BAGLIONI docente SILVESTRO studia i reperti archeologici di Belmonte Piceno

Estratto da uno studio di BAGLIONO SILVESTRO sulla NECROPOLI DI BELMONTE PICENO
Importanza e ricchezza di reperti.
Gli oggetti provenienti dagli scavi fatti, sotto la direzione di Innocenzo Dall’Osso, dal 1909 al 1912, nel territorio di Belmonte Piceno, costituiscono, senza dubbio, il corredo più cospicuo per ciò che riguarda abbondanza, varietà e importanza etnica, del Museo Archeologico Nazionale di Ancona. Mi sia permesso non tanto come nativo del paesello quanto per avere avuto la fortuna di essere stato il primo a segnalare l’esistenza e l’importanza della necropoli, di fare un breve cenno di essa, e della storia della sua scoperta. Nella prima memoria, pubblicata nel mese di aprile 1901 nella “Notizie degli scavi” (pag.227s), elencando e descrivendo gli oggetti che avevo potuto raccogliere da contadini che, coltivando il terreno, si imbattevano nelle tombe, dimostrai trattarsi di un’importante necropoli preromana. La località ricchissima di tombe distava dal centro abitato, in linea d’aria, circa un chilometro, rappresentata dal fianco dolcemente declive di una collina a sud-ovest e, secondo quanto allora mi pareva, abbracciava più di un chilometro quadrato di superficie. Dalle notizie attinte dagli occasionali scavatori e da uno scavo cui allora potetti assistere personalmente desunsi che gli scheletri posavano sul fianco (nel caso della tomba cui assistei, sul fianco sinistro con la faccia verso levante) con le ginocchia ripiegate: in terreno argilloso: alcuno alla profondità di qualche metro, altro a fior di terra, altro persino posto a nudo dall’acqua piovana: senza vestigia di cassa di legno o di altro, né alcun segno di riconoscimento esterno. Tutto ciò concordava con quanto era stato notato per simili necropoli Picene ad inumazione(Novilara, Numana, Monte Roberto, Offida).
Il cranio dello scheletro era dolicocefalo, con la fronte stretta, compressa ai due lati, mascella inferiore robusta, e pronunciata prominenza mentoniera, caratteri che lo avvicinano ai crani rinvenuti nella necropoli di Este, descritti dal Canestrini e dal Moscheni.
Oltre la predetta località, altri luoghi del territorio di Belmonte diedero in grande copia in diversi campi avanzi antichi che andarono sperduti, mercanteggiati dagli scavatori. Gli oggetti che avevo, in meno di un mese, potuti raccogliere ed osservare (nell’estate e nell’autunno del 1900), ammontavano a 220 esemplari, provenienti dal sole 10-12 tombe, che ora si conservano nella massima parte (principalmente quelli di terracotta e di bronzo) nella collezione del materiale preromano delle Marche, presso il Museo Preistorico di Roma.
Gli oggetti di bronzo costituivano la parte più importante e copiosa della raccolta, constando di collane o torques, di un numero veramente considerevole di fibule di vari tipi (ad arco semplice, a bottoni, ad uccellini, a sanguisuga, ad arco certosa, a navicella romboidale e semplice) e una di tipo nuovo ad arco laminale di grandi dimensioni, di cui avevo visto già altri esemplari della stessa necropoli, e che furono poi in seguito uguali rinvenute tardi. La particolarità di questa fibula è che la staffa è ulteriormente ornata da tre volute, simili, ma più piccole, all’arco della fibula. Erano inoltre armille, anelloni di bronzo caratteristici del Piceno inferiore (descritti già dall’Allevi e dal Paciaudi), anelli e catenelle. I pendagli ed amuleti si presentavano in numero straordinariamente grande e di forme svariatissime, di cui forse i più tipici, e che considerai come amuleti, sono i protomi accoppiati di bue e di ariete, parimente caratteristici del Piceno inferiore, e che non figurano nelle necropoli del Piceno superiore (Novilara); armi, costituite da lance, da daghe e altro. Le armi e in parte anche i braccialetti e pendagli si presentavano in numero minore (di forma simile a quelle di bronzo) anche di ferro, che però per la forte ossidazione subita non avevano forma riconoscibile.
Perline di pietra calcare o di smalto turchino, e in copia ancora maggiore oggetti d’ambra, per orecchini, o noccioli di fibule. Ne concludevo che l’abbondanza e la varietà degli oggetti dimostravano l’importanza della necropoli, augurando che successive ricerche eseguite con progetto metodico e scientifico di scavi, avessero potuto chiarire origine, ampiezza e epoca della medesima.
Azzardando alcune conclusioni sull’età della necropoli dal solo materiale raccolto, mi pareva che essa dovesse coincidere con gli ultimi periodi della Certosa: forse coeva colla necropoli di Offida descritta dall’Allevi, forse più recente di quella di Novilara, descritta dal Brizio. Ma ciò che mi sembrava più interessante e che risultava parimenti dai caratteri degli oggetti, era che la civiltà in questa regione del Piceno inferiore al sud del Chienti, si distinguesse da quella del Piceno superiore (Ancona, Macerata, Pesaro) al nord del Chienti; poiché pochi caratteri della suppellettile riunivano la necropoli di Belmonte e di Offida e di Cupra Marittima a quelli di Novilara e di Numana. Piuttosto bisognerebbe credere dalla comparazione con gli oggetti rinvenuti a Corropoli, che il Piceno inferiore si avvicini molto all’Abruzzo ulteriore (provincia di Teramo) formando con esso una regione ben definita per oggetti caratteristici (anelloni, protomi, torques, pendagli, ecc.), dalle altre italiche e che potrebbe portare il nome complessivo di Piceno inferiore. Non mancano accenni che vi siano stati punti di contatto anche con l’Abruzzo più basso, con Aufidena ad es., come faceva rilevare anche il Mariani.
Un cenno di altri oggetti pertinenti alla necropoli di Belmonte fu fatto dal Brizio nelle Notizie degli scavi, anno 1903, pag.88, descrivendo il caratteristico pettorale, che ornava il petto di uno scheletro di donna. Lo stesso Brizio nelle Notizie degli scavi dello stesso anno (pag. 101 a 105) descriveva diversi oggetti provenienti dalla necropoli di Belmonte che per mezzo mio aveva acquistato per il Museo civico di Bologna, dove ora si conservano, e rappresentanti la suppellettile di una o più tombe femminili.
Da due frammenti di pasta vitrea che rivestivano fibule del tipo Arnoaldi, il Brizio poteva dedurre l’età delle tombe di Belmonte, che, secondo lui, corrisponderebbe al periodo rappresentato nella regione felsinea dalle tombe tipo Villanova del predio Arnoaldi, vale a dire al VI secolo all’incirca a. C. Alla quale età, egli aggiungeva, ben convengono anche tanto le fibule di bronzo quando le armille che pure ricordano altre delle tombe Arnoaldi.
Nella stessa memoria il Brizio descriveva ed illustrava un monumento ancora più importante della necropoli di Belmonte, ossia una pietra sepolcrale con iscrizione picena, che ora si conserva nel Museo di Bologna e che io gli avevo segnalato. L’iscrizione è incisa sopra una grande pietra irregolare di metri 2,10 per metri 0,75, e 0,15 di spessore. Le lettere poco profonde occupano tre lunghe linee che vanno senza interruzione da sinistra a destra e viceversa (maniera bustrofedica).
Le tre linee, lunghe ciascuna in origine circa 1 metro, ben conservate però si presentano nel solo lato sinistro. Gli elementi costituenti l’epigrafe sono quelli stessi ben noti da altre iscrizioni simili (di Santomero, Cupramarittima e Castignano). Quantunque la lettura di molte parole sia abbastanza facile, diceva il Brizio, il loro significato rimane oscuro, tranne per la prima parola Apunis, nella quale dobbiamo probabilmente riconoscere il nome della persona, a cui fu posto il monumento, e che era della famiglia Aponia. Per la sua forma e la disposizione delle lettere la pietra si può confrontare con quella di Bellante.
Una mia seconda memoria sulla stessa necropoli pubblicai nel 1905 (Zeitschrift fur Ethnologie, 1905, pag. 257s), nella quale descrissi ed illustrai un’altra serie ancor più numerosa e più varia di oggetti, raccolti parimenti nello stesso modo dai contadini che ne scavavano le tombe. Tra questi oggetti figurano alcuni di bronzo, d’avorio e d’ambra artisticamente lavorati. Seguirono finalmente gli scavi governativi dell’autunno del 1909 promossi e diretti da Innocenzo Dall’Osso, occasionati, come almeno è affermato nella “Guida illustrata del Museo Nazionale di Ancona” (1915) dall’acquisto, fatto da un antiquario di Monte Giorgio, di oggetti provenienti dalla necropoli di Belmonte e in seguito a un servizio di vigilanza sul fondo coltivato dal colono Pietro Tofoni (località da me segnalata).
Gli scavi continuarono, com’è detto nella stessa guida per i tre anni successivi, dal luglio al ottobre, fruttando al Museo Nazionale di Ancona (come scrive il Dall’Osso nella sua Guida) la suppellettile di oltre 300 tombe, la maggior parte delle quali offrirono corredi ragguardevoli, giacché è un fatto innegabile che la necropoli di Belmonte, causa la sua importanza la sua estensione, restituì il maggior numero di corredi funebri, di gran lunga superiori per copia e ricchezza a quelli di tutte le altre necropoli Picene, non esclusa quella di Novilara. Tutto il prodotto degli scavi fu poi trasportato al Museo e distribuito in più il sale, tenendo conto della successione topografica dei diversi gruppi e non per serie cronologica, il che, se da un lato sarebbe riuscito più istruttivo, dall’altro non sarebbe stato possibile senza guastare gli aggruppamenti topografici, che pure hanno un grande interesse nel riguardo storico e archeologico, ed anche perché il materiale degli scavi non è entrato nel Museo in una sola volta, ma in più riprese e in tempi differenti. (Dall’Osso, Guida pag. 36-39).
Non è qui il caso di dare anche un rapidissimo ragguaglio del numero, dell’abbondanza, della forma e dell’importanza degli oggetti trovati nella necropoli di Belmonte; solo è da lamentare che ancora non siano stati opportunamente studiati ed illustrati, poiché, per quanto possa giudicarsi utile l’opera di esumazione e di gelosa conservazione di questi arcaici documenti della civiltà picena, essi non potranno mai parlare direttamente al grande pubblico, testimoniando i costumi nell’origine, la civiltà e la grandezza dei nostri antenati, se non per la voce e il pensiero di chi pazientemente e sapientemente li sappia interpretare, comparandoli con gli oggetti delle altre necropoli della stessa epoca e di epoche vicine.
Cogli scavi sinora fatti e condotti con tanto fervore dal Dall’Osso e dai suoi collaboratori non si può dire esaurita la necropoli di Belmonte: molte altre località ricche di tombe rimangono ancora da esplorare, e soprattutto è ancora meglio da identificare il luogo dove questa popolazione aveva la sua sede di abitato per poter chiarire i problemi più importanti cronologici della popolazione stessa. Come già è stato fatto per altre necropoli da insigni archeologi, è necessario eseguire scavi sistematici a trincea, onde saggiare l’estensione e le diverse fasi in cui avvennero le sepolture.
Molti problemi, alcuni veramente interessanti, sono connessi con questa necropoli. Innanzitutto il nome e l’origine della popolazione. Per Belmonte le notizie storiche più ampie sono medioevali come castello che dapprima, come tutti gli altri castelli, ebbero vita indipendente, per passare sotto il dominio di Fermo, il cui statuto del 1589 lo elencava tra castelli di 2° grado. Testimonianza precedente, una lapide murata nella chiesa rurale di Santa Maria in Muris ricordata dal De Minicis, è evidentemente appartenuta a un sepolcro romano. Nel territorio sono state trovate in varie epoche anche altre vestigia di tombe romane.
Ma la popolazione arcaica, e giudicarlo dagli oggetti sin oggi rinvenuti, vivente forse dal secolo IX al secolo III avanti Cristo, per il numero e per l’importanza, dové certamente avere una sede molto più grande dell’attuale castello.
Essa dovette essere certamente una florida e potente città composta da agricoltori e da guerrieri, amanti dello sfarzo, del lusso degli oggetti artistici, che sapeva apprezzare e quindi ricercare ornamenti preziosi del corpo e della casa; aveva una letteratura o per meglio dire possedeva l’arte della scrittura, molte professioni, quali quelle della fusione del bronzo, della manipolazione del ferro e di progredita ceramica. Di questa città picena ignoriamo il nome; non essendo ammissibile che l’attuale nome del castello, di etimologia strettamente italiana, potesse essere il nome dell’antica città.
Il Dall’Osso ha creduto di dover senz’altro identificare la popolazione della metropoli di Belmonte con quella di Falerio, basandosi sulla sua vicinanza. Questa ipotesi però per essere accettata deve subire una serie di gravi obiezioni: innanzitutto la distanza relativamente più grande di quella assunta dal Dall’Osso tra le due località; la loro ubicazione, l’una al di là e l’altra al di qua del fiume Tenna; ma soprattutto il fatto che Falerio è una città che di sé si sviluppò nell’epoca imperiale romana (colonia dedotta da Augusto dopo la battaglia di Azio: secondo Mommsen C.I.L. vol. IX, pag. 517), mentre la città della necropoli di Belmonte, secondo quanto risulta dagli scavi sinora fatti, la precedette almeno di due o tre secoli. Per risolvere la questione in senso favorevole a questa ipotesi bisognerebbe dimostrare che per l’antica città di Falerio (situata nel territorio dell’odierno Falerone) non esista la corrispondente necropoli Picena, e per quella di Belmonte non esista la continuazione romana.
Dai caratteri delle epigrafi delle pietre tombali sinora note, possiamo trarre un notevole indizio per risolvere l’altro problema capitale dell’origine e della civiltà di questo popolo. Il Brizio, descrivendo la pietra, dice non essere più giusto aggregarla alle cosiddette epigrafi sabelliche, ma dopo la scoperta di quelle simili da lui fatte a Novilara, si deve ascrivere a un gruppo ben distinto di pietre con iscrizioni picene. Gli elementi che la costituiscono, simili a quelle di S. Omero, Cupramarittima, e Castignano non escluso il segno diacritico formato da tre punti in linea verticale (quantunque la lettura di alcune parole sia abbastanza facile), non ne fanno intendere il pieno significato.
La forma delle lettere, da un sommario esame, risulta ben differente da quella delle iscrizioni umbre, come ad esempio, delle note tavole eugubine, ma ricorda piuttosto, come dice il Dall’Osso, i caratteri del greco arcaico specialmente per la forma del sigma (s) e del delta (d).
Non sarebbe lecito però dedurre senz’altro che la lingua fosse greca arcaica: poiché è ben noto che gli stessi segni alfabetici nell’antichità servirono per lingue diverse. Ma d’altro canto ciò ben dimostra in una forma innegabile l’affinità o perlomeno l’influenza che la civiltà contemporanea micenea e pre-micenea greca ebbe su questa popolazione; come azzardai dire in una breve nota pubblicata nel Picenum del 1910 (anno VII, fasc.I). Quest’influenza o questo rapporto si presenta ancora più evidente se si confrontano gli oggetti della ricca suppellettile delle tombe.
Certamente in moltissimi punti il chiaro ricordo di oggetti scavati in Grecia, nella Troade, nel Peloponneso per opera dei grandi archeologi moderni, che ci suscita direttamente anche un esame sommario del corredo di questa necropoli, ci dice come la civiltà era simile e in molti punti quasi identica.
Non mi sembra però giustificata la conclusione, tratta da questa innegabile somiglianza, che la popolazione di Belmonte o di altre necropoli Picene simili, abbiano avuto un’origine greca diretta, in forma di colonie provenienti dalla Grecia e immigrate come un popolo dominatore sugli indigeni preesistenti.
Si può pensare a diverse altre possibilità che spiegano in un modo più semplice e non meno probabile questa affinità:
a)- l’esistenza di popolazioni a civiltà simili provenienti da un gruppo primitivo, e che si svolgano contemporaneamente al di là delle sponde dell’Adriatico;
b)- il facile commercio dall’una all’altra sponda per mezzo della navigazione;
c)- l’affinità di carattere e di indole, che faceva apprezzare quindi acquistare dai Piceni gli oggetti provenienti dalle officine molto più progredite dell’altra sponda.
Comunque, rimettendo ai risultati degli studi ulteriori la soluzione di questi e di altri problemi, possiamo dedurre che il Piceno, nei secoli che precedettero la dominazione romana, era ricco di popolazioni a civiltà molto avanzata; ciò che lo stesso Plinio ci ricorda, iniziando la sua descrizione del Piceno: quinta regio Piceni est quondam uberrimae multitudinis. (la quinta regione è del Piceno un tempo di moltitudine abbondantissima).
Forse la conquista romana e prima ancora le lotte intestine tra le diverse città produssero forte decadenza, come del resto avvenne per le città della Grecia e dell’Asia minore.
Finalmente ancora un’osservazione, per un argomento spesso tratto in campo dagli archeologi, sull’origine e sulla parentela delle diverse popolazioni, si desume dal modo di seppellire i defunti. È noto che una differenza caratteristica tra diverse civiltà arcaiche è stata dedotta dal modo con cui seppellivano i loro morti, cioè dopo l’incinerazione (cremazione) oppure per inumazione.
Il rito dell’inumazione (si ammette) è caratteristico delle popolazioni neolitiche e di alcune civiltà più recenti, tra le quali anche della civiltà Picena, mentre il rito della cremazione sembra connesso con le civiltà della palafitte e delle terramare e delle loro derivazioni.
Tra le popolazioni che inumavano i loro morti, si è creduto di dover suddividere due grandi gruppi, quello che deponeva i morti distesi e quello che li riponeva rannicchiati. Io non credo che questa distinzione effettivamente corrispondesse a due civiltà diverse e quindi a popoli distinti, come se l’uno o l’altro modo indicasse il diverso concetto etico del popolo stesso.
Già il fatto che, quasi sempre nella stessa necropoli, i due modi di scheletri distesi o rannicchiati si trovano frammisti, (nella necropoli di Belmonte sulle 300 tombe scavate dal Dall’Osso l’80% compaiono rannicchiati), ci dice che i due modi non dipendessero da intenzioni dei parenti, a meno che, come crede il Dall’Osso, non si voglia ammettere (ciò che è inverosimile) che nella stessa popolazione esistessero due gruppi etnici nettamente separati, i quali d’altra parte però in nessun’altra forma appariscente della suppellettile, si manifestano tali.
Io credo piuttosto che il diverso modo di presentarsi degli scheletri sia dovuto al caso: il defunto, subito dopo la pompa funebre era deposto nella tomba nuda della terra, forse avvolto in un lenzuolo, oppure molto più probabilmente senza alcuna sindone, dopo però essere stato completamente rivestito dei suoi abiti migliori e adornato di tutti i suoi monili e gioielli, delle sue armi, dei trofei di vittoria rappresentati dalle spoglie e dalle armi dei nemici vinti, dando al corpo quell’atteggiamento naturale di chi riposa nel letto, e che il bambino ha nell’utero materno, ossia adagiato su un fianco, col capo, il tronco e gli arti posteriori dolcemente flessi.
Questa posizione naturale dava anche modo a poter meglio collocare i vasi e gli altri oggetti del corredo funebre. Ciò corrisponde a quel delicato sentimento di profonda intima pietas, che i nostri antenati sentivano, come nucleo fondamentale del loro culto per i trapassati, nel pensiero della sopravvivenza dell’anima, procacciando all’estinto la posizione del corpo che in questa vita è quella del sereno riposo, donandolo di tutte le sue ricchezze delle sue conquiste terrene, in una rinuncia e in una abnegazione di ereditarne le cose più rare, sentimento che, se onora questa popolazione antica, è d’altra parte quello che permette oggi di rievocarne, su queste sicure vestigia, l’alto grado di civiltà.
E noi rievochiamo oggi questa civiltà sia pure col freddo animo dell’osservatore e dello scienziato indagatore, non senza però quel devoto senso di rispetto e di orgoglio che si ha per tutte le reliquie più sacre, che ci parlano, attraverso i millenni, ancora della vita dei costumi e dell’anima di nostra grande stirpe.

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