VIRGILI SETTIMIO SCRITTORE, Amandola Chiesa Santa Maria derlla Meta. Libro

VIRGILI SETTIMIO “La chiesa di Santa Maria della Meta di Amandola” in Borghi da scoprire … Tesori delle Marche Meridionali.” vol I. Lineagrafica. Centobuchi di Monteprandone 2017 pp. 163-171

Santa Maria della Meta è una chiesetta rurale che si trova a circa 4 km da Amandola, lungo la strada che porta a Sarnano. E’ situata non lontana dalla frazione di Villa Rustici, in una bella posizione, proprio al di sotto dei Monti Sibillini (1). AL suo interno non vi sono opere d’arte di valore, ma il sito per la particolarità del paesaggio e per la pagina di storia scritta durante il periodo dell’insorgenza merita di essere conosciuto.
Fu edificata probabilmente nel 1613. Non ci sono documenti che certificano in maniera inconfutabile l’anno della costruzione, tuttavia in un mattone posto sopra la porta d’ingresso era impressa la data sopracitata (2). Oggi questa sorta di “certificato di nascita” che i costruttori ci hanno voluto lasciare non è più visibile, è stato coperto dall’intonaco che in epoche successive è stato dato alle pareti interne della chiesa.
Essa fu realizzata su un sito dove esisteva una pintura probabilmente a ricordo di un edificio di culto ancora più antico (3). Le spese per la costruzione furono sostenute dai contadini del luogo in un periodo molto difficile per le popolazioni della Marca a causa della crisi economica attraversata dallo Stato pontificio (4). E’ dunque probabile che i residenti di Villa Rustici abbiano voluto propiziare l’intercessione della Vergine o ringraziarla per qualche evento favorevole, costruendo e dedicandole la chiesetta. Al parroco di Santa Maria della Meta nel 1766, per decreto dell’arcivescovo Paracciani, venne assegnato il compito della cura delle anime della chiesa rurale di San Donato il cui titolo fu traslato nella omonima collegiata, dunque egli era il responsabile di tutta la zona rurale che si estendeva a nord ovest di Amandola (5). Nel 1772 il luogo di culto lungo 40 piedi, largo 7 e alto 26 si presentava con un tetto fatiscente, sostenuto da travi (6), fu perciò rifatto e consolidato.
La frazione di Villa Rustici dove si trova Santa Maria della Meta fu teatro alla fine del Settecento di un episodio di resistenza alle truppe francesi in cui persero la vita molti contadini e montanari del luogo. Capeggiò la rivolta il parroco di Santa Maria della Meta che incitò il popolo ad impugnare le armi o qualsiasi corpo contundente utile a fronteggiare gli invasori francesi.
Amandola prima della sommossa
Molti contadini e montanari amandolesi già fin dagli inizi del 1797 manifestavano evidenti segni d’insofferenza nei confronti dei balzelli imposti dalle autorità napoleoniche e mal sopportavano le vessazioni subite dalle truppe francesi di passaggio nel territorio submontano. Questo malcontento diffuso aveva esacerbato gli animi e in tanti si preparavano allo scontro, non perdendo occasione per rifornirsi di armi in attesa del momento opportuno per poterle utilizzare. Ma mentre il popolo si preparava a resistere alle truppe napoleoniche, gran parte della classe dirigente di Amandola era latitante: alcune persone della nobiltà locale avevano abbandonato la loro residenza abituale per garantirsi incolumità personale e quella dei loro familiari. Il custode dei beni e delle finanze della comunità amandolese (7), il camerlengo Luigi Muziani, insieme alla sua famiglia, aveva preferito trasferirsi a Monte Fortino, centro demico più piccolo e periferico, pertanto ritenuto più sicuro dal punto di vista logistico. Inoltre le istituzioni preposte alla guida del paese non avevano adottato utili iniziative, volte a fronteggiare un’emergenza che si andava prefigurando sempre più grave.
Una delle poche azioni intraprese, peraltro informale, era stata quella del gonfaloniere (magistrato) della città, Giammaria Diotiguardi, che aveva riunito in casa sua alcuni maggiorenti locali, con l’intento di discutere i fatti che stavano accadendo in città e nel Piceno. Alla riunione avevano partecipato tra gli altri i signori Vincenzo Vermigli, Vincenzo Pascucci, Carlo Ricci e Giovanni Guglielmi.
