontale sopra XX;
HSXX = sestertium vicies = 2 milioni di sesterzi, ponendo una asticina orizzontale sopra
HSXX (da ricordare che nella parola “sestertium” sono sottintese le parole
“centena milia”.
HSXX = sestertium vicies = 2 milioni di sesterzi, ponendo una asticina orizzontale sopra
XX e contemporaneamente una asticina verticale ai lati dello stesso numero XX
Parole ed espressioni di uso corrente usate nel mondo finanziario:
_ “deunx, deuncis” = quantità a cui manca la 12^ parte, quindi costituita da 11/12
_ “heres ex deunce” = erede per 11/12.
“As” era una unità o ovvero un intero diviso in 12 parti chiamate rispettivamente:
_ “as” = 12/12
_ “sextans” = 1/6
_ “ triens” 2/6 = 1/3
_ “semissis” = 3/6 = 1/2
_ “ bes” = 4/6 = 2/3 (= 8 once)
_ “quinarius” = 5/6
Colui che si occupava del cambio delle monete e della concessione di prestiti era il “nummarius”. Era così chiamato anche il saggiatore dell’argento prima di essere coniato.

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MISURE DI CAPACITA’
Per liquidi e aridi:
Unità base originaria per le misure di capacità per liquidi o aridi, era il “coclear” corrispondente in pratica il nostro cucchiaio aventi una capacità pari a lt. 0,0113 (necessitano numero 88,50 cucchiai per 1 litro).
Le misure di capacità per i liquidi erano le seguenti:
_ “acetabulum” = 6 “coclearia” = lt. 0,068
_ “quartarius” = 2 “acetabula” = lt. 0,136
_ “hemina” = 2 “quartarii” = lt. 0, 273
_ “sextarius” = 2 “heminae” = lt. 0,546
_ “sextans” = 1/6 del “sextarius” = lt. 0,91
_ “quadrans” = pari ad ¼ del “sextarius” = lt. 0,136
_ “cyatus” = pari alla 12^ parte del “sextarius” = lt. 0,04558, quindi pari al contenuto
di un moderno bicchiere. Infatti “cyatus” era chiamata la coppa usata per bere.
Anche la mestola, con lungo manico, usata per prendere dal “crater” acqua e vino
mescolati e versarlo nel “poculum” (coppa, tazza per bere), era chiamata “cyatus”.
_ “cotula, cotilla, cotyle, cotilla” = misura o vaso pari a 1/2 “sextarius” = lt. 0,273
_ “congius” = 12 “heminae” = lt. 3,276. Misura di olio, vino, sale od altro in natura, più
comunemente era l’equivalente in denaro distribuito come donativo ai plebei,
talvolta ai legionari, oppure ai “clientes”.
_ “urna” = 4 “congii” = lt.13 pari a mezza “amphora” (lt.26)
_ “amphora” = 8 “congii” = lt. 26,2 detta anche “quadrantal”. In cifra tonda 5 anfore
erano pari ad 1 ettolitro. Le navi da carico normalmente portavano 2000 anfore o
più, quindi circa 400 hl. Ogni anfora pesava di norma 26 kg pari a 80 libbre:
(gr.327,45 x80=kg.26,196×2.000= Kg.52.392 = q.li 523,920). ”Anphora capitolina”
era chiamata la misura tipo, l’anfora campione. Le anfore erano grandi vasi di norma
di argilla o di vetro e venivano usate per conservare i liquidi, soprattutto vino dopo
la fermentazione nei “dolia” (botti di argilla o di legno). Sulle stesse si segnavano i
nomi dei consoli in carica al momento in cui venivano poste in serbo (“notae”.
_ “culleus” o “culleum” = 20 “amphorae” = lt.524 (era un sacco di cuoio, otre, per
conservare liquidi.
_ “metretra” = pari a lt.40.
_ “semimodius” = 8 “sextarii” = lt. 4,36
_ “modus” = 2 “semimodii” = lt. 8,736.

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MISURE DI LUNGHEZZA
Alla base del calcolo delle misure di lunghezza i Romani utilizzarono le parti del corpo umano: il piede, il dito, il palmo, il cubito.
Le unità di misura della lunghezza erano le seguenti:
_ “pes” = piede, pari a cm.29,57
_ “uncia”, pari a 1/12 del piede = cm.2,46
_ “gradus”, pari a 2 piedi e1/2 = cm. 73,92
_ “digitus”, pari ad 1/16 del “pes” = cm.1,85
_ “passus”, pari a ml.1,48
_ “mille passus” o “miliarium” = miglio pari a ml.1.480 = 5.000 “pes”.
_ “actus”, pari a ml.35,52
_ “actus minimum”, pari a 120 piedi di lunghezza (ml.35,48) e 4 di larghezza (ml.1,182)
_ “actus quadratus”, pari a 120 piedi quadrati (=mq.1.044)
_ “actus duplicatus”, pari a 240 piedi di lunghezza e 120 di larghezza
_ “jugerum”, misura di lunghezza pari a 104 piedi, quindi ml.30,752
_ “semiuncia”, come misura di lunghezza pari a 1/24 dello iugero (= ml.1,563)
_ “pertica” misura agraria chiamata anche “decempeda”perché lunga 10 piedi
equivalente a ml.2,957
_”leuca” (lega), pari a 1500 passi = Km.2,22
_ “arapennis”, mezzo iugero come lunghezza (ml.15,37)
_ “saltus”, pari a 800 iugeri come lunghezza (ml.24.600)
_ “stadium”, pari a ml.185
_ “quincunx”, pari a 5/12 dello iugero come lunghezza (ml. 12,812)
_ “quadrans”, pari ad 1/4 dello iugero come lunghezza (ml.7,688), poteva anche
significare un quarto di piede (cm.7,39)
_ “numerus fractus” = frazione. Per esprimere le frazioni i Romani seguivano queste regole:
a)- quando il numeratore è eguale al denominatore meno 1 (esempio 2/3, 3/4
4/5) si usa il numero cardinale con “partes” (esempio: “duo partes, tres partes
quattuor partes”).
b)- quando il numeratrore è 1 (esempio 1/3,1/4,1/5 si adopera il numero ordinale
“tertia pars, quarta pars, quinta pars”.
c)- negli altri casi il numeratore si esprime col numero cardinale ed il denominatore
con il numero ordinale femminile (esempio 4/5,4/6,4/7): “quattuor quintae,
quattor sextae, quattor septimae”.
I multipli del “pes” erano:
_ “cubitus” = 1 piede e mezzo = cm.44,35
_ “dupondius” = 2 piedi = cm.59,14
_ “gradus” = 2 piedi e mezzo = cm.73,92
_ “passus” = 5 piedi = ml.1,480
_ “pertica” = 10 piedi = ml.2,957
_ “actus” = 120 piedi = ml.35,48
_ “miliarium” = 5.000 piedi = ml.1.478 = 1 miglio
Il “pes” aveva le seguenti frazioni:
_ “deunx” = 11 once = cm.27,104
_ “dextans” = 10 once = cm.24,640
_ “dodrans” = 8 once = cm.22,776
_ “bes” = 8 once” = cm.19,712
_ “septuus” = 7 once = cm.17,248
_ “semis” = 6 once = cm.14,784
_ “quincus” = 5 once = cm. 12,320
_ “quadrans” = 4 once = cm.9,856
_ “triens” = 3 once = cm.7,392
_ “sextans” = 2 once = cm.4,928
_ “semiuncia” = mezza oncia = cm.1,232
_ “silicus” = un quarto di oncia = cm.0,616
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MISURE DI SUPERFICIE

La misura di superficie fondamentale era lo “jugerum” = mq.2.529.
La parola “iugerum” anticamente serviva ad indicare la quantità di terreno che un paio di buoi riusciva ad arare in una giornata di lavoro.
Lo iugero aveva come sottomultipli:
_ il “gradus” = a 2 piedi e mezzo = mq.0,5476
_ il “passus” = 2 “gradus” = mq. 1,0952
_ il “decempeda” = 10 “passus” = mq.10.952
_ l’”actus” = 12 “decempeda” = mq 131.424
I multipli dello iugero erano:
_ la “centuria = 200 iugeri = mq. 518.400 = ha 51,85
_ il “saltus” = 4 centurie = mq.2.073.600 = ha. 207,36
Altre misure di superficie erano:
_ “clima” = misura agraria paria a circa 20 mq
_ “semiuncia” = 1/24 dello iugero che era paria a mq.108
_ “plintis” = a 100 iugeri = mq. 259.200
_ “uncia” = 1/12 dello iugero = mq.216
_ “arapennis” = mezzo iugero = mq.1.296
_ “quincuns” = a 5/12 dello iugero = mq. 1.080
_ “quadrans” = a 1/4 dello iugero = mq.648.

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PESI
Le misure romane del peso, della capacità, della lunghezza e superficie risentirono dell’incrociarsi delle influenze italiche, galliche e dell’influenze greche.
I Romani non imposero ovunque i loro sistemi di pesare e di misurare, ma accettarono, spesso, i sistemi in vigore nelle varie regioni conquistate.
Per pesare i Romani usavano le seguenti misure:
_ “uncia” = pari a gr.27,2875, dodicesima parte di una “libra”
_ “semiuncia” = pari a 1/24 di “libra” = pari a gr.13.643 = a mezza oncia
_ “libra” = pari a gr.327,45. “Libra” era anche chiamata la bilancia per pesare.
Nelle compravendite solenni, negli acquisti, donazioni, testamenti con l’osservanza
di tutte le formalità legali, il compratore toccava la bilancia con la moneta (o il pezzo
di rame).
_ “scripulum” = pari ad una 24^ parte di una “uncia” = gr.1,36. Indicava anche la parte
minima di una misura di peso, lunghezza o superficie.
_ “quadrans” = paria alla 4^ parte di una “libra” = gr.81,86 e pari a 3 “unciae”
_ “decuns” = pari a 10 “unciae” = gr.272,875
_ “duapondo” = peso pari a 2 “librae” = gr.654,90
_”quincuns” = pari a 5/12 della “libra” = gr.136,437
_ “hemina” = pari a o,44 gr. circa.

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NUMERI
I Romani conoscevano i numeri ordinali (“primus”, “secundus”, “tertius”, quartus” ecc)
ed i numeri cardinali.
Questi ultimi venivano scritti con i seguenti 7 simboli I,V,X,C,D,L,M.
Questi simboli, da soli, equivalevano a:
I = 1
V = 5
X = 10
L = 50
C = 100 che anticamente poteva essere scritto anche rovesciato
D = 500
M = 1.000
Combinati insieme equivalevano a (alcuni esempi):
II = 2
III = 3
IV = 4
VI = 6
VII = 7
VIII = 8
IX = 9
XI = 11 ecc.
XX = 20
XL = 40 scritto anche XXXX
LX = 60
XC = 90
CX = 110
CD = 400
DC = 600cM = 900
MC = 1100
Da ciò è scaturita la regola che il simbolo di valore inferiore scritto dopo l’altro simbolo si somma (es.I+I = 2; V+I=6; se invece il simbolo di valore inferiore è scritto prima significa che sottrae (es.IV = V meno I = 4; V+I = 6; IX = X meno I = 9; X +I = 11).
I Romani utilizzavano, a volte, modi diversi di scrivere i numeri, ma il significato era sempre lo stesso:
II de XX = duo de viginta = 18
II de XXX = duo de triginta = 30
II de L = duo de quinquaginta = 48.
I multipli erano chiamati “escrementum”.
Così venivano indicati le migliaia ed i milioni:
HSXX = sestertia vicena = 20 mila sesterzi, ponendo una asticina orizzontale sopra XX;
HSXX = sestertium vicies = 2 milioni di sesterzi, ponendo una asticina orizzontale sopra
HSXX (da ricordare che nella parola “sestertium” sono sottintese le parole
“centena milia”.
HSXX = sestertium vicies = 2 milioni di sesterzi, ponendo una asticina orizzontale sopra
XX e contemporaneamente una asticina verticale ai lati dello stesso numero XX.

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L’AGRICOLTURA
La “villa rustica” (casa di campagna), anticamente fatta con mura di fango e paglia, coperta con canne, successivamente in grezza muratura, ad un piano o anche due, era circondata di una ampia aia (area, o aula), utilizzata per battere il grano, orzo, farro, avena, fave o altro. L’aia in terra battuta (pavimentum), a volte aveva una parte selciata con grosse pietre.
Il fondo veniva coltivato o direttamente dal proprietario (dominus, o possesor) o dal fittavolo (conducticius, ) o dal mezzadro (partiarius colonus); oppure da uno schiavo (“casarius”)che risiedeva stabilmente sul fondo.
Numerosi erano presso i Romani i latifondi di proprietà di ricche famiglie patrizie o senatoriali che acquistavano, a buon prezzo dallo Stato, vaste possessioni facenti parte dell’agro pubblico. Inoltre ai latifondi, col passare degli anni, si aggiungevano altre proprietà, già prese in affitto dalle predette famiglie, e per le quali si smetteva di pagare allo Stato il canone dovuto, con la tacita connivenza del Senato.
I ricchi proprietari, talvolta anche per diletto, facevano visita alle loro tenute in campagna usando una piccola carrozza trainata da un agile cavallino chiamato “mannus”, nome di origine celtica.
La conduzione dei terreni, nei latifondi, veniva effettuata a mezzo di numerosi schiavi sotto la sorveglianza del “vilicus” (fattore o amministratore che di solito era un liberto o schiavo anch’egli) o a mezzo del “procurator” (sovrintendente di uno i più fondi rustici).
Nell’epoca imperiale gli “ascriptici servi, coloni” (i cosidetti servi della gleba) venivano venduti insieme al fondo, passando quindi in proprietà dell’acquirente.
All’interno della casa di campagna (“gurgustium”= tugurio, abituro o piccola e povera dimora) oltre allo spazio per la cucina (“culina o coquina”) vi erano spazi o locali per dormire (“conclave o cubiculum”) e un magazzino (“receptaculum”) per la conservazione dei cibi. Essa normalmente aveva anche una grotta per conservare vino, olio, carni ed un pozzo per collocare grano, orzo, farro.
Per cuocere cibi e per mangiare e bere la cucina era ben fornita del seguente vasellame in terracotta: tegame (“testa”); piatto o scodella (“patina”); piatto largo e tondo (“catinus”); casseruola (“sarago”); padella per friggere (“frixorium”); tegghia o forno portatile (“clibanus”); tegghia (“tegola”); tegamino (“testa o patella”); bicchiere (“poculum o calix”); bicchiere più grande (“scyphus”); bicchiere più piccolo (“cyatus”); bottiglia per acqua o vino (“lagoena o ampolla”); lo staccio o crivello (“cribrum farinarium”); mortaio per pestare sale o altro (“mortarium”); mortaio piccolo (“pila”); il colino per filtrare i liquidi (“colum”); il coltello da cucina (“culter coquinarius”); il mestolo (“lingula”); la forchetta (“furcula”) ecc.
La casa era arredata con un rozzo tavolo a tre piedi, ove venivano appoggiati i cibi da mangiare, e con alcuni grossolani sgabelli per sedere.
In un angolo della cucina era collocato il focolare (“focus o caminus”), mentre il fornello era chiamato “foculum”. Nel focolare venivano cotte focacce fatte con farine di grano, di farro o di orzo, talvolta mescolate fra loro.
Mentre le donne più giovani, insieme agli uomini lavoravano nei campi, normalmente la donna più anziana della famiglia, ormai non più adatta ai duri lavori dei campi, era quella che accudiva ai bambini, e come addetta alla cucina preparava cibi insaporiti col sugo (“condimentum”) e con aromi vari, droghe e spezie, preparava conserve di frutta e marmellate (“liquamina”) riponendole in piccoli vasi (“cupellae”); essa era anche addetta alla sorveglianza del magazzino (“horreum”) e della cantina (“cella vinaria o doliarium”).
Preparava pietanze rusticane e torte di cacio e pesce salato (“tyrotarichum”); per bere una bevanda fatta con l’orzo e molto diffusa fra i poveri chiamata “sabaia”.
Cuoceva, nella tegghia (“clibanites panis”) diversi tipi di pane, fatto con farine di grano, di orzo, di crusca, di avena o anche, nelle famiglie più povere, con farine di ghiande; quasi sempre, nelle case di campagna, veniva consumato pane secco, duro e di infima qualità (“panis siccus, durus ac sordidus”).
La donna addetta ai lavori domestici aveva anche il compito di curare l’allevamento degli animali da cortile, non facendo mancare a loro acqua e cibo, inoltre raccoglieva le uova dal nido (“lecticula”). Nelle ore libere essa si dedicava a rattoppare le vesti dei familiari o si metteva a filare la lana con la conocchia (“cunus”) o tessere al telaio (“iugum o tela”).
Non avendo il gatto (sconosciuto a Roma fino al 4° secolo d.C.), spesso era costretta, con la scopa, a dare la caccia ai topi campagnoli (“nitedula”) entrati in cucina o nel magazzino.
Gli abitanti nella “villa rustica” vivevano alla campagnola (“rusticatim”), non essendo affatto esigenti nel vestire e nel mangiare. Erano, infatti, vestiti con abiti rattoppati, anche con pezze di vario colore; ai piedi portavano rozzi calzari fatti con cuoio grezzo (“crepidae carpatinae”). Il loro dsinare consisteva nel gustare una bella frittata (“ovorum intrita”), una focaccia di farro (“farreum”) o un abbondante piatto di insalata (“lactuca”), o di ceci (“cicer”), o fagioli (“phasolus”), o cicerchia (“cicercula”) o fava (“faba”) o lenticchia (“lens”), abbondantemente innaffiato con più bicchieri di “posca” (vino fatto con aceto e acqua) o di vino allungato con acqua.
Presso la “villa rustica” capitava spesso di vedere qualche alveare (“alvearium”) se in casa vi era qualche appassionato di apicoltura (“mellificium”) per produrre miele (“mel”) essendo egli a conoscenza dei metodi di allevamento delle api magistralmente descritti dal poeta Virgilio nelle Georgiche.
Vicino alla casa vi era un pergolato di viti (“funetum”) che produceva pregiate uve da tavola e l’”uva apiana”, il nostro moscatello, così chiamata perché molto ricercata dalle api.
In un angolo dell’aia, o in una grotta sotto il pagliaio o sotto un mucchio di fieno era attaccato con collare (“collare”) e catena (“catena o catella”) il cane da guardia (“canis catenarius”), con vicino un cartello (“titulus”) con la scritta “cave canem” (= attenti al cane).
Ai bordi dell’aia erano sistemati i recinti (“vecera o vivarium”) ed i ricoveri per gli animali domestici: galline (“gallinae”); pavoni (“pavo o pava” se femmina) la cui carne era molto apprezzata e ricercata; conigli (“cuniculi”); oche e papere (“anseres”) chiuse in un recinto chiamato “hara” ed alimentate con pasta farinosa detta “turunda”; piccioni (“columbi”) i cui allevamenti erano detti “columbaria” costituiti da più cassette attaccate ad un palo, isolato nell’aia, chiamato “turris”; faraone (“meleagrides o aves numidicae”).
Nel porcile (“suile o hara”) veniva allevato il maiale (“sus o porcus”) e la scrofa (“porca”) che, macellati nel periodo invernale dal norcino (“porcinarius”) forniva alla famiglia lardo (“laridum o lardum”) per condimenti, prosciutto di spalla (“petasio”), prosciutto della coscia posteriore (“perna o brado”), salami (“longavones”), carne (“caro suilla”), salsicce (“lucanicae o butuli o insicia”).
Nella stalla (“bubile”) per buoi, “caprile” per capre, “ovile” per pecore, “equile” per cavalli
erano ricoverati questi animali ai quali accudiva un servo di stalla chiamato ”agaso o stabularius”, ed alimentati con fieno (“fenum”), paglia (“stramentum”), fava (“faba”), orzo (“hordeum”), avena (“avena”), avena selvatica (“cracca”).
Nelle vicinanze dell’aia per uso potabile e per le necessità dell’azienda spesso veniva scavato un pozzo ove si attingeva acqua con un secchio di legno (“situlus o urceus”) oppure con una sacco di cuoio (“uter”) legati ad una corda, qualora nel pozzo il livello dell’acqua era in profondità; se, invece, il livello era vicino alla superficie l’acqua veniva attinta col (“tolleno o ciconia”) una specie di mazzacavallo.
Ai bordi dell’aia era collocato il letamaio o immondezzaio (“finetum o stercilunium”) ove venivano accumulati gli escrementi degli animali, il letame, i rifiuti domestici; era anche il luogo ove gli abitanti della “villa rustica” avevano il loro cesso (“latrina”) fatto con cannicci.
Il letame veniva utilizzato per concimare il terreno ed il suo trasporto veniva effettuato con un cestone o paniere di vimini (“scirpea o sirpea”) da caricare sul carro.
Al di fuori dell’aia, ma vicino alla casa, veniva coltivato un piccolo orto (“hortus”) sempre recintato da siepe o stecconato, comunque sempre ben delimitato. In esso, la donna addetta alla cucina, prelevava ortaggi ed erbe per insaporire e profumare i cibi.
Se l’orto era di notevoli dimensioni vi venivano piantati ortaggi destinati anche alla vendita; l’ortolano (“olitor”) coltivava: cocomeri (“cucumer”), cetrioli (“cucumis”), insalata (“lactuca”), cicoria (“cichoreum”), radicchio (“intibum”), sedano (“apium”),cipolle (“cepa o cepium”), broccoli (“cyma”), cavoli (“brassica o grambe”), carote (“carota”), finocchi (“peniculum”), maggiorana (“sampsucus”), pomodori (“solanum lycopersicum”), prezzemolo (“petroselinum”), fagioli (“phaselus”), cece (“cicer”), piselli (“pisa o pisum”), zucche (“cucurbita”), lenticchia (“lens”), cicerchia (“cicercula”), basilico (“ocinum”), rosmarino (“roris marinus o rosmarinus o rosmarium”), peperoni (“piperitis”), melanzane (“solanum melangea”), lo zafferano (“crocus”) molto usato per condire cibi o fare medicamenti o unguenti profumati.
Gli ortaggi venivano innaffiati con il “nassiterma” (specie di annaffiatoio) oppure con la zappa venivano fatti appositi canaletti sul terreno per farvi scorrere l’acqua per irrigare.
Strumenti usuali di lavoro per l’agricoltore (“agricola o ruricola o rusticanus o rusticus”) erano: la zappa o marra (“rutrum”), la zappa a due denti (“uncus o bidens”), la pala o badile (“pala o vatillum”), la vanga (“bipalium o scudiscia”), la forbice per la potatura di vigneti e di alberi (“forfex”), la falce da fiene (“falx fenaria”), per mietere grano e orzo la “falx messoria”, il rastrello (“rastellus”), forcone a due denti (“furcula”), forcone a tre denti (“fuscina”), la cote per affilare le falci (“cos o acona”), il raschietto (“rallum”) per togliere la terra dal vomere dell’aratro o dalla pala o dalla vanga, l’aratro (“aratrum”) anticamente fatto con legno di rovere, munito di due ruote (“plaumoratum”).
L’antico aratro, tutto in legno di rovere, aveva la parte posteriore ricurva a cui era attaccato il timone ed il vomere (“vomer”). L’aratura ovviamente, veniva fatta molto in superficie.
Per il trasporto veniva usata la carriola ad una ruota “pabillus” ed il “serracum”, che era un grosso carro agricolo, con due ruote massicce, con sopra una cassa con pareti, utilizzato per il trasporto di cereali od altro; esso era minito di un timone (“temo”) al quale con il giogo (“iugum”) erano attaccate le bestie da tiro: buoi (“bos”), muli (“hinnus”), asini (“asinus”), cavalli castrati (“caballus”). Altro grande mezzo di trasporto, a quattro ruote, era il “carrus”.
Per i trasporti piccoli o leggeri veniva usato il “cisium”, biroccio a due ruote.
Spesso l’aratro o il carro, avendo due stanghe (“timo”), veniva tirato da una sola bestia da tiro che al collo aveva un collare in legno detto “helcium”.
Il terreno annesso alla “villa rustica“ in parte veniva coltivato a frutteto, in parte a vigneto e il resto con la coltura di cereali, foraggio o erba medica (“herba medica”, così chiamata perché importata dalla Media in Persia), o girasoli (“soltitialis herba”). Le colture di cereali venivano fatte a rotazione per far riposare il terreno, la cui fertilità era potenziata con la concimazione (“stercoratio”) effettuata con lo spandimento del letame prelevato dalla letamaia.
