Lettera suor Maria Eletta Sani clarissa nel monastero di Falerone -FM- al padre spirituale -cc. 10- 11-

Maria Eletta Sani lettere cc. 10- 11
Viva Gesù e Maria

A gloria di voi, mio Dio, scrivo e per obbedienza del vostro Ministro. Con gran rossore e confusione e rammarico finirò di soddisfare all’obbedienza e al debito cui incorrevo con la divina Bontà di dare le misericordie del mio buon Dio; (al) confronto però la mia scelleraggine e iniquità e ingratitudine. Il pensare che così presto Dio incominciò a usare misericordia e favori, da me non meritati, ed io ho sempre corrisposto con infedeltà e pessima corrispondenza. Negli undici anni circa, ebbi una malattia mortale di febbre maligna pericolosa di morire. Così i miei parenti dubitavano, vedendo il pericolo(so) stato quasi già disperato, mi raccomandarono a San Luigi e mi diedero la farina del detto santo e dicono che io migliorassi subito. Ma io poco mi sentivo del male in quell’abbandono di sentimenti perché la divina misericordia parmi che mi portasse a vedere il s(anto) Paradiso e mi scoprì una gloria infinita, e stupita e sbalordita, piena di giubilo! Iddio così mi insegnava che vedessi lo splendore e tante file di Angeli e Santi e così mi diceva queste precise parole: “ Figlia, vedi le celesti gerarchie, la sublimità del mio regno, il trionfo della mia Gloria, la magnificenza, il gaudio, il giubilo delle melodie delle voci angeliche dei miei spiriti. Se mi sarai fedele e mi amerai, con amore grande, ti collocherò in questa felice abitazione”. Io però mi sentivo di non ritornare a vivere, sarei voluto restare con Dio, dicevo: “Mio sposo amato, non mi lasciate mai più, sempre con voi”. Ma Dio mi fece capire che non sarei morta di questa malattia in questo abbandono di sensi. Dicono i miei genitori che vi stessi da due a tre giorni, a me pareva un momento: quanto durasse questa misericordia di Dio che mi fece, io non so ridirlo perché era tanto il vedere e il godimento. Prima il trono infinito di Dio che non ho lingua da esprimere la sublimità e magnificenza e Gloria che rendeva luminoso e sublime, magnifico di Gloria e di splendore, tutto il regno beato, dove rimiravo in ogni banda, in ogni Spirito beato, vedevo vedevo (sic) i(n) riconfronto, il sommo Dio e mi pareva di vedere tanti Dio perché partecipavano delle stesse doti di Dio. Ritornai al miglioramento del male e mi guarii; vivevo però desiderosa della morte e ogni ora la bramavo e la richiedevo al mio Dio. Andai a soddisfare all’obbedienza dei miei genitori che avevano promesso a San Luigi di condurmici quindici volte a ringraziare il detto santo ed in questa occasione trovai il Padre Santoni per mio confessore stabile e l’anno seguente mi fece ‘Comunicare’ per la prima volta il giorno della Pentecoste, la venuta dello Spirito Santo. Dio mi fece la misericordia, si degnò di farmi la misericordia di venire nella misera e povera anima mia per la prima volta. Prima della Comunione feci la Confessione generale e il P. Santoni mi fece la carità di quietarmi tanti rimorsi di coscienza che provavo, cominciati da dopo i tre anni, poi ero vissuta con somma inquietudine di anima. Delle malattie di tre mesi continui, accennai nelle lettere passate che guarii per voto e mia madre mi richiese per voto a San Francesco di Paola e mi ci fece andare vestita dell’abito di San Francesco di Paola tredici mesi e più. Dell’età di tre anni compiuti, essendo in stato di pericolo di morte e con certezza che io avessi perduta la vista degli occhi, fatto il voto, mia madre dice che io migliorai e incominciai a vederci perché prima non vedevo luce. Io ero sola in letto e venne un fraticello e disse:”Alzati ed esci fuori dal letto”.
Io non mi potevo reggere essendo tanto (il) tempo di male, non mi reggevo, ero divenuta un’ombra. Così mi riferirono i miei genitori. Aiutata da questo fraticello, scesi dalla camera e mi avviavo per uscire di casa. A casa se ne accorsero i miei genitori, mi ripresero e mi rimisero a letto, ma con un gran miglioramento. Ritornata in sanità, mia madre mi condusse in chiesa a ringraziare san Francesco di cui stava un ritratto in un altare ed io allora riconobbi lo stesso fraticello che mi aveva aiutato a scendere dal letto e dalla camera. Giunto il tempo che io arrivai alla santa Comunione con un gran desiderio e giubilo, mi consacrai di nuovo al mio Dio. Ne vivevo con gran desiderio, ma i miei genitori non mi permettevano di uscire di casa; più e più volte uscivo di nascosto e (se) se ne accorgevano, mi inchiava(vano) la porta acciò io non potessi andare in chiesa. Questo lo facevano perché vedevano le mie cattiverie e scelleraggini, lo facevano anche acciò io non prendessi freddo la mattina di buon’ora essendo facile e soggetta a malattie e mali lunghi e pericolosi. Il mio desiderio era insopportabile. Mi fu accordato dal confessore di comunicarmi alla chiesa vicina quando ‘sentivo messa’ i giorni feriali. Arrivato agli orecchi dei miei parenti, ci sentivo molte (s)gridate dell’ardire e mal fatto di Comunicarmi sì spesso e senza Confessione. Dissero (per) un lungo tempo e poi si stancarono e la superai e vinsi io con il lasciarli dire, accordatami con la licenza del confessore. Cessarono le viste e le comparse di Gesù visibilmente, ma mi usava misericordia che mi si comunicava internamente all’anima con eccessivo amore, con raccoglimenti interni e discorsi con Dio. (Nei) giorni della Comunione, sarei voluta stare sempre con Dio e, spasimante del suo amore, andavo sfogando e come urlando di non poter reggere all’accesa brama di amare Gesù. E il motivo del mio acceso desiderio erano la misericordia e l’amore che Dio usava con me indegna sua serva. Mi accadeva nella Comunione che Dio mi comunicava e spesso mi accadeva che Dio mi dicesse queste stesse parole: “Maria, apri il cuore che io ci voglio mettere l’amore mio e voglio che sei mia sposa e ti consolerò, ma da te voglio la fedeltà e la costanza”. Queste amorose parole erano tante saette al mio cuore, erano spasimi di morte e di agonia per amore. Arrivava a termini che credevo di morire perché mi sentivo rompere il petto e il cuore di amore. Dicevo come impazzita: “Mio Dio, o amare o morire, o morire o amore, non più, non più!” Davo in eccessivi sfoghi per lo spasimo che provavo. Dio mi si comunicava per mezzo della s. Comunione ora da Bambino, altre volte piangendo e lamentandosi dell’incoscienza e irriverenza e offese che riceveva dai cristiani, altre volte appassionato e mi lasciava un desiderio di patire acutissimi martìri, come infatti li richiedevo. Venivo crescendo negli anni e nei pessimi costumi. Cresceva lo spasimo di farmi religiosa a segno tale che notte e giorno lo richiedevo e sospiravo a Dio, insomma più si desidera e più si porta a lungo. Mi esercitavo nelle mortificazioni e penitenze e nella carità e se per fortuna avevo occasione di fare qualche opera di ripulire la poveretta, ne provavo giubilo. Richiedevo il patire e Dio mi mandava lunghe malattie. Nei quindici o sedici anni in circa, mi accadde che nell’orazione mi svenivo, mi pareva di restare con lo spirito in Dio e mi trovavo come in un fiume di acqua, ma non già come il fiume del mondo, non so come fosse perché a me pareva di stare in aria: le onde erano come nuvole e mi trovai dentro, incominciai a vedere Gesù che con le braccia aperte stava lontano da me, al porto in cui finiscono le acque. Le onde mi sommergevano e restavo sepolta e non vedevo più l’oggetto amato. Mi rialzavo, le onde si abbassavano e rivedevo di nuovo Gesù che mi diceva: “Vieni, vieni a me, al porto sicuro”. Più desiderio mi si accendeva di presto arrivare e gettarmi tutta in Dio. Alla fine, dopo tante angustie e pena, arrivai al porto sicuro ove Gesù mi aspettava, pensando di trovare riposo e di essere immersa tutta nell’amato mio bene e tutto in (un) tempo me lo vidi innalzare come da una nuvola e portarlo verso il cielo. Oh! Dio mio, non so ridire come mi trovai, spasimando, piangendo da un dolore e ferita nel cuore, richiedevo il mio tesoro, esclamavo: ”Gesù! Gesù! Gesù! Perché se fuggi tu, senza te non posso vivere più!” Come tramortita da uno spasimo di amore, restai come morta. Ritornai in me, mi accorgevo che passavano ore e ore senza che io mi accorgessi. Mi faceva stare stordita e come matta nell’umanità esterna. Gli acutissimi desideri erano insopportabili. Un’altra volta mi accadde, non mi ricordo se fosse il giorno della Pentecoste, so che era festa grande: nel fare orazione, mi intesi svenire nell’umanità, come male naturale, ma nell’interno. Dio mi chiamò: “ Maria Teresa, vieni, vieni a me e troverai il riposo”. Alzai la mente e con gli interni sentimenti vedo Gesù in alto in cima di un alto monte. A sì chiamata voce mi sentivo accendere di fiamma e di desiderio di avvicinarmi all’oggetto amato. Dio mi diceva: “ Vieni e salisci, su su, non temere, via, salisci e vieni a me”. Mi sentivo tirata a Dio e lo spasimo cresceva di salire al monte dove vedevo Iddio che mi chiamava. Incominciai a salire: ohimé! che cosa penosa, mi scivolavo, mi arrampicavo su e non potevo salire perché avrei voluto mettere le ali per volare su. Dio mi faceva capire: ” Su, su, sola, sola hai da venire”. Io esclamavo: ”Mio Dio, pietà, compassione, stendetemi la mano, porgetemi aiuto, io non posso salire questo aspro monte”. (In) Dio capivo e mi faceva vedere una similitudine, così capivo come si ‘impara’ a fare andare soli i loro figlioli per assicurarli a camminare, li lascia soli. “Così io fo con te”. Iddio mi pareva che così mi dicesse. Insomma penavo e ripenavo. Alla fine mi ritrovai alla cima del monte e trovai Gesù in Croce. Mi gettai ai piedi della Croce come morta e stanca e dissi: “Oh mio Dio! Sono pure arrivata a prendere riposo”. Mi sentii tutta calmata e quieta in Dio dalla grande pace e soavità mi sentivo aprire il petto e come morire con Gesù in Croce con un grande amore soave, non più spasimante, anzi con somma quiete e pace, pareva che la fiamma di amore si dilatasse per il cuore e con soavità mi faceva morire con Gesù ai pie’ della croce. Stetti un lungo tempo in questa orazione e poi ritornai in sentimento: l’umanità debole e abbattuta e senza forza e vigore, mi ritornavano gli acutissimi desideri e spasimi d’amore verso Dio.
Non mancava Dio di darmi impulso di aprirmi con il confessore, ma io sempre occulto lo tenevo, scusandomi con Dio che non erano cose di peccato, arrossivo di doverlo dire. Poi crescevo negli anni, dubitavo che non fossero cose di Dio, ma della mia matta fantasia, vedendo me stessa sì iniqua e pessima, le rigettavo d(a) non crederle: se vi è stato errore ne chiedo perdono al mio Dio.
Ecco soddisfatta l’obbedienza con gran difficoltà vinta per la gloria di Dio. Pregando Gesù e Maria che benedica l’anima mia e anche Lei, richiedo la sua Benedizione.

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