Solo il 14 marzo del 1797 si era riunito il consiglio comunale al fine di prendere visione di due importanti provvedimenti emanati uno dall’arcivescovo di Fermo Andrea Minucci e l’altro dal delegato apostolico Arrigoni. Entrambi i prelati con due distinte circolari invitavano le popolazioni a non opporsi alle truppe francesi e a pagare regolarmente i balzelli imposti dalle autorità transalpine del Dipartimento del Tronto (8). Inoltre negli stessi documenti informativi si faceva esplicito invito ai parroci a predicare contro ogni forma di resistenza all’invasore (9).
Ma non tutti i preti avevano ubbidito alle disposizioni della gerarchia ecclesiastica. C’erano infatti nella diocesi di Fermo ben 109 sacerdoti profughi dai territori francesi che avevano trovato ospitalità e asilo nel Fermano e che non perdevano occasione per fomentare il malcontento e per aizzare i confratelli e la popolazione contro l’usurpatore e le sue idee rivoluzionarie e anticlericali (10).
Ad Amandola si distinse per accanimento nella istigazione alla rivolta, come accennato, il curato di Santa Maria della Meta di cui non conosciamo con certezza il nome, ma egli è passato alla storia come un irriducibile nemico dei Francesi e come il responsabile morale della sommossa. A suo carico non ci sono atti giudiziari specifici, c’è una tradizione orale che si è tramandata da padre in figlio e ci sono alcuni documenti che parlano dei fatti di quel tragico giugno del 1798, i quali pur non fornendo alcuna indicazione sull’identità di questo facinoroso sacerdote di campagna, lo indicano però indiscutibilmente come l’ideatore e promotore della sommossa (11). E’ certo che a lui era affidata la comunità di Villa Rustici, frazione a nord-ovest di Amandola e che qui celebrava le funzioni religiose nella chiesa rurale di Santa Maria della Meta (12). Il battagliero curato raccontava ai suoi parrocchiani che i Repubblicani erano tutti atei, che rifiutavano Dio e che sopprimevano il culto religioso profanando chiese e rubando preziosi oggetti sacri.
Villa Rustici e gli agglomerati umani che insistevano attorno a tale insediamento erano costituiti essenzialmente da contadini e da montanari, gente di montagna abituata al lavoro duro dei campi e alla fatica quotidiana di risalita degli erti sentieri dei vicini monti Sibillini. Nel 1798 il curato di Villa Rustici è don Pacifico Ricci: è lui che in quest’anno firma gli atti di matrimonio ed è lui che continua a farlo anche negli anni successivi (13).

LA SOMMOSSA DI VILLA RUSTICI AD AMANDOLA NEL 1798
Neh gennaio del 1798 le truppe francesi erano entrate in Loreto e avevano arrestato alcune autorità locali (14). Il 10 febbraio di quello stesso anno avevano occupato Roma (15) e il 31 marzo era stata la volta di Ascoli. In questa città come segno di conquista e come simbolo delle loro idee liberali, i Francesi avevano eretto nel mezzo di piazza del Popolo “l’albero della libertà”: un tronco alto diversi metri, dipinto con i colori della bandiera francese, impiantato sopra una solida struttura in legno. Sulla sua sommità era stato inserito un berretto frigio simbolo della rivoluzione libertaria, ai suoi lati sventolavano due bandiere con i colori transalpini e ad un terzo della sua altezza era stato issato un trofeo ricavato con armi e arnesi militari (16).
Intanto nel Piceno si manifestavano gravi problemi di ordine pubblico, alimentati dalla prepotenza e dalle scorribande che i soldati transalpini con frequenza e con rapacità crescenti perpetravano nei confronti della popolazione. Ad Ancarano, Appignano, Maltignano ed Offida cominciava a serpeggiare il malcontento soprattutto tra gli strati sociali più poveri e si manifestavano focolai di rivolta e d’insubordinazione (17).