Il terreno veniva preparato dal “bubulcus”, il moderno bifolco, che con l’aratura dissodava il terreno sativo (“sativus”), che può essere arato, seminato o piantato. L’aratura poteva esser fatta attaccando all’aratro anche un solo bue o asino o mulo o cavallo. Al collo dei buoi era consuetudine appendere un sonaglio (“tintinnabulum”). I Romani chiamavano “boves” tutti i grossi erbivori da loro conosciuti: così chiamarono “boves lucani” anche gli elefanti, quando li videro per la prima volta durante la guerra contro Pirro in Lucania. Ai loro tempi non si era ancora estinto il bue selvatico, l’uro (“urus o bos primigenius”), la cui esistenza si è protratta fino agli inizi del Medio Evo.
Per stimolare le bestie da tiro usavano il “flagellum”, specie di frusta col manico di legno a cui era attaccata una o più cordicelle terminanti in nodi, oppure usavano lo “stimulus”, una specie di pungolo fatto con un paletto di legno con punta in ferro aguzzo o ad uncino. Questi due attrezzi venivano usati anche verso gli schiavi per costringerli a lavorare di più o più in fretta.
Ultimata la preparazione del terremo e giunto il tempo propizio, il seminatore (“sator”), con sul braccio sinistro un cesto contenente i semi, procedeva alla semina con la mano destra cercando accuratamente di spargere i semi sul terreno in modo uniforme, e non lasciare spazi vuoti.
Giunta a maturazione la coltura dei cereali (“messis”, tempo della mietitura) il mietitore (“messor”), con l’apposita falce (“falx messoria”) o con il falcetto (“falcala”), acquistati presso il fabbricante di falci e roncole (“falcarius”), tagliava i cereali, che raccolti e legati in covoni (“merges”) venivano ammucchiati nei campi. La spigolatrice (“quae spicas legit”) raccoglieva le spighe disperse o sparse sul terreno e le riponeva nella “corba”, specie di corbello. Nei giorni successivi alla mietitura, sul carro da trasporto “serracum”, con il forcone venivano caricati i covoni per essere trasportati ed ammassati sull’aia della “villa rustica”. Qui entrava in azione il battitore (“areator”) che, munito di un lungo bastoni con sulla punta legato altro bastone più corto, iniziava a percuotere il mucchio di cereali provocando la separazione del seme salla paglia (“stramentum”) e dalla pula (“palea”).
Il sistema di mietitura adottato dai Romani è stato mantenuto fino ai tempi moderni, infatti solo nel 1900 d.C. compaiono le prime mietitrici meccaniche trainate da buoi o cavalli, a a motore guidate dall’uomo, fino alle attuali grosse mietitrebbie a motore. Il rapido progresso registrato in tante altre attività lavorative è giunto con troppo ritardo nel settore agricolo, costringendo, per lunghi secoli, i poveri lavoratori dei campi, ad estenuanti fatiche sotto il cocente sole del mese di giugno e luglio, contrariamente a quanto recitava un antico proverbio, inutilmente conosciuto anche in campagna: “ante focum si frigus erit, si messis in umbra” (davanti al focolare se è inverno, all’ombra se è estate).
Nel mese di giugno veniva celebrata la festa per la raccolta delle messi chiamata “messium feriae”.
Se la quantità di grano, orzo, farro, fava o altro da trebbiare era grande, anticamente per la loro trita veniva usata la treggia (“traha”), specie di trebbiatrice primitiva, che era un traino senza ruote, munito al di sotto di denti di ferro o di pietre aguzze che veniva trascinato in tondo da animali da tiro o da schiavi sopra il mucchio di cereali sull’aia. Più moderna era invece la trebbiatrice chiamata “tribulum”, a forma di carro, con ruote basse e molto larghe, munite di denti di ferro, anch’essa tirata in giro da bestie o da schiavi. Ogni tanto la paglia veniva tolta dal mucchio col forcone o con le mani. Il seme e la pula venivano posti su di un grande corbello (“corbula o cophinus”) appeso con una fune ad un palo e ad un ramo di un albero. Con studiati movimenti rotatoti ed ondulatori il seme, più pesante, si separava dalla pula, la quale venuta a galla, veniva gradatamente eliminata in parte con le mani ed in parte portata via dall’aria.
Una volta trebbiato e ripulito il cereale veniva conservato in apposite ceste (“cumera”) nel granaio (“granarium”), spesso collocato nella fossa (“pluteus”) scavata nel magazzino (“horreum”). Per la macinatura dal grano o altro, anticamente, lo stesso veniva pestato in tronchi incavati o in mortai di pietra (“pistum”). Inventata la macina, nacque la professione del mugnaio (“molitor o pistor”) il quale, nel molino (“pistrinum o moletrina o molae”), facendo funzionale la macina, riduceva il cereale in farina. La macina era formata da una ruota in pietra fatta girare intorno ad una protuberanza conica della ruota sottostante, anch’essa in pietra, che era sempre ferma. La macina era azionata o con la forza dell’acqua, oppure da un asino o cavallo o da schiavi ad essa legati per punizione (“in antiliam condemnati”). La corda alla quale era attaccato l’asino, il cavallo o lo schiavo era detta “molile”. Il mugnaio pesava il macinato con la bilancia (“trutina”), trattenendo, per pagarsi una parte del macinato, come ancora usavano i numerosi mugnai, proprietari dei molini ad acqua, esistenti fino a pochi decenni orsono, lungo i fossi o i fiumi della nostre vallate.
Il fondo rustico, oltre che con cereali, poteva essere, in parte coltivato a frutteto, vigneto e oliveto: viti, piante da frutto ed olive erano anche coltivate in ordine sparso sul terreno sativo (“sativus” = terreno adatto alla semina).
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Nel frutteto (“pometum”) venivano coltivati i seguenti frutti: prugne (“prunus o prunum”), albicocche (“pomum armenicianum”), ciliegie (“cerasum”), pere (“pirum”), pesche (“persicum o malum”), nespole (“nespulum”); grossi fichi bianchi (“aracia”), fichi (“busicon”), noci (“nux”)
coltivate nel noceto (“nocetum”), mandorle (“amigdala”), susine (“coccymellum”), limoni (“malum citreum”), mele (malum”) di cui la qualità più squisita e ricercata in Roma era la mela di Epiro.
Le piante da frutto, da piccole, erano coltivate nel vivaio (“seminarium pomarium”) dal vivaista (“arbusticola”), per essere poi trapiantate nei luoghi stabiliti, esse erano curate e potate dal potatore (“amputator”) nella stagione della potatura (“amputatio”).
Ogni frutto normalmente dai Romani era chiamato “pomum”, ed il fruttivendolo che la commercializzava era detto “pomarius”.
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Altra coltura specializzata, praticata nel fondo era il vigneto, particolarmente curato dai Romani. Diverse erano le qualità di uva coltivata: bianca e nera. Le viti, se isolate, erano attaccate agli alberi; se coltivate a vigneto erano sostenute da pali con travicelli o pertiche orizzontali e legate a queste col vinco “capistrum”. Era compito del potatore oltre che effettuare la potatura, spampanare le viti (“detergere pampinos”). Giunta la stagione della vendemmia (“vindimea”), i grappoli (“racimus”), venivano staccati dalla vite con la forbice (“forfex”) o con un piccolo coltello (“coltellus”), e riposti in un cesto di vimini (“canistrum”), che, se pieno, veniva svuotato nella navassa “navium” (recipiente con falso fondo a griglie mobili ove veniva pigiata l’uva coi piedi). Il “navium” colmo di grappoli, caricato sul “serracum” (grosso carro da trasporto), veniva portato nell’aia, ove venivano eseguite tutte le operazioni di lavorazione: dalla pigiatura (“calcatus”) alla spremitura (“pressura”) e torchiatura (“prelo premere”) delle uve. La pigiatura era opera del “calcator” che, con i piedi, calpestava l’uva nel “navium” fino a ridurla in poltiglia. L’uva pigiata veniva poi posta nel torchio (“prelum”), di legno, che aveva una grande vite centrale anch’essa in legno, sulla quale veniva fatto girare con una lunga stanga (“clavis torcularii”) un congegno che comprimeva l’uva sul fondo del torchio dal quale usciva il mosto convogliato poi in una secchia (“amula”).
Il vino fatto col mosto della prima spremitura (“pressura”) era il più pregiato; quello della seconda spemitura era considerato vinello poco pregiato, di scarsa gradazione alcoolica, chiamato “vinum circumcidaneum” perché era tratto dalle vinacce. La “muriola” era invece il vino prodotto con la seconda spremitura dell’uva passa con l’aggiunta di mosto cotto (”sapa”).
Il vino veniva conservato in recipienti di varia forma e capacità: nella “cupa” (botte o barile), nella “seria” (grosso vaso in terracotta), nel “dolium” (botte, dapprima di creta poi di legno, dove si depositava per qualche mese il mosto, perché fermentasse, per travasarlo successivamente, previa filtratura, nelle anfore o altro), nel “doliolum” botticella di legno, nelle anfore (“amphora”) di argilla cotta, poi di vetro, di diverse capacità.
Sui recipienti venivano indicati i nomi dei consoli in carica per ricordare l’annata di produzione del vino in essi contenuto (specie di etichetta).
I Romani conoscevano il “vino cotto” (“caroenum”); facevano anche il vino con l’uva passa
(secca, appassita) chiamato “passum”. Il “vinum murrinum” era il vino profumato con la mirra detto anche “turrites”. Per dare più forza e fragranza al vino amabile si mescolava in esso gromma (feccia) oppure fondata di Falerno (vino noto fin dall’antichità, rosso o bianco prodotto nella zona dei Campi Flegrei e nel Lazio) essiccata e ridotta in polvere (usata anche come condimento).
I vini prodotti dai Romani, fatti con uve arrivate alla piena maturazione, sotto l’ardente sole della zona mediterranea, erano ricchissimi di sostanze zuccherine ed erano di gradevolissimo gusto. Soltanto all’inizio del pasto, e non sempre, veniva assaggiato un goccio di vino allo stato puro; come pure alla fine del pasto, se però, già ebbri, ci riuscivano, veniva assaggiato l’ultimo bicchiere di vino puro (da noi chiamato bicchiere della staffa, offerto o bevuto al momento della partenza, del commiato).
Normalmente, durante il pasto, nelle cene di una certa importanza o nelle cene ufficiali, bevevano sempre il vino mescolato; anzi, per regolarsi, per non eccedere, nominavano sempre un maestro coppiere (“magister cenandi”) uno del gruppo, il quale decideva quante volte si poteva vuotare, mano a mano, la coppa. Altra usanza era quella di brindare alla salute dei presenti, ma non con una sola coppa, bensì con una coppa per ogni lettera che componeva il suo nome.
I vini avevano spesso il gusto di resina che derivava dal fatto che le anfore ne erano rivestite internamente. Piacevano molto, inoltre, altri vini profumati con le erbe. Ultimata la fermentazione, prima di riporre il vino nei recipienti, usavano filtrarlo con un sacchetto di stoffa (“sacculus”) mettendo nel colatoio (“colum”) neve o pezzetti di ghiaccio, per dare al vino un aroma particolare. I vasi vinari venivano poi chiusi con tappi o turaccioli di sughero (“cortex”), fissati con la pece (“pix”), riposti, poi, in una cella affumicata (“fumarium”) dove si asciugava la pece ed il vino, per effetto del fumo caldo, maturava diventando meno aspro e più amabile. Era anche consuetudine immergere i vasi pieni di vino, ben sigillati, nell’acqua di mare, ove, il vino detto “thalassites” (vino di mare) invecchiava prima acquistando un aroma particolare.
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Parlando ora dell’oliveto (“olivetum”) è da notare che esso in alcuni fondi rustici era costituito da più piante di olivo (“olea) collocate vicine fra di loro; in altri fondi invece esse era sparse nel terreno e distanti tra loro. La coltura dell’olivo forniva alla famiglia colonica l’olio sufficiente per tutto l’anno. Se indufficiente per la scarsità della raccolta o per l’avversa stagione o per altre cause si acquistava ricorrendo all’”olearius”.
Le piante di olivo venivano potate a primavera. La raccolta veniva effettuata nel mese di novembre. Le olive raccolte venivano portate presso il frantoio (“torcularium o trapetum o torcular olearum”) e depositate presso l’apposito locale detto “forum”, in attesa di essere frantumate con la “mola”, quasi simile a quella usata nei molini per la macinazione dei cereali.
La poltiglia di olive macinate o sansa (“sampsa”) veniva inserita nel torchio per la spremitura (“pressura”). L’olio che colava lungo il torchio e raccolto sul fondo dello stesso, veniva fatto defluire entro un grosso vaso di bronzo alto e stretto (“miliarium”); oppure in epoca più recente, attraverso canaletti, in una cisterna in muratura. L’olio prodotto veniva poi filtrato con un sacchetto di stoffa (“sacculus”) o con un batuffolo di lana e riconsegnato al cliente il quale, vigile e con furba diffidenza, assisteva a tutte le operazioni, lamentandosi col frantoiano che l’olio della passata stagione era pieno di morchia (“amurca” = feccia dell’olio), perché non lavorato bene. Il cliente ripartiva dal frantoiano con uno o più vasi di terracotta (“seria”), ove l’olio veniva conservato in casa durante l’anno.
Il frantoiano effettuava anche per suo conto la macinazione e la torchiatura delle olive comperate per poi rivendere l’olio ad eventuali richiedenti; l’olio veniva conservato in grossi vasi di terracotta o anfore.
A Roma arrivavano ingenti quantità di olio importato soprattutto dalla Grecia.
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Oltre che essere agricoltori i Romani erano anche pastori. La pastorizia, fin dall’antichità, era molto diffusa, anche per il fatto che erano di molto prevalenti i terreni incolti rispetto ai coltivati. Nemico giurato dei pastori era il lupo, sia per le frequenti stragi di agnelli e pecore che esso faceva e sia per la diffusissima credenza che il suo sguardo fosse nocivo: I Romani hanno sempre creduto che se una lupo guardava un uomo prima che questi scorgesse il lupo, l’uomo diventava muto. L’espressione “lupus in fabula” usata dai Romani, e anche da noi, è riferita a chi giunge all’improvviso e inaspettatamente, mentre si parla di lui.
Luogo adatto per il pascolo (“pabulatio”) era il bosco ricco di zone erbose
“Armamentarius” era il pastore di grosso bestiame: cavalli, buoi, bufali. “Armentum” era infatti il grosso bestiame, mente il “grex o pecus” era il gregge si pecore o di capre (“capra”).
“Caprimulgus” era il mungitore di capre. Pastore di soli buoi era il “bubulcus”; pastore di pecore era l’”opilio o upilio oppure ovium magister o custos”; pastore di capre era detto “caprarum magister”. Questi pastori sempre ricorrevano all’aiuto di cani (“canis pecuarius”) per la sorveglianza e protezione del gregge dai lupi.
La mungitura (“mulctus”) veniva fatta raccogliendo il latte nel secchio (“muletra o muletrale”). Col latte venivano fatti vari tipi di formaggi (“caseus”) e burro (“butyrum o buturum”) messi a sgocciolare e ad essiccare in appositi cestelli di vimini (“fiscella o fiscina”).
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Nelle foreste (“silva”) e nelle macchie o boschi (“dumetum”) venivano tagliate grosse quantità di legna utilizzata ad uso riscaldamento, in falegnameria per la costruzione di mobili per l’arredamento di case, nell’edilizia, o per la costruzione di navi e barche ecc.
Il boscaiolo o taglialegna (“lignicida”) era munito di sega (“serra”), di “dolabra” (scure con lungo manico e con punta ad uncino in ferro, che fungeva da asta e da picca, rispettivamente per spaccare e tirare i tronchi) e di cavalletto (“vara”) per segare.
Dai boschi la legna veniva trasportate con i muli (“mulus”) e asini (“asinus”) fino ai luoghi ove era possibile accedere con i grossi carri di trasporto.
Quando nei campi i lavori di potatura venivano fatti lentamente o con molto ritardo, e si sentiva echeggiare il canto del cuculo, a primavera inoltrata, i passanti o i vicini erano soliti canzonare e schernire gli agricoltori pigri gridando “cucù, cucù” ad imitazione del canto del cuculo (“cuculus o coccyx”).
Per stornare il malaugurio i contadini erano soliti appendere ad un albero, in genere vicino al confine, una figurina di cera (“oscillum”) raffigurante il dio Bacco.
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PESCA
La pesca veniva praticata dai Romani sia nelle acque dolci che nel mare.
Erano tanto ghiotti di pesci che Catone il Censore, preoccupato per l’elevato consumo di pesce e degli alti prezzi praticati a Roma, ammoniva i suoi contemporanei dicendo: “Va in rovina la città in cui un pesce vale più di un bue”!
Le famiglie più ricche avevano presso la casa un vivaio per pesci (“piscina”) e il vivaio di anguille (“anguillarium vivarium”) in modo da averne sempre la disponibilità.
Il pescatore (“piscator”) usava diversi strumenti da pesca:
-la canna (”arundo” ) alla quale era attaccato un sottile filo di lino (“linum”), recante in cima un uncino di ferro ricurvo (“hamus”). Il pescatore aveva con sé una cesta di vimini per raccogliere il pescato ed era anche chiamato “moderator arundinis” (moderatore della canna);
-piccola rete attaccata ad un bastone (“reticulum”);
-rete da pesca fatta con cordicelle (“linum”);
-rezzaglia, rete fatta ad imbuto, piombata sull’orlo, che si allarga all’atto del getto e si raccoglie poi chiudendo entro sé la preda (“funda”);
-canestro di vimini o canne, oblungo ad imbuto, dove i pesci una volta entrati non possono più uscire (“nassa”);
-rete strascico usata per la pesca in mare (“everriculum”);
Il getto delle reti per pescare era detto “bolus”.
I pescatori usavano piccole barche chiamate “navicula o scapha o horia”, utilizzate da una o due persone, lungo il Tevere o nel mare, ma non molto lontano dalla riva; mentre per la pesca in alto mare utilizzavano la “navis piscaria”, che era una grossa barca, appositamente attrezzata e sulla quale operavano molti pescatori.
Fra i pesci di acqua dolce preferiti erano la trota (“tructa”), lo storione (“acupenser o solar”),
l’anguilla (“anguilla”), meno pregiata la tinca (“tinca”), il barbo (“barbus”).
Fra i pesci di mare preferiti fra coloro che potevano spendere soldi erano il sarago (“sargus”), la spigola (“lupus”), l’orata (“aurata”), i molluschi (“conchilii”), i mitili (“mitili”); lasciando al popolino l’acciuga o sardella (“saperba o sarda”).
Il pesce fresco di giornata dai commercianti veniva portato a Roma attraverso il Tevere e fatto celermente affluire ai mercati ed essere esposto sui banconi (“mensa”) per la vendita.
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CACCIA
La caccia alla selvaggina stanziale e migratoria era largamente esercitata dai Romani, in tutte le stagioni, sia a scopo alimentare che per divertimento.
Per i Romani la caccia era una attività ed uno sport molto importanti; infatti sull’argomento furono scritti poemetti didascalici da parte di Grazio Falisco e di Nemesiano in lingua latina, e da parte del siriano Oppiano in lingua greca.
Il cacciatore (“venator”), coperto da una semplice veste (“alicula”), con ai piedi un paio di coturni (“coturnus o cothurnus”), specie di stivale fatto con pelle grezza, che copriva tutto il piede, giungeva dietro fino a metà polpaccio, allacciato sul davanti con corregge di cuoio generalmente di colore rosso, esercitava la caccia (“aucupium”), o da fermo o camminando per rincorrere la selvaggina. Il cacciatore che appostava la selvaggina era chiamato “inquisitor”.
Per scovare la selvaggina veniva utilizzato il cane da caccia (“canis venaticus”).
Le armi da caccia normalmente usate erano: l’arco (“arcus”) e le frecce (“sagitta o iaculum o telum”); il “venabulum” che era un grosso spiedo o grosse frecce a forma di spiedo; lo “sparus”, una specie di spiedo o lanciotto che aveva manico di legno con punta in ferro recante una lama curvata ad uncino e la punta aguzza.
Per prendere la selvaggina si usavano anche reti di varia misura: la “transenna o decipula o decipulum” che era una piccola rete (“linum”) per selvaggina piccola; la “plaga o panter”, grossa rete per prendere fiere o animali di notevole grandezza.
A volte venivano organizzate vere battute di caccia con molti cacciatori. Si circondava un tratto di bosco con alte reti sostenute dalle piante e da apposite pertiche (“ames”). All’interno della zona recintata entravano i battitori (“pressor o alator”), i quali battendo il terreno e i cespugli con bastoni e gridando ad alta voce, con l’aiuto dei cani (“canum turba”) scacciavano la selvaggina verso le reti. Il cane più usato era il “metagon”, cane segugio particolarmente adatto per scovare lepri e cinghiali.
Uccelli del posto che costituivano la selvaggina locale, chiamati “volucres vernacolae” erano:
-acalantis = il cardellino;
-alauda o galerita = l’allodola;
-aper = il cinghiale
-capreolus = il capriolo;
-cervus = il cervo
-coturnix = la quaglia;
-cucullis = il cuculo;
-damma = la cerva
-fringuillus = il fringuello;
-fulica = la folaga, uccello palustre;
-gallina rustica = il beccaccino;
-gazza = la pica;
-lepus = la lepre;
-merula o cossyphus = il merlo
-monedula = la gazza;
-musimo o musmo = il muflone.
-noctua = la civetta;
-passer = il passero;
-perdix = la pernice;
-phasianus = il fagiano;
-picus= il picchio;
-pipio = il piccione
-sturnus = lo storno;
-taxo = il tasso;
-tetrao = il gallo cedrone;
Uccelli migratori detti “volucres advenae” erano:
-acceia = la beccaccia;
-anas = l’anitra;
-anaticula = l’anetrella;
-ossifragus = il frosone (da “os” = osso e “frango” = rompo per la potenza del suo becco);
-palumbus o titus = il colombaccio;
-turdus = il tordo;
-turtur = la tortora;
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LA FAMIGLIA
Per i Romani la “familia” era composta dai discendenti di un solo capostipite e da tutte le persone della “domus”, compresi liberi e schiavi, a capo della quale era il “dominus” (il signore, il padrone) che si identificava con il “pater familias”.
I Romani chiamavano “familia” anche:
-il complesso degli schiavi servitori della casa;
-tutti i dipendenti a servizio di un potente (“familia publica”);
-il complesso degli schiavi a servizio di un tempio;
-tutti gli appartenenti ad una setta filosofica;
-compagnia (“familia gladiatoria”) di gladiatori appartenenti al un “lanista” (allenatore).
La (“gens”) gente o stirpe era il complesso di più famiglie legate fra loro da vincoli di parentela, di comunanza, di origine, di nome di usanze religiose; famiglie all’inizio soltanto patrizie, poi dopo il “connubium” fra patrizi e plebei, anche plebee.
La famiglia viene formata col matrimonio. Esso nel più antico diritto romano era un atto o un fatto giuridico, in base al quale una donna, in quanto libera (“sui iuris”), per sua libera scelta e volontà, o per volontà di altri (“alieni iuris”=sotto la patria potestà), esce dalla famiglia di origine per entrare a far parte di una nuova famiglia, in condizione di sottoposta e con la particolare funzione di procreare al capocasa, a un suo sottoposto libero, una discendenza legittima.
Nell’antichità non erano consentiti matrimoni fra cittadini di diverse classi sociali; per effetto della vecchia e forte contraddizione fra patrizi e plebei fu necessaria l’approvazione della “lex Canuleia” (così chiamata per la proposta fatta dal tribuno della plebe C. Canuleio), per permettere il matrimonio fra patrizi e plebei.
Il “matrimonium” (come istituto) e il “conubium” (contratto di matrimonio con tutte le conseguenze giuridiche fatto fra due persone aventi eguali diritti), a Roma, dapprima era fatto soltanto da persone appartenenti allo stesso “status” sociale, ed in seguito anche fra patrizi e plebei.
