L’ ESODO libro della Bibbia presentato da Miola Gabriele nel significato della Storia di Dio con le persone ieri ed oggi

MIOLA Gabriele – ESODO BIBLICO

Liberazione e

Formazione del

Popolo di Dio

INDICE

Introduzione

La situazione in Egitto

\Parte prima: Dio affida la missione a Mosè

.Appendice: Le piaghe d’Egitto

\Seconda parte: L’ESODO

.Appendice: La Pasqua di Cristo

\Terza parte: L’ ALLEANZA fra DIO e ISRAELE

\Quarta parte: La rottura e la rinnovazione della Alleanza

.Appendice: L’Arca dell’Alleanza – La Tenda del Convegno – Il Tempio

S C H E M A  della  t r a t t a z i o n e

Nella presentazione del libro dell’Esodo è bene dividere la trattazione in questi quattro gruppi di capitoli;

1) Capp. 1-6: la situazione del popolo d’Israele, la vocazione e la missione di Mosè a liberare il suo popolo;

2) Capp. 12-15; l’avvenimento centrale di tutta la storia d’Israele è l’Esodo, cioè l’uscita dalla schiavitù dell’Egitto;

3) Capp. 19-20 e 24; il rapporto nuovo che si stabilisce, dopo la liberazione, tra Israele e Dio: l’Alleanza;

4) Capp. 32-34: la rottura dell’alleanza, come condizione di Israele nel deserto, è la condizione continua dell’uomo e della umanità; la preghiera di Mosè, il pentimento del popolo, la conversione, il rinnovamento dell’alleanza.

Introduzione –   Il Vaticano II, nella Costituzione dommatica sulla Divina Rivelazione (“Dei Verbum” n. 2) dice; “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per messo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (Ef 2,18; 2Pt 1,4). Con questa rivelazione infatti Dio invisibile Cfr Col 1,15; 1Tm 1,17) nel suo grande amore, parla agli uomini come ad amici (cfr Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr Bar 33,38) per invitarli ed ammetterli alla comunione con Sé. Questa economia della Rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà, significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità poi su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione, risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione”. (Pio XII, “Divino afflante”).    L’idea da cui dobbiamo partire è questa; Dio interviene nella storia, Dio si condiziona al nostro modo di essere, di vivere, di camminare; ed è un camminare storico; e storico significa spazio, tempo; se sono qui, non posso essere da un’altra parte; se ho questa lingua, non ho potuto averne un’altra e così via; significa questa cultura, questa mentalità.

Tutto questo è storia, Dio si è immesso proprio in questo cammino, in questo ritmo, quindi nella nostra storia.

ESODO – LA SITUAZIONE IN EGITTO

Noi questo lo vediamo proprio nell’Esodo, che è uno dei fatti fondamentali del Vecchio Testamento. L’Esodo è il nucleo del messaggio intorno al quale si è formato il V.T.

Cerchiamo di dare una panoramica storica; in che tempo siamo? Siamo verso la metà del XIII secolo a.C. La condizione è questa; in Egitto, già dal 3000 a.C., c’è l’impero faraonico, ed ha avuto una fioritura molto gloriosa attraverso i millenni. In questo periodo è faraone Ramses II.

Tra i tanti popoli che si trovano sotto il suo dominio (anche popoli immigrati) c’è Israele; piccolo gruppo formato da clan e tribù. Erano venuti in Egitto al tempo dei patriarchi (il racconto lo troviamo nel libro della Genesi); questa epoca, comincia con Abramo (secondo molti circa 1750 a. C.). Dopo vicende varie, verso la metà del sec. XVII, durante il periodo della dominazione degli Hyksos in Egitto, gli Ebrei erano stati attratti dall’Egitto e vi erano andati. Scoppia la ribellione, gli Hyksos vengono cacciati fuori alla fine del 1600 e ritorna il dominio dei faraoni.

Nella Bibbia la storia di Israele inizia con Abramo, un capo clan che parte con la sua famiglia dalla Mesopotania seguendo “una chiamata” da parte di Dio. Da “Ur dei Caldei” (Gen 11,28) situata nel sud sarebbe giunto ad Haran nel Nord del paese e di qui sarebbe disceso in Palestina insediandosi nella zona intorno a Ebron cioè nella zona a sud dell’attuale Gerusalemme tra il mar Morto e la fascia costiera mediterranea. Suo figlio Isacco, come il padre Abramo, nomade di bestiame minuto, si sarebbe stanziato più a sud attorno a Bersabea; ma il clan resta di modeste proporzioni e non riesce ad occupare la terra diventando veramente sedentario. Anche Giacobbe, figlio di Isacco (che avrà da Dio il mutamento del nome in Israele) resterà seminomade nel centro della Palestina nelle campagne circostanti Bethel e Sichem e non avrà la possibilità di diventare un popolo numeroso adempiendo così la promessa dei Padri. Toccherà ai suoi dodici figli realizzare la “promessa” fatta ad Abramo da parte di Dio; diventare in Egitto un popolo grande e numeroso; ed occupare poi stabilmente questa terra della Palestina. Infatti un figlio di Giacobbe, Giuseppe venduto in Egitto riesce ad occupare una notevole posizione nell’amministrazione statale facendo evitare, grazie ad una politica economica lungimirante, una carestia che si abbatté anche sulla Palestina dove dimoravano gli altri fratelli, i figli dì Israele. Questi scendono in Egitto per sfuggire alla fame, rincontrano il loro fratello Giuseppe e si stanziano nella terra a oriente del delta del Nilo, la terra di Goshen, dove aumentano di numero a tal punto da far paura, come minoranza etnica non integrata al potere egiziano. Si ha allora una politica demografica di contenimento da parte del faraone e un asservimento sempre maggiore degli Ebrei che sono adibiti alla costruzione di due città deposito per l’Egitto, come schiavi costretti a lavori duri e pesanti. Nel corso di tale primitivo controllo delle nascite, mediante l’uccisione dei figli maschi al momento del parto, viene salvato un bambino ebreo che sarà allevato nella famiglia del faraone ricevendo il nome di Mosè.

Il piccolo popolo ebraico nel frattempo si era ingrandito, (forse non oltre qualche migliaio, però non possiamo stabilirlo con certezza). Il Faraone di quel periodo, Ramses II, (erano già passati 300 anni dalla cacciata degli Hyksos) si dà ad una grande politica di costruzioni e approfitta di queste popolazioni immigrate, le sottomette in maniera ancora più forte, le rende schiave; Ebrei ed altri sono costretti a lavorare per questa politica di grandezza edilizia, per la costruzione della città di Ramses e di altre città. Si sa che Ramses fu un grande faraone e costruttore.

Qui comincia l’Esodo vero e proprio. In questa situazione di oppressione, di sfruttamento sorge una coscienza nuova in mezzo a questo popolo e soprattutto per mezzo di una persona; Mosè. Egli si sente legato a questo suo clan, a questo suo popolo, che Dio ha portato fino in Egitto. Conosce la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe e dei suoi fratelli; ed è imbevuto dell’idea che Qualcuno guida la storia di questo popolo. Mosè vede il suo popolo non soltanto nella situazione attuale di oppressione, ma lo vede nella sua storia passata e anche proiettata verso il futuro; ricorda le promesse fatte ad Abramo “Farò di te un grande popolo (Gen 12,2). Alla tua discendenza io darò questo paese (12,7) … In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra (12,3)”.

\\\   PRIMA PARTE: DIO AFFIDA LA MISSIONE’A MOSE’

Esodo capp. 1 – 6.

Il primo capitolo ci presenta lo stato di oppressione del popolo e la missione «affidata a Mosè.

LETTURA: Esodo 1, 1-7.

  1. 1: “I nomi dei figli d’Israele”. Il significato di queste sono le generazioni del popolo di Israele e sono dodici, compreso Giuseppe che si trovava già in Egitto.
  2. 5: Il numero 70, insieme con il numero 12 stanno ad indicare che inizia una nuova storia; non si tratta di un calcolo di censimento, ma di una visione e di una presentazione di Israele come unità; si tratta del nucleo etnico e dinamico che inaugura una partenza. Ma quante persone sarebbero state? Gen. 12,17 parla di 600.000. Forse la traduzione migliore è 600 gruppi, e non solo di Ebrei. Si può pensare a qualche decina di migliaia.
  3. 7: …era una regione nella zona del delta del Nilo verso Est, una terra chiamata la terra di Ghosen.