Era il giugno del 1798, quando nelle località rurali di Villa Rustici e di Villa Taccarelli, nel territorio di Amandola, iniziò a coalizzarsi un forte movimento di protesta. Contadini e montanari del luogo istigati dal curato di Santa Maria della Meta e da alcuni frati e preti locali tenevano sotto controllo il territorio amandolese intimidendo personaggi di fede repubblicana e filofrancesi.
Il loro armamento era piuttosto rudimentale: falci, forche, scuri, spiedi, vecchi archibugi e corpi contundenti di ogni genere. Ma era gente di estrazione sociale umile, abituata a vivere di stenti quindi capace di resistere a lungo in situazioni avverse e di sacrificio, inoltre era fortemente motivata poiché convinta da alcuni ecclesiastici che uccidere un giacobino o un Francese non fosse reato, ma un’opera meritoria degna di un vero cristiano. La loro azione militare era favorita dal fatto che essi godevano di un innegabile vantaggio rispetto alle truppe francesi e repubblicane: avevano una conoscenza capillare dei boschi, degli anfratti di montagna, dei sentieri e dei rifugi. Presidiavano i loro nascondigli e le loro abitazioni impedendo ai fautori della nuova repubblica di raggiungerli e sfilavano per le strade noncuranti di rappresaglie al grido di Viva Maria! Abbasso i Giacobini! Morte ai francesi! Agli insorgenti di Villa Rustici e Villa Taccarelli davano man forte altre persone provenienti dai vicini centri di Monte Fortino, Comunanza, Monte Monaco e Montegallo. La spavalderia e gli esiti favorevoli delle loro azioni militari avevano raggiunto gli alti gradi della gerarchia dell’esercito napoleonico di stanza nel Piceno; essi avevano compiuto gesta così temerarie e intrepide che si erano conquistati la fama di uomini imprendibili e pericolosi. Fu forse per questo motivo che i generali francesi inizialmente ritennero che i rivoltosi fossero molti di più di quelli che erano in realtà, era circolata addirittura voce che fossero qualche migliaio. Ma in effetti erano molto meno numerosi, forse non raggiungevano neppure mille unità. Questa sopravvalutazione degli insorti da parte del comando francese è certificata dallo spiegamento di forze che esso decise di mettere in campo.
Il Cantone di Amandola, comprendeva i comuni Comunanza, Castel San Pietro, Monte Fortino, Montegallo, Monte Monaco (18), e faceva parte del dipartimento del Tronto. Esso era presidiato dal generale Lahure, che era di stanza a Montalto: era costui un uomo tutto d’un pezzo, avvezzo ad azioni militari pericolose con consumata esperienza, maturata in numerose campagne di guerra. Lahure si trovava a Macerata quando gli giunse notizia che ad Amandola si stava sviluppando una sommossa di grosse dimensioni. Gli era arrivato un dispaccio nel quale si diceva che a ingenerare la rivolta era stato l’arresto del parroco di Santa Maria della Meta e che alcune migliaia di cittadini si erano mobilitate contro le autorità transalpine. Sulla scorta di questa notizia allarmistica il generale francese allertò le truppe che si trovavano in Umbria e nelle Marche, facenti parte del dipartimento del Tronto; ricevettero l’ordine di dirigersi verso Amandola tre guarnigioni: – la truppa del generale Gardanne che dopo i lusinghieri successi militari ottenuti a Città di Castello si trovava a Perugia; – la guarnigione che era di stanza a Fermo e quella che controllava la città di Ascoli. Quest’ultimo raggruppamento militare, forse il più vicino al luogo dei disordini, invece di risalire per Croce Casale e raggiungere più rapidamente l’obiettivo passò per Montalto, da qui scese lungo la valle dell’Aso e risalì verso Amandola. La truppa proveniente da Perugia dovette attraversare i Sibillini con armi e cavalli, ciò ritardò enormemente la sua marcia. L’energico generale Lahure mosse il suo reparto da Macerata e a tappe forzate si diresse alla volta di Amandola dove arrivò prima degli altri reparti nonostante dovesse trasportare nove pezzi di artiglieria. Erano i primi di giugno del 1798 (19).