Il matrimonio veniva celebrato in varie forme:
a)- con la “confarreatio”: consisteva in una solenne cerimonia religiosa che prendeva il nome da una focaccia di farro, mescolato con sale macinato, che veniva offerta agli sposi e da questi divisa ed assaggiata, come simbolo dell’inizio della loro vita in comune; la cerimonia veniva compiuta alla presenza di un “Flamen Dialis” (capo del collegio dei sacerdoti Flamini) e di 10 cittadini, come rappresentanti delle dieci curie della tribù, quali testimoni (matrimonio paragonabile, grosso modo, al nostro matrimonio religioso).
Ai tempi dell’imperatore Augusto, per agevolare l’incremento demografico, fu approvata la “lex Iulia et Papia Poppea” che disciplinava il matrimonio prevedendo, fra l’altro, la istituzione dello “ius trium liberorum” (il diritto dei tre figli). Diritto concesso si padri di famiglia “ingenui” (nati liberi) con tre figli ed ai “liberti” (affrancati) con quattro figli. Fra i vari benefici che tale diritto comportava vi era la possibilità per i padri di famiglia di poter accedere alle cariche pubbliche prima del compimento del venticinquesimo anno di età e per le madri di poter fare testamento, e in più altre agevolazioni e benefici rispetto a chi non aveva figli o ne aveva meno di tre. Dinanzi al sacerdote lo sposo pronunciava la formula: “Ubi tu Caia ego Caius” e la sposa, di rimando rispondeva: “Ubi tu Caius ego Caia”.
b)- la “coempio” (da “coemo” = comprare insieme), che era una delle numerose applicazioni della “mancipatio” (compravendita effettiva, poi fittizia) che l’avente la patria potestà sopra la donna fa su di lei o che la donna fa di sé stessa al marito o all’avente potestà sopra di lui (matrimonio, grosso modo, paragonabile al nostro matrimonio civile.
c)- con la “conventio in manum” (patto col quale la donna passa in potestà del marito), una libera unione, quindi, che acquista valore di un legale matrimonio. Questa forma di matrimonio, negli ultimi tempi della Repubblica, era la forma prevalente, tanto da diventare poi matrimonio tipico per il diritto romano.
Con il matrimonio la donna perdeva ogni relazione di parentela e di dipendenza dalla famiglia d’origine; nella nuova famiglia era considerata come una figlia rispetto al marito e come nipote rispetto ai suoceri.
I Romani hanno sempre ritenuto cosa disonorevole sposare una libertina: ma con l’entrata in vigore della “lex Iulia et Papia Poppea”, che proibiva fra l’altro il celibato, prescrivendo la perdita della eredità ai celibi e agli sposati senza figli, come stimolo alla procreazione, questo disonore sparì.
La sposa veniva accompagnata alle nozze da una matrona chiamata “pronuba” ( da pro e nubo) in antitesi all’”auspex” (paraninfo) che accompagnava lo sposo.
L’accompagnamento della sposa alla casa del marito era reso gioioso e allegro col canto degli “Hymenei” (canti nuziali), seguiti dal canto in coro dinanzi alla camera nuziale (“epithalamium”).
Il giorno dopo le nozze lo sposo, a casa sua offriva un secondo banchetto (“repontia”); mentre il giorno innanzi, il pranzo nuziale, si teneva a casa della sposa. Durante i pranzi di nozze venivano intonati i “canti fescennini”, canti di genere festivo, aventi carattere sereno e allegro, non senza acerba arguzia; più tardi si trasformarono in canti satirici, pungenti e motteggevoli, pieni di pensieri equivoci e spesso licenziosi, composti in versi, non legati ad alcun metro determinato, che i commensali, soprattutto giovani allegri ed eccitati dal vino, si lanciavano a vicenda.
Il numero dei componenti la “familia” poteva aumentare o diminuire non solo col matrimonio, ma anche con l’”arrogatio”, con l’”adoptio” e con la “detestatio”:
a)- l’”arrogatio” (arrogazione) era la solenne cerimonia la quale un “pater familias” o una persona libera (“sui iuris”) dichiara di voler entrare a far parte di altra famiglia e di sottoporsi alla “patria potestas” di quest’ultima. Tale dichiarazione veniva fatta alla presenza dei Comizi Centuriati, convocati appositamente, due volte l’anno, dal Pontefice Massimo il quale chiedeva al popolo se approvasse la sottomissione dell’uno alla potestà dell’altro. Anticamente l’”arrogatio” fu consentita solo ai “patres” privi di discendenti, perché potessero artificialmente crearsi un erede; purché, però, essi avessero un’età tale da poter partecipare ai Comizi in modo da far chiaramente risultare che l’onore e l’onere della continuazione della famiglia fosse assunto con piena consapevolezza ed in piena libertà di azione delle due famiglie che si fondevano. Era richiesto l’intervento del popolo perché fosse pubblicamente valutata la importanza reciproca del nucleo familiare che si estingueva e di quello che si conservava.
Già negli ultimi secoli della Repubblica il Comizio Centuriato era simboleggiato e rappresentato nell’”arrogatio” dai 30 Littori, il cui consenso, se anche si pronunciava, era divenuto una formalità senza alcuna importanza. Anche se così trasformata l’”arrogatio per populum” non poteva essere fatta nelle province: perciò fra i Romani che vi dimoravano, fin dai primi tempi dell’Impero, invalse l’uso di rivolgere istanza direttamente all’Imperatore, il quale accoglieva o respingeva la richiesa di “arrogatio” secondo le informazioni che riceveva dal preside della Provincia. Questa nuova forma di “arrogatio” che si chiamava “per rescriptum principis”, dal 3° secolo era già praticata a Roma; dal 4° secolo in poi non si trova più menzione di essa, in quanto decaduta la vecchia formula.
b)- l’”adoptio” (adozione). L’adozione era il passaggio di un “filius” da una famiglia ad un’altra.
L’adozione ebbe, anticamente, la modesta funzione di spostare le forze lavorative, esuberanti in un gruppo verso altro gruppo bisognoso di esse; era un atto meramente privato, che si compiva fra due padri di famiglia interessati, atto nel quale non aveva alcuna rilevanza la volontà dell’adottato. Nell’antichità l’adozione veniva fatta seguendo un complesso cerimoniale nel quale, dapprima si procedeva alla estinzione della patria potestà del padre naturale dell’adottando mediante la “mancipatio” (la vendita); poi, nella seconda fase, veniva manifestata la rivendicazione della patri potestà del padre adottante.
In epoca più recente le procedure per l’adozione si semplificarono ed essa si compiva con le semplici e dirette dichiarazioni del padre naturale, dell’adottante e del figlio, dinanzi ad un magistrato, il quale prendeva soltanto atto delle volontà dichiarate, sufficienti e valide per costituire il nuovo rapporto familiare.
Nell’adozione l’adottante doveva essere per legge, sempre un maschio e “sui iuris” ossia libero.
I figli adottivi assumevato tutti il nome del padre adottivo e conservavano quello della loro famiglia originaria con la desinenza in “anus” o “inus” (per esmpio Publius Cornelius Scipio Aemilianus”, perché figlio di Paolo Emilio che entrò nella famiglia degli Scipioni).
c)- la “detestatio” era la rinuncia solenne ai riti sacri della “gens” e quindi alla famiglia di cui si faceva parte fino a quel momento.
Le figlie portavano sempre il nome della “gens”, come Tullia, Cornelia, Terenzia, Claudia, Flavia, Iulia ecc.. Le sorelle si distinguevano o con l’aggiunta di “maior” o “minor” oppure col numerale ordinale “prima”, “secunda”, “tertia” ecc.
Fino al 200 a.C. circa la separazione fra due coniugi (“divortium”) era cosa molto rara, quasi sconosciuta; il ripudio non giustificato da gravi ragioni (ad esempio: l’adulterio della donna o averla trovata ripetutamente nello stato di ubriachezza) era punito dal “fas” (=diritto divino), legge naturale, comune senso morale) con la consacrazione disposta dal Censore di parte dei beni del ripudiante alla dea Cerere (dea protettrice dei matrimoni). Più tardi anche i Censori, durante le operazioni di censimento con una “nota” posta al fianco del nome del divorziante,lo stesso veniva assegnato da una classe sociale più elevata ad una classe sociale più bassa.
L’adulterio (“moechia” o “moecha” = adultera; “moechus” = adultero) o “adulterium”, per il diritto romano divenne reato soltanto verso il 18 a.C., sotto Augusto, quando venne emanata la “lex Iulia de adulteriis”. Prima esso era considerato solo un fatto moralmente riprovevole, ma non perseguibile con pena pubblica. La “lex Iulia” ispirata a criteri di particolare severità, dati i fermi propositi di Augusto di moralizzare la vita ed i costumi dei Romani, prevedeva il diritto di uccidere la donna colta in flagrante, oltre a drastiche misure pecuniarie (come la perdita della dote ecc.). Con l’imperatore Giustiniano l’adulterio divenne reato infamante, ma, a causa della influenza cristiana, la pena capitale venne praticamente abolita.
Lo scioglimento del matrimonio avveniva per la morte di un coniuge, ed era questa la causa principale e più ricorrente.
Altrimenti la separazione fra coniugi avveniva:
a)- con la “diffarreatio” che era una cerimonia religiosa solenne con la quale si scioglieva il contratto di matrimonio fatto con la corrispondente cerimonia della “farreatio”.
b)- con il venir meno della reciproca volontà di vivere insieme come marito e moglie ed espletando, col rispetto prescritto, tutte le formalità dinanzi ad un magistrato. Il semplice gesto del marito di togliere le chiavi di casa alla moglie “claves uxori adimere”, era interpretato come esplicita volontà di volersi separare.
Gli uomini liberi della “familia” avevano in Roma tre o più nomi:
-il 1^ nome, nome proprio, imposto il 9^ giorno dalla nascita, era il “prenome”. Nelle scritture veniva posto subito all’inizio e, di solito, in modo abbreviato: es. A = Aulus, M = Marcus, L = Lucius.
-il 2^ nome era il cognome generico dell’intero casato (“gens”) detto “nomen gentilicium” che in genere terminava per lo più in “ius”: es. Tullius della “gens Tullia”, “Aurelius della “gens Aurelia”.
-il 3^ detto “cognomen”, era il nome specifico della famiglia che rappresentava una parte o porzione del casato (“gens”): es. “Scipio” della famiglia degli Scipioni.
-il 4^ detto ”agnomen” era il soprannome che qualcuno aveva ricevuto per qualche fatto singolare o illustre: es. “Africanus”, “Asiaticus”.
Esempio di nome: Lucius (“prenome”, nome proprio, Cornelius (“nomen gentilicium”, nome generico del casato), Scipio (“cognomen”, nome specifico della famiglia), Africanus (“agnomen”, soprannome).
Forte era il legame di parentela fra i componenti la “familia” e grande ed affettuoso il ricordo degli antenati famosi per aver ricoperto cariche pubbliche importanti. Le “imagines maiorum”
(immagini degli antenati), che erano maschere di cera al naturale (“cerae”) potevano essere tenute soltanto da quelli i cui antenati avevano ricoperto una carica curule. Era chiamato “ius imaginum” il diritto di avere il proprio ritratto in cera o degli antenati, concesso soltanto a coloro ai quali per la loro dignità spettava la “sella curulis” (sedia curule) cioè: i consoli, i pretori, gli edili curuli, il dittatore, il “magister equitum”. Queste “immagines” venivano conservate in appositi armadietti (“armaria”), posti nell’atrio ed affissi alle pareti (chiamate “fumaria” perché, col tempo, risultavano annerite dal fumo). Ogni “imago” era ornata con una corona di alloro e sotto, come come iscrizione un foglio di papiro arrotolato (“titulus”) vi si leggevano il nome del defunto e la descrizione dei suoi meriti; le singole “immagines” erano legate insieme da ghirlande, le quali, come le corone di alloro, venivano rinnovate nei giorni festivi.
Le famiglie più ricche, antiche ed influenti avevano intorno numerosissimi “clientes”. Il “cliens” era il “protetto” di una “gens”. Egli aveva determinati obblighi verso il “patronus”, come quello di concorrere a dotarne le figlie, a liberarlo dalla prigionia in guerra, pagarne le multe penali ecc. Il “patronus”, che normalmente era il “gentilis” (parente di stirpe) più anziano, era obbigato a prendere le difese del “cliens” in tribunale, a soccorrerlo nel bisogno, ecc.
Il patrono ed il cliente avevano obblighi reciproci: nessuno dei due poteva intentare una accusa all’altro, votargli contro o votare a favore dell’avversario, deporre testimonianze svantaggiose ad uno dei due.
Durante l’Impero i clienti, ogni mattina, andavano ad augurare il buon giorno al “patronus”, ritiravano una sportula contenente cibi. Ai patroni più ricchi e più insigni erano “clientes” anche uomini di una certa dignità, le cui mogli preparavano, come donativi al “patronus”, accurate e preziose vesti finemente ricamate.
Nella famiglia romana il capo naturale, il “Pater Familias”, era l’incarnazione della autorità, il re di casa, con potere assoluto ed illimitato. Nella famiglia egli era anche il padrone incontestato di tutti i beni mobili ed immobili; ma era anche consentito alle matrone, ai figli ed anche agli schiavi possedere beni separati da quelli del padrone, dei quali essi potevano disporre liberamente. Questi beni potevano essere: il “peculium” portato dalla padrona di casa insieme alla dote (cosiddetti beni parafernali); il “peculium” del figlio, che questi ha guadagnato come militare (“peculium castrense”), o con altre occupazioni (“quasi castrense”), o concessogli dal padre (“profecticium”), o proveniente dalla successione materna (“adventicium”), o anche accumulato con fatiche e risparmi.
I figli, pur conservando la propria personalità, erano in assoluta dipendenza dal padre, erano sua proprietà, finché egli non credesse opportuno emanciparli.
Per i Romani i diversi gradi di età dell’uomo erano:
-“infans” (incapace di parlare) fino ai 7 anni di età;
-“puer” (fanciullo, ragazzo) dal 7° al 16° anno di età;
-“adulescentius” (giovinetto) dal 16° al 17° anno di età;
-“adulescens” (adolescente) dal 18° al 30° anno di età;
-“iuvenis” (giovane) dal 31° al 45° anno di età;
– “vir” (uomo grande, maturo) dal 45° al 60° anno di età;
-“senex” (vecchio) oltre i 60 anni di età.
Molti oratori e storici chiamavano indifferentemente “adulescentes” e “iuvenes” gli uomini da 20 a 40 anni.
Il figlio, alla nascita,veniva posto ai piedi del padre, il quale, col gesto di prenderlo in braccio e sollevarlo, appoggiandolo alle ginocchia, lo riconosceva ufficialmente come proprio figlio.
I bambini appena nati venivano posti nell’apposita “cuna” (culla). Dopo l’ottavo o nono giorno dalla nascita venivano purificati mediante un sacrificio e veniva a loro imposto un nome (“prenomen”). I parenti prossimi, le amiche e le vicine della puerpera, vedendo il neonato, magari in coro, esclamavano: “Tibi simili est probe!” (Ti assomiglia perfettamente).
I primi giocattoli per loro erano i “crepitacula” o “crepundia” (sonagli) o altri oggetti di trastullo colorati. Con la stessa parola era chiamato il segno di riconoscimento appeso al collo dei bambini esposti o abbandonati dalla madre.
La “mater” o l’”avia” (la nonna) o la schiava addetta (“gerula”) cantavano ai piccini la ninna nanna (“nenia” o “lallum” oppure cantilene (“coemesis”) concilianti il sonno; raccontavano fiabe come fanno le madri e le nonne moderne.
I Romani hanno sempre avuto una particolare attenzione verso il mondo giovanile, ciò è chiaramente confermato dal fatto che durante l’Impero, furono create apposite fondazioni imperiali (anticipazione dei futuri orfanatrofi pubblici), con le quali si provvide al mantenimento, con una pensione mensile, dei ragazzi e ragazze liberi appartenenti a famiglie povere (“pueri et puelleae alimentarii”).
Le matrone romane curavano molto l’educazione della prole e si interessavano personalmente dell’allattamento dei figli, anche se coadiuvate da schiave bambinaie (”gerulae”) e dalla balia (“nutrix”) che li allattava.
La moglie era soggetta al marito come ancella e il vincolo che la legava a lui non poteva essere spezzato in quanto considerato sacro. Da ciò nacque il puro e sublime carattere della matrona romana, tutta dedita alle cure della casa e all’allevamento ed educazione dei figli. I nobili sensi ed i pensieri eroici venivano infusi nei cuori degli adolescenti da madri di altissimi sentimenti. Così alla devozione e parsimonia delle donne corrispondeva l’abnegazione e la temperanza degli uomini.
Il rigoroso esercizio dell’autorità materna, unita a quella paterna, oltre la religiosa osservanza della subordinazione da parte dei figli, la purezza generale dei costumi, erano accompagnati dalla semplicità e lealtà e dall’amore per il lavoro. Nella stessa famiglia romana la stessa matrona attendeva alle faccende domestiche, filando in mezzo alle sue schiave, mentre gli uomini attendevano alla pastorizia, all’agricoltura ed alla guerra
In tempo di pace l’elogio più bello cui poteva ambire un antico romano era quello di essere chiamato “buon agricoltore”. I Senatori stessi e tutti gli uomini più illustri vivevano lungamente in campagna; dai lavori di campagna passavano a quelli dello Stato e dagli esercizi militari o alla guerra; da questi tornavano alla semplice vita dei campi, considerata da tutti degna ed onorevole per gli uomini liberi. Prima delle guerre in Oriente anche i Senatori più illustri poco si differenziavano dai contadini e non avevano splendore e maestà se non nel Senato o al comando di un esercito. Curio Dentato, quel gran capitano che sconfisse e distrusse Pirro a Benevento, in casa non aveva altro che vasellame di creta e quando i Sabini glielo offersero d’oro e d’argento rispose: “Non amo di possederne, ma di comandare a coloro che lo posseggono”.
Tanto operosi era i Romani in tempo di pace, quanto gagliardi e valorosi si mostravano in tempo di guerra. Se dovevano lasciare i lavori dei campi perché chiamati agli esercizi militari o alla guerra vi accorrevano con quell’ardore che viene infuso dal più vivo amor di patria; ad essa stimavano si dovesse rendere un culto maggiore che agli stessi familiari; dicevano non esserci azione più bella che vegliare su di lei e sacrificarsi per la sua gloria e la sua grandezza (“Dulce et decorum est pro patria mori” diceva Orazio).
La purezza dei costumi della maggioranza, la semplicità degli usi, l’amore al lavoro, la devozione alla patria, la subordinazione delle donne al marito e dei figli al padre e di tutti allo Stato, la riverenza ed il rispetto di tutti delle istituzioni e delle leggi, costituirono la grandezza e la forza di Roma.
Entrata, però, sulle vie delle conquiste esterne, venuta a contatto con il decrepito mondo orientale, Roma prese dai popoli vinti lo sfarzo delle vesti, il lusso dei banchetti, il gusto per la morbidezza e agiatezze della vita, il rifiuto del lavoro che venne quasi completamente scaricato sul mondo servile degli schiavi.
L’antica disciplinae la semplicità degli usi e dei costumi si guastarono, gli animi si rammollirono; alla abnegazione subentrò l’ambizione, la corruzione scacciò le virtù; così Roma decadde e si avviò alla rovina.
Dalle gloriose e sconfinate conquiste nacque lo squilibrio delle ricchezze e da ciò lo scoppio di ripetute guerre civili, che dilaniaro lo Stato per più di un secolo, causando la perdita della libertà, poi il dispotismo e la tirannide, infine il peggiore di tutti i mali pubblici: le invasioni barbariche con l’oppressione straniera.
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PARENTELE
abavia = trisavola, terza nonna
abavus = trisavolo, terzo nonno
abmatertera = sorella della trisavola
abnepos = figlio del pronipote
abnepotis = figlia del pronipote
abnurus = moglie del pronipote
abpatruus = fratello del trisavolo
absocer = bisavolo del marito o della moglie, avo del suocero
adpatruus = zio di quarto grado
affinis = cognata
affinis = cognato
amita = zia paterna
amita magna = prozia, sorella del nonno paterno
amita maior = prozia, sorella del bisnonno paterno
amita maxima = prozia, sorella del trisnonno materno
amitae filia = figlia della sorella del padre
amitae filius = figlio della sorella della madre
amitinus = figlio della sorella della madre
atta = padre, così chiamato dai bambini
avia = nonna
avunculi filia = figlia del fratello della madre
avunculi filius = figlio del fratello della madre
avunculus = zio materno
avunculus magnus = prozio, fratello della nonna materna
avunculus maior = prozio, fratello della bisnonna materna
avunculus maximus = fratello del trisnonno paterno
avus = nonno
cognata = cognata
cognatus = cognato
collactanea = sorella di latte
filius = figlio
frater = fratelli
frater amitinus = figlio della sorella della madre
frater consobrinus = figlio della sorella della madre
frater patruelis = figlio del fratello del padre
levir = cognato, fratello del marito
magna socrus = prosuocera, nonna del marito
maior socrus = bisnonna del marito
mamma = madre, così chiamata dai bambini
mater = madre
matertera = zia materna
matertera magna = prozia, sorella della nonna materna
matertera maior = sorella della bisnonna materna
matertera maxima = prozia, sorella del trisnonno materno
matris frater = zio materno
maxima socrus = trisnonna del marito
nepos = nipote, figlio del figlio o della figlia
noverca = matrigna
pater = padre
patris frater = zio paterno
patruelis = figlio del fratello del padre
patrui filia = figlia del fratello del padre
patrui filius = figlio del fratello del padre
patruus = zio paterno
patruus magnus = prozio, fratello del nonno paterno
patruus maior = prozio, fratello del bisnonno paterno
patruus maximus = prozio, fratello del trisnonno materno
privigna = figliastra
privignus = figliastro
progener = marito della nipote
socer = suocero
socrus = suocera
soror = sorella
soror amitina = figlia della sorella del padre
soror consobrina = figlia della sorella della madre
soror patruelis = figlia del fratello del padre
tata = padre, nel balbettio infantile
tritavia = madre della bisnonna
tritavus = padre del trisnonno
vitricus = patrigno
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ABBIGLIAMENTO
I Romani da rozzi pastori ed agricoltori, dopo le prime vittoriose guerre di espansione, fin dai primi secoli dalla instaurazione della Repubblica, con il generale aumento del benessere e della ricchezza, riuscirono a migliorare ed elevare celermente il loro tenore di vita.
Il contatto con altri popoli, soprattutto orientali, l’imitazione e l’assimilazione di alcuni usi e costumi altrui provocarono celermente, in Roma, sensibili cambiamenti e miglioramenti nel modo di vivere; gli abiti da grossolane stoffe e pelli, divennero vestiti ricamati ed eleganti, fatti con stoffe pregiate e colorate; le calzature già di rozza pelle non conciata, divennero, lavorate, rifinite e confortevoli.
Gli antichi Romani non usavano radersi la barba, che lasciarono crescere incolta ed ispida fino a quando, intorno al 300 a:c:, dalla Sicilia, vennero a Roma i primi barbieri (“tonsores”), aprendo entro Roma diverse botteghe da barbiere (“tonstrinae”). Il primo che dette l’esempio di radersi fu Scipione l’Africano.
Le case, da primitive capanne e tuguri, con mura e tetti di fango e paglia, si trasformarono in solide, ampie e belle dimore in muratura. Le famiglie patrizie potevano disporre di case costruite con magnificenza e ricchezza, piene di schiavi servitori, ove esistevano tutte le comodità desiderabili. Dalla capanna-tugurio si passò a dimore sempre più ampie e funzionali, dotate di tutti i servizi: sala da pranzo, cucina, camere da letto, studi, bagni, biblioteca, magazzino; annesse alla casa erano la stalla per cavalli, le dimore per gli schiavi, giardini, piscine, vasche per allevamento di anguille e pesci.
Da un tenore di vita moderato, caratterizzato dalla austerità e parsimonia, si passò ad un modo di vivere improntato al lusso, alla dispendiosità ed alla sfrenatezza. Già nel 246 a.C. cercando di arginare e in qualche modo limitare il lusso sfrenato il Senato approvò una specifica legge su proposta del console Fannio. Fra il 200 e il 150 a.C. a nulla valsero le invettive e le censure di Marco Porcio Catone soprannominato il Censore, il quale con la sua potente eloquenza sempre combatté fieramento contro gli abusi e i malcostumi che avevano invaso Roma. Ripeteva spesso: “Va in rovina la città ove un pesce vale più di un bue”, riferendosi al fatto che i Romani, ghiottissimi di pesce, spendevano cifre astronomiche per acquistare pesci prelibati.
Indice di benessere e di amore del lusso era l’importanza data all’abbigliamento, meticolosamente curato, sia dagli uomini che dalle donne, soprattutto dalle ricche matrone, appartenenti a famiglie patrizie o dell’ordine cavalleresco, o mogli di senatori o magistrati.
Esse col pettine passavano molto tempo davanti allo specchio “inter pectinem speculumque occupatae”, aiutate da una schiava, chiamata “pecas”, addetta ad acconciare e pettinare e profumare i capelli della padrona. Questa spesso ricorreva alla parrucca “coliandrum” o “corymbium” formata di parecchie trecce sovrapposte le une alle altre.
Le donne si allungavano le sopracciglia col nerofumo, oppure le tingevano di nero con un cosmetico chiamato “stibium”, ricavato dall’antimonio. In casa tenevano ben custoditi numerosi vasetti e piccole scatole contenenti i più svariati profumi: essi erano la “concha”, a forma di conchiglia o vera conchiglia, il “parvus onyx” di alabastro levigato, l’”ampulla” di forma allungata con collo stretto e due manici fatta di vetro o di argilla o anche di pelle, l’”alabaster” a forma di pera di alabastro oppure di onice orientale ben levigato. Come unguento per i capelli le matrone usavano la “murra” (mirra), che era la resina raccolta da un arbusto in Arabia, incidendone la corteccia del basso all’alto, oppure il “myrobalanum” che era un balsamo ricavato da una ghianda unguentaria arabica. I profumi venivano acquistati presso le botteghe dei profumieri (“myropolia”).
Tutti gli oggetti preziosi, usati come ornamento del corpo o delle vesti, in casa, venivano chiusi e gelosamente custoditi in uno scrigno (cassetta o scatola) chiamato “arcula”.
Alle orecchie le donne portavano appese le: “tribacae”, orecchini con tre grosse perle, o le “crotalia” orecchini con più perle, le “bacae” orecchini con una perla. Al collo indossavano la “catella”, una catenina per lo più di metallo prezioso e ben lavorato. Ai polsi portavalo il “dextraliolum” (piccolo braccialetto), oppure un braccialetto di solito a forma di serpente attorcigliato, con lavori di rilievo o cesello, usato anche dagli uomini. Immediatamente sopra le caviglie il “periscelis” un giro di cerchietti metallici, oppure le “compedes” che erano catenelle di argento o di oro.
I Romani sono sempre stati amanti di anelli (“anuli”) d’oro o di ferro (”armilla”). Al tempo della Repubblica portare l’anello d’oro era solo privilegio riservato agli appartenenti all’ordine cavalleresco. L’anello col sigillo serviva per sigillare le lettere. In casa gli anelli venivano custoditi in un apposito scrigno chiamato “dactylioteca”.
Come ornamento dei vestiti, sul petto, le donne, apponevano le seguenti pietre preziose: la “coclis” a forma di lumaca, la “margarita” una perla vera, la “vitrea” una perla di cristallo, la “sagda” una pietra preziosa. Queste pietre venivano incastonate anche negli orecchini. Come ornamento dei vestiti od anche per unire parte di essi, venivano usate spille (“armilla”) e spillette (“acaculae”) da varie forme.
Per la depilazione le matrone usavano appositi pinzette chiamate “volsellae o vulsellae”, oltre le pietre di pomice per lisciare gambe e braccia. “Pumicatus” (pulito con la pomice) era l’epiteto canzonatorio con cui veniva chiamato l’effeminato che si faceva la pelle liscia e lucente usando la pietra pomice.
Le scarpe di ogni tipo e forma venivano acquistate nel negozio (“taberna”), nel mercato (“forum”) o direttamente presso la bottega (“sutrina”) del calzolaio (“sutor”). Esse erano di forme diverse, così chiamate:
-“calceus” (stivaletto di cuoio) che copre tutto il piede e spesso anche il malleolo fino al polpaccio. Con quattro strisce di cuoio che giravano alte fino al polpaccio e con un ornamento di avorio a forma di luna (“lunula”), cioè una specie di fermaglio o fibbia di avorio.
I Senatori portavano stivaletti di cuoio di colore rosso legati al polpaccio con strisce di cuoio di colore nero.
-“cothurnus”, stivaletto fatto con pelle grezza, che copriva tutto il piede, giungendo nella parte posteriore fino a metà polpaccio e che nella parte anteriore veniva allacciato con stringhe di cuoio normalmente di colore rosso.
-“pero” era lo stivale fatto con pelle non conciata, giungeva fino al polpaccio e veniva allacciato sul davanti; era usato da soldati, carrettieri e contadini.
-“soccus” era una scarpa bassa e leggera, portato solo dalle donne e dagli effeminati. Quasi sempre veniva calzato dagli attori comici.
-“solea o crepida” specie di calzare che consisteva in una semplice suola allacciata al di sopra con strisce di cuoio e legacci, lasciando libere le dita ed il collo del piede; serviva infatti solo per riparare la pianta del piede. Normalmente in casa i Romani portavano le “soleae” e che utilizzavano anche quando dovevano fare visite lunghe o erano invitati a banchetto.
Durante il banchetto le deponevano e quando di nuovo si alzavano se le facevano rimettere da uno schiavo (da qui le espressioni “demere soleas” = sedersi a tavola e “sumere soleas” = alzarsi da tavola).
Non conoscendo i calzini i Romani coprivano i piedi e gambe con fasce, soprattutto nel periodo invernale, prima di indossare le scarpe.
Di diverse forme, misure e colori erano i vestiti indossati dai Romani: i più ricchi indossavano vesti lussuose, ricamate ed eleganti, confezionate dai migliori sarti di Roma; i poveri si accontentavano di vesti rozze fatte con stoffe di infima qualità: essi infatti avevano la “vestis domestica” che era l’abito normalmente indossato ogni giorno e la “vestis forensis” che era il vestito di città, della festa, un po’ più raffinato e tale da potervi uscire per le vie di Roma e passeggiare nei Fori.
Ecco un elenco di vesti più o meno lussuose ed eleganti usate dai Romani:
-“abolla” era il mantello da viaggio a doppio giro, molto pesante per ripararsi dal freddo;
-“alicula” era l’abito del cacciatore e del bambino. In tenera età i bambini venivano avvolti in fasce;
-“amiculum” specie di mantello sopra l’abito portato da uomini e donne. L”amiculun duplex”, doppio, grosso e spesso era il mantello usato dai contadini;
-“anadema” era una benda per capelli, portata come ornamento dalle donne;
-“byrrus”, mantello a cappuccio
-“calautica” specie di cuffia portata dalle signore, fermata da un nastro intorno al capo, con gheroni che scendevano dai due lati sulle guance a guisa di velo, che si poteva distendere in modo da coprire tutto il viso;
-“campester o subligar o subligaculum” era una cintura di stoffa per coprire il basso ventre, specie di fascia di decenza avvolta intorno alle anche per coprire i genitali, specie dell’odierna mutanda, indossata da uomini e donne ed anche dai lottatori;
-“caracalla”, specie di veste col cappuccio e le maniche, che scendeva come sottana fino alle caviglie, introdotta a Roma dall’imperatore M.Aurelio Antonino (Bassiano), che per questo ebbe il nome di Caracalla;
-“cento” era un abito costruito con pezzi di stoffa differenti per qualità e colore cuciti insieme; ci si faceva anche la coperta da letto o la coperta da mettere sotto il basto.
-“clamis”, clamide, mantello (o sopravveste, largo di lana, talvolta di color porpora o trapunto d’oro, portato da guerriri illustri. Mantello di viaggio di personalità ragguardevoli e mantello di parata per donne e ragazzi;
-“feminalia” specie di cosciali, formati da fasce di stoffa, con le quali le donne si fasciavano le cosce;
-“focale” specie di cravatta, fazzoletto da collo portato generalmente da ammalati o da persone effeminate;
-“indusium” sopravveste che la donna portava in casa sopra la camicia (“subcula”);
-“infula” benda o ghirlanda di lana generalmente bianca ed in alcuni casi purpurea, che cingeva il capo a guisa di diadema, oppure a foggia di turbante, fermata intorno alla fronte dalla “vitta” (nastro) i cui capi pendevano da ambo le parti. Era un emblema della inviolabilità e particolarmente un distintivo della dignità sacerdotale, e veniva perciò portata dai sacerdoti e dalle vestali nelle cerimonie solenni. Nel tardo impero veniva portata anche dai magistrati e dal principe come pure da supplici o messi di pace. Si soleva ornarne l’”apex” (berretto) dei Flamini ed il capo delle vittime da sacrificare ed anche oggetti come altari e colonne ecc. Chi era adorno d’”infula” ispirava un certo rispetto religioso.
-“laena” mantellina o sopravveste pesante indossata contro il freddo;
-“laticlavium” era una tunica provvista di una larga balza o striscia di porpora. Tunica portata dai Senatori e all’epoca dell’Impero anche dai figli di antiche famiglie patrizie che si preparavano alle pubbliche cariche. I Tribuni militari dell’ordine equestre ed i cavalieri, come distintivo del grado, invece di una striscia larga sulla tunica, portavano due strisce più strette (“parvus clavus”).
-“lucerna” mantello o sopravveste munita di cappuccio, indossata sopra la toga;
-“mammillare” era una fascia di stoffa usata come reggiseno che le donne usavano per sorreggere o stringere il seno troppo colmo, acquistata presso il negozio gestito dallo “strophiarius”;
-“mavors” era una mantellina corta che copriva il collo e le spalle;
-“mavorte” (vedi “mavors”);
-“mitella” era una piccola fascia di seta che le donne di malaffare portavano sul capo come turbante;
-“mitra” copertura del capo con fascette da legarsi sotto il mento, usata originariamente in Asia, poi in Grecia ed infine a Roma dalle donne ed anche da uomini effeminati;
-“padulamentum” era così chiamato il lungo mantello militare di lana, portato dal capo di un esercito, di colore bianco o rosso. Era indossato in battaglia come segno distintivo del grado;
-“paenula” mantello di panno grosso e tutto chiuso (anche davanti: perciò veniva infilato come una sottana), adatto per viaggi, per il cattivo tempo e per ripararsi dal freddo;
-“pagauda o paraganda” e l’abito con gli orli di oro o di seta;
-“palla” sopravveste delle matrone romane, lunga, ampia e cadente fino ai piedi, aperta sul davanti e tenuta insieme con molti ganci. Veniva indossata sopra la “stola” e serviva come abito da passeggio, quindi di solito, adorna di preziosi ricami. Le meretrici non potevano indossarla.
-“paraganda” (vedi “paragauda”);
-“peplum” sopravveste o manto da donna di stoffa finissima, lungo e largo con ricchi e preziosi ricami;
-“peplus” (vedi “peplum”);
-“pileus” specie di berretto di feltro, di forma semiovale o conica; ben aderente alle tempie era portato nei conviti, negli spettacoli, nei giorni di festa e di allegria; portato dagli schiavi quando erano posti in vendita o quando venivano affrancati;
-“reticulum o retiolum” reticella o cuffia a maglia usata per sostenere i capelli;
-“retiolum” (vedi “reticulum”)
-“rica” scialletto con frange che copriva il capo e giungeva fino alle spalle; fazzoletto da testa fatto con un pezzo di lana di forma quadrata che si piegava doppio; esso era sempre portato dalla moglie del flamine;
-“ricinium” (vedi “rica”);
-“sagum” (saio) mantello corto da viaggio o militare costituito da un pezzo di panno quadrato, di lana grossolana o grezza; veniva portato sulle spalle, ove su una di esse era fermato con un nodo o con una fibbia; dagli schiavi veniva portato quando faceva cattivo tempo.
-“stola” lunga sopravveste che andava dal collo ai piedi (indossata dalle matrone ma severamente vietata alle meretrici);
-“strophium” (vedi “mammillare”)
-“subligaculum” (vedi “campester”)
-“subligar” (vedi “campester”)
-“subucula” era la camicia da donna;
-“toga candida” indossata dai candidati;
-“toga praetexta” veniva indossata dai magistrati e dai fanciulli nati liberi, orlata di una balza di porpora.
-“toga pulla” (toga scura di colore bruno) indossata in segno di lutto;
-“toga pura” senza alcun ornamento dei non magistrati e dei giovani giunti all’età virile;
i giovani al compimento del 17 anno di età indossavano la “toga virilis”, ma non dovevano per un anno mostrare nudo il braccio destro fuori dalla toga; essa indicava l’indipendenza dei giovani dai precettori e la possibilità di entrare nella vita pubblica;
-“toga virilis” (vedi “toga pura”);
-“toga” (= vestito, coperta) era una sopravveste indossata dagli uomini in tempo di pace e consistente in un taglio di stoffa di lana bianca di forma circolare, oppure ovale le cui dimensioni erano nella proporzione 2:3. Si metteva in modo che il braccio sinistro vi riposasse come in una fascia ed aveva solo la mano libera, mentre il braccio destro era completamente scoperto e libero. Essa veniva indossata in tempo di pace, quando si usciva in pubblico come cittadino (agli esiliati non era consentito indossarla). Per eccezione veniva indossata dai “libertini” (schiavi affrancati) e dalle meretrici (sgualdrine, cortigiane). Più tardi la “toga” fu indossata come abito ufficiale, da personaggi illustri, da clienti, da chi compariva in tribunale, in teatro, ai giochi pubblici, e dagli invitati alla mensa dell’Imperatore. Già al tempo di Cicerone si usava indossare due tuniche: una detta “interior” o “interula” direttamente sulla pelle e l’altra, sopra la prima che per i Senatori e per i tribuni militari delle prime 4 legioni, era ornata dal “latus clavus” (“laticlavium” = larga striscia di porpora) e per i cavalieri dall’”angustus clavus” (basso orlo di porpora). Nell’epoca imperiale portavano il “laticlavium” anche i figli di illustri ed antiche famiglie patrizie, specialmente quelli che aspiravano ad occupare qualche magistratura.
La povera gente (“popellus” = popolino) e gli schiavi portavano sempre una sola tunica (quindi era chiamata “tunicatus populus” oppure “popellus tunicatus”); i loro vestiti invernali erano fatti con il “gausape” o “gausapum” che era una specie di panno grosso, peloso solo da una parte, talmente grezzo che veniva usato anche per fare tappeti e strofinacci. Se il panno era peloso da ambo le parti era chiamato “amphimallium”.
-“tunica manicata” era una tunica con le maniche lunghe fino a coprire le mani, veniva indossata dalle donne, dagli stranieri o dagli effeminati; nella stagione invernale la insossavano i contadini;
-“tunica talaris” era un indumento lungo fino ai talloni;
-“tunica” indumento sia degli uomini che delle donne, con maniche corte, che si portava immediatamente sul corpo. Sopra di essa, nell’uscire di casa, gli uomini indossavano ancora la “toga” e le donne la “stola” e la “palla”;
-“vitta” benda o fascia per legare l’”infula” sul capo del principe o dei magistrati.
I Romani, quando avevano molte faccende da sbrigare, si succingevano la tunica, in modo da essere meno impacciati nel lavorare e nell’andare e venire: tanto più in alto la cingevano, quanto più erano affaccendati. Gli oziosi, invece, che non avevano alcuna fretta, portavano la tunica sciolta e spiovente fino ai piedi (da cui la parola “alticinctus” che significava uomo operoso e “discinctus” che significava molle, ozioso, effeminato).
I poveri ed il popolino era definito “pannosus” (cencioso) in quanto, generalmente, indossa una “vestis pannucea” (rattoppata e tutta spiegazzata).
Normalmente in casa gli abiti venivano custoditi in appositi contenitori di vimini intrecciati, spesso ricoperti di pelle. I vestiti venivano spazzolati con il “muscarium bubulum”, specie di spazzola fatta con peli della coda del bue.
Per portare moneta spicciola le donne avevano un borsellino (“crumina” o “pasceolus” o “sacculus”) appeso al collo e cadente sul petto o appesi al braccio, mentre gli uomini usavano la “zona”, una specie di cintura di cuoio cinta alla vita, assimilabile al nostro portafoglio.
I Romani conoscevano ed usavano il “sudarium” (fazzoletto da naso), il “sudariolum” (fazzolettino per asciugare il sudore o pulirsi le mani), il fazzoletto per pulirsi la faccia chiamato “facitergium”, o il fazzoletto più grande chiamato “focalia”, il ventaglio, chiamato “flabellum” normalmente di penne di pavone.
I trionfatori, i ragazzi di famiglie patrizie e più tardi anche gli “ingenui (=nati liberi) portavano sul collo la “bulla” (un globetto d’oro, bolla d’oro), quale amuleto. L’uso, copiato dai re e lucumoni etruschi, fu introdotto a Roma insieme alla “toga praetexta”, e con questa dedicata ai Lari quando il giovinetto compiva il 17° anno di età e diveniva maggiorenne.
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I ROMANI MANGIAVANO………
I Romani primitivi erano frugalissimi. I rozzi pastori del Lazio, non conoscendo ancora il pane, si nutrivano quasi esclusivamente di polenta di orzo o di farro o fava, di latte, di ricotta, di formaggi, carni arrostite, di frutta e verdura.
Nelle loro capanne, o all’aperto, con pochi vasi di terracotta, preparavano i pasti quotidiani, che venivano consumati seduti su rozzi sgabelli o cippi di legno, e fuori dalla capanna su pietre o sul prato.
Il contatto con altri popoli ed il miglioramento del tenore di vita, fortemente agevolato dalle ricchezze conquistate con le guerre di espansione, modificarono profondamente ed in fretta gli usi e costumi dei Romani e influirono anche sul loro modo di preparare cibi, mangiare e vestire.
Anche attraverso la numerosa presenza di schiavi in Roma si venne a conoscenza di nuovi modi di preparare e cuocere cibi, copiati da altri popoli.
Dai cibi suindicati si passò alla preparazione di pasti più gustosi e raffinati. Nelle famiglie patrizie e benestanti, per la preparazione del pranzo erano utilizzati numerosi schiavi sotto la direzione della “mater familias”. Già nel 200 a.C., in Roma, bravissimi cuochi (“coquus“ o “coctor” o “magirus” preparavano squisiti e saporiti cibi, sughi raffinati, intingoli stuzzicanti l’appetito. Per insaporire i i cibi essi usavano: formaggio grattugiato, specialmente il piccante pecorino sempre presente sulla tavola, per condire minestre e paste asciutte; erbe aromatiche locali come: il rosmarino (“ros marinus” o “rosmarium”) o aromi e spezie provenienti dalle regioni orientali con il pepe (“piper”), la cannella (“cinnamum” o “cinnamon”), la mirra (“murra” o “myrra”).
Carni lessate, ma per lo più arrostite, di numerosi animali domestici o selvatici catturati con la caccia erano presenti sulla tavola. I pesci più pregiati di mare o di fiume erano venduti e consumati in Roma. I Romani erano talmente ghiotti di pesce e anguille che, per averne una disponibilità continua, le famiglie più ricche, lo allevavano nelle “piscinae” e negli “anguillarii”
Il pane, anticamente sconosciuto, con la pratica dell’agricoltura e la coltivazione del grano
divenne il cibo fondamentale, mangiato a solo o con vari companatici. Il pane dei Romani era di tre qualità:
a)-”durus ac sordidus” (secco e grezzo) di infima qualità quasi fatto con tutta crusca ed anche con farine di ghianda; veniva chiamato anche “panis furfureus”, perché era un pane da cani per quanto era dozzinale;
b)- “plebeius, secundarius”, di media qualità, con più farina e meno crusca;
c)- “candidus” (bianco), di ottima qualità, fatto con finissima farina bianca di grano, bene ripulita con lo staccio. Per la cottura di questo pane veniva usata un tegghia particolare chiamata “arthopa”.
Il pane più ricercato ed apprezzato era quello prodotto dai Piceni.
CIBI
Qui di seguito viene fatto un elenco esemplificativo, sicuramente non completo, dei cibi che comunemente venivano consumati, dopo accurata preparazione, dai Romani (tenendo sempre ben presente la differenza fra la tavola dei ricchi e quella dei poveri dove alcuni dei cibi sottoelencati non comparivano mai):
-“acetaria” insalata condita con olio e aceto;
-“assatura” carne arrostita; l’”assum” era l’arrosto;
-“aurata”, orata, pregiato pesce di mare;
-“elixatura”, carne lessata;
-“embamma”, salsa piccante; condimento acido
-“fabacia “(vedi “fabata”)
-“fabata” minestra o passato di fave era l’alimento comune degli antichi Romani, prima che conoscessero il pane;
-“farcimen” salcicca (da “farcio” = mettere dentro) chiamata anche “butulus”, “insicium”,
-“garum” salsa preparata con pesci marinati, specialmente con lo “scomber” (sgombro);
-“hypotrimma” salsa piccante fatta con molte erbe;
-“intinctus”, salsa, brodetto, intingolo, brodetto;
-“iurulentia” brodo carne bollita;
-“lardium” (vedi “laridum”);
-“laridum” così chiamata ogni sorta di carne porcina salata e conservata;
-“leucozomus” pollo in salsa bianca;
-“lucanica” salsiccia;
-“minutal”, manicaretto di carne trita ed uova
-“omasum” trippa, budellame di bue;
-“puls” polenta di farina di farro chiamata “puls farina” o di fava chiamata “puls”;
-“tractogalatus” pasta sfoglia col latte;
-“tractomelitus” pasta sfoglia col miele;
Il pollo o il maialino al “laser”, cioè insaporito con l’erba che noi chiamiamo silfio o laserspizio, che i Romani importavano dalla Cirenaica perché più ricercata.
Sulle tavole arrivavano anche, ben cotti e insaporiti, animali selvatici catturati con le reti e con la caccia, pesci e frutti di mare di ogni specie, animali da cortile appositamente allevati; ortaggi coltivati in campagna; frutta di stagione raccolta in Italia o importata dall’Oriente o dall’Africa, come banane (“arienae”) o datteri freschi (“palmae pomi”) o secchi (“pateti”).

FOCACCE
I Romani amavano mangiare spesso focacce, il che ci fa pensare che in Roma esistessero molte “tabernae” paragonabili alle moderne frequentatissime pizzerie, ove venivano confezionate e vendute gustose focacce, di diversa forma e gusto, chiamate:
-“adipta”, pasticci grassi;
-“adorea liba”, focaccia di frumento;
-“artolaganus”, focaccia fatta con farina, vino, latte, olio, grasso e pepe;
-“collyra”, focaccia da insuppare nel brodo;
-“copta”, focaccia assai dura;
-“cumipha”, focaccia condita con succo vegetale;
-“libum”, focaccia preparata con cacio grattugiato, farina di frumento o orzo o farro, cotta al forno. Offerta agli dei nei sacrifici e specialmente nei giorni in cui si festeggiavano i compleanni.
-“lixulae”, ciambelle con cacio, farina e acqua;
-“moretum” focaccia contadinesca composta di farina, formaggio, aglio, ruta, aceto e olio;
-“mustacium” mostacciolo, specie di focaccia preparata per le feste nuziali, fatta di farina mescolata col mosto, con condimento di grassi, con cacio, anice, foglie di lauro e cotta al fuoco sopra foglie di lauro;
-“placenta” (vedi libum”);
“turunda”, focaccia.
DOLCI
I dolci più conosciuti dai Romani, delizia dei bambini, erano i seguenti:
-“crustulum”,confetto, zuccherino fatto con lo succhero (“saccharon”);
-“laterculus”, piccolo dolce a forma di mattoncino;
-“melilla”, dolcetto a base di miele;
-“palatha”, marmellate di frutta secca, specialmente di fichi;
-“polenta caceata”, torta incaciata;
-“savillum”, dolce che si mangiava a cucchiaiate.
BEVANDE
Per dissetarsi, durante o fuori i pasti, le bevande più comuni erano:
-“abiana”, bevanda fatta con fiori;
-“alica”, bevanda fatta con orzo;
-“antemis” (vedi “abiana”);
-“camomilla”, camomilla, bevanda fatta con fiori di margherita bolliti;
-“caroenum”, vino cotto dolce;
-“cervisia”, birra, bevanda fatta con orzo fermentato;
-“dodra”, bevanda fatta con nove ingredienti;
-“fermentum” (vedi “cervisia”);
-“halica” (vedi “alica”);
-“leucanthemis”, camomilla romana;
-“posca”, bevanda fatta con un miscuglio di acqua e aceto;
-“sapa”, mosto cotto;
-“vinum de piris”, vino fatto con le pere;
-“vinum ex malis”, vino fatto con le mele;
-“vinum mirratum”, vino profumato con la mirra , detto anche “murratum”;
-“vinum mulsum”, vino profumato e dolcificato con l’aggiunta di miele;
-“vinum palmeum”, vino fatto con le bacche della palma da datteri;
-“vinum passim”, vino fatto con l’uva passita;
-“vinum”, vino puro fatto con uve pregiate.
IL PRANZO
Il pasto principale de Romani (il nostro pranzo) si chiamava “cena”. Esso aveva luogo fra le ore 15 o 16 (ora nona o decima della giornata).
Gli altri due pasti più semplici e frugali erano:
-lo “ientaculum” (la nostra colazione), appena alzati; pochi bocconi, per lo più avanzi della cena precedente;
– il “prandium” (pranzo), il leggero pasto che si faceva verso l’ora sesta (ore 12).
I Romani chiamavano “triclinium” sia la sala da pranzo, che il letto da mensa su cui stavano coricati a tavola. Le sale da pranzo dei più ricchi avevano il soffitto (“lacunar”) a cassettoni, risultanti da un intreccio di travi, con fregi e pitture. Quelle dei meno ricchi avevano, invece, una specie di baldacchino “auleum”, sopra il quale venivano stesi drappi di porpora (“ostrum”) che riparavano la caduta di polvere dal soffitto e abbellivano la sala. Cose mai viste dai poveri, perché la loro sala da pranzo era formata da un tavolaccio a tre piedi e rozze panche o cippi di legno, e sopra un soffitto di canne.
Il “triclinium” (letto da pranzo) era costituito da tre letti predisposti a ferro di cavallo, nei quali i convitati, secondo la loro importanza, occupavano i posti di destra dei letti stessi; tenendo però presente che il posto d’onore era quello sul letto collocato frontalmente. I convitati stavano tre per letto, anche in quattro se il banchetto era tra amici o familiari; in più di quattro era sempre considerata cosa biasimevole ed una indecenza.
Di fronte ai letti erano posti lussuosi tavoli, fatti col profumato legno di cedro o di acero, talvolta abbelliti con lamine di argento e sorretti da un solo grosso piede (“monopodia”) al quale si dava la figura d’un leone, leopardo ecc. Sopra i tavoli venivano poggiati i cibi per i commensali.
Sopra i letti i commensali stavano sdraiati, a piedi scalzi, e mangiavano tenendo il gomito sinistro poggiato sopra un cuscino, portando il cibo alla bocca con la mano destra; quando si sentivano satolli sceglievano una posizione più comoda; l’espressione rimettersi sul gomito, rialzarsi sul gomito era come dire rimettersi in asseto di mangiare, tornare a mangiare.
Il lato libero era utilizzato dai servitori per offrire cibi e mescere vino. Il direttore della sala da pranzo era l’”architriclinus” o “triclinaches” o “triclinarcha”. La mensa veniva preparata da uno schiavo chiamato “lectisterniator”: preparava i letti intorno ai tavoli (“triclinium scernere= apparecchiare la tavola) e sopra questi stendeva colorate tovaglie di preziosa e raffinata fattura, importate da Cipro.
Schiavi con i capelli lunghi e lucidi, perché impomatati e profumati, servivano le vivande, mentre i coppieri (“pocillatores o pocillares”) mescevano vino.
L’”analecta” era lo schiavo raccoglitore di rimasugli e briciole; egli aveva il compito, durante il pranzo, di togliere ciò che avanzava ai commensali e riportarlo in cucina e, alla fine, tutto ciò che era caduto a terra; i commensali erano soliti gettare a terra ossa o altro.
I commensali da casa portavano con sé il tovagliolo o salvietta “mappa”, usata per pulirsi le mani e la bocca durante il pranzo; dai parassiti adoperata per avvolgere e portarsi a casa cibi delle mense dei ricchi. L’ospitante, a sua volta, era tenuto a fornire agli ospiti il “mantile” o “mantele”, specie di grossa salvietta di stoffa in genere grossolana, a volte anche fina, che durante il pasto, di solito si teneva appesa al petto per proteggere gli abiti e, a fine pasto, per pulirsi e asciugarsi le mani. Inoltre a disposizione dei convitati veniva messo un bacino “lebes” di bronzo o metallo prezioso, per ricevere l’acqua lustrale che uno schiavo versava da una brocca “gutturnium” sulle mani e sui piedi dei convitati prima e dopo il pranzo. Nei pranzi di lusso le mani si lavavano dopo ogni portata; in quelli un po’ più ordinari, dopo ogni portata, le mani si pulivano con la mollica del pane, che poi veniva gettata a terra sotto i tavoli. Questo si faceva per ragioni di pulizia in quanto i cibi venivano trattati con le mani.
I convitati prima di sdraiarsi sui letti si toglievano le le scarpe (da qui le espressioni “demere soleas”= sedersi a tavola e “sumere soleas” = alzarsi da tavola).
Al capo e al collo degli invitati venivano poste coroncine (“corollaria”) di fiori naturali, più tardi artificiali di rame inargentato o dorato, o, perfino di argento ed oro puro. Coroncine di fiori erano poste anche intorno ai vasi posti in tavola e alle coppe per bere.
Prima dell’inizio del pranzo veniva eletto, col getto dei dadi, l’”arbiter bibendi”, ossia il re del convito (“simposiarca”) il quale stabiliva la grandezza ed il numero delle coppe e la proporzione nella miscela di acqua e vino.
Il pasto principale (“cena”) dai Romani veniva consumato tra le tre e le quattro pomeridiane ed iniziava con l’antipasto (“propulsis”), chiamato anche “mensa prima”, la “gustatio” (stuzzichino), essa serviva a stuzzicare l’appetito mangiando uova, pesci salati e bevendo vino con miele (”mulsum”); l’antipasto era la prima portata del pranzo romano.
Durante la “mensa secunda” (seconda portata) veniva servito il piatto principale chiamato “caput cenae” e i convitati bevevano molto. Il post pasto (“bellaria”), ultimo servito, consisteva nella consumazione di frutta, noci, formaggi, dolci e vino.
Durante il pranzo i convitati venivano distratti e fatti divertire dal buffone di famiglia (“fatuus”), da narratori piacevoli, arguti e spiritosi (“acroamates”), filosofi, parassiti, musici, poeti, danzatrici, acrobati, lettori.
Alla fine del pranzo agli ospiti venivano offerti doni.
Mangiare “ab ovo usque ad mala” significava mangiare dall’inizio alla fine del pranzo (le uova per antipasto e le mele per fine pranzo).
Nei banchetti improntati all’allegria era usanza baciare tutti i presenti. “Commissatio” era un banchetto allegro di giovani, ove ciascuno pagava la sua quota (“symbola”) in denaro, noi oggi diciamo: “paghiamo alla romana”.
A volte il banchetto terminava con una passeggiata notturna al chiarore delle fiaccole, col suono della musica, con danze. Spesso, per finire, i giovani andavano a casa di uno dei convitati per ricominciare a gozzovigliare di nuovo. Questi erano i banchetti nei quali la gioventù depravata ed avvinazzata si divertiva con le matrone, altrettanto depravate ( a ciò alludeva il detto: “In triclinio coa, in cubicolo nola” = sul triclinio si accoppia, sul letto non vuole) che riferito alla matrona significa che essa, come la infima delle puttane, si prostituisce, (“coa” – voce formata per scherzo dal verbo “coeo” = mi accoppio -) sul triclino e mostra gran pudore sul letto nuziale.
Un lussuoso pranzo durante il quale ai convitati venivano distribuite fasce di seta (“mitellae”) era chiamato (“mitellica coena”), invece il banchetto organizzato per festeggiare una nascita era chiamato (“coena natalicia”).
ATTREZZI DA CUCINA
Le casupole dei meno abbienti, dentro Roma, avevano una piccola cucina, miseramente arredata, dalle pareti affumicate; in essa si trovavano soltanto attrezzi da cucina indispensabili, un piccolo camino ed un fornello. A volte la casa del plebeo non era allacciata all’acquedotto e quindi l’acqua potabile e per altri usi veniva attinta da una fontana pubblica, evitando così di pagarla.
La casa dei patrizi e dei benestanti era dotata di camino (“focus”) e di fornelli (“foculi”) per cucinare ed abbondantemente fornita di posate, stoviglie ed attrezzi vari, quali:
-“acetabulum”, vaso per l’aceto;
-“aenum”, caldaia di bronzo o di rame per cuocere cibi sopra il fuoco;
-“ahenum”, (vedi “aenum”);
-“ampulla”, bottiglia per acqua e vino, stretta di collo e larga di ventre, con una sola ansa, generalmente di terracotta, ma anche di vetro;
-“anancaeum”, bocchiere abbastanza capace che, nelle gare fra bevitori, doveva essere vuotato tutto d’un fiato;
-“ampulla olearia”, oliera
-“aqualis”, brocca;
-“armillum”, vaso da vino, boccale;
-“arthopa”, tegghia per cuocere pane di ottima qualità;
-“baucalis”, capace vaso di terracotta per rinfrescare acqua o vino;
-“cadus”, orcio della capacità di lt. circa 40 per vino, olio, aceto o miele;
-“calix”, bicchiere;
-“cantharus”, vaso per bere di ventre largo con anse a forma di orecchie a volte più alte dell’orlo;
-“catillus”, scodella, piccolo piatto di legno o terracotta;
-“catinus”, piatto largo e tondo, ora semplice senza fregi, ora lavorato con arte, quindi prezioso;
-“caucula”, piccola tazza;
-“clibanus”, tegghia, o fornellino portatile usato anche dai legionari;
-“cochlear”, cucchiaio;
-“coclum”, casseruola;
-“colum”, colatoio, colino, filtro per purificare i liquidi;
-“crater”grosso vaso di terracotta per mescolare acqua e vino;
-“craticula”, graticola per fare pesci o carne arrosto sulla brace;
-“cratis ferrea” (vedi “craticula”);
-“cribrum farinarium”, staccio, crivello per ripulire le farine fatto di pelle o tela o crine;
-“culter coquinarius”,coltello da cucina, di diversa grandezza e lunghezza per disossare e spezzare grossi animali;
-“culter”, coltello, di ogni misura, dato ai commensali per tagliare carni, pane o altro;
-“cupella”, piccolo vaso per conservare marmellate;
-“cymbium”, vaso per bere a forma di navicella;
-“cyatus”, bicchiere della capacità di 0,045 di un lt; più piccolo dello scyphus;
-“echinus”, vaso capace per sciacquare i bicchieri;
-“forceps”, tenaglia per prenderei carboni ardenti dal fuoco;
-“frixorium”, padella per friggere;
-“gaulus”, bicchiere di forma oblunga;
-“gemellarium”, ampolla formata da due vasi uniti per servire olio e aceto;
-“guttus”, ampolla dal collo molto stretto, dal quale olio e aceto uscivano a goccia. Così era anche chiamata la brocca da vino che era sulla tavola del povero, il quale doveva accontentarsi di un goccio alla volta;
-“hirnea”, boccale per vino;
-“infibulum”, imbuto;
-“lagoena” (vedi “ampolla”);
-“lanx”, piatto molto grande tanto da poter contenere un cinghiale arrostito;
-“lingula”, cucchiaino per mescolare bevamde e gustare dolci;
-“mortatium”, mortaio per triturare sale e polverizzare spezie;
-“nanus”, vaso per bere, largo e basso;
-“patella”, piatto a scodella in terracotta per cuocere e servire a tovola vivande;
-“patina”, pentolino per guazzetti ed intingoli; per servire carne e pesce a tavola;
-“phalsa”, recipiente da vino come il nostro fiasco;
-“pila”, mortaio piccolo;
-“pocula”, tazza per bere in terracotta o vetro;
-“poculum” (vedi “calix”);
-“promulsidare”, piatto con cui si servivano gli antipasti;
-“radula”, grattugia;
-“rutabulum”, paletta per il fuoco, utile per far funzionare i fornelli e stuzzicare il fuoco;
-“salinum”, saliera. Era d’oro o d’argento quella dei ricchi, mentre i poveri dovevano accontentari di usare il guscio di una grossa conchiglia. Data l’importanza o meglio la necessità di usare il sale per conservare e insaporire i cibi, i Romani, come tutti i popoli antichi, aveva una speciale considerazione per tale condimento. La saliera veniva adoperata nei sacrifici e sulla mensa era considerata una cosa quasi sacra. La saliera si tramandava da padre in figlio e di essa si aveva grande cura, tenendola sempre pulita. Non poteva essere dimenticata aperta sulla tavola, dopo aver mangiato: una sventura, si credeva, si sarebbe abbattuta sulla famiglia. Gli scrittori romani quando parlavano del “salinum” usavano sempre l’aggettivo “paternum” ed il verbo “splendet” (risplende). Per procurarsi il prezioso sale i Romani avevano costruito le “salinae” (saline) che erano i due ampi bacini sulle sponde del Tevere, presso Ostia, nei quali veniva immessa acqua marina mediante canali; l’acqua, evaporando col sole, lasciava in deposito una patina bianca di raffinato sale.
-“sarago”, casseruola:
-“scyphus”, bicchiere più grande del “cyathus”;
-“sufflatorium”, soffiatio per alimentare il fuoco nel camino;
-“testa” tegame in terracotta per cuocere cibi;
-“trulla”, cucchiaione per attingere vino annacquato dal “crater”;
-“urceus”,orcio, boccale. Famosi erano o boccali e le coppe fatti a Sorrento.
-“veru”, spiedo, di legno o di ferro per arrostire carni al fuoco.
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RELIGIONE
I Romani, popolo di pastori, agricoltori e guerrieri, avevano una religione improntata alla pratica utilità. Infatti tutti gli dei che essi adovavano o pregavano, traevano la loro origine dalla vita campestre e dalla guerra, per cui veneravano dei che proteggevano lo Stato, i campi, le greggi, la famiglia e la casa.
Veneravano gli dei non in quanto divinità, ma perché, in compenso delle offerte e delle preghiere a loro rivolte, accordassero una sicura ed adeguata assistenza e protezione. Perfino i ladri ed i malfattori avevano una dea protettrice, la dea “Laverna”, cui rivolgersi per avere aiuto per la buona riuscita dei furti.
I Romani dei primi tempi erano immensamente religiosi. Essi credevano veramente che i loro dei vigilassero sulla loro vita e sui loro atti, che gradissero le azioni virtuose e condannassero le cattive, perciò, ispirati soprattutto dall’interesse, cercavano con le buone azioni di renderseli propizi per i loro fini pratici ed utilitari.
I Romani, oltre che profondamente religiosi, erano anche molto superstiziosi; convinti che certi atti o comportamenti avessero un loro potere:
-lasciare aperta la saliera sulla tavola, dopo aver mangiato, era segno di malaugurio;
-le folgori venivano venerate con lo schiocco della lingua e delle labbra (“poppysma”) nella convinzione di poter stornare i temporali, quando si vedevano i lampi;
-parlando di incendi mentre si mangiava, si reagiva versando acqua sulla tavola stessa;
-per salutare gli dei si portava la mano destra alla bocca, girando il capo verso destra;
-per esprimere il proprio favore od approvazione si serravano i pollici, oppure si facevano schiocchi con la lingua e con le labbra;
-alzarsi da tavola mentre altro commensale stava bevendo era segno malaugurante;
-spazzare per terra mentre un commensale si alzava dalla tavola era malaugurante;
-segno di malaugurio era tagliarsi le unghie con la luna nuova;
-era malaugurante tagliarsi le unghie al tempo delle “Nonae” (il giorno 5 o 7 del mese);
tagliarsi le unghie cominciando dal dito indice era malaugurante;
-tagliarsi i capelli il diciassettesimo e il ventottesimo giorno della luna ne impediva la caduta e preservava dal mal di testa;
-essere guardati e fissati dal lupo, prima che l’uomo lo scorgesse, faceva diventare muti;
-torcere il fuso o mostrarlo scoperto lungo le strade di campagna vanificava la speranza di un buon raccolto;
-tagliarsi le unghie durante la navigazione era malaugurante;
-nell’uscire o nell’entrare in casa, il mettere innanzi il piede destro o il piede sinistro, era segno, rispettivamente, fausto o infausto;
-sentire il canto dell’uccello notturno chiamato strige (“strix”), famoso nelle favole antiche, era malaugurante. Si credeva, infatti, che esso succhiasse il sangue dei bambini nella culla e instillasse nelle loro labbra il suo sangue avvelenato: ritenuto quindi una specie di vampiro, di strega.
Il profondo sentimento religioso emergeva in modo marcato e violento in situazioni drammatiche, quando cioè sul popolo incombeva una minaccia terribile, in presenza di una pubblica sventura: una carestia spietata, una pestilenza indomabile, una rovina che la mano umana non poteva controllare o respingere. Ecco allora il ricorso ad un rimedio considerato come ultimo: il “ver sacrum” (primavera sacra), il voto pubblico da parte di tutto il popolo di offrire agli dei “omnia animalia”, cioè tutti gli esseri animali, uomini e bestie che la veniente primavera avrebbe portato.
Si trattava di un atto radicale, un tentativo in extremis, non condizionato da limiti di sorta: era un voto pubblico, ritualmente sancito e da mantenere comunque per propiziarsi gli dei.
I nati dopo un dato giorno della primavera, stabilito dal popolo e dal Senato, venivano offerti in voto e sacrificati agli dei. Più tardi il “ver sacrum” fu mitigato e ridotto alla sola consacrazione degli animali e degli uomini agli dei. Gli animali non erano più custoditi, ma abbandonati ed andavano vagando in balia di sé stessi. Gli uomini “sacrati” (consacrati) erano investiti di una sacralità che rendeva incompatibile la loro presenza nella terra dei padri. Ad una certa età dovevano lasciare il paese ed andare esuli in cerca di altra sede; seguiti da numerose altre persone guidavano grosse migrazioni di genti. Se la via era contrastata dovevano aprirsi il passaggio con la forza. Talvolta un segno divino, un animale mandato dal dio, appariva ad indicare la strada: un picchio (“picus”) per i Piceni, un caprone (“hircus”) per gli Irpini, un toro (“taurus”) per i Sanniti. Il dio proteggeva ed aiutava, ma la nuova dimora, se non ottenuta con modi pacifici, doveva essere conquistata con le armi, e con le armi conservata, protetta e difesa.
Da evidenziare la natura econonica del “ver sacrum” in quando fondato su di un patto di scambio fra gli dei e gli uomini.
I Romani praticarono questo rito, per l’ultima volta, nel 195 e 194 a.C., in esecuzione del loro voto fatto nel 217, quando Annibale era alle porte di Roma. Lo storico Livio ci ha conservato la formula del voto quale allora fu pronunciata: “Se lo Stato Romano resisterà per i prossimi cinque anni ed uscirà salvo e immune da queste guerre, la guerra contro i Cartaginesi e la guerra contro i Galli Cisalpini, allora il Popolo Romano offrirà in dono tutti i capi della specie suina, ovina, caprina e bovina, a partire dal giorno che sarà stabilito dal Senato e dal Popolo Romano”. I nati nel periodo stabilito venivano sacrificati, oppure consacrati; la consacrazione li sottraeva alla morte immediata.
Così la religione contribuì in modo determinante, a mantenere alta la moralità pubblica e privata; ciò perché essa era basata su tre principi: “honeste vivere” (vivere onestamente), “alterum non laedere” (non danneggiare gli altri), “suum cuique tribuere” (dare a ciascuno il suo).
Tanto grande e profondo era il sentimento religioso negli antichi Romani che i reggitori della cosa pubblica ed i comandanti degli eserciti se ne servivano spesso e con sicuro vantaggio per i loro scopi politici o militari. Infatti, spesso, il responso che gli Auguri o gli Aruspici davano, interpretando il volere degli dei attraverso i loro riti, era il responso desiderato o voluto dai comandati politici o militari.
Sul campo di battaglia il comandante rivestito della richiesta autorità (“cum imperio”), assistito dal Pontifex Maximus, che con la sua presenza conferiva carattere sacrale pubblico alla cerimonia, compiva un rito sacro detto “devotio”. Il comandante indossava la “toga praetexta”, tirandosela sulla fronte fino a coprirsi il capo, e teneva il mento appoggiato sulla destra, avendo sotto i piedi un giavellotto. Egli ripeteva, parola per parola, la formula della “devotio” pronunciata dal Pontefice Massimo: “Giano, Giove, padre Marte, Quirino, Bellona, Lari iddii Novensiles (dei stranieri), iddii Indigetes (dei nazionali), iddii che avete in potestà noi ed i nemici, e voi, o dei Mani, vi prego, vi supplico, chiedo e dò venia, affinché al Popolo Romano concediate forza e vittoria, e ai nemici del Popolo Romano infondiate terrore, spavento e morte. Così come ho espressamente dichiarato, a pro dello Stato Romano, dell’esercito, delle legioni, delle milizie ausiliarie dello Stato, io voto agli dei Mani e alla Tellus, insieme con me, le legioni dei nemici e le loro milizie asiliarie”. Ultimata la formula il comandante, indossato il “padulamentum”, armato ed a cavallo, si spingeva fra i nemici.
Nulla si intraprendeva dai Romani, sia nella vita privata che pubblica, senza prima aver consultato il volere degli dei. Nessuna guerra o battaglia si iniziava finché non si fosse ottenuto il consenso divino.
Gli dei venivano consultati con le “arti augurali” e con l’”aruspicina”, per il tramite di appositi ministri di culto.
Era una religione che adorava le potenze della natura ed era politeista, che riconosceva Giove come somma divinità e poneva gli altri dei attorno a lui, come i membri di una unica famiglia sono soggetti al capo di essa.
In loro onore, a Roma, furono costruiti e consacrati, fin dall’antichità, lussuosi templi,e tanta importanza fu data ai luoghi di culto che i Romani istituirono, con i Comizi Tributi, una apposita commissione chiamata “Duumviri aedificandae o locandae o dedicandae”, che aveva il compito di scegliere l’ubicazione di un tempio, la sua costruzione e la sua dedicazione ad una divinità.
Ecco un elenco delle divinità venerate ed adorate dai Romani. In questo elenco, sicuramente non completo, sono comprese divinità il cui culto fu introdotto a Roma nel corso degli anni o a seguito di contatti con altri popoli o altre religioni:
ABUNDANTIA = Abbondannza, dea della ricchezza.
ACCA LARENTIA = ACCA LARENZIA = dea romana dei campi (personificazione del territorio di Roma), moglie, secondo la leggenda, del pastore Faustolo, nutrice di Romolo e Remo, madre dei 12 fratelli Arvali. In suo onore, nel mese di dicembre, si celebravano le feste chiamate “Arvalia” o “Accalia”.
ADOLENDA,COMMOLENDA, COINQUENDA, DEFERUNDA = divinità che presso i Romani presiedeva alla combustione di albero colpiti dai fulmini.
AEQUITAS = EQUITA’ = personificata come dea in contrapposizione allo stretto diritto positivo (“ius”), alle leggi; come giustizia generale, astratta, come “iustum natura” (giusto per natura); come senso di giustizia che fa prevalere lo spirito sulla lettera nell’interpretazione di una legge.
AESCULAPIUS = ESCULAPIO = Esculapio, figlio di Apollo e della ninfa Coronide, onorato come dio della medicina.
AIUS LOCUTUS o AIUS LOQUENS = il dio che annunzia, cioè la voce che avvertì i Romani dell’arrivo dei Galli, che dapprima non fu ascoltata, ma poi onorata come divinità in un tempio ad essa dedicato, essendosi avverate le sue predizioni.
ANGITIA = ANGIZIA = divinità venerata dalle popolazioni intorno al lago Fucino (ora prosciugato) dei Marsi e dei Marruvii, ai quali insegnò l’uso dei contravveleni. Il suo nome significa “colei che strozza”.
ANNA PERENNA = ANNA PERENNA = divinità romana, probabilmente dea della luna e personificazione delle fasi lunari. Alle Idi di marzo si celebrava in suo onore una festa caratterizzata da giochi e gozzoviglie.
APOLLO = APOLLO = dio figlio di Giove e di Latona, fratello della dea Diana: originariamente dio dei pastori e dei cacciatori, inventore dell’arte degli arcieri, della divinazione, della medicina, dell’arte e della poesia. Le sue sacerdotesse erano le Sibille (la cui etimologia sembra derivi dal greco “diòs boulè =volontà di dio = interpreti della volontà divina = profetesse). Ad esse sono state attribuite profezie rimaste famose perché di difficile interpretazione; come la profezia fatat ad un soldato che partiva per la guerra: “ibis redibis non morieris in bello”, che poteva assumere significato opposto a seconda di come si pronunciava.
BACCHUS = BACCO = divinità greca, identificata dai Romani con il loro dio Liber, dio della natura. In suo onore, ogni tre anni, venivano celebrate le “baccanalia”, feste religiose, che si svolgevano nelle ore notturne, riservate agli iniziati, in luoghi segreti, chiamate (“orgia” = orge), molto tumultuose e sfrenate. Esse furono proibite con apposita legge nel 186 a.C., in quanto ritenute pericolose per la sicurezza della Repubblica ed in contrasto con la religione ufficiale dello Stato. Le sue sacerdotesse “le Baccanali” indossavano pelle di volpe.
BONA DEA = DEA BUONA = dea della fecondità e della prosperità in genere, di ogni fortuna nella vita privata e pubblica, venerata dalle donne romane.
CARISTIAE = LE CARESTIE = feste annuali di famiglia che si celebravano subito dopo i Parentali, il giorno 22 di febbraio; in esse parenti e consanguinei si riunivano a festoso ritrovo e dinanzi agli dei (Lari e geni), ai quali era sacro il giorno, deponevano ogni rancore e discordia riappacificandosi e, in un comune banchetto si abbandonavano a schietta e cordiale allegria.
CARMENTA = CARMENTA = Sibilla profetessa, madre di Evandro, onorata come divinità; la sua festa, celebrata soprattutto dalle donne, si celebrava nei giorni 11 e 15 di gennaio. La “porta carmentalis” ai piedi del monte Capitolino, vicino all’altare della dea Carmenta, aveva due arcate (“fornices”), delle quali quella che era a destra, fu chiamata “porta scelerata”, perché passando attraverso essa i Fabi andarono a morte.
CARNA = Carne, divinità tutelare delle parti più nobili del corpo, specialmente degli organi indispensabili alla vita: cuore, polmoni, fegato.
CERES = CERERE = figlia di Saturno e di Ops, sorella di Giove e di Plutone, madre di Proserpina, venerata come dea della terra in quanto datrice di frutti, dell’agricoltura in generale, ma specialmente della coltura dei cereali (appartenenti a Cerere) e della fecondità in genere, quindi anche dea dei matrimoni; amica della pace e legislatrice.
CONCORDIA = CONCORDIA = dea della concordia che in Roma aveva più templi, in uno dei quali si riuniva spesso il Senato.
CONSUS = CONSO = antichissima divinità latina, protettrice della vegetazione; in suo onore, annualmente, venivano celebrate feste chiamate Consualia il giorno 21 agosto e 15 dicembre, con corse di cavalli e muli, in quell’occasione particolarmente curati ed inghirlandati.
COPIA = Copia, dea dell’abbondanza.
COTYTTO = COTITTO = divinità di origine tracia, il cui culto segreto, penetrato a Roma, simile a quello della dea Cibele, dava luogo alle più sfrenate dissolutezze.
CUNINA = CUNINA = dea protettrice della culla del neonato.
CUPIDUS = CUPIDO = dio dell’amore, figlio di Venere e di Vulcano che scagliava frecce al cuore dei giovani per farli innamorare.
CYBELE o CYBEBE = CIBELE = divinità frigia, dai Romani identificata con la dea Ops, moglie di Saturno e chiamata “magna mater” (la grande madre). I Romani, nel 204 a.C., ottennero il simbolo di questa dea (una rozza pietra) da Attalo, re di Pergamo, e la collocarono sul Palatino, in un tempio appositamente costruito. I suoi sacerdoti, chiamati “corybantes” o “galli”, veneravano la dea con musica assordante e con rozzze danze che eseguivano come invasati, suonando cimbali, corni e flauti. I suoi sacerdoti, con disprezzo, venivano chiamati “mendici” (accattoni), perché andavano in giro chiedendo l’elemosina. Essi, ogni anno, lavavano la statua della dea e tutti gli arredi sacri nel piccolo affluente del Tevere chiamato Almone, a sud di Roma. in onore della “magna mater” venivano celebrate feste dal 4 al 10 aprile chiamate “megalensia o megalesia”.
DIANA = DIANA = Figlia di Giove a Latona, sorella di Apollo, era dea della caccia, della luna e degli incantesimi notturni.
DII CONSENTES = DEI CONSIGLIERI = le 12 divinità maggiori che costituivano il supremo consiglio nell’Olimpo:
Iuppiter, Ianus, Vesta, Ceres, Diana, Minerva, Venus, Mars, Mercurius, Neptunus, Vulcanus, Apollo.
EPONA = EPONA = dea protettrice degli animali da tiro in generale: buoi, cavalli, asini, muli.
FAUNUS = FAUNO = antichissimo re del Lazio, figlio del dio Pico e nipote di Saturno, insegnò ai suoi sudditi l’agricoltura e li rese più civili; dopo la sua morte fu venerato come dio, più tardi confuso col dio Pan. Aveva l’appellativo di “lupercus” (colui che scaccia il lupo), in quanto protettore delle greggi. Al suo arrivo nei campi, il 13 febbraio, si facevano feste in suo onore chiamate “faunalia o lupercalia”, alla sua partenza, il giorno 5 del mese di dicembre, si faceva un sacrificio perché non se ne andasse adirato col proprietario del fondo. I suoi sacerdoti in Roma erano chiamati “luperci”.
FEBRUUS = FEBRO = divinità etrusca, poi venerata anche dai Romani come divinità degli Inferi. Dal suo nome deriva la parola Febbraio, mese a lui sacro, considerato mese della espiazione, perché nella metà di esso si faceva la purificazione dei vivi e l’espiazione dei defunti, con la celebrazione delle feste chiamate “Februa” o “Feralia”.
FERONIA = FERONIA = antica divinità italica, portata in Roma dai Sabini, secondo la sua natura e secondo il suo culto probabilmente divinità della terra affine alla divinità Tellus. Il suo santuario più noto si trovava sul monte Soratte, nel territorio della città di Capena in Etruria, nel cui boschetto sacro (“Feroniae lucus”), insieme a feste molto frequentate, si faceva un traffico notevole di merci etrusche. Un altro santuario si trovava nelle vicinanze di Terracina, antica Anxur, nel Lazio, con una fonte ed un boschetto. Colà venivano liberati gli schiavi, e quindi Feronia fu venerata come dei protettrice degli schiavi affrancati e degli schiavi in genere.
FIDES = FEDE = personificata come divinità
FLORA = FLORA = dea dei fiori e dei giardini la cui festa “Floralia” veniva celebrata il 28 di aprile con spettacoli scenici e con ogni sorta di divertimento. I più antichi ricordi fanno apparire, per la prima volta, durante questa festa il “mimus” (mimo: attore che particolarmente col gioco della fisionomia, con i gesti, e la recitazione, cercava di suscitare l’ilarità degli spettatori; sosteneva la sua parte nel dramma chiamato “mimus” che era una farsa piena di situazioni grossolane, di caricature triviali e di oscenità). Durante questa festa il popolo si concedeva ogni licenza, specialmente le meretrici; le quali, ammesse a recitare nel “mimus” si presentavano sulla scena spesso anche nude.
FORNAX = FORNACE = dea dei forni che si invocava quando si tostava il farro, affinché non lo facesse bruciare.
FORTUNA = FORTUNA = dea che impersonifica il caso, la buona sorte, il cui culto in Roma era molto antico; dice la tradizione che vi fu introdotto dal re Servio Tullio, che ne avrebbe anche fissato la festa il 24 giugno.
FURIAE = FURIE = personificate come divinità (Aletto, Megera e Tisifone), tormentatrici e vendicatrici dei colpevoli. Perseguitano i malvagi, specialmente gli assassini di genitori e parenti, con i tormenti interni ed i rimorsi; esse sono la rappresentazione della mala coscienza tormentata, rappresentate dai poeti romani con le falci in mano, con serpenti nelle mani e sui capelli, con flagelli si serpenti attorcigliati e con cintura di serpi. Esse sono il cattivo genio che spinge una mente già dissennata a compiere nuovi misfatti.
FURINA = FURINA = dea che presso i Romani aveva un bosco sacro; in suo onore venivano celebrate le feste chiamate “furinalia”.
GENIUS = GENIO = dio generatore della vita. Dio che governa la natura umana, che influisce sulla procreazione e la nascita dell’uomo, lo accompagna nella vita come nume tutelare, ne determina il destino, condivide con l’uomo gioie e dolori e persino dopo la morte della persona sopravvive nel “Lare” come protettore. Come l’uomo, così ogni luogo, contrada, selva, città, Stato, casa, porta, focolare, ogni singola condizione, circostanza o qualità, ogni operazione, ufficio, negozio avevano il loro genio, il quale era intimamente connesso con loro. Si pregava e si scongiurava per il “genio” di qualcuno, o di persone rispettate e riverite (lo schiavo pregava per il “genio” del suo padrone).
GRATIAE = GRAZIE = Le tre figlie di Giove ed Eurinome (“Eufrosine” = la letizia, “Aglaia” = lo splendore, “Talia” = la prosperità) che simboleggiavano la grazia della socievolezza regolata dai costumi e dal sentimento del bello, ornata dal decoro e dalla gioia.
HECATE = ECATE = divinità infernale, dea delle malie e degli incantesimi, che si aggira nei trivi, sulle fosse degli estinti, presso il sangue degli uccisi, e che di notte va vagando con le anime dei morti. Era anche chiamata “Hecate lucina” in quanto autrice di sogni penosi e di fantasmi notturni.
HONOR = ONORE = dio dell’onore con un tempio in Roma vicino a quello della dea Virtus; a lui si offrivano sacrifici a capo scoperto.
HORAE = ORE = divinità dell’ordine che si osserva in natura e che ritorna regolarmente, delle stagioni e nel loro avvicendarsi; le quali benignamente (“mites”), col volgere dei tempi, recano agli dei ed agli uomini, i beni che essi desiderano; ministre del dio Sole che conduce ogni cosa a maturazione.
HYMEN = IMENE = dio del matrimonio, delle nozze.
IANUS = GIANO = antica divinità italica. Dio venerato come protettore delle porte delle case e della città. La sua immagine nelle monete veniva rappresentata con due facce (“bifrons” = bifronte). Si credeva costruttore della rocca del Palatino. In Roma era stato eretto, in suo onore, un tempio, avente due porte, una di fronte all’altra, che in tempo di pace rimaneva chiuse, invece sempre aperte in tempo di guerra. Nel tempio era stata posta una statua del dio in bronzo, opera, si credeva, del re Numa Pompilio. Nel Foro vi erano portici (passaggi coperti da una strada all’altra) con l’immagine del dio. I tre principali portici a lui dedicati si chiamavano “Ianus summus”, “Ianus medium” e “Ianus imus”; sotto quest’ultimo e nelle vicinanze sostavano mercanti, banchieri e librai. In suo onore si celebravano le “Agonalia”, feste istituite da Numa Pompilio, celebrate il 19 gennaio, 1l 20 maggio e il 10 dicembre, per venerare “Ianus Agonius” (protettore dei lavori e degli affari). Etimologicamente il nome “Ianus” si ricollega alla parola “ianua” (=porta, ingresso, inizio).
IUNO = GIUNONE = dea figlia di Saturno, sorella e moglie di Giove, regina degli dei, rappresentante della solenne gravità della vita, della famiglia in quanto base dello Stato, divinità protettrice del matrimonio e quindi anche dei parti, considerata dalle donne come genio tutelare, quindi invocata da esse nei giuramenti. Era anche chiamata “Iuno lucina” in quanto protettrice nei parti. In suo onore, le matrone romane, celebravano feste, dette “matronalia” alle Kalende di marzo (per questo chiamate “Kalendae feminae”). Durante queste feste, clebrate con gran pompa, mentre le matrone offrivano un sacrificio nel suo tempio nell’Esquilino, gli uomini ammogliati lo offrivano al dio Giano nel suo tempio.
IUPPITER = GIOVE = figlio di Saturno, fratello di Nettuno e di Plutone, marito della propria sorella Giunone, la prima e più importante divinità della religione ufficiale romana (“Iuppiter Capitolinus, Iuppiter optimus, maximus”), lo Zeus dei Greci, signore del cielo, autore delle pioggie, delle nevi, del fulmine, del tuono e della rugiada. Protettore dello Stato, della famiglia, della casa, era accompagnato dall’aquila, che era anche il suo messaggero. Era soprannominato “Pistor” (panettiere) perché consigliò ai Romani, assediati in campidoglio, di gettare pane ai Galli assedianti, per far vedere che ne avevano in abbondanza. In battaglia era invocato col il soprannome di “Stator” (= sostegno, difensore, che impedisce la fuga, che mantiene fermo). Giove Ammone (“Iuppiter Ammon”) era una divinità egizia e libica, rappresentata sotto la figura di un ariete o di un uomo con le corna di ariete, il cui culto fu introdotto a Roma durante l’Impero. In suo onore venivano fatti i “giochi capitolini”, nei quali il vincitore riceveva una corona di quercia.
IUTURNA = GIUTURNA = fonte del Lazio; ninfa sorella di Turno che aveva un tempio in Roma; ad essa si offrivano sacrifici in caso di siccità.
LARES = LARI = divinità etrusche e romane tutelari della casa, della famiglia, della città. I “Lares praestites” erano divinità protettrici della città.I “Lares domestici, familiares, privati, patrii, cubicoli” erano divinità tutelari della casa, della famiglia, dei privati, del padre di famiglia, della camera da letto; le loro immagini si conservavano in un piccolo tabernacolo (“aedes”) ovvero in una apposita cappella (“lalarium”). Essi erano strettamente legati alla casa e non alla famiglia, tanto che in caso di emigrazione di questa, essi rimanevano sempre custoditi nel “lalarium”.La festa in loro onore aveva luogo il primo maggio. I “Lares compitales” erano tutelari dei crocicchi delle vie, ove erano poste le loro immagini. In loro onore si celebravano, annualmente, feste solenni che si svolgevano dopo le “Saturnalia” (feste dal 17 dicembre in poi). Era in facoltà del Pretore fissare il giorno della festa, mentre il Collegio dei suoi Sacerdoti, chiamati “Compitales” ne curavano il culto e l’organizzazione della festa. I “Lares permarini” erano divinità tutelari del mare. I “Lares rurales” o “Lares agri custodes” erano divinità tutelari dell’agricoltura.
LAVERNA = LAVERNA = dea protettrice del guadagno, sia lecito che illecito, quindi anche protettrice dei ladri e dei truffatori. In Roma aveva un altare (“ara”) a lei dedicato.
LEMURES = ANIME DEI MORTI = nome generico delle anime dei morti delle quali, le buone, venivano adorate quali divinità domestiche (“Manes”), e le cattive andavano errando intorno come fantasmi notturni (“larvae”).
LIBER = LIBERO = antica divinità italica della fecondazione e della piantagione; più tardi identificato con il dio greco Bacco, inventore del vino. La festa in suo onore veniva celebrata il 17 marzo, giorno in cui i giovanetti sedicenni indossavano la toga virile.
LIBERTAS = LIBERTA’ = dea della libertà che aveva templi in Roma nel Foro e sull’Aventino.
LIBITINA = LIBITINA = dea dei funerali, nel cui tempio di potevano acquistare bare e tutto l’occorrente per i funerali, comprese le persone che provvedevano alla sepoltura o alla cremazione. Nel suo tempio erano tenuti anche i registri per la annotazione dei nominativi dei morti.
LUA = LUA = dea a cui si offrivano le armi tolte al nemico, briciandole in espiazione al sangue versato.
LUCINA = LUCINA = dea della luce, autrice dei sogni penosi e dei fantasmi notturni, dea che presiede ai parti.
LUNA = LUNA = dea, fuglia si Latona, sorella del dio Sole, entrambi identificati più tardi con Diana e Apollo. Il suo tempio consacrato da Servio Tullio sorgeva sull’Aventino e bruciò ai tempi di Nerone.
MAIESTAS = MAESTA’ = dea che impersonava l’autorità, la maestà.
MANES = MANI = anime dei morti, spiriti, in genere favorevoli e benigni, venerati come divinità. I sacrifici offerti ai mani erano chiamati “Inferiae”.
MANTURNA = MANTURNA = dea che proteggeva i matrimoni.
MARS = MARTE = dio della violenza e del furore della guerra, detto perciò “ferus” (crudele). Come padre di Romolo era considerato quale capostipite del popolo romano. I suoi sacerdoti erano i “Salii” (da “salio” = saltare), il cui capo era chiamato “praesul” (colui che salta davanti). Il loro Collegio era composto da 12 sacerdoti istituito da Numa per il culto di Marte; ogni anno nella prima metà di marzo facevano processioni, armati e muniti di scudi, cantando inni accompagnati da danze guerresche, per la città e intorno a luoghi sacri, celebrando alla fine di ogni giorno sontuosi e lauti banchetti. Il significato dei loro canti, per la loro lingua arcaica, già nell’epoca classica, quasi non erano più compresi.
MATUTA = MATUTA = dea del mattino, antica divinità italica comunemente chiamata “Mater Matuta”.
MELLONA o MELLONIA = MELLONA = dea protettrice delle api.
MENS = MENTE = dea della mente, della ragione la cui festa si celebrava il giorno 8 giugno.
MEPHITIS = MEFITE = dea delle esalazioni pestilenziali della terra, che essa, invocata, doveva evitare.
MERCURIUS = MERCURIO = dio figlio di Giove e di Maia, messaggero degli dei, araldo dalla parola facile, datore di prosperità e ricchezza, inventore della lira, dio patrocinatore dei commercianti e dei viandanti, dio dell’astuzia e degli affari, dio tutelare delle strade, della finnastica e guida delle anime all’Averno. Nei crocevia erano poste le erme (“hermes”), busti che lo ricordavano, posti sopra un piedistallo quadrato o sopra una colonna. Come messaggero degli dei si presentava con un cappello alato (“petasus” = cappello da viaggio a larga tesa), con calzari alati e con una verga in mano; come messaggero con un caduceo (bastone alato con due serpenti attorcigliati che si guardano e come guida al mondo sotterraneo una verga magica.
MINERVA = MINERVA = dall’etrusco Menerva o Menvra, divinità romana identificata con l’Atena greca, figlia di Zeus, dea della intelligenza, della sapienza, della riflessione, delle arti e delle scienze, della poesia, del filare e del tessere, anche dea della guerra in quanto questa viene condotta con la ragione, inventrice dell’uso dell’olivo e dell’arte di lavorare la lana. Soprannominata Pallade, che era il soprannome della dea greca Atena. In suo onore venivano celebrate le feste chiamate “Quinquatrus” (così chiamate perché celebrate il quinto giorno dopo le Idi ed esse erano “Quinquatrus maiores” dal 19 al 23 marzo e le “Quinquatrus minores” il 13 giugno.
MUSAE = MUSE = dee delle scienze, delle lettere e delle arti, particolarmente della musica e della poesia. In origine in numero di tre o quattro, chiamate “Camene”, ninfe delle fonti. Successivamente identificate con le 9 Muse greche (Calliope, Clio, Melpomene, Thalia, Euterpe, Erato, Urania, Polyhymnia, Terpsicore).
MUTA = MUTA = dea del silenzio chiamata anche “Tacita”.
NATIO = NASCITA = della protettrice della nascita.
NATURA = NATURA = divinità venerata come creatrice ed anima del mondo.
NEMESIS = NEMESI = dea della giustizia che puniva la superbia e la tracotanza; anche dea riparatrice di torti e delitti, non nei responsabili ma nei loro discendenti.
NENIA = NENIA = la dea dei canti funebri.
NEPTUNUS = NETTUNO = dio del mare e dei fiumi, figlio di Saturno, marito di Anfitrite, signore delle acque dolci e salate. In suo onore venivano celebrate le feste chimate “Neptunalia”.
NIXI DII = DEI DEGLI SFORZI PER PARTORIRE = le tre divinità che presiedevano ai parti. Le statute dei “Nixi dii”, rappresentati in ginocchio, stavano sul Campidoglio davanti alla statua di Minerva.
NUNDINA = NUNDINA = la dea che presiedeva alla purificazione dei bimbi al loro nono giorno di vita, quando si imponeva loro il nome; per le femmine era l’ottavo giorno.
NYNPHAE = NINFE = divinità femminili delle acque (mare, fiumi, laghi, persino delle acque dell’Averno, dei monti, delle valli, delle grotte, degli alberi: “Horeas” = ninfa dei monti = Oreade; “Nereis” = ninfa del mare = Nereide; “Hamadrias” = ninfa degli alberi = Amadriade; “Naias” = ninfa delle fonti = Naiade; “Drias” = ninfa dei boschi = Driade; “Napea” = ninfa delle valli = Napea. “Nynphaeum” era chiamata una fonte zampillante sacra alle Naiadi, contornata da una costruzione architettonica.
OPS = OPI = chiamata comunemente “Opi Consiva” in quanto moglie del dio Consus (dio del raccolto), era la dea dell’abbondanza del reccolto (“opima frugum copia”), che protegge il grano una volta raccolto nel granaio. In suo onore si celebravano feste chiamate “Opeconsiva” il 25 agosto e le “Opalia” il 19 dicembre, il cui rito, nei tempi antichi, si svolgeva con la regia del Pontifex maximus, assistito dalle Vestali.
ORBONA = ORBONA = dea dell’orbità, invocata da quei genitori che, avendo perduto i figli, ne desideravano altri.
PALES = PALE = divinità italica, la quale dava buoni pascoli sui monti e insieme con il dio Pan preservava il bestiame grosso e minuto dal contagio e dagli animali feroci e lo rendeva fecondo; venerata nei templi come dea dei pastori; la sua immagine, scolpita rozzamente nel legno, veniva posta dai pastori sotto gli alberi. In suo onore venivano celebrate il 21 aprile (anniversario della fondazione di Roma) le feste chiamate “Palilia”. Compiuto il sacrificio si accendevano mucchi di paglia o di fieno disposti in fila e vi si faceva passare gli animali, poi i pastori stessi venivano dietro saltando.
PAN = PANE = dio dei boschi, dei pascoli, protettore dei pastori e di tutto il bestiame domestico e selvatico, protettore dei cacciatori; come dio dei pastori inventore della zampogna, come dio dei boschi amante della solitudine; incuteva spavento nei viandanti (timor panico = paura improvvisa ed incontrollata). Soprannominato anche “Inuus” come dio fecondatore degli armenti e delle greggi.
PARCAE = PARCHE = dee del destino e la morte degli uomimi. Erano tre: Cloto, secondo il mito teneva la conocchia, Lachesi filava, Atropo tagliava il filo della vita.
PENATES = PENATI = divinità tutelari della famiglia e del focolare domestico, custodi delle intimità delle famiglie, come pure custodi dello Stato costituito dell’unione delle famiglie. Protettori dello Stato erano i “Penates maiores o publici”. Protettori delle famiglie erano i “Penates minores o familiares, privati”. Questi erano venerati all’interno della casa nell’”impluvium” (cortile interno chiuso ai quattro lati da gallerie coperte) e le loro staue custodite in un armadio in una grande sala, ove di solito si raccoglieva la famiglia intorno al padre di famiglia, presso il focolare. A loro venivano offerti sacrifici su un altare (“ara”) posto nel cortile della casa. In caso di emigrazione della famiglia i “Penates” venivano portati dietro, a differenza dei “Manes” che venivano lasciati alla casa.
PICAMNIUS e PILUNNUS = PICANNIO e PILUNNO = erano due divinità coniugali dell’antico Lazio invocate come protettrici dei neonati. Si offriva loro il “lectisternium” (banchetto offerto agli dei alle cui immagini, sistemate su cuscini, erano poste innanzi squisite pietanze), nella camera ove era il neonato.
PICUS = PICO = dio profetico latino, marito di Canente o Pomona e padre di Fauno, rappresentato in forma rozza da una colonna di legno sormontata da un picchio, più tardi da un giovane con un picchio sul capo. Dal suo simbolo si formò questo mito: Pomona o Canente amava Pico; più tardi anche Circe si invaghì di lui, ma, non corrisposta e disprezzata, lo trasformò in un picchio.
PIETAS = PIETA’ = dea che impersonifica la pietà come sentimento di devozione verso i parenti, patria, autorità, benefattori.
PLUTO = PLUTONE = dio re dell’Inferno, fratello di Giove e di Nettuno; dio della ricchezza.
POMONA = POMONA = dea dei frutti.
PORTUNUS = PORTUNO = dio dei porti.
PRIAPUS = PRIAPO = dio dei frutti, dei giardini e dei vigneti; venerato originariamente nell’Asia Minore, poi in Grecia, indi a Roma; era rappresentato con un enorme membro genitale come simbolo della potenza generatrice e fecondatrice della natura. I Romani facevano anche coppe per bere e focacce della forma del membro genitale di questo dio.
PRORSA = PRORSA = dea dei parti che si presentano regolari.
PROSERPINA = PROSERPINA = dea, figlia di Cerere e di Giove, moglie di Plutone che la rapì in Sicilia mentre raccoglieva fiori, venerata come regina dell’Inferno.
QUIRINUS = QUIRINO = appellativo di Romolo, figlio di Ilia o Rea Silvia (figlia di Numitore re di Alba) e del dio Marte, fratello gemello di Remo insieme al quale fondò Roma, di cui ne fu il primo re. Dopo la sua apoteosi Romolo fu chiamato “Quirinus” e venerato come dio. In suo onore si celebravano le feste chiamate “Quirinalia” il 17 febbraio.
REDICOLUS = REDICOLO = divinità che comparendo in sogno ad Annibale, lo convinse a ritirarsi da Roma, incutendogli terrore, era venerata in un tempietto fuori “Porta Capena”, una delle porte principali delle mura serviane, ai piedi del Celio, per la quale passava la via Appia.
REVERENTIA = RIVERENZA = dea della rispettabilità e della venerazione, madre della “Maiestas” e moglie del dio “Honor”.
ROBIGO = RUGGINE = dea nora machile ora femminile, invocata per allontanare la ruggine dal grano. La sua festa ricorreva il 25 aprile.
ROMA = ROMA = dea venerata in un tempio speciale. In suo onore venivano fatti i “ludi magni” o “maximi”, i più antichi di Roma.
RUMINA = RUMINA = dea che presiedeva all’allattamento.
RUNCINA = RUNCINA = dea che presiedeva alla sarchiatura dei campi (“runcatio”).
SALUS = SALUTE = dea della salute e della prosperità in genere, del bene pubblico e della prosperità dello Stato.
SATURNUS = SATURNO = antica divinità italica. Era venerato come dio della seminagione ed aveva come moglie la dea Ops (simbolo della fecondità della terra). Più tardi fu identificato con il dio greco Cronos e gli si attribuirono le leggende di quest’ultimo: quindi padre di Giove, Nettuno, Giunone Cerere, Pico. Sotto il suo regno era fiorita l’età dell’oro. Nel suo tempio, a Roma, ai piedi del Campidoglio, c’era l’Erarium dove erano custoditi i tesori dello Stato, l’Archivio di Stato ed i “signa militaria” (bandiere, le insegne militari). Il sabato era il giorno dedicato a lui. In suo onore venivano celebrate le feste chiamate “Saturnalia” dal 17 dicembre per diversi giorni, durante le quali i Romani erano soliti scambiarsi doni ed agli schiavi era consentito sedersi ed essere serviti alla tavola dei padroni.
SEGETIA = SEGEZIA = dea delle messi e dei prodotti dei campi.
SEMELE = SEMELE = venerata come divinità, era figlia di Cadmo, resa da Giove madre di Bacco: durante la sua gravidanza fu uccisa da un fulme scagliato da Giove per avere essa, con le suo preghiere, convinto il dio ad apparirle, come appariva ad Hera (Giunone) in tutto lo splendore della sua divinità.
SEMO = SEMONE = dio delle sementi.
SEMONIA = SEMONIA = dea delle sementi.
SILVANUS = SILVANO = dio venerato come protettore delle selve, dei campi e delle greggi.
SOL = SOLE = dio dai Romani identificato con Apollo.
SPES = SPERANZA = dea che aveva in Roma diversi templi. In suo onore veniva celebrata una festa il primo Agosto.
STATANA o STATILINA = STATANA o STATILINA = divinità che presiedeva i primi passi del bambino.
STATANUS o STATILINUS = STATANO o STATILINO = divinità che presiedeva i primi passi del bambino.
STIMULA = STIMULA = dea stimolatrice dei desideri, della volontà, simile a Semele e confusa con essa; sotto il suo influsso si celebravano i “baccanali”, consacrati a bacco liberatore.
SUADA o SUADELA = PERSUASIONE = dea della persuasione.
SUMANUS = SOMMANO = divinità originariamente etrusca, quindi anche romana; dio del cielo notturno, della folgore nottura (come Giove è dio del cielo e dei fulmini diurni). Più tardi fu identificato con Plutone e venerato come dio della rugiada notturna.
TACITA = TACITA = dea del silenzio chiamata anche “Muta”.
TELLUS = TERRA = dea venerata com personificazione della terra, alimentatrice degli uomini.
TERMINUS = TERMINE = dio che presiede ai confini in genere. In suo onore veniva celebrata la festa il 23 febbraio.
TRITON = TRITONE = figlio di Nettuno e della ninfa Salacia, venerato come divinità del mare Mediterraneo, che percorre i flutti su un carro trainato da cavalli o da mostri marini; per ordine del padre dà fiato ad una conchiglia marina per calmare i flutti burrascosi o viceverso per sommovere le onde tranquille del mare.
TAGES = Tagete, figlio di un Genius Iovialis, nipote di Giove, balzò all’improvviso fuori dalla terra nell’Etruria, mentre il bifolco Tarconte praticava un solco più profondo del solito; fanciullo all’aspetto, vecchio per il senno, insegnò agli Etruschi l’aruspicina, la quale venne poi da essi affidata alla scrittura in quei libri della divinazione chiamati appunto “Tagetici Libri”.
TUTILINA = TUTILINA = divinità protettrice che si invoca in caso di necessità ed anche divinità protettrice del grano.
VACUNA = VACUNA = divinità benefica delle campagne, che in primavera manda l’umidità feconda e favorisce la crescita del grano. Venerata specialmente alla fine dei lavori compestri come dea del riposo (etimologicamente il nome deriva da “vacare” = avere tempo libero).
VAGITANUS = VAGITANO = dio protettore dei bambini che vagivano.
VENUS = VENERE = dea della bellezza e dell’amore, moglie di Vulcano e madre di Cupido.
VERTUMNUS = VERTUNNO = dio delle trasformazioni e dei mutamenti, originariamente dio della natura che si trasforma, delle stagioni; successivamente venerato come dio degli scambi commerciali, delle compre e delle vendite. Vicino alla sua statua nel Foro, erano molte botteghe di commercianti e librai. In suo onore venivano celebrate feste il 23 ottobre.
VESTA = VESTA = figlia di Saturno e Ops, dea del focolare e del fuoco che si accendeva, quindi anche dell’economia e della vita domestica. Nel suo tempio di forna rotonda, con le pareti, nei tempi più antichi, di semplici giunchi, il tetto coperto di canne, più tardi di bronzo corinzio, ardeva continuamente il fuoco sacro, il cui spegnersi era considerato come il più funesto presagio per lo Stato. Erano ministre e custodi del tempio le giovani Vestali agli ordini del Pontifex Maximus.
VICAPOTA = VICAPOTA = dea della vittoria e della potenza (da “vinco” e “potior”).
VICTORIA = VITTORIA = dea della vittoria, la cui effigie portava due ali e una corona di alloro un ramoscello di palma in mano.
VIRIPLACA = VIRIPLACA = divinità che, nel suo tempio, sul Palatino, riconciliava i coniugi discordi.
VIRUS = VELENO = dio che impersonava il veleno.
VITULA = VITULA = dea della gloria e della esultanza per la vittoria.
VITUNNUS = VITUNNO = dio che dà la vita al bambino che nasce.
VOLTUMNA = VOLTUNNA = dea protettrice della confederazione dei 12 stati etruschi, presso il cui tempio si tenevano le assemblee generali.
VOLUPIA = VOLUPIA = dea del piacere e del benessere.
VOLUPTAS = VOLUTTA’ = dea del piacere e della gioia.
VOLUTINA = VOLUTINA = dea che sopraintendeva alle bucce, all’involucro del grano, orzo, farro ed altri semi.
VULCANUS = VULCANO = dio del fuoco, secondo il mito figlio di Giove e di Giunone, marito di Venere, fabbricava armi e fulmini per gli dei e per gli eroi con l’aiuto dei Ciclopi. Aveva templi dentro e fuori Roma. A lui si soleva decicare, bruciandole, le armi tolte ai nemici.
Come si vede dall’elenco sommario riportato sopra, moltissimi erano gli dei adorati dai Romani, anche perché essi credevano ci fosse una divinità dietro qualsiasi fenomeno naturale o oggetto e divinizzavano qualsiasi azione, fatto, oggetto, pianta, fiume (da ricordare che gli dei tutelari dei fiumi erano sempre rappresentati con corna taurine).
I Romani in fatto di religione si dimostrarono sempre tolleranti verso altri culti, ammettendo che si accettassero gli dei venerati da altri popoli che, a seguito di conquiste, venivano a far parte dello Stato romano.
La tolleranza dei Romani verso la religione ed i culti dei popoli assoggettati era un ulteriore mezzo di grande efficacia per conservare meglio e consolidare la conquista.
Per loro tutte le forme religiose erano lecite, purché non in contraddizione con la religione ufficiale, e purché non in contrasto o in contrapposizione con l’autorità dello Stato.
Esempio di ciò è il Pantheon, il grande tempio sacro a Giove, fatto costruire da Agrippa, restaurato poi da Adriano, ove venivano raccolte ed esposte le statue di tutte le divinità conosciute.
Se invece culti particolari o associazioni segrete o religioni diverse dalla loro, potevano in qualche modo rappresentare un pericolo per la stabilità, la sicurezza e l’ordinamento dello Stato, i Romani, non solo diventavano intolleranti, ma usavano ogni mezzo per eliminare i seguaci di dette religioni.
Basti pensare con quanta severità e crudeltà fu represso il fenomeno delle “Bacchanalia”, feste religiose in onore del dio Bacco, celebrate ogni tre anni e che si svolgevano nelle ore notturne, riservate agli iniziati, in luoghi segreti, chiamate “orgia” (orge), molto tumultuose e sfrenate. Con senatoconsulto del 186 a.C. furono proibite e si stabilì di eliminare questo fenomeno religioso, manifestatosi nel mezzogiorno d’Italia, perché ritenuto pericoloso per la sicurezza della Repubblica. Gli adepti furono uccisi a migliaia, i loro luoghi di riunione bruciati ed i loro beni confiscati.
Le pratiche del culto romano erano numerosissime, tenuto conto del numero delle divinità adorate, e, poiché il più piccolo sbaglio in una di queste, poteva provocare l’ira degli dei, furono creati appositi ministri del culto per le diverse incombenze, allo scopo di avere uomini specializzati nei vari riti e che ne seguissero il cerimoniale con scrupolosa esattezza. Erano stati redatti appositi rituali (“indigitamenta”) ove erano registrati i nomi e gli attrubuti delle singole divinità e le modalità da seguire per invocarne ed ottenerne la protezione.
Furono istituiti vari collegi di Sacerdoti:
1)- I PONTEFICI, il cui capo era chiamato “Pontifex Maximus”. Essi anticamente si limitavano alla inaugurazione del re, come “rex sacrorum” e dei Flamini superiori, a compiere le operazioni prevista dal calendario, ai testamenti fatti tramite i “Comitia calata”, alla “detestatio sacrorum” o abiura del culto gentilizio fatta dal patrizio (“gentilis”) per uscire della sua “gens” per via dell’adozione. Il loro collegio dapprima era di 4 membri, poi, dopo il 300 a.C., di 8 poi di 15. Il Pontifex maximus veniva chiamato con l’appellatino “Clarissimus” (= il nostro Eccellenza).
I Pontefici avevano a loro disposizione un araldo chiamato “calator”. Essi avevano il compito di redigere gli “Annales” o “Fasti consulares” o “Annales pontificum” o “Maximi Annales”, che erano libri nei quali venivano annotati i fatti più importanti verificatisi nell’anno, compresa la scrupolosa annotazione dei nominativi degli eletti alle più alte cariche dello Stato.
Sono rimasti famosi anche per le pantagrueliche cene che essi organizzavano: ecco il menù lascitoci scritto da Macrobio: “all’inizio della cena frutti di mare, ostriche crude, peloridi (specie di grosse conchiglie), spondili (specie di molluschi), tordi, asparagi; poi un grosso pollo, una scodella di ostriche, di peloridi, neri datteri di mare, di nuovo spondili, molluschi, ortiche marine (acalèfo), beccafichi, cotolette di capriolo, costolette di cinghiale, volatili cresciuti con farina, beccafichi, murici (conchiglia marina con guscio a spirale e spinoso), porpore (conchiglie marine); durante la cena: carni di scrofa, mezzena di cinghiale, una scodella di pesci, una scodella di carne di scrofa, anitre, alzavole, carni lesse, amido, pane dei Piceni”.
2)- I FLAMINI, collegio di sacerdoti speciali delle tre divinità protettrici di Roma: Giove, Marte e Quirino. Il “Flamen Jovis” o “Flamen dialis” era il capo del collegio; esso non poteva dormire una sola notte fuori Roma, né poteva mangiare o nominare la fava; la moglie di questi chiamata “flaminica” era tenuta in grande considerazione. Essa portava un abito color fiamma ed un velo col quale nei sacrifici si copriva il capo, non poteva adornarsi i capelli e neppure pettinarli.
Il “flamen” per i Romani era il sacerdote di una sola divinità (Giove o Marte o Quirino) ed era così chiamato per il filo di lana che doveva sempre portare o intorno al capo scoperto o intorno al berretto sacerdotale. Anche il collegio dei Flamini aveva a sua disposizione un araldo (“calator”).
3)- i SALII, collegio di 12 sacerdoti istituito dal re Numa Pompilio per il culto del dio Marte.
La leggenda racconta che Numa Pompilio, all’ottavo anno del suo regno vide cadere dal cielo uno scudo che egli ritenne essere quello del dio Marte, prezioso quanto mai, perché, secondo una profezia, la potenza romana avrebbe durato fino a quando quello scudo sarebbe stato conservato. Numa Pompilio, allora, per evitarne il furto, fece fabbricare altri 11 scudi del tutto simili a quello caduto dal cielo, e li fece appendere tutti in un apposito tempio, affidandone la custodia ai sacerdoti Salii.
Ogni anno, nella prima metà di marzo, i Salii facevano processioni armati e muniti degli undici “anciles” anzidetti (scudi sacri, piccolo, oblungo, incavato nel mezzo), mentre il loro capo, chiamato “praesul” (colui che salta innanzi) li precedeva senza scudo. Durante la processione cantavano inni ed eseguivano danze guerresche per la città ed intorno ai luoghi sacri, celebrando alla fine di ogni giornata sontuosi banchetti, dopo aver riportato nel tempio gli scudi. I carmi cantati dai Salii, nell’epoca classica, per la loro lingua arcaica non erano quasi più comprensibili.
4)- Gli ARUSPICI, erano sacerdoti indovini provenienti dall’Etruria, poi, col tempo, anche Romani di nascita fecero parte del loro collegio. Esaminavano nei sacrifici gli “exta” (le viscere) delle vittime sacrificate, in genere le parti più nobili: cuore, polmoni, fegato, milza e ne ricavavano presagi. “Pars familiaris” era definita la parte delle viscere il cui esame si riferiva allo Stato o la casa; mentre la parte il cui esame riguardava il nemico era detta “Pars ostilis”. Di conseguenza “fissum familiaris” era detta la incisione della “pars familiaris” delle vittime, e “fissum hostile” l’incisione della “pars ostilis”.
Gli Aruspici avevano anche il compito di interpretare i fulmini (“procuratio profigiorum”).
L’”haruspex fulgator”, oltre che interpretare il fulmine, aveva anche il compito di seppellire tutti gli oggetti toccati dal fulmine.
Quasi sempre la insindacabile interpretazione della volontà divina data dagli Aruspici e dagli Auguri corrispondeva alla volontà dell’interrogante; in caso contrario si ripeteva l’esperimento finché non apparissero segnali favorevoli; oppure, si dava una interpretazione favorevole all’interrogante anche in caso di segnali sfavorevoli, per compiacerlo.
Il console Publio Claudio Pulcro, durante la guerra contro i Cartaginesi, fu avvertito dagli Auguri ch i presagi non erano favorevoli, perché i sacri polli non volevano mangiare. “Che bevano “! disse l’irriverente condottiero, e li fece gettare in mare.
Da ricordare a questo proposito anche il comportamento di Marco Crasso, nella guerra contro i Parti, mentre faceva un sacrificio; essendogli cadute fuor di mano le viscere, disse: “Di ciò ha colpa la vecchiezza, ma non mi uscirebbe per questo fuor di mano la spada”! Altra volta, lo stesso comandante, di fronte al ripetersi di auspici sfavorevoli, prima di dare inizio ad una battaglia, disse: “La vittoria ce li renderà favorevoli”!
5)- Gli AUGURI, sacerdoti che interrogavano la volontà degli dei per mezzo degli “auspicii”, cioè di osservazioni che si facevano sul volo, sul grido o sul canto degli uccelli, sul mangiare dei polli sacri e su eventi atmosferici. Uccelli divinatori erano considerati il corvo, il cui volo e canto dalla parte destra significava presagio sfavorevole; e la cornacchia, il cui volo e canto dalla parte sinistra era presagio favorevole. Uccello divinatorio era anche la civetta.
Gli Auguri erano chiamati “augures alites”, se specializzati nel prendere gli auspici dal volo degli uccelli; se, invece, dal canto erano chiamati “augures oscines”.
Gli Auguri nell’interpretare il volo o canto degli uccelli si ponevano col viso rivolto verso mezzogiorno (sud). I segni che venivano da sinistra (“laeva” = parte sinistra), ossia da Oriente (est), erano di buon augurio, favorevoli; quelli da destra, ossia da occidente (ovest), sfavorevoli, cattivi. Per gli Auguri greci, invece, era tutto il contrario. Talvolta gli Auguri romani, seguivano il rituale greco.
6)- Le VESTALI, vergini addette al culto della dea Vesta, figlia di Saturno e di Ops, sorella di Cerere, dea del fuoco e del focolare domestico, quindi anche dell’economia e della vita domestica. Nel suo tempio, di forma rotonda, con le pareti, nei tempi più antichi di semplici giunchi, il tetto coperto di canne, più tardi di bronzo corinzio, ardeva perennemente il fuoco sacro. Lo spegnersi del fuoco era considerato come presagio di cattivo augurio ed il più nefasto prodigio per le sorti dello Stato.
Esse, utilizzando vasi di argilla, chiamati “culullae o culillae”, offrivano anche sacrifici alla dea Vesta. Queste sacerdotesse, prima in numero di 4, poi di 6, venivano scelte tra il sesto ed il decimo anno di età; dovevano rimanere 30 anni a servizio della dea Vesta come caste vergini (10 anni come novizie, 10 anni per compiere il loro servizio e 10 anni per istruire le più giovani). Loro compito particolare e più importante era vigilare costantemente che il “fuoco sacro” fosse sempre acceso. Esse erano scelte dal Collegio dei Pontefici e consacrate dal Pontifex Maximus che pronunciava la formula “….te, Amata, capio” (Amata era la moglie del re Latino, madre di Lavinia, moglie di Enea). Durante la cerimonia di consacrazione alle fanciulle, future Vestali, venivano tagliati i capelli e le loro chiome appese ad un albero “arbor capillorum”. Le Vestali erano obbligate a mentenersi vergini per tutto il periodo in cui erano al servizio della dea. Quelle impudiche, se scoperte, venivano sepolte vive in una fossa, poi murata, in un luogo chiamato “campus sceleratus”, situato presso la porta Collina ancora all’interno della città, immediatamente sotto i bastioni.
Le Vestali come i Pontefici, portavano sul capo la “infula” (benda di lana o anche di porpora) legata con la “vitta” (nastro), come simbolo della dignità e soprattutto come distintivo della dignità sacerdotale, che ispirava un sicuro e dovuto rispetto religioso.
7)- I FEZIALI. Collegio di 20 sacerdoti ai quali era affidata la difesa del diritto internazionale (“ius gentium”); con speciali cerimonie consacravano i trattati di pace, armistizi ed alleanze, appianavano discordanze e malintesi con altri Stati, impedivano guerre contrarie alla religione (“impia”), chiedevano soddisfazione agli Stati che avevano violato i patti, offeso o danneggiato i Romani, dichiaravano guerra.
I Feziali che venivano mandati come ambasciatori erano detti “fetiales legati”, normalmente in numero di 4, e quello di essi, il capo, autorizzato a parlare era chiamato “fetialis patris patratus”. Come segno di inviolabilità portavanoi in mano un ciuffo d’erba (“sagmen”). I “sagmina” erano chiamati anche “verbenae” ed il sacerdote che portava in mano il ciuffo d’erba e la corona in capo era chiamato “verbenarius”. Le modalità, i giuramenti e le formule pronunciate dai Feziali, nel dichiarare guerra e concludere trattati di pace ci sono stati tramandati da Tito Livio.
8)- I GALLI, erano sacerdoti della dea Cibele, divinità frigia, simbolo della forza generatrice della natura. Questi sacerdoti, come quelli di altri riti di derivazione orientale, praticavano riti rumorosi, orgiastici, di frenetica esaltazione. Da Fedro nella “Fabulae”, sono rappresentati come una turba di pezzenti, che andavano in giro chiedendo l’elemosina; per questo, i Romani, li chiamavano “mendici” (mendicanti). Erano chiamati anche “corybantes” (da Coribante, figlio di Cibele) venerando la dea con musica assordante e con rozze danze pirriche (danze da guerra degli Ateniesi e Spartani inventate dal greco Pirrico) che eseguivano come invasati suonando tamburi, cimbali, corni e flauti. In onore della “Magna Mater”, appellativo di Cibele, alcuni di essi, chiamati “dendrophori” (portatori di alberi) portavano in solenne processione rami di alberi o piccoli fusti con le radici.
9)- I CURIONI. A capo di ogni “curia” (una delle 30 suddivisioni dei patrizi) vi era un sacerdote, chiamato “Curio” e che ne era il direttore spirituale, sovrintendente ai rituali sacri della medesima “sacra curialia”, assistito da un “Flamen curialis”. Il “Curio maximus”, eletto nei Comizi Curiati, era il capo supremo dei Curioni ossia il direttore spirituale generale delle 30 Curie.
10)- Gli EPULONI. Collegio di 3 sacerdoti, successivamente 10, che aveva l’esclusivo compito
di provvedere alla organizzazione di solenni e pubblici banchetti in onore degli dei.
11)- Gli ARVALI o “FRATES ARVALES” (= fratelli dei campi). Collegio di 12 sacerdoti, istituito da Romolo, in onore dei 12 figli di Acca Larenzia (nutrice di Romolo). Loro ufficio era quello di celebrare ogni anno, nel mese di maggio (il 17-19 e 20 oppure il 27-29 e 30), un sacrificio ed una processione propiziatrice nei campi in onore della dea Cerere, portando in testa,come insegna della loro autorità, una corona di spighe di grano. Restavano in carica tutta la vita; il loro capo era chiamato “magister”.
12)- DUUMVIRI SACRORUM o DUUMVIRI SACRIS FACIUNDIS. Collegio di sacerdoti, costituito inizialmente da 2 componenti, dal 380 a.C. da 10 componenti chiamati “decemviri sacrorum” e poi, dall’epoca di Silla, da 15 componenti chiamati “quindecemviri sacrorum”. Essi erano addetti alla custodia ed alla interpretazione dei tre libri Sibillini, contenenti antiche profezie, scritta dalla Sibilla di Cuma. Detti libri, secondo la tradizione furono offerti in vendita, in numero di nove, al re Tarquinio il Superbo da una vecchia sconosciuta, ma dal re non furono acquistati al prezzo richiesto. La vecchia ne bruciò subito tre e richiese lo stesso prezzo per i rimanenti sei. Al secondo rifiuto del re, ne bruciò altri tre. Per i restanti tre libri la vecchia richiese lo stesso prezzo che, questa volta, fu pagato dal re. I tre libri furono collocati in Campidoglio e venivano consultati dall’apposito collegio di sacerdoti nei momenti difficili per lo Stato o quando si verificavano inspiegabili prodigi (pioggia di pietre, nascita di animali mostruosi, ecc.)
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Per i Romani la “religio” era il timore, la venerazione ed il culto degli dei; era l’adorazione tanto spirituale che esteriore della divinità il cui culto si manifestava con diverse “caerimoniae”, ossia con pratiche esteriori, prescrizioni, riti, usi, cerimonie e soprattutto con sacrifici.
Frequenti erano le processioni religiose, organizzate dai vari collegi sacerdotali, durante le quali le immagini o statue degli dei, venivano portate con il “ferculum” (carretto).
I sacrifici, in onore di una divinità, consistevano nell’immolare un animale: un bue, una pecora, un maiale. Gli animali da sacrificare in Campidoglio venivano provvisoriamente adunati in un luogo disabitato di Roma chiamato “Aequimelium”, sotto la porta occidentale del Campidoglio, poco lontano dal carcere Mamertino.
Per un sacrificio solenne chiamato “amburbium” la vittima, prima del sacrificio, veniva portata intorno alla città. Nei sacrifici solenni, a volte, si immolavano tre vittime contemporaneamente: un maiale, una pecora ed un bue; questo sacrificio si chiamava “suovetaurilia” (da “sus”, “ovis” “taurus”). Esso era un sacrificio solenne di Stato che si celebrava prima di intraprendere qualche iniziativa di grande importanza. In un monumento dell’età Flavia (Vespasiano-Tito-Domiziano), ora conservato al Museo di Louvre, si vedono: il sacerdote con i vari assistenti, fra i quali sono delineati con molta naturalezza i tre suddetti animali. Il medesimo sacrificio viene rappresentato su altri monumenti figurati, per esempio sui rilievi della parte inferiore della colonna Traiana.
Il sacerdote che offriva il sacrificio aveva sul capo una “infula” (benda di lana), generalmente bianca, in alcuni casi purpurea, o a forma di turbante, fermata intorno alla fronte dalla “vitta” (nastro), i cui capi pendevano dalle due parti. I Flamini, invece, avevano sul capo l’”apex” (berretto a forma di cono), adornato sulla punta con una verghetta di olivo rivestita di lana.
Un ministro del sacerdote chiamato “popa” preparava l’occorrente per il sacrificio. Accendeva vicino all’altare (“ara”) il “cerarium” (fiaccola di cera) posto su un candelabro; ravvivava il fuoco su un braciere, ornava l’altare con una “vitta”, preparava l’”acerra” (incensiere), i vasi sacri contenenti vino, sale, acqua, farina di orzo tostato e macinato e una “cubula” (focaccia sacra). Poi, coadiuvato da inservienti, conduceva la vittima all’altare, ornandone la testa con la “vitta”. Indi entrava il sacerdote, che doveva offrire il sacrificio, insieme all’”antistes” (primo sacerdote del tempio che presiedeva alla osservanza dei rituali nei sacrifici) ed un “haruspex” (aruspice). Il sacerdote si avvicinava all’altare e con le formule “Animis linguisque favete”! oppure “Linguis animisque favete “! Invitava tutti i presenti al silenzio ed al raccoglimento.
Poi si lavava le mani, in segno di rispetto per la divinità, in quanto, durante il sacrificio, avrebbe toccato tutte cose sacre. Cospargeva la vittima con farina di orzo, col sale e la spruzzava col vino. Faceva diversi giri intorno all’altare con in mano l’incensiere fumante, facendolo ondeggiare verso la vittima, pronunciando parole propiziatorie e invocazioni alla divinità. Poi il “popa” chiedeva al sacerdote: “Agone ?” (= Colpisco ?). Rispondeva il sacerdote: “Age!” (= Fa!, Colpisci !). Il popa dava un colpo di martello sul capo della vittima, la quale, poi, veniva subito sgozzata col “culter” (coltello) da un altro ministro del sacerdote chiamato “cultrarius” (scannatore). Allora, ai canti intonati dal sacerdote ed eseguiti in coro da tutti i presenti, accompagnati da flauti, si sovrapponevano i lamentosi strilli, muggiti o belati delle vittime morenti. Appena morte le vittime entrava in azione l’”haruspex”, che fatta squartare la vittima, prelevava il cuore, la milza, il fegato e i polmoni, deponendoli sull’altare; procedeva poi alla loro incisione, ricavandone presagi che venivano comunicati, ad alta voce, ai silenziosi presenti. Finito il sacrificio, prima che gli inservienti lavassero l’altare ed il pavimento del tempio, si procedeva alla vendita delle carni delle vittime, i cui proventi venivano incassati dall’”antistes”, per essere poi utilizzati per le spese del tempio.
Sacrifici, certamente con meno pompa e solennità, venivano fatti, in forma privata, presso le case dei ricchi, i quali, nel cortile di casa avevano sempre un altare per lo scopo. Non sempre, nei sacrifici fatti da privati, venivano offerte agli dei ed immolate vittime vive, vere; talvolta venivano simbolicamente sacrificate vittime finte, fatte di cera, di pasta o di legno, realizzate e modellate dal “fictor” (modellatore).
Altri riti o cerimonie religiose, per i Romani, erano:
– la “libatio” (libagione) consistente nell’offrire agli dei gocce di vino. In essa il sacerdote con il “simpulum” (grande cucchiaio) attingeva vino dal “crater” (grosso recipiente) e con il “guttus” (vasetto col collo stretto, contagocce, ampolla) faceva cadere gocce di vino nella “patera” (coppa per sacrifici).
– la “deprecatio” (scongiuro, intercessione). Era una preghiera fatta per stornare un pericolo o con lo scopo di ottenere giustizia. Nella “deprecatio” gli dei venivano pregati e chiamati a testimoni, invocando sul proprio capo l’ira degli stessi in caso di spergiuro.
– la “procuratio”, era una funzione religiosa fatta per stornare un cattivo presagio, un segno di sventura, oppure una azione funesta, mediante un sacrificio.
– la “consacratio” (consacrazione) era una cerimonia religiosa in cui il sacerdote, pronunciando apposite formule, consacrava agli dei un oggetto, un tempio, un “sacellum” (piccolo santuario), o altro, dichiarandolo “sacer” (sacro, inviolabile).
– la “exauguratio” (la sconsacrazione) cerimonia religiosa in cui il sacerdote, recitando apposite formule, sconsacrava un oggetto, un tempio od altro, già considerati “sacri” togliendo loro la sacralità e l’inviolabilità.
– il “lectisternium” (lectisternio), era un banchetto offerto agli dei, alle cui immagini, sistemate sopra cuscini, venivano poste innanzi prelibate vivande.
Per i Romani alcuni luoghi erano sacri ed inviolabili e li rispettavano come tali:
-il “sacellum”, che era una piccolo recinto consacrato con altare;
-il “fanum” che era un luogo consacrato ad un dio, oppure un tempietto, un santuario;
-il “pluteal” che era una piccola recinzione, molto simile alla rotonda recinzione di un pozzo, sopra un luogo ritenuto sacro per qualche fenomeno prodigioso verificatosi sopra di esso (la caduta di un fulmine od altro).
Durante l’anno i Romani celebravano le seguenti festività aventi carattere religioso, oltre quelle specifiche celebrate in onore di qualche divinità, indicate sopra nell’elenco degli dei adorati, oltre numerose altre festività civili:
-le “Cerealia” in onore di Cerere che si celebravano il 12 o il 13 aprile.
-le “Fontialia” (festa delle sorgenti). Queste presso il popolo romano, come presso quello greco, erano venerate al punto che ad esse venivano dedicati tempietti ed altari. Era generalmente creduto che in esse abitassero le Ninfe Camene, successivamente confuse con le Muse.
-le “Lupercalia” erano le feste in onore del dio boschereccio Fauno, dio agreste che aveva il compito di tenere lontani i lupi dalle greggi. I sacerdoti che lo veneravano erano i Luperci, in numero di 12, i quali, ogni anno, il 15 febbraio, ricorrenza della festa in onore del dio Fauno, correvano quasi nudi intorno al Palatino, colpendo con cinghie di cuoio le donne sterili, le quali si facevano colpire volentieri, aspettandosi da questo atto la desiderata fecondità.
-le “Vinalia” (feste del vino). Avevano luogo il 22 aprile ed il 19 agosto. In quelle di aprile si assaggiava il vino nuovo e se ne faceva offerta a Giove. In quelle di agosto, chiamate “vinalia rustica”, erano dedicate alla dea Venere.
-le “Novendalia”, erano feste che duravano 9 giorni e si celebravano quando si verificava un evento straordinario ed inspiegabile preannunziante una sciagura per il popolo. Quando apparivano fenomeni strani e misteriosi, i Romani, considerandoli come manifestazioni dell’ira divina, compivano rituali sacrifici di scongiuro.
-le “Sigillaria”, feste delle statuette, durante le quali fra gli altri doni, si scambiavano specialmente statuette di cera o di argilla, che rappresentavano dei, idoletti, piccol bambole, portafortuna, libri o altro.
-le “Fugalia” erano festeggiamenti con molti giochi che avevano luogo il 24 febbraio in memoria della cacciata dell’ultimo re di Roma.
-la “Septimontium”, festa che ricordava la inclusione dei sette colli nella cerchia della città, celebrata nel mese di dicembre.
-le “Equiria”, corse di cavalli istituite da Romolo in onore del dio Marte che avevano luolo il 27 febbraio e il 27 marzo, nel Campo Marzio.
-i “Ludi Plebei”, istituiti a ricordo della riconciliazione dei patrizi con i plebei.
– i “Ludi saeculari”, che evavano carattere religioso e grandissima importanza. Avevano luogo ogni 110 anni (per i Romani il secolo aveva questa durata, come per gli Etruschi). Celebrati il 17 a.C., come prescritto dai Libri Sibillini, perché in quell’anno si compiva il giro di 4 secoli (la palingenesi), che segnava pure l’avvento di un’era nuova di rinnovamento. Duravano tre giorni e tre notti con un cerimoniale minuto e con numerosi sacrifici alle divinità infernali.
Per i giochi del 17 a.C. Orazio ha scritto il “Carmen saeculare”, che è una elegante preghiera indirizzata a divinità alle quali ormai i Romani non credono più.
-le “Saturnalia”, feste ricorrenti dal 17 dicembre in poi, per più giorni, in memoria dell’aureo regno di Saturno nel Lazio. I cittadini si scambiavano reciprocamente regali, gli schiavi venivano serviti a tavola dai loro padroni, ed ognuno di divertiva col mangiare e col bere, assistendo a spettacoli pubblici e oziosando per la città. La festa si protraeva per diversi giorni, il primo dei quali si chiamava “Saturnalia prima”, il secondo “Saturnalia secunda” e così via. Da qui il detto “non semper Saturnalia erunt” (non è sempre carnevale, diciamo noi).
– il “tubilustrium”, festa della purificazione e consacrazione delle trombe usate nel culto che aveva luogo il 23 marzo e il 23 maggio.
-l’”armilustrium”, festa della consacrazione delle armi, che aveva luogo in ottobre.
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ILCRISTIANESIMO
Durante l’impero di Ottaviano Augusto, nasce nella Giudea, Gesù Cristo. La religione da lui fondata, basata sulla libertà e sulla eguaglianza di tutti gli uomini, sulla carità verso il prossimo e sul riconoscimento di un solo Dio creatore dell’universo, si pose subito in antitesi con il paganesimo romano. Il paganesimo non riconosceva l’eguaglianza degli uomini di fronte alla legge, manteneva inflessibile la schiavitù, considerava la donna come cosa che come i figli era soggetta alla tiranna e dispotica autorità del “pater familias”. Il paganesimo professava principi egoistici e non si curava della degradazione, dell’avvilimento e delle indescrivibili sofferenze di molti pur di garantire il benessere di pochi.
Il Cristianesimo si presenta subito come religione della carità e della giustizia.
I poseliti di Cristo mettevano grande ardore nel predicare la loro religione; con ogni mezzo cercavano di convincere gli altri della verità del Cristianesimo contro la falsità o culti di dei allora predominanti; strappavano i parenti, gli amici ed i vicini dalla religione in cui avevano creduto fin dalla nascita; disprezzavano quanto i loro padri avevano creduto come vero, o riverito come sacro.
I Romani pur essendo tolleranti verso tutte le religioni, subito ritennero il cristianesimo una religione diversa della altre che, in futuro, avrebbe potuto rappresentare un serio pericolo per l’intera organizzazione dello stato.
Le persecuzioni dei cristiani non furono suscitate da motivi puramente religiosi, ma soprattutto dall’insanabile conflitto tra gli insegnamenti di Cristo e la concezione romana dell’Impero e dal rifiuto che i cristiani opponevano all’ordine di sacrificare agli dei adorati dai Romani o di offrire sacrifici per l’Imperatore e di giurare alla sua maestà. Infatti, nei processi contro i cristiani le Autorità non avendo altre accuse da rivolgere loro, li condannavano per il netto rifiuto di adorare divinità pagane o di riconoscere la natura divina dell’Imperatore.
Molto interessante, a questo proposito, è la lettera che Plinio il Giovane, proconsole in Bitinia e nel Ponto, scrisse all’imperatore Traiano.
Per questi motivi i cristiani furono accusati di empietà; rappresentati come una società di atei, i quali, per i loro continui e violenti attacchi alle convinzioni religiose dei Romani, meritavano le pene più severe e sanzioni da parte delle autorità civili.
Tacito negli “Annali” li definì “colpevoli” e li ritenne “meritevoli di ogni pena”.
Con le loro riunioni segrete suscitavano un serio timore nel governo romano, sempre geloso e diffidente verso ogni associazione dei sudditi. Infine, anche per i costumi, i comportamenti, i cristiani, anche se a torto, furono calunniati: orridi racconti li dipingevano come gli uomini più iniqui della specie umana. Per questo morirono e con queste calunnie i cristiani furono sottoposti a varie persecuzioni, e ciò non soltanto da parte di imperatori tiranni come Nerone e Domiziano, ma anche da parte di altri imperatori come Domiziano, Traiano, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino, Decio, Valeriano, Aureliano e Diocleziano. I perseguitati si nascondevano in profondi e tortuosi sotterranei (“catacombae” o “cryptae”) dove, erano sepolti i loro cari, e dove pregavano celebrando i loro riti.
Nonostante le crudeli persecuzioni una moltitudine di sudditi aveva abbracciato la nuova religione anche se punita con condanne a morte, prigionia o esilio.
Il primo imperatore che barbaramente iniziò ad infierire contro di loro fu Nerone, il quale per allontanare da sé l’accusa di aver incendiato Roma, ne accusò a sua volta come responsabili i cristiani e li sottopose ingiustamente ai più crudeli supplizi. Molti fece vestire con pelli di animali per farli dilaniare dai cani; molti fece condannare alla crocifissione, molti, coperti con vesti resinose, fece ardere come torce per illuminare gli spettacoli che lui dava personalmente al popolo nei suoi giardini.
Ma la serenità e la calma rassegnazione con cui i cristiani sopportavano la crudeltà dei torturatori contribuirono ad aumentare il numero dei seguaci del Cristianesimo che, in poco tempo, si propagò anche oltre i confini dell’Impero; trionfò sul paganesimo ai tempi di Costantino il Grande (306-313 d.C.) e fu proclamato, nel 380, religione di Stato dall’imperatore Teodosio (378-395 d.C.).
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IL CULTO DEI MORTI
I Romani ebbero sempre un particolare culto e venerazione per le anime dei morti.
Nella seconda metà del mese di febbraio venivano offerti sacrifici alla divinità degli Inferi “Februus” e celebrate le “Februa iania”, solennità religiose finalizzate alla purificazioni dei vivi ed alla espisazione dei morti, chiamate anche “Feralia”.
Inoltre, in onore dei parenti defunti, veniva celebrata annualmente una cerimonia funebre chiamata “Parentalia”. Altra cerimonia funebre, meno solenne della precedente, veniva specificatamente celebrata per un solo defunto ed era chiamata “Feriae domenicales”.
Credevano i Romani che le anime dei morti (“lemures” fossero o buone, allora ritenute degne di essere oadorate come divinità domestiche (”Manes”), oppure cattive; queste ultime, si credeva, che andassero errando intorno come fantasmi notturni e venivano chiamate “larvae”.
Quando una persona moriva dinanzi alla porta della sua casa si ponevano rami di cipresso. Si correva quindi al tempio della dea Libitina (dea dei funerali) dove, denunciata la morte, si faceva annotare il nominativo in apposito registro dei morti custodito nel tempio, per acquistare poi tutto il materiale occorrente per il funerale e concordare con il personale, che il tempio metteva a disposizione, tutta l’organizzazione della cerimonia funebre. Si poteva, in alternativa ricorrere all’opera di imprenditori privati di pompe funebri.
I cadaveri venivano lavati, unti e spalmati di cera (per una più lunga conservazione) dal “pollictor” (beccamorto specializzato nel fare detti lavori). Sul loro capo e al loro collo venivano poste coroncine di fiori veri o artificiali in rame inargentato o d’oro.
I cadaveri venivano tenuti in casa per 8 giorni durante i quali si facevano veglie funebri da parte di parenti ed amici, con la partecipazione delle “praeficae” le quali, graffiandosi il viso e tra pianti ed urla, intonavano le “lamentazioni” (canti funebri). Dopo otto giorni dalla morte i cadaveri venivano portati nel “sepulcretum o polycandrion” (cimitero) per la inumazione “humatio”, oppure al luogo ove veniva fatta la cremazione (“crematio”).
Il corteo funebre, formato da parenti ed amici, veniva organizzato e diretto dal “designator” (che era o un incaricato o dal tempio della dea Libitina o dall’impresario privato di pompe funebri), il quale con l’aiuto di guardie regolava il corteo.
La bara sopra la quale era trasportato il cadavere del patrizio o cavaliere era chiamata “lectica”; quella utilizzata per il trasporto di salme di poveri o dei malfattori era chiamata ”sandapila”. Al corteo funebre partecipavano anche le “praeficae”. Giunto al cimitero il cadavere veniva consegnato al “sepultor” (seppellitore) che lo sistemava in una fossa scavata dal “fossor”. Il “vespillo” era il beccamorto dei poveri. Questi inservienti che lavoravano nel cimitero normalmente erano schiavi e portavano tutti la testa rasata.
Se il cadavere era destinato alla cremazione, veniva collocato sopra un rogo o catasta di legna, con tutte le cose a lui care (“munera”), oppure senza doni funebri (“corpus indotatum”), perché di un povero o malfattore.
Il rogo era circondato da rami di cipresso. Uno dei congiunti più prossimi, dopo aver più volte chiamato il defunto per nome, tenendo le spalle rivolte al rogo, vi appiccava il fuoco. Bruciato il cadavere, i parenti e gli amici, inviavano all’estinto l’estremo saluto, proferendo la frase: “Vele ! Vale ! Vale ! Nos te, quo ordine natura statuerit, sequemur” ! (Addio, Addio, Addio. Noi ti seguiremo secondo l’ordine che la natura stabilirà !).
Le ceneri della cremazione venivano raccolte e seppellite in una apposita “urna cineraria” e venivano chiamate “pulveres novendiales”. I Romani sia quando inumavano i cadaveri sia quando racchiudevano le ceneri residue nelle urne usavano sempre il verbo “sepelire” (seppellire).
Il “funus” era il funerale solenne di un personaggio illustre o ricco, al quale partecipava sempre una grande folla di cittadini. Le “exsequiae” (esequie), invece, erano il funerale a cui partecipavano solo parenti ed amici, fatto in forma privata.
Per i cittadini illustri o benemeriti nei confronti dello Stato veniva concesso il “funerale di Stato” (“funus censorium”), la cui organizzazione era data in appalto dal Censore. In questa occasione anche i rappresentanti delle più antiche autorità dello Stato erano tenute a partecipare al funerale. La bara (“lectus”) era preceduta da persone mascherate, che nelle fattezze e nella statura, assomigliavano agli antenati del defunto, vestite in costume storico, e con tutte le debite insegne. Giunto il corteo al luogo della inumazione o cremazione veniva pronunciata la “laudatio” (orazione funebre). Spesso nel “funus censorium” dopo la “laudatio” si svolgevano i giochi funebri, con la partecipazione anche di gladiatori.
In onore ed in ricordo di un morto illustre veniva spesso costruito un monumento funebre chiamato “cenotaphium” (cenotafio), il quale, fra l’altro, non conteneva i resti del morto.
Dopo otto giorni dalla sepoltura o cremazione, i Romani usavano organizzare un banchetto funebre (“cena novendialis”), od anche annuale, in onore e a memoria del defunto. Tale pranzo, di solito, si teneva a casa del defunto, oppure presso un luogo vicino al sepolcro (“apparatorium”), ove venivano allestiti “triclinia” (letti da pranzo).
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INDICE ALFABETICO DEGLI ARGOMENTI

– armi di difesa e di offesa, pag. 105
– onorificenze militari, pag. 108
– procedura “in iure”, pag. 84
– punizioni ai legionari, pag. 110
Abbigliamento, pag. 170
Abbreviazioni, pag. 35
-accampamento militare, pag. 104
Acquedotti, pag. 130
Agricoltura, pag. 151
Alfabeto latino – Abbreviazioni, pag. 35
Altre magistrature e cariche pubbliche, pag. 70
Arti e monumenti, pag. 126
Arti e professioni, pag. 133
-attrezzi da cucina, pag. 181
-bevande, pag. 178
Caccia, pag. 160
Censori, pag. 68
Centuriazione delle terre, pag. 114
-cibi, pag. 177
Comizi, pag. 55
Commercio, pag. 141
Consoli, pag. 57
Cristianesimo, pag. 202
Cronologia avvenimenti politici e militari, pag. 2
Culto dei morti, pag. 204
Dittatore, pag. 58
-dolci, pag. 178
Edili, pag. 59
Esercito, pag. 96
Famiglia, pag. 161
-focacce, pag. 178
Giochi e sports, pag. 124
-giudizi ordinari, pag. 84
-giudizi straordinari, pag. 83
Giustizia, pag. 76
Giustizia: le pene, pag. 86
Giustizia: materia criminale: pag. 83
Giustizia: materia, civile, pag. 79
Gladiatori, pag. 93
Honores et Imperia, pag. 52
I Romani mangiavano….., pag. 176
I Romani scrivevano con…., pag. 43
Il calendario romano, pag. 8
-il pranzo, pag. 179
Imposte e tasse, pag. 140
La lingua latina, pag. 32
Le vie consolari e militari, pag. 47
Legislazione, pag. 70
Littori, pag. 69
Luoghi pubblici, pag. 120
Medici e medicina, pag. 136
Mesi dell’anno, pag. 30
Mezzi di trasporto, pag. 132
Misure di capacità, pag. 146
Misure di lunghezza, pag.147
Misure di superficie, pag. 149
Monete, pag. 144
Musica e strumenti musicali, pag. 42
Navi da guerra e da trasporto, pag. 111
Numeri, pag. 150
-ordini ai soldati, pag. 105
Parentele, pag. 168
Pesca, pag. 159
Pesi, pag. 149
Pirati, pag.113
Prefetti, pag. 68
Pretore, pag. 59
-procedura “in iudicio”, pag. 81
-procedura “in iudicio”, pag. 85
-procedura “in iure”, pag. 79
Pubblici spettacoli, pag. 122
Questori, pag. 67
Re, pag. 53
Religione, pag. 183
Roma città dei sette colli, pag. 6
Schiavitù, pag. 87
Scuole – Istruzione, pag. 40
Senato, pag. 64
Servizio postale, pag. 46
-sistema giudiziario “per formulas, pag. 83
Stato – Ordinamento politico, pag. 49
Teatri, pag. 39
Tribuni della plebe, pag. 62
Tribuni militari con potestà consolare, pag. 63
Tribuni militari, pag. 63
Tribuni pagatori, pag. 63
Tribuni, pag 62

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Vesprini Albino

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