.a)   Mosè solidale con il suo popolo

LETTURA: Esodo 1, 8-22 ( cfr GRELOT, P., “Pagine Bibliche”)

E’ qui che si inserisce la storia di Israele, la storia di Mosè; è una specie di sguardo globale del rapporto tra il faraone e questo popolo. Esso era una piccola cosa; le 70 persone potevano essere diventate qualche decina di migliaia, non più.

Ed in questo quadro nasce Mosè (la storia della sua nascita è chiara: c’è da tenere presente che qui niente è a caso). Alla corte del faraone questo uomo ebbe una formazione che non avrebbe potuto avere in mezzo al suo popolo; formazione culturale, religiosa, tecnica, militare; questo metteva Mosè in una posizione nettamente differente da quella dei suoi connazionali. Egli sa anche la storia dei suoi padri, di un popolo chiamato da Dio, cui Dio ha fatto una promessa.

Sentendosi totalmente ebreo, come prima cosa aspira a comporre queste due situazioni cioè mettere d’accordo la popolazione ebraica con il dominio dei faraoni; ma non ci riesce.

LETTURA; Esodo 2, 11-15:

Gesto profetico di Mosè e fuga in Madian

  1. 11; “Cresciuto in età” dice una premessa; in Atti 7,23 si dice: “Mosè stava per compiere i quarant’anni”: Mosè sta per rompere con il passato (“si recò dai suoi fratelli”) e si accorge della loro condizione servile (“Vede un Egiziano che colpiva un ebreo, uno dei suoi fratelli”)
  2. 13: quando c’è la miseria, è difficile trovare l’unità; gli Ebrei non si sentono popolo.
  3. 14: I due non solo non si lasciano persuadere, ma il prepotente fra i due insulta Mosè e minaccia di rivelare il suo operato del giorno prima.

E’ una storia molto sommaria, si procede proprio per caposaldi, si mette in evidenza soltanto i fatti fondamentali; non è una specie di romanzo storico dove sì raccontano minutamente tutti i fatti avvenuti.

.b)   Mosè fugge nel deserto

Spesso, quando si rompe con il passato si va incontro ad un tempo di ritiro, di solitudine e di separazione. Mosè scappa a Madian, nella penisola sinaitica, nel deserto e ci rimane per 40 anni, ed è qui che avviene la vera maturazione di Mosè. Nel deserto fa il pastore; si associa ad una tribù di nomadi (i madianiti); sposa Sefora, figlia di un capo-tribù, Jetro; gli nasce un figlio.

Allora nel deserto Mosè fa un’esperienza veramente straordinaria. Sono 40 anni di scavo nel suo interno, di meditazione, di preghiera, di ripensamento di tutta la storia dei padri; c’è tutta la costruzione di un mondo nuovo, che va sorgendo; il mondo nuovo è tutto il legame tra la storia precedente del suo popolo e la situazione attuale e da qui la scoperta della sua missione, che non scaturisce da un fatto sociale, politico, ma soprattutto da un fatto religioso; Mosè, nel suo contatto con Dio, scopre una cosa grande: è Dio che lo manda a liberare il suo popolo.

.c)   L’idea giusta di rivelazione

Nel cap. 3 troviamo il punto centrale: la rivelazione di Dio. Quando si parla di rivelazione di Dio si è portati a pensare ad un dialogo registrabile; Dio parla, Mosè risponde. Non ci si può mettere su un piano miracolistico; si tratta invece di esperienza religiosa; Dio parla = Dio si rivela. Non si tratta però di una specie di fantasma di Dio; Dio si rivela attraverso gli avvenimenti, le cose. E’ Mosè che si rende conto, è Mosè che capisce e sente presente Dio. La sua presenza non è immaginazione, è realtà.

Mosè si è maturato, non però al di fuori dell’intervento di Dio, della sua volontà e del suo aiuto. Dio parla, fa sentire la sua voce; tuoni, lampi, bufera, fuoco, sono solo l’espressione religiosa di un modo che si è maturato dentro Mosè, ma che lui percepisce non totalmente come suo, ma come qualcosa che gli viene dall’esterno, che gli viene imposto dall’esterno. Questa è presenza di Dio, una presenza che è tutta dentro. C’è anche qualcosa di esterno (la rivelazione del roveto, la rivelazione del Sinai) che serve soprattutto come segno da meditare, come punto di riferimento che scuote, che spinge l’uomo ad entrare di più in contatto con Dio, a sentirsi, direi, quasi portato da questi fatti, avvenimenti, circostanze a spogliarsi ancora di più per poter accogliere meglio la presenza di Dio, E’ un Mosè che nel deserto fa l’esperienza straordinaria, di solitudine, di preghiera.

(Fra’ Carlo Carretto, avete letto nei suoi libri, tante volte ritorna su quest’idea; l’idea del deserto che ti dà il senso della tua piccolezza, del tuo niente, dell’affidarti a qualcuno; il deserto matura in questo senso). Mosè fece quest’esperienza straordinaria.

.d)   Dio chiama Mosè

LETTURA; Esodo 3, 1-15

  1. 1: Siamo al monte di Dio, l’Oreb. Doveva essere un luogo che aveva un legame particolare con il fatto religioso, non più di questo; (come noi oggi diremmo Loreto, oppure per i nostri vecchi il monte dell’Ascensione); era un fatto religioso ben preciso che richiamava alcune idee: la divinità, il Dio che è presente, il luogo dove si sente Dio maggiormente presente.
  2. 2: Qui è linguaggio religioso ed è l’esperienza religiosa; si può pensare anche al fuoco; non sappiamo qual’è l’esperienza religiosa in sé e per sé; quello che conta adesso è il colloquio, ed è percezione di qualcosa di straordinariamente nuovo e potente.
  3. 6: Qui si sente tutta la meditazione di Mosè che ha sempre un legame con la storia, Non dice: “Io sono Dio” e basta; è troppo poco. Ma è il Dio legato alla storia, legato ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe, a Mosè, al popolo, e altro. Quest’idea è fondamentale. E’ il Dio dei padri: il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe (e noi dovremmo aggiungere: il Dio di Mosè, di Gesù, della Chiesa, e altro). Da Bibbia non conosce il Dio in genere, il Dio dei filosofi, ma conosce il Dio dei Padri, il Dio di Gesù, e altro.
  4. 7-10: Ed e altro il fatto nuovo, legato al passato, cioè la situazione presente. In fondo i padri (Abramo, Isacco, Giacobbe) venivano da questa terra, dove erano tutti questi piccoli popoli.
  5. 11: Dinanzi alla missione, dinanzi al futuro, c’è il senso della titubanza.
  6. 12: La vera prova è a fatto compiuto. Quindi Dio dice: “Accetta, credi. Sono con te, perché te l’ho detto; ma lo saprai in una maniera sicura quando tu, fidandoti della mia parola, l’avrai realizzata; allora toccherai con mano che io sono con te”. La prima cosa che viene chiesta è la fede; accetta. Mosè medita profondamente tutta la storia passata, la situazione presente, quello che lui dovrebbe compiere, la impossibilità umana di realizzare un confronto tra lui e il faraone.

Qui si capisce come il fatto che Mosè sia stato educato a corte non sia una pura casualità; Mosè non sarebbe potuto arrivare a mettersi in confronto con il faraone, se non lo avesse conosciuto, se non avesse avuto un tipo di cultura e di capacità da poter stare a confronto con quella stessa cultura; poteva essere capo solo uno che poteva immettersi in quella situazione. (Questo avviene anche nella liberazione del mondo colonialista di oggi; hanno studiato in Inghilterra un Gandhi e un Nehru. La liberazione parte da chi sta in una preparazione alla pari, per lo meno da un punto di vista umano. Così è di Mosè).

La situazione di Mosè è veramente ancorata nella storia; quindi non si tratta di miracolismi; c’è una storia, ci sono i fatti, ci sono delle relazioni, c’è in questo uomo una visione religiosa profonda, una forte maturazione religiosa.

.e) Dio rivela il suo nome 

  1. 13-15: questa è la celebre pagina della rivelazione del nome di Dio. Che significa questo “Io sono“? In fondo qui Mosè arriva al culmine del suo contatto con Dio, cioè scopre Dio; o meglio Dio si fa scoprire. Ormai Dio ha lavorato talmente dentro che diventa luce e gli si rivela. Oggi per noi un nome è solo un segno, un fatto tecnico; per gli orientali il nome è tutto. Nel mondo ebraico il nome è la stessa persona, ma colta come relazione attiva a tutto l’universo:

– quando uno conosce il nome di una persona, conosce tutto di essa;

– quando uno dà il nome a una cosa significa che ne ha il possesso;

– quando uno comunica il suo nome è già nella relazione più stretta;

– quando portano lo stesse nome, significa che sono già una cosa sola (ricordate, per es. la Genesi; l’uomo e la donna portano lo stesso nome “Ish” e “Isshah” perché sono una sola cosa, sono della stessa carne).

Quindi la cosa più importante è che l’esperienza religiosa porta Mosè ad una relazione strettissima con Dio, fino ad una comunicazione per sonale: Dio comunica il suo nome.

Che significa il suo nome; “Io sono colui che sono”? Possiamo spiegarlo così;

.1.   – “Io sono colui che sono” nel senso che sono colui che esiste, colui che sta sopra ogni cosa, colui che è al di sopra di te, di Israele, dell’Egitto e di tutti gli dei.

.2.   – Oppure: “Io sono colui che sono” e tu non ti stare ad interessare tanto di me, non voler pretendere di comprendere me; comprenderai me a mano a mano che si camminerà nella storia. Adesso quindi “Io sono colui che sarò”, sarò colui che mi ti rivelerò man mano che tu camminerai con me attraverso la storia: quindi tanto più andremo avanti tanto più mi conoscerai.

.3.   – “Io sono colui che sarò” = sempre presente ed in azione lì, con Israele e per Israele; mi capirai sempre meglio come “il presente, il vicino, il liberatore”, mentre gli dei dell’Egitto daranno prova di non essere niente, di essere “non-Jahvè”.

.4.   – “Io sono colui che sarò” e ciò dipenderà solo da me. Le azioni che farò per te, Israele, sono scelte da me, volute da me; a te spetta solo il credere. Dio è infinitamente vicino all’uomo, e tuttavia è sottratto alla sua presa.

L’interpretazione migliore potrebbe essere la seconda: “colui che sono”. In fondo è anche un fatto profondamente umano; tanto più due stanno insieme, camminano insieme, tanto più uno si rivela all’altro; così in un certo senso e Dio; quanto più ti lasci prendere da Dio, quanto più cammini insieme con Lui, tanto più ti si rivela; tanto più lo conoscerai, tanto più tu scoprirai quello che è, e tanto più ne capirai la assolutezza piena.

“Sarò quel sarò”; non finirai mai di scoprirmi e attraverso la storia troverai sempre una nuova possibilità di penetrare in me, di scoprirmi, di comprendermi, di essere con me. Non è che Dio non gli vuole dire il nome, ma il nome indica quasi la futuribilità di Dio stesso, di un Dio che quasi diviene. Certo non diviene in sé, diviene nella sua storia, nella tua comprensione, non comprensione intellettuale, ma comprensione di realizzazione, di storia. E’ un po’ come il nostro “farci”; noi ci facciamo mentre operiamo, mentre camminiamo; attraverso la storia scopriamo, in un certo senso, anche il nostro nome, la nostra persona. Così possiamo dire di Dio; quanto più tu cammini con Lui, tanto più lo scoprirai. Questa per Israele deve essere la caratteristica fondamentale di Dio.

Vedremo più avanti, che, quando Mosè tenta di arrivare a vedere Dio faccia a faccia, Dio dice; “No, è impossibile; chi vede Dio muore” (Es 33,20). Ciò dice la inaccessibilità di Dio; non soltanto come fatto intellettuale, ma nella tua storia, una storia quindi che cammina.

Da notare ancora: nella rivelazione di questo nome c’è implicito il legame ai padri, una relazione che diventa più. personale perché Dio rivela il nome e crea una tensione verso il più in là, verso il futuro.

.f) La missione di Mosè

Mosè riceve la missione di andare, ma lui non vuole e cerca di rifiutarsi; “Io non sono un buon parlatore … ma sono impacciato di bocca e di lingua (Es 4,10)”. Dio gli risponde; “Non vi è forse tuo fratello Aronne? Parlerà lui al popolo per te” (4,14-16),

E’ una resistenza di Mosè. Ma la luce e la pressione di Dio diventano una forza, qualcosa di interiore talmente dirompente che Mosè non può sottrarsi e quindi va, diventato capace, e forte della forza stessa di Dio.

Il cap. 5° narra i primi contatti con il faraone; è bellissimo. L’autore ha colto un momento della psicologia dell’uomo che è quanto mai vero e attuale. Quando si comincia un’opera, tutto presenta ostacoli, gli altri non ti danno ascolto e ad ogni difficoltà che incontri ti dicono; “Ma vedi che non ce la fai? Lasciaci in pace”.

Questa è stata l’esperienza terribile di Mosè; al primo tentativo le cose non vanno e sono i suoi stessi connazionali che dicono: Lasciaci in pace (cfr. 5,21); ed occorre una forza proprio straordinaria per superare quel momento iniziale.

LETTURA; Esodo 5 = Incontro con il faraone e reazione degli Ebrei

  1. 1: Va notato il significato religioso di tutto il racconto. L’opera ha anche un significato sociale; gli Ebrei erano oppressi e devono essere liberati; c’è un significato sociale e politico, perché è una tribù che si vuol sottrarre al dominio nell’ambito dell’Impero faraonico. Ma il significato fondamentale è quello di un fatto religioso, cioè è un popolo al quale Mosè tenta di dare una coscienza religiosa, la quale prende tutta quanta la vita di questo popolo e quindi anche il fatto politico, sociale, culturale. Ormai questo popolo verrà a trovarsi scardinato dall’ambiente in cui sta, per immettersi in una nuova cultura. Questo fatto però prende una coloritura religiosa. La religione penetra in tutti gli aspetti della vita e quindi è logica la conclusione: “Andiamo a celebrare una festa religiosa nel deserto”.
  2. 3. Noi sentiamo che questo è nostro dovere, se non lo facessimo, ci sentiremmo come puniti da parte di Dio.
  3. 4. Per il faraone: non andassero a raccontar fandonie, a mettere grilli per la testa. Qui c’è tutta un’angolatura politica: “tornate ai vostri lavori forzati”.
  4. 6; Si aggrava la situazione.
  5. 7-9: Pagina stupenda e attualissima; c’è sotto un’analisi sociologica straordinaria. Si descrive che quando si acquista una conoscenza nuova, gli altri non ti capiscono, anzi ti opprimono e cercano di tagliare le risorse, accrescendo così la fatica.\

Parte seconda  –  ESODO Capp. 12-15

.A)   La Pasqua ha riti che rievocano l’uscita dall’Egitto e comporta due elementi: l’uccisione dell’agnello e cibarsi di pani azzimi. Difatti la Pasqua veniva celebrata così; si toglieva tutto quello che era pane vecchio, fermentato e si cuoceva del pane azzimo, quindi non lievitato (una specie di pizza, sotto il fuoco; ancora oggi gli ebrei lo fanno; lo chiamano mazzòt) e uccidevano l’agnello; la famiglia si riuniva e mangiava l’agnello completamente ed i pani azzimi, la festa in sé e per sé, nel rito, si stabilisce dopo gli eventi. E’ festa posteriore che risente di due gruppi di gente che si sono uniti tra di loro:

– l’agnello risente di una festa di tipo pastorizio; quando è primavera i pastori celebrano la festa dell’anno nuovo e la celebrano normalmente con danze e uccidendo un agnello e mangiandolo arrostito;

– gli azzimi risentono invece di un altro ambiente, quello agricolo; finisce una stagione, un periodo, ne inizia un altro; viene tolto tutto il vecchio, si prende il nuovo; e si celebra questa festa, segno di novità, con i pani azzimi.

Israele, una volta uscito dall’Egitto, è rimasto nel deserto dei Sinai per lungo tempo (40 anni) e là si è unito con tanti altri gruppi, con cui aveva una certa parentela. Gli Ebrei dall’Egitto portavano queste tradizioni che sono diventate tradizioni comuni di tutti, docilmente si sono fuse due feste; la festa pastorizia dell’anno nuovo con l’uccisione dell’agnello, la festa agricola (delle tribù del deserto) dell’anno nuovo con il pane azzimo; queste due feste unite insieme ci hanno dato la celebrazione della Pasqua descritta al cap. 12.

Però ecco il passaggio; in sé e per sé queste feste esistevano già nell’ambito di queste tribù, però acquistano ora un significato tutto nuovo, il significato storico. Prima era celebrazione di un significato puramente religioso, di una religiosità tipica dell’uomo, il quale celebra l’anno nuovo con una festa per propiziarsi gli dei. E’ religiosa, e non possiamo dire civile, perché nella antichità la religiosità abbracciava tutto; però una religiosità che è su un piano naturale; è il propiziarsi la divinità, il rendersela benigna per nuovi raccolti, per la fecondazione dei greggi e così via. Ora avviene il passaggio ad una religiosità che è su un piano di incontro con Dio e su un piano storico; questa festa coincide con l’uscita, del popolo ebraico dall’Egitto e quindi diventa commemorativa di un intervento salvifico di Dio a favore del suo popolo ed è il fatto fondamentale di questo popolo. Allora non più festa naturale, di propiziazione della divinità, ma festa commemorativa, festa di memoriale.

Questa celebrazione poggia su tre segni ben precisi; l’agnello, gli azzimi, i primogeniti; è facile riconoscere nel testo questo schema, abbastanza lineare; di ogni segno si descrive la istituzione, il rituale (cioè il modo della celebrazione) e la catechesi per coglierne il significato: agnello, azzimi; primogeniti. Dall’Esodo:

AGNELLO: istituito: 12, 1-14; rito: 12, 21-25; catechesi: 12, 26-27

AZZIMI: istituito: 12, 15-20; rito: 13, 3-7; catechesi: 13, 8-10

PRIMOGENITI: istituito: 12, 29-36; 13, 1-2; rito: 13, 11-13; catechesi:13, 14-16

\ LETTURA; 12, 1-14 e 12, 21-27

  1. 2: “primo mese dell’anno” è Obib, il mese della spiga, della primavera. Dopo l’esilio, si chiamerà Nisan. Il testo insiste sul “primo mese dell’anno” perché prima del regno di Giosia l’anno incominciava dall’equinozio di autunno (21 Settembre). Forse è per distaccarsi da feste pagane celebrate in autunno.
  2. 5: “maschio”; è la sorgente della vita, valore supremo, “nato nell’anno”; è offerto come primizia, forte prima e migliore. Nella mentalità religiosa di Israele e di tutti quanto Semiti, i primogeniti maschi (perché la donna non contava) appartenevano alla divinità, venivano consacrati ad essa e riscattati: il primogenito appartiene a Dio sia degli uomini che degli animali. E’ legge comune già al tempo dei patriarchi (in fondo Isacco che viene sacrificato significa questo: il primogenito deve essere offerto ma Dio lo proibisce. Prima di Abramo era un fatto reale: il primogenito veniva sacrificato, ucciso; quando si fondava una città, il primogenito del re veniva messo sotto le fondamenta; quando si costruiva una casa si sacrificava il primogenito). Israele viene salvato e riscattato e Israele è il primogenito; “Tu sei il mio popolo primogenito … Tu mi appartieni e tutti i tuoi primogeniti mi appartengono”. La liberazione dall’Egitto ha proprio il significato di riscatto, di compera, di liberazione da parte di Dio e nello stesso tempo significa anche condanna dell’Egitto e dei suoi primogeniti.

v.7: sangue agli stipiti: è un rito antichissimo in oriente (è ancora attestato ai nostri giorni), rito di difesa contro le disgrazie, i nemici, gli influssi cattivi.

v: 8: il pasto si fa di notte: con gli altri particolari è facile pensare ai pasti-sacrifici dei nomadi.

v: 11: “E’ la Pasqua del Signore“. Il Signore passa, ma non castiga (cioè oltrepassa e salta) le case asperse con il sangue.

v: 14: “memoriale“: è faro un’azione che rende presente ed attuale la realtà ricordata.

Da notare che i vv. 12-14 vogliono stabilire con il brano precedente un legame sul piano della storia dell’Esodo.

.b)   Gli azzimi (La settimana degli azzimi)

LETTURA; 12, 15-20 e 13, 3-10.

Per una settimana dovevano cibarsi di azzimi. Era una festa agricola che gli Israeliti hanno trovato presso altre tribù sedentarie ed hanno adottato a loro volta.

L’unione all’evento dell’Esodo per il rito dell’uscita appare artificiosa (v. 17). Da tenere presente che “fermentazione” includeva per loro l’idea di corruzione e quindi di impurità: per questo dovevano essere usati pani azzimi.

Nei vv. 3-7 si descrive il rito; nei vv. 8-10 si fa la catechesi.

.c)   I primogeniti LETTURA; 12, 29-36; 13, 1-2; 13, 11-16

E’ vero che quella notte sono morti tutti quanti i primogeniti degli egiziani? E’ difficile poter dire questo. Può darsi che nella notte ci sia stata una mezza strage, che alcuni egiziani siano stati uccisi e così via. Però per Israele quello che conta è questo: Israele è il primogenito tra i popoli, i primogeniti di Israele sono riscattati, mentre l’Egitto non è riscattato, rimane nella tenebra dell’idolatria e della oppressione; quindi il fatto non va interpretato in chiave realistica di uccisione di tutti i primogeniti egiziani, ma sotto una tipologia e un significato traslato; cioè Israele viene salvato. I primogeniti sono ormai coloro che daranno nuova forza, nuovo vigore, a Israele, l’Egitto sarà distrutto.

Nei vv. 11-13 si descrivono i riti per l’offerta dei primogeniti.

  1. 14: Notate: “Risponderai a tuo figlio …” ecco il memoriale, ecco la storia. Quindi la festa prende un significato tipico di memoriale e il celebrarla significava riattualizzare questa salvezza; il Signore viene ancora a salvarmi, mi immette lui nuovo in questa linea. Quindi celebrare la Pasqua è tutto per Israele, è la festa più grande, significa mettersi in questa storia che è storia passata, ma è storia presente perché tu, celebrando, rinnovi la tua salvezza e cammini verso il futuro.

Ecco il significato della festa della Pasqua: Israele esce, ma quando ripensa alla sua storia, celebra questa festa; la celebra nella ricorrenza di quella che era la Pasqua, il passaggio, l’intervento del Signore; e quella che era una festa puramente di tipo tradizionale, naturistico, diventa una festa tipicamente storica, ricordo di un evento salvifico, di una liberazione storica di Israele dall’Egitto e Israele acquista la coscienza di essere salvato, di essere come un popolo nuovo.

.B) Il passaggio del mare dei giunchi

Dal cap. 13,17 al cap. 15 si narra la partenza degli Ebrei ed il passaggio del Mar Rosso. Non si accenna alla storia precedente; le lotte, i contrasti, qui sono taciuti, ma finalmente questo popolo si libera.

Mosè, da persona intelligente, non prende la strada più comoda, ma la più difficile. Non prende la via del mare, la carrozzabile, la via degli eserciti (oggi la chiameremmo l’autostrada). Mosè, che era stato nella terra di Madian per 40 anni, prende la via del deserto; arriva dove si dice oggi presso le vicinanze di Suez, sul golfo del Mar Rosso; ed aspetta il momento propizio (sarà la bassa marea? sarà quel che sarà). Il popolo, al momento favorevole, entra e passa. Quando gli egiziani si immettono per la stessa strada, a causa dell’alta marea o di un vento, o di altro ostacolo, non riescono a passare e si trovano imbrigliati e si verifica il disastro militare, senza che gli Ebrei intervengano; e sono liberi.

Tutto questo evidentemente viene sempre più rivisitato e rimediato sotto la linea: Dio è il Signore che guida la nostra storia, è il Dio che ci libera; questo è l’intervento di Dio per la nostra salvezza. E tutto questo viene sempre celebrato nella Pasqua. (Il cap. 14 racconta il passaggio del Mar Rosso, il cap. 15 ne è il cantico, come un inno di lode).

Ma il popolo ebreo, che sentiva questa narrazione nel momento liturgico, pensava veramente che il mare si era aperto? Lo prendeva cioè in senso miracolistico? Se leggiamo il cap. 15 e i salmi 105; 136, vediamo che questo non c’era. Questa narrazione è memoriale, ricordo, cioè diventa liturgia, celebrazione di Dio. Ora la celebrazione di Dio viene fatta non su una base mitica o naturistica, ma su una base storica. La. liturgia canta, celebra la salvezza che è venuta da Dio, la realizzazione del suo piano, la sua onnipotenza; tutto questo evidentemente ha i caratteri dell’epopea. (In epopea, con altri significati, i cicli omerici hanno cantato le lotte degli Achei con i Troiani; l’Orlando Furioso ricorda le lotte del periodo dei Carolingi e così altri).

Questo di Israele non è però solo fatto civile, ma è fatto religioso in tutti i suoi aspetti. Nell’epopea il discorso diventa grandioso, immaginifico; Dio quindi interviene con folgori, lampi e tuoni, le acque si dividono, cavalli e cavalieri cadono in acqua. Questa descrizione non vuol presentare l’evento storico così com’è avvenuto, lo vuol celebrare; la cosa è differente. Altro è la celebrazione una liturgia e altro è un racconto così come noi oggi lo vorremmo con la nostra mentalità tecnica. La celebrazione è in una linea che va al di là della ripetizione puramente documentaristica. Oggi siamo abituati alla cinepresa e allo storico che presenta i puri fatti. Non è questo! Dobbiamo metterci quello che sta al di là dell’espressione documentaristica; il fatto religioso diventa talmente globale nella vita dell’uomo e nella vita della religiosità di un popolo che travalica l’esigenza di un’adesione, strettamente storica, all’evento. Quindi l’autore non tradisce l’evento in sé e per sé, lo celebra, Io esalta e diventa grandioso, straordinario (nell’inno “Fratelli d’Italia”, è tutta un’Italia che si è mossa, invece sono stati solo dei risorgimentalisti che hanno fatto quel po’ che hanno fatto; però nella celebrazione civile c’è tutta un’esaltazione).

La gente pensa immediatamente alla sua storia, guidata da Dio. E’ un genere letterario; e sarebbe ingenuo ritenere che Israele scambiasse la storia con la celebrazione liturgica, che ha bisogno di questa coloritura, per essere veramente celebrazione.

E’ certo che Mosè ed i profeti sono aderenti alla storia; e questo non nega il fatto miracoloso. Ma noi corriamo il rischio di rendere il miracolo mitico, affascinante, non storico. Il miracolo invece sta nella storia; il miracolo più grosso è la storia che si realizza, che cammina e che la parola di Dio interpreta per te. In questa storia ci sono anche degli eventi che diventano tipici, significativi, più pregnanti di significato e acquistano un significato differente che per noi è miracolo, per un altro, che sta al di fuori, è niente. Il miracolo quindi va letto nel contesto della religiosità, perché se non ci si immette in quel senso lì, il miracolo non dice niente; in un certo senso dipende dall’interpretazione. Non si vuol negare che non sia un fatto storico, una realtà percepibile, però, come tale, è anche suscettibile di interpretazioni differenti. Cioè a me la realtà si svela in quella situazione che è reale. La si può leggere anche sotto altre linee, ma è un leggere che travisa la realtà, perché in quel momento Israele non poteva leggere la storia che in quella linea lì era il significato vero, profondo.

(I santi, che sono i tipici esempi dell’esperienza religiosa ben vissuta, sono quelli che sanno connettere la storia generale e la storia particolare con questo legame, con la lettura religiosa della presenza di Dio.

E quanto più uno ha l’esperienza di Dio, tanto più sa leggere nella storia globale e nella propria vita il rapporto con Dio),

C ) Un inno – preghiera

Il cap. 15 va letto in atteggiamento di preghiera, perché è veramente preghiera: era la preghiera di Israele. Si può parlare di preghiera, se non ci mettiamo in questo senso storico? La nostra preghiera spesso è piccola, egoista, gretta, individuale, chiusa dentro l’ambito di noi stessi; chiediamo soltanto e non abbiamo i grandi ritmi della storia; ci manca questa formazione, la prospettiva della vita, e l’apertura al senso- storico della vita. Gli Ebrei invece no pregavano così, e la Bibbia prega con cuore aperto a tutti. Nei salmi si ritrova questa apertura immensa alla storia: è il piano di Dio che va avanti, è la realizzazione delle promesse di Dio (quindi della storia) che cammina.

Dovremmo metterci in questa grande prospettiva, come ci si è messo Cristo pienamente. Tante volte tradiamo Cristo, perché non conosciamo ciò che ha preceduto Cristo, cioè la storia biblica, la preghiera autentica diventa memoriale, diventa celebrazione degli interventi di Dio dei “mirabilia Dei”(opere meravigliose di Dio), dei fatti grandiosi attraverso cui Dio ha guidato la storia del suo popolo. Grandiosi non nel senso di strabilianti eventi, ma che il popolo ha visto quelli come i cardini, i punti fermi e fondamentali, decisivi attraverso cui la sua storia è andata avanti.

La preghiera nella Bibbia è prima di tutto celebrazione, lode, ringraziamento; questo il punto cardine della preghiera. Anche per gli israeliti esisteva la preghiera di richiesta, ma il quadro era sempre quello della realizzazione del piano salvifico di Dio in cui tutto Israele e il singolo individuo si trovavano immersi. Questa è una prospettiva tanto differente da quella che noi facilmente abbiamo. Al cap. 15 c’è una preghiera, un inno, una celebrazione in un certo senso è anche inno nazionale, ma è soprattutto preghiera.

LETTURA: Esodo 15, 1-26 = Canto di vittoria: “Cantate al Signore, perché ha mirabilmente trionfato

  1. 3: guardate quanti elementi storici trovate qui: “Il Dio di mio padre” (questo è legame con la storia); “Il Signore è prode in guerra” (questa è una vera e propria guerra); “Jahvè è il suo nome” (questo nome che non è soltanto Dio in genere, ma Jahvè).
  2. 5: “sprofondarono” è l’esaltazione del fatto; raccontato descrivendo: veramente quelli che inseguivano sono morti.
  3. 7: “sublime maestà” Dio qui è descritto anche con i sentimenti umani: l’ira, la lotta; questo va da sé.
  4. 8: “si alzarono le onde” una metafora potente: Dio è visto come una specie di mostro che soffia.
  5. 10: “soffiasti”. Non vuole dire tanto il fatto, fa riferimento agli elementi naturali, agli eventi; Israele sa e sta constatando che questo popolo, che lo inseguiva, non l’ha potuto raggiungere. Siamo noi che ci fermiamo troppo sul miracolistico e meno sulla storia, per cui, invece di vedere il cammino della storia, abbiamo visto soltanto l’episodio singolo, staccato e in una luce falsata
  6. 10-20 e seg.: la storia cammina; si ripete ad ogni enunciato “perché eterna è la sua misericordia“. In fondo il senso è lo stesso inno di Esodo 15.

Questa la liturgia, la preghiera di Israele: è un camminare nella storia e un continuare questa storia, un metterla sempre in rapporto al futuro, Israele ha percepito questo legame; la rottura con Dio significa negare la storia come vera costruzione (lo vedremo nella terza parte).

E’ nella storia che tu rovini te stesso (e questo è vero anche oggi; il rifiuto di Dio è la negazione del cammino della storia). Questo diventa fondamentale in Israele, è proprio il cardine.

A P P E N D I C E   LA PASQUA DI CRISTO

In fondo Cristo che cosa ha fatto? ha celebrato la Pasqua sotto questa linea. (Noi adesso ci immettiamo nella sua Pasqua, ma mettiamoci nella mentalità degli apostoli). Cristo ha celebrato la Pasqua ebraica che era anche la sua Pasqua, ma perché era la sua storia.

Noi siamo portati a sottolineare quasi un piano preordinato di Dio; doveva arrivare lì, doveva scontare, pagare a posto nostro. Invece Cristo celebra la Pasqua ricordando tutta quanta la storia del suo popolo; però ci mette la sua, nel senso che lui ha annunciato il Regno, ha portato quello che Dio-Padre gli aveva dato, la sua preghiera è stata l’esperienza del Padre. E come Mosè nel deserto ha conosciuto qual era il piano di Dio, così Cristo conosce il piano del Padre e lo realizza. Annuncia il Regno.

Non si mette su un piano di liberazione politica, si mette su un piano molto più vasto, che è di liberazione totale umana; l’annuncio del Regno del Padre e dell’amore, le sferzate terribili contro l’ipocrisia (degli Scribi e dei Farisei) e contro tutto il male. Questo lo mette in contrasto con tutto l’ambiente. Per Cristo celebrare la sua Pasqua significava non rinunciare a questo piano; la fede di Cristo (possiamo parlare anche di fede!) è accettare totalmente questo piano, portare l’annuncio che il Padre gli ha affidato anche se sa che questo lo porterà a cozzare con il mondo circostante, con le autorità e lo porterà alla morte.

Gesù celebra la Pasqua del suo popolo e la sua Pasqua; e questa diventa la Pasqua definitiva. Gesù risponde totalmente al Padre nella fedeltà; in lui rispondono a Dio Israele e l’umanità.

Questo è il mio corpo dato per voi“, è l’estremo atto di devozione al Padre e agli uomini. Come l’agnello e il pane azzimo della Pasqua erano il segno della liberazione di Dio, così ora la vita di Cristo, stroncata dal male degli uomini e offerto al Padre è il segno della nuova liberazione. Infatti come Mosè crede a Dio che gli dice: “Vedrai, quando sarai qui col tuo popolo, che ero io a parlarti e a liberarti”; così Gesù, il Figlio, crede al Padre, che dona la vita; “Chi avrà donata la sua vita, la ritroverà; il terzo giorno risorgerà”. Ed ecco, dopo la croce, la vita nuova; la risurrezione.

Questa è la Pasqua di Cristo; ed è la Pasqua di liberazione completa e definitiva, perché è per sempre col Padre. Per questo Cristo ci dice; “Prendete e mangiate“, per essere assimilati a Lui e celebrare la nostra Pasqua di liberazione e di vita nuova col Padre,

La liberazione è il culmine, ma non è tutto; il completamento vero è il rapporto nuovo con Dio e quindi l’idea nuova ed importantissima che acquisisce Israele è quella di essere popolo di Dio. Dio dice; “Tu sei il mio popolo, il mio primogenito, sono sceso a salvarti. Io ti ho acquistato, sei il mio primogenito, io ti ho riscattato, ti ho comprato a prezzo, ti ho portato fuori; tu sei il mio popolo ed io sono il tuo Dio“. E’ il culmine della coscienza di Israele. Questi due momenti sono strettamente connessi, il momento della liberazione nel fatto di essere costituito popolo di Dio.

Te r z a   p a r t e: L’ALLEANZA FRA DIO E ISRAELE  (Esodo capp. 19-20 e 24)

Ritorniamo a Mosè. Si è detto della sua esperienza di corte prima (uomo politico e uomo militare); poi della sua esperienza nel deserto (la sua meditazione, anche la conoscenza della vita delle tribù) e quindi Mosè è l’uomo che adesso può dare un’impronta a questo popolo e organizzarlo come tale, in realtà Mosè fino a questo punto è stato, se non proprio un capo-guerriglia, un qualcosa, di simile: è stato un capo che ha tirato fuori il suo popolo, ma non lo ha organizzato.

Ora dà una struttura; mette i 70 capi, fa delle leggi: egli fa tesoro di tutto ciò che conosceva, dà anche una struttura religiosa, e quella fondamentale è la Celebrazione della Pasqua e la Celebrazione del sabato, il giorno di riposo, “Per sei giorni lavorerai” (Es 34,21)

Tutto questo dà significato ad un popolo. Un popolo non esiste senza una struttura, una legge, una cultura, una religiosità. Nel dare le leggi (Es 34) si serve di tutte le sue esperienze; tutto, ed anche la legge viene presentata, come qualcosa che viene da Dio. In fondo si tratta delle leggi che. questo popolo si dà o che questo popolo accetta, da parte di Mosè. Di fatti nei capp. 20 – 24 c’è in sintesi la legge di Israele ed è una legge che ha molto in comune con le legislazioni antiche. (Pensate alla grande figura di Hammourabi o dei grandi legislatori dell’oriente antico).

.a)   La religiosità investe tutta la vita

Mosè fa tesoro degli elementi ormai comuni a più civiltà, li prende, ma li mette in un contesto che è totalmente differente: non è soltanto una legge, è la legge di Dio per questo popolo che è stato salvato. Ed allora la vita di questo popolo in tutti i suoi aspetti (familiare, sociale, politico organizzativo) diventa fatto religioso: la vita eterna è stata riscattata e presa da Dio e quindi tutto quello che gli serve per essere popolo viene da Dio. Questa è una cosa importantissima perché la religiosità non è vista come fatto cultuale ma come fatto di vita: non esiste una religiosità-culto, esiste una religiosità-vita, il culto diventa soltanto memoriale-celebrazione di quello che Dio ha fatto per il popolo: la religiosità è nella vita. (Applicando a noi non sono religioso perché vado a Messa, la domenica, ma sono religioso perché sono giusto, perché mi metto in ascolto della Parola e la pratico, perché voglio bene al mio prossimo, e altro). Pertanto l’incontro con Dio, la religiosità non vista tanto nei riti del culto (quello è un momento della vita, è un momento della celebrazione del rapporto con Dio; diventa, segno della salvezza che Dio continuamente dà), ma la vera religiosità sta nella vita, questo è un fatto fondamentale.

Israele esce da questo concetto di religiosità culturale, magica, che si conclude soltanto nel rito, nella festività, com’era nella mentalità dei popoli circostanti; esce dalla mentalità di una religiosità di tipo contrattuale: Dio non è più quel grande padrone e signore che bisogna tenersi buono con fargli dei sacrifici; donargli un qualche cosa, come se Lui ne avesse bisogno e così a ne ridona altro. Israele si mette in un’altra idea, l’idea che tutto è di Dio, che tutto viene da Lui e che quindi tutto quello che l’uomo ha, è suo e che l’uomo a Dio deve ridare la vita; quindi la vita condotta dalle persone è religiosità ed è cammino verso Dio e insieme è anche il bene dell’uomo. Non è l’uomo a rendere un bene a Dio.

Questa è l’idea geniale di Mosè, cioè l’uomo non può portare a Dio niente con tutta quanta la sua religiosità dinanzi all’assolutezza, alla grandezza, alla sovranità di Dio nella storia: l’uomo non può fare un favore a Dio. Noi invece siamo tentati di partire con questa idea: ti faccio questo favore, ti vengo a sentire la Messa, oppure ti vengo a dire il Rosario o qualcosa di questo genere. L’uomo di allora poteva dire: ti porto la primizia, ti porto i frutti migliori e mi ricambi con la salute, la ricchezza, la fecondità. Niente di quanto l’uomo fa è un atto che ricorda (la celebrazione) l’intervento di Dio. La vera religiosità (punto culminante ed essenziale per la realizzazione dell’uomo) è la vita stessa dell’uomo in tutta la sua crescita. Questa vera religiosità non bisogna scambiarla, con il culto. Il vero culto è un momento della vita dell’uomo in cui si celebra Dio che viene incontro all’uomo. Dio ti offre la salvezza: questa è l’idea fondamentale. Riassumendo:

1- Coscienza di essere popolo di Dio: un popolo che Dio ha fatto, salvato, riscattato. E’ suo, gli appartiene.

2- Una religiosità che abbraccia tutta quanta la vita condotta.

3- Una religiosità per cui tutti sono uguali perché ogni persona riceve tutto da Dio. Non c’è l’uomo particolare. Ad esempio il sacerdote non è colui che ha dei poteri straordinari. Nella religiosità pagana, in genere, il sacerdote ha un potere straordinario per accaparrarsi la divinità, oppure per interpretare i segni delle divinità. In Israele il sacerdote è colui che nell’assemblea guida la celebrazione, il memoriale, il ricordo. Non c’è il concetto di sacerdote come uomo sacralizzato o uomo del sacro. Le persone sono tutte uguali.

4- Mosè, in alcune leggi e specialmente in quello che noi chiamiamo “Decalogo”, è veramente straordinario, pertanto sono diventate leggi comuni per tutta l’umanità e non si trova nell’antichità qualcosa del tutto simile. Mentre per le cosiddette leggi casuistiche (caso per caso, cfr Es 21-23) ci sono tanti esempi nella cultura orientale: il Decalogo è qualcosa di unico, ha toccato la natura umana. Mose è un uomo che attraverso l’esperienza religiosa, a contatto con Dio è stato capace di scendere a fondo e toccare i cardini della stessa natura umana.

.b)   Dio sceglie Israele come suo popolo

LETTURA di Es 19,1-6 = “una proprietà particolare tra tutti i popoli”: la vocazione del popolo di Dio  (sono parole che il popolo ha da imparare a memoria).

Significato: tutto è mio: la terra, le genti, ma voi mi appartenete in maniera particolare cioè nella storia universale quella di Israele diventa una storia tipica, veramente particolare ” la storia della rivelazione di quello che Dio fa per l’umanità, di quello che Dio chiede all’umanità.

  1. 5 “Se custodirete la mia alleanza”: la religiosità è nell’osservanza del patto dell’alleanza, di essere popolo di Dio. “Voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli”. E’ difficile poter rendere bene il termine ebraico “segullah”: la proprietà di una cosa che in sé e per sé non ha nessun valore, ma diventa valore enorme perché è carica di tanti ricordi e di tanto affetto come per un ragazzo la fotografia della sua ragazza può essere un tesoro molto più grande dei soldi, dell’oro perché carica di tanti ricordi e amore; così la fotografia di un figlio morto è tutto per la madre carica di ricordi. Il popolo è quasi il tesoretto (si potrebbe dire); non nel senso che vale tanto, ma per il fatto che ci è attaccato il cuore di Dio.
  2. 6 – “Regno di sacerdoti” è stato detto prima che tutta la vostra vita è un sacerdozio, “Nazione Santa” non nel senso che già non commettete più nessun male, ma nel senso di “siete riscattati, salvati”. In questo senso voi che glorificate me siete gente “santa”.

Quando si parla di fuoco, di tuono, di lampi e altro, è bene pensare che Dio è descritto con gli elementi presi dalla natura e che sono gli elementi delle teofanie cioè delle manifestazioni di Dio.

.c)   Mosè il legislatore

Al cap. 20, 1-17, viene riportato il Decalogo o ‘dieci parole’. Nella redazione attuale dell’Esodo si trova al di fuori del racconto che, interrotto al 19,25, riprende al 20,13 (cfr l’altra edizione in Dt 5,6-22). Il decalogo si presenta innanzitutto come le ’dieci parole’ rivolte da Jahvè, Dio d’Israele, al suo popolo che Lui ha liberato dalla schiavitù egiziana (cfr 19,2). Esso emana dalla volontà del Dio dell’Alleanza, ed è in stretto rapporto con la salvezza del popolo, operata in Egitto; d’altra, parte è parola indirizzata al popolo in quanto legato al Dio dell’Alleanza. Quindi l’unica ragione d’essere del Decalogo è il Patto. Non ha il carattere di un codice di legge naturale valido per tutti, né di un riassunto delle esigenze etiche che scaturiscono dalla coscienza morale dell’umanità. Neppure è propriamente una legge, mai il VT lo chiama legge precettiva, perché sono indicazioni in forma negativa e prive di qualsiasi sanzione. In realtà sono le delimitazioni rigorose dell’ambito in cui Israele può ancora esistere come popolo del Patto in comunione con il suo Dio.

Al di fuori del Decalogo l’israelita cessa di essere membro della comunità dell’Alleanza e Israele cessa di essere il popolo di Dio.

Sarebbe errato pensare il decalogo come la condizione previa che Dio chiede per stabilire la sua Alleanza. L’Alleanza è puro dono di Dio. Il decalogo è da comprendersi come tutela della realtà di comunione del popolo con Dio. Il centro di interesse, pertanto, sta nel rapporto di mutua appartenenza di Jahvè e del popolo, la formula espressiva dell’Alleanza nella Bibbia. “Io il tuo Dio. Tu il mio popolo.”

Accettando il Decalogo, Israele riconosce Jahvè come suo salvatore nella storia, accoglie la grazia divina, e confessa di essere il popolo dei salvati. Non si tratta, soprattutto, di obbedienza ad una volontà imperativa, ma soprattutto di accettazione, nella fede e nella prassi, della volontà e dell’azione liberatrici del proprio Dio.

LETTURA: Esodo 20, 1-17 = Il Decalogo.

  1. 3-12- Solo il 3° (o 4°) e 4° (o 5°) hanno la forma positiva (volere), gli altri hanno la forma negativa (non volere).
  2. 13-17 Gli ultimi comandamenti sono enunciati in forma breve e sintetica. C’è da fare attenzione alle motivazioni contenute nel v. 2 , nei vv. 3-6; nei vv. 9-11. Nota un’ipotetica formulazione originaria del Decalogo:

Non adorerai altro Dio.

Non farai immagine alcuna di Dio.

Non nominerai il nome di Dio invano.

Non lavorerai il sabato.

Non maledirai tuo padre o tua madre.

Non ucciderai.

Non commetterai adulterio contro il tuo prossimo.

Non sequestrerai il tuo prossimo.

Non testimonierai il falso contro il tu prossimo.

10 Non “desidererai” la casa del tuo prossimo.

 

.d) Si conclude l’Alleanza fra Dio e Israele

La relazione con Dio, l’Alleanza, è sancita da un rito esterno. L’uomo non può raggiungere Dio, né far memoriale di Dio se non attraverso gli elementi della sua natura, i riti esterni. Da qui il significato del sacrificio, è il segno dell’Alleanza con Dio. Non ha tanto il significato di un’offerta a Dio, e neppure quello di una espiazione (questo è secondario).

Il complesso racconto dell’Esodo trasmette diversi rituali della conclusione dell’Alleanza.

Nel primo Mosè, Aronne e gli anziani di Israele prendono un pasto sacro alla presenza di Jahvè che contemplano (Es 24,1-2.9-11);

Il secondo sembra riprodurre una tradizione liturgica, conservata nei santuari del Nord. Mosè innalza, dodici stele per le dodici tribù di Israele ed un altare per il sacrificio con l’aspersione del sangue (Esodo 24, 3-8).

Una terza, rappresentazione (javista.) sarà data in Esodo 34.

E’ fondamentale che l’atto sacrificale sia il segno del rapporto, dell’Alleanza con Dio. Difatti Mosè dopo aver parlato con Dio “andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore” e il popolo le accetta. Lettura di Es 24, 3-8 = La conclusione dell’Alleanza, (cfr Dt 27,10; Gs 24, 19-20 ed anche Gs 8, 32-35)

Una tale Alleanza è una relazione di vita e riguarda l’essenziale, la totalità della vita. Poiché “La vita di ogni essere vivente è il suo sangue” Lv 17,14 solo il sangue può essere segno e sacramento di questa relazione vitale tra due persone. Ciò che viene sparso è il sangue, segno della vita, e ciò che vi è di più santo nella vittima. Avere parte allo stesso sangue è prendere parte alla stessa vita e la vita questa volta è Dio, perché a Dio appartiene l’animale immolato. Tra queste parole e quelle che dice Gesù non c’è molta differenza: sono le stesse. Questo è il significato del sacrificio: il sangue è il segno del rapporto dell’Alleanza con Dio (cfr Eb 9,15ss; Mt 26, 28 e paralleli; 1Pt 1,2).

Concluso il patto, diversi oggetti ne perpetueranno il ricordo, attestando nei secoli l’impegno iniziale di Israele: l’Arca dell’Alleanza e la tavola della testimonianza; la Tenda del Convegno dove l’Arca è conservata, luogo centrale del culto. E’ chiaro il legame perpetuo del culto israelitico con l’Alleanza del Sinai, l’atto iniziale che ha fondato la Nazione. Così pure la Legge intera non ha senso se non in funzione dell’Alleanza di cui annuncia le clausole.

Se poi si chiedesse se il popolo di Dio celebrava la Pasqua con consapevolezza, la risposta è affermativa, nel senso che in mezzo a loro c’era chi se ne rendeva conto. Ma in questa consapevolezza ci sono gradi diversificati. E iI culmine di questa consapevolezza l’ha avuto Cristo: quella è stata una Pasqua celebrata proprio in totale libertà. In realtà il Cristo, che accetta totalmente il piano del Padre e va incontro alla morte e che ha la certezza della Resurrezione, è colui che celebra la Pasqua in piena consapevolezza, in piena libertà, in piena fede. Noi siano chiamati a celebrarla così.

Q u a r t a   p a r t e – LA ROTTURA E LA RINNOVAZIONE DELLA ALLEANZA (Esodo 32 – 34)

.a) Il Vitello d’oro

Vediamo la quarta tappa di questa relazione con Dio; è una cosa importantissima. Nei capp. 32; 33 e 34 dell’Esodo campeggiano due figure; il popolo e Mosè. Nel cammino del popolo verso Dio, in questo rapporto nuovo di alleanza con Dio non tutto va bene. La prima difficoltà sta nell’arrivare alla vera idea e al vero rapporto, fatto difficile che richiede una fede forte.

Pensate, ad esempio, a questo fatto: il popolo ebraico non poteva avere nessuna rappresentazione di Dio: l’unica cosa che rappresentava Dio e diceva la sua presenza in mezzo al popolo era l’Arca dell’Alleanza. Questo già richiedeva uno sforzo non comune per gente dalla mentalità comune.

C’è poi questo proiettarsi verso il futuro: “Io sono quel che sarò, sono quel che vi farò“. Tutto questo significava affidarsi, avere fiducia. Noi non abbiamo dalla natura la forza di una fiducia che ci prenda in questo cammino verso il futuro; noi purtroppo siamo presi dalle piccole cose, ci contentiamo di quello che è immediato e non cerchiamo quello che ci costruisce in maniera totale, ci realizza nel futuro, in quello che sta al di là. Questa prospettiva ci sfugge e non riusciamo a fondarci i nostri ideali.

Pertanto, non c’è da meravigliarsi; questo popolo viene meno e commette il celebre peccato, il vitello d’oro. Come è presentato qui? Mosè è lontano, è con Dio; il popolo non lo vede tornare e pensa; “Ormai è finito, facciamoci un altro Dio”, E si fanno un’immagine di Dio, riprendendola dalle divinità egiziane; si fanno un bue, un toro, il “Dio Api”. (In Egitto il toro rappresentava la divinità). Non è imporrante l’atto in sé e per sé; forse, come tale, voleva essere una figurazione di quel Dio che li aveva condotti fin lì. Ma significava quasi fermarsi, adagiarsi nelle piccole cose, rattrappirsi, perdere quella tensione verso la realizzazione delle promesse; il dimenticarsi di Dio, di quello che Dio ha fatto e delle mete che addita, per fermarsi, stabilizzarsi. In questo sta la gravità del peccato, per questo è il vero peccato.

LETTURA: Esodo 32, 1-10 = Il vitello d’oro

E’ terribile questo fatto. Qui c’è tutta una figurazione; è tutto un popolo che dimentica Dio e al posto di Dio ci mette qualcosa d’altro. Non è il fatto del vitello in sé e per sé, della statua, ma è l’agganciarsi a qualcosa che è lì, sul momento, a qualcosa che ti fa sicuro, che è ben determinato; questo è il tuo Dio; ma non ti realizza, non ti porta alla pienezza. L’idolatria è proprio questo dimenticarsi di Dio.

Il mondo di oggi è profondamente idolatra, quando scambia i valori di Dio con la tecnica, col progresso, con la scienza, con la ricchezza, con la potenza, con l’uomo stesso; ripete sempre questo atto d’idolatria. “Questo è il tuo Dio” significa fermarsi qui, perdere la prospettiva del Dio dei padri, del Dio della promessa, del Dio che spinge là. Fermarsi qui; questa è la rottura con Dio, il peccato più grave.

  1. 7-8. Il popolo pervertito. Quando Israele sarà entrato nella terra promessa si scorderà di Dio e dirà; “Mi hanno salvato le divinità di Canaan, della Palestina” (e cominciano i culti idolatrici). “Mi ha salvato la mia potenza”. Nei salmi ricorrono spesso espressioni di questo tipo: “Dio non guarda la potenza, i cavalli, la forza delle tue gambe, ma Dio guarda l’umile, il semplice, colui che ha fiducia, che è in una prospettiva di apertura verso di lui”.
  2. 9: E’ vero di Israele ma è vero di tutti: siamo un popolo di dura cervice.

.b) Mosè, il mediatore

Mosè è una grande figura: da una parte il popolo che traligna e dall’altra Mosè, l’uomo preso totalmente da Dio.

LETTURA: Esodo, 32,11-14 – Preghiera di Mosè.

Qui la figura di Mosè è veramente grandiosa, è l’uomo che ha capito che Dio è tutto: la sua esperienza l’ha portato a questo. Ma è anche l’uomo che è totalmente e completamente solidale con il suo popolo. Dio quasi gli fa questa proposta: “Distruggo questo popolo e ricomincio con te”. Qui c’è tutto un modo di parlare finemente psicologico. Colui che scrive presenta Dio come antagonista di altre potenze, quelle egiziane, cui Dio ha sottratto il popolo suo. Dice Mosè: “Se tu lo distruggi, diventi ridicolo di fronte ai tuoi avversari, a quelli che opprimevano il popolo tuo: Diranno: Sì, li ha liberati, ma per farli finire in un momento nel deserto: tu ci fai brutta figura”.

Chi arriva ad esperienza religiosa profonda si mette con Dio su questo piano, quasi a tu per tu, quasi di costringere Dio. Ma in fondo è la descrizione del dramma che Mosè sente dentro perché vive a pieno il piano di Dio. Mosè sente la tentazione di abbandonare tutto, perché il popolo non gli ha dato ascolto. Resiste alla tentazione di scoramento e riprende la sua meditazione sulla promessa fatta ad Abramo, Isacco, Giacobbe. La promessa adesso è lui, adesso cammina in questo popolo. Mosè ritorna sempre sul suo punto fondamentale: cioè la storia come base della fede.

Poi Mosè scende, spezza le tavole della legge. C’è come una specie di crollo. (Es 32, 15-29). Però Mosè riprende le cose in mano e di nuovo fa capire a questo popolo lo sbaglio enorme che ha fatto. Riconosciuto lo sbaglio (Es 32, 30-35) bisogna ricominciare da capo. Da qui hanno inizio le cose più belle: riprende il dialogo tra Mosè e Dio.

LETTURA: Esodo, cap.33.

  1. 4: Dopo il peccato c’è una specie di frattura, non agisce Dio direttamente, ma c’è un intermediario: l’angelo.
  2. 5: “vi sterminerei”. Dio è santo proprio in quanto è colui che sta al di là, che è al di sopra di ogni cosa, che è totalmente trascendente, inaccessibile nella sua santità; quindi se si avvicina all’uomo lo consuma e l’uomo non può sopportare questa sua presenza.
  3. 14: Mosè è solidale in maniera completa con il suo popolo e sente la forza sua di essere mediatore tra Dio e il popolo.
  4. 18: Vedete come vanno avanti le cose. Prima. “Vieni con me”; poi: “Sii in mezzo a noi”; adesso ancora l’ultima domanda: “Fammi vedere la tua gloria”. Qui “gloria” significa Dio stesso, cioè la gloria di Dio è la manifestazione di Dio, è tutto.
  5. 21: Notate la trascendenza di Dio, sopra ogni cosa; la libertà piena, sovrana.
  6. 22-23: Mosè è arrivato al culmine. Questa è la