LO SCONTRO CON GLI INSORGENTI
I soldati francesi entrarono nel territorio amandolese accompagnati dalle note della Marsigliese, l’inno della rivoluzione e della vittoria e ostentando le loro divise sgargianti con pantaloni rossi, tunica verde e cappelli piumati: un abbigliamento in contrasto stridente con i vestiti dimessi e trasandati degli uomini di montagna. La truppa composta da fanteria e cavalleria era forte di circa 900 soldati e 9 cannoni. Lo scontro avvenne il 9 di giugno (20): fu di breve durata ma estremamente cruento. Gli insorgenti non erano certo così numerosi come in un primo momento si era creduto. Evidentemente le informazioni ricevute dal Lahure erano destituite di qualsiasi attendibilità, oppure alla maggior parte dei contadini e dei montanari la notizia dell’arrivo dei Francesi aveva spento ineluttabilmente lo spirito di rivolta.
I Francesi marciarono fino a Villa Rustici senza incontrare la minima resistenza, era qui infatti che gli insorti si erano concentrati e avevano creato il loro fronte. Il generale Lahure esperto conoscitore della sua e dell’altrui forza militare si rese immediatamente conto che l’apparato offensivo dei nemici era molto limitato perciò decise di non aspettare i rinforzi precedentemente allertati e sferrò l’attacco. I rivoltosi, senza alcuna organizzazione interna, senza una guida esperta di arte militare e armati alla meno peggio, fecero anche un grave errore strategico: invece di adottare la tattica del “mordi e fuggi” tipica delle azioni da guerriglia, affrontarono i Francesi in campo aperto. Ciò fu loro fatale. Sotto i colpi dell’artiglieria nemica vennero dispersi e isolati, resistettero per circa un’ora battendosi con coraggio e determinazione. Poi ripiegarono fino all’interno della cinta muraria di Amandola dove crearono nuove barricate, ma la loro fierezza e la loro forza fisica nulla poterono contro i colpi dei cannoni. Fu una battaglia impari: l’artiglieria dei Francesi contro le zappe e le falci dei contadini. Diversi i morti tra gli Amandolesi: tra questi due fratelli, Domenico Polentini di anni 23 e sua sorella Marianna di 8, furono uccisi dallo stesso proiettile che attraversò il corpo di entrambi. La maggior parte degli insorti vista la mal parata cercò la salvezza nella fuga. I più trovarono riparo verso la montagna disperdendosi tra i boschi e negli anfratti dei Sibillini (21).
Ma nel frattempo, era il 12 giugno, proprio dai monti sopraggiunse la colonna del generale Gardanne che aveva raccolto rinforzi consistenti a Serravalle e che quindi forte di 600 uomini fu in grado di formare quattro consistenti raggruppamenti che da ovest, marciarono a tenaglia verso Amandola. Non pochi insorgenti che avevano trovato riparo nei campi e sulla montagna accerchiati da un tale spiegamento di forze cedettero le armi e si arresero ai Francesi.
Il generale Gardanne e il Lahure non si accontentarono della vittoria: pretesero un congruo bottino e imposero ai cittadini una tassa straordinaria, al primo comandante andò la non modesta cifra di 30 mila franchi, che egli non tenne tutta per sé. Cinquemila franchi li diede al suo secondo, il comandante Thiebault, dicendogli: “Comandante Thiebault, ecco un bel regalo di Amandola che ci viene offerto dai signori briganti; ma io non sono solito mangiarne da solo. Vi prego di accogliere l’equivalente di uno spicchio” (22).

LA RAPPRESAGLlA
Il 10 di giugno e il giorno seguente accaddero in città episodi gravissimi di efferata ferocia: i soldati di Lahure si abbandonarono ad ogni sorta di saccheggio e di violenza. Amandola visse giorni di paura e di terrore. I militari francesi festeggiarono la vittoria consegnandosi all’alcool: ubriachi e privi di ogni freno inibitorio perché consci di rimanere impuniti per qualsiasi malefatta, sfondarono le porte delle abitazioni che non gli venivano aperte, penetrarono al loro interno rubando oggetti preziosi e devastando suppellettili e mobilie. In alcuni casi quando non trovarono nessuno in casa diedero alle fiamme tutto ciò che fosse infiammabile. Fu una notte di ansia e di angoscia per gli Amandolesi. Si udirono urla di dolore e gemiti, mentre i soldati sotto l’effetto dell’alcool intonavano canti osceni e minacciosi (23).
Ci fu la caccia agli ecclesiastici sospettati di cospirazione e agli “antidemocratici”, ma non furono solo loro ad avere la peggio. Furono aggredite e terrorizzate intere famiglie e non furono risparmiate donne e bambini. Perché tanta ferocia? La resistenza che i soldati francesi avevano incontrato a Villa Rustici fu breve ma accanita, i contadini cedettero il fronte dopo cruenti corpo corpo: la loro forza e la loro audacia avevano impaurito i pur esperti Francesi, i quali, dopo aver avuto il sopravvento, diedero sfogo alla rabbia e alla voglia di vendetta (24).
Gli altri due reparti, quelli provenienti da Fermo e da Ascoli, arrivarono nei giorni successivi, quindi raggiunsero il luogo degli scontri a cose fatte. Complessivamente l’intero corpo di spedizione arrivato ad Amandola si può valutare in circa 1500-2000 uomini. Il generale Gardanne arrivò in città il 12 giugno a mezzogiorno, quindi tre giorni dopo lo scontro di Villa Rustici. Durante la impervia attraversata dei Sibillini aveva perso due uomini scivolati con i loro cavalli in un profondo dirupo; proseguì con la sua truppa verso Ascoli scendendo lungo la Valle dell’Aso e risalendo a Montalto dove pernottò.
Ad Amandola rimasero solo 300 uomini con il compito di ristabilire l’ordine, di continuare l’azione di disarmo degli insorgenti e di punire i responsabili e gli autori della sommossa (25).

IL SACCHEGGIO E LA PROFANAZIONE DEL CONVENTO DI SANT’AGOSTINO
La truppa di Lahure non si accontentò di mettere a ferro e fuoco gli edifici di civile abitazione e di terrorizzare la cittadinanza. I soldati sfogarono la loro rabbia anche contro i luoghi sacri e i simboli della devozione e del culto amandolese. Un manipolo di francesi scelse come ostello per i bisogni corporali il chiostro e il corridoio del convento di Sant’Agostino dove erano conservati in un’urna chiusa con più serrature i resti mortali del beato Antonio. Durante la permanenza dei militari nell’istituto religioso alcuni di loro con una mazza di legno forzarono la teca del beato e si appropriarono degli oggetti preziosi ivi contenuti: una corona d’argento e i cuori voto. Ma non si limitarono a rubare l’argenteria. Tirarono fuori dall’urna il corpo del beato e lo trasferirono a sinistra del pulpito della chiesa spogliandolo della sua tunica. Quindi, copertolo con un drappo rosso, irridevano la sacra immagine bruciacchiando il corpo con candele accese (26).
Queste notizie raccontate dallo storico amandolese Ferranti sono in parte confermate dalle deposizioni rilasciate da due testimoni in occasione del processo di ricognizione della venerabile salma del beato Antonio. Il dott. Antonio Benattendi magistrato del luogo, chiamato a deporre la sua versione dei fatti, riferì di aver visto alcuni soldati francesi strappare breviari, messali e altri testi di liturgia religiosa; inoltre egli disse di aver avvertito di quanto stava accadendo il capobrigata Auver che intervenne e impedì ai suoi subalterni di continuare l’opera di devastazione della chiesa. Tuttavia il Benattendi non conferma la notizia della profanazione del corpo del beato Antonio: si limita a riferire di averlo sentito raccontare.
Nell’altra testimonianza, quella resa dal sig. Giuseppe Spagnolini, effettivamente risulta che vi fu il saccheggio e la profanazione della teca del beato, inoltre si precisa che a macchiarsi di tale sacrilegio sia stato un manipolo di soldati della truppa del Lahure (27).
I Francesi lasciarono Amandola con un considerevole bottino di guerra: ottennero la vittoria senza gravi perdite, pretesero dagli Amandolesi un rimborso in franchi per le spese dell’operazione militare, rubarono quanto poterono e qualcuno, come il comandante Thiebault poté apprezzare il rinomato formaggio dei Sibillini, egli, infatti ebbe a scrivere: “Nei pasti che facemmo in Amandola ci fu servito un formaggio il più odoroso che io abbia mangiato in vita mia. Lo chiamano formaggio dei fiori, e mai vi fu un nome meglio appropriato. Somiglia al burro dei Vosgi, e non si ottiene che in queste montagne e nel momento in cui le vacche si nutrono dei primi aromi che profumano tutta la regione” (28).
La truppa del generale Lahure partì da Amandola in direzione di Montefalcone Appennino; ivi giunta si diresse verso Santa Vittoria in Matenano: entrò in paese alle ore nove del 12 giugno, accolta da molti cittadini del luogo e da diversi ecclesiastici. Il comandante alloggiò nella casa del sig. Marinelli, gli altri ufficiali furono ospitati all’interno dei conventi e nelle case disponibili, mentre un reparto di cavalleria si stabilì all’interno delle stanze attigue alla chiesa Collegiata.
I Francesi sarebbero dovuti ripartire nel pomeriggio, ma un’intesa pioggia ne ritardò la partenza. Lasciarono Santa Vittoria in Matenano il giorno seguente dividendosi in due reparti: il primo uscito da porta San Salvatore si diresse verso Servigliano, l’altro attraverso porta San Giovanni andò alla volta di Montalto (29).

IL RESOCONTO DELLA BATTAGLIA DI VILLA RUSTICI SULL’ORGANO UFFICIALE DELLA NUOVA REPUBBLICA
La nuova Repubblica proclamata in Campidoglio il 15 febbraio del 1798 da Napoleone, aveva un suo organo ufficiale: il Monitore di Roma. Il 14 giugno, all’indomani dei fatti e dei misfatti verificatesi a Villa Rustici, sul giornale di fede napoleonica comparve la cronaca di ciò che era accaduto ad Amandola. L’articolo portava la firma di tal P. Grappen. L’autore era certamente un fervente giacobino, molto probabilmente locale, che nascose la sua vera identità sotto uno pseudonimo, ma potrebbe essere stato anche un giornalista aggregato alla truppa.
Egli scarica tutte le responsabilità dell’accaduto sugli ecclesiastici del luogo rei di aver fomentato la rivolta, nell’articolo infatti si leggono frasi spregiudicatamente anticlericali: “Di quanto male sono capaci gli ignoranti quando vengono sedotti dal fanatismo dei preti? Popoli e quando adunque imparerete a guardarvi da questi animali neri?”
Le responsabilità vengono completamente attribuite ai preti e agli insorgenti; ai Francesi non viene addebitata alcuna colpa;, essi vengono descritti non come aggressori ma come vittime della prepotenza e dell’ignoranza dei rustici. Nell’articolo si precisa che il reparto francese impegnato nello scontro era composto da 900 soldati con 9 pezzi di cannone, inoltre si dice che la truppa proveniva dall’impresa di Città di Castello quindi contrariamente ad altre fonti si attribuisce il merito della vittoria al generale Gardanne invece che al Lahure.
Non si fa neanche qui menzione del nome e cognome del parroco fautore principale della rivolta. E’ singolare che in ogni documento da noi consultato il parroco non venga mai identificato. Nel 1772 don Francesco Cruciani era il giovane curato della chiesa rurale di Santa Maria della Meta; dopo di lui altri sacerdoti hanno retto la parrocchia prima del 1798. Ma in questo anno svolge il ministero di parroco di Santa Maria della Meta don Pacifico Ricci. E’ dunque lui il prete in questione; colui che più di altri si prodigò nella predicazione antifrancese e nella organizzazione della sommossa (30). Pacifico di nome ma non di fatto, egli nelle cronache del tempo viene indicato come il parroco: nessun documento relativo agli episodi del giugno del 1798 accaduti ad Amandola certifica la sua identità. Perché il suo nome e il suo cognome sono stati sistematicamente taciuti?
O il personaggio nonostante tutto era una figura di secondo piano oppure egli faceva parte dell’alta nobiltà locale e tutti i cronisti del tempo, perfino il corrispondente del Monitore di Roma, hanno voluto avere verso di lui e la sua famiglia un occhio di riguardo.
Alcuni autori ritengono invece che il maggior responsabile sia stato il preposto Brunori. Sia l’uno che l’altro tuttavia ebbero salva la vita poiché entrambi negli anni successivi continuarono a svolgere il loro ministero, il primo sempre a Santa Maria della Meta e il Brunori nella prepositura (31)
NOTA
(1) AA VV. “Guida di Amandola” a cura di M. ANTONELLI e V. PASQUALI. Ripatransone 1991
(2) Archivio Storico Arcivescovile di Fermo = ASAF, Serie inventari, “Amandola”
(3) FERRANTI PIETRO, “Memorie storiche della città di Amandola” vol. I, Ripatransone 2001, ristampa, pp. 639-640.
(4) ASAF, Serie inventari…, cit., Visita pastorale card. Paracciani ad Amandola, a. 1784, IIA 15.
(5) ASAF, Serie inventari…, cit.
(6) Ibidem.
(7) II Camerlengo è il custode e l’amministratore dei beni e delle finanze di una città.
(8) Le Marche nel periodo napoleonico erano divise in tre dipartimenti: il dipartimento del Tronto, del Musone e del Metauro, ognuno di essi si suddivideva in capoluoghi, distretti e cantoni. Il dipartimento del Tronto aveva come capoluogo Fermo, ed era costituito da tre distretti: Ascoli, Camerino e Fermo. Il distretto di Ascoli si suddivideva nei cantoni di Acquasanta, Amandola, Ascoli, Montalto e Offida, quello di Camerino comprendeva i cantoni di Camerino, di Falerone, Pieve Torina e San Ginesio, infine il distretto di Fermo controllava Montegiorgio, Petritoli, Porto di Fermo, Ripatransone, Sant’Elpidio, M. San Giusto e Santa Vittoria.
(9) FERRANTI PIETRO, pp. 346-348.
(10) EMILIANI ANTONIO, “Un comune delle Marche in rivoluzione – Amandola nel 1798”, in “Picenum rivista marchigiana illustrata”, anno VIII, 1911, pp. 213-219.
(11) FERRANTI PIETRO, pp. 346-348; EMILIANI ANTONIO, pp. 213-219; ORLANDI GIUSEPPE, “Io Felice proposto Zucchi”, Amandola 1997; PASTORI LUIGI, “Ascoli sotto all’albero della libertà”, Montalto Marche 1802 pp. 37-38; AAVV., “Guida di Amandola”; GRAPPEN P, “Monitore di Roma, organo ufficiale della nuova Repubblica proclamata in Campidoglio, 14 giugno 1798”.
(12) AAVV, Guida di Amandola”, cit.
(13) APA =ARCHIVIO PARROCCHIALE DI AMANDOLA, “Libro dei Matrimoni della Chiesa di santa Maria della Meta”, aa. 1798-1799. ASAF, Serie Inventari, Inventario di Amandola 1772.
(14) PASTORI LUIGI, p. 21.
(15) Ibidem p. 23.
(16) Ibidem p. 30. Cfr., GALANTI TIMOTEO, “Dagli Sciaboloni ai Piccioni” Teramo 1990. SPADONI DOMENICO, “Il generale La Hoz il suo tentativo indipendentista nel 1799” Macerata 1933.
(17) Ibidem pp. 32-33.
(18) GAGLIARDI GIANNINO, Il territorio e la sua storia, in “Amandola e il suo territorio”, di ANTONELLI MARIO, VIRGILI BIANCA MARIA, VIRGILI VITTORIO, 1995, pp. 44-45.
(19) EMILIANI ANTONIO
(20) FERRANTI PIETRO pp. 639-640
(21) EMILIANI ANTONIO
(22) THIELBAULT, “Memoire du Génerale Baron hiebault”
(23) FERRANTI PIETRO pp. 346-348
(24) ORLANDI GIUSEPPE, pp. 102-109
(25) EMILIANI ANTONIO
(26) FERRANTI PIETRO pp. 346-348
(27) “Processo di ricognizione della venerabile salma del beato Antonio, di Amandola: testimonianze rilasciate dal sig. Giuseppe Spagnolini e dal dott. Antonio Benattendi, 26 agosto 1798”
(28) THIELBAULT cit.
(29) Archivio Parrocchiale Santa Vittoria “Diversorum Iurium”, 12 giugno 1798 ff. 63-64
(30) APA, Libro dei matrimoni cit
(31) GRAPPEN P. cit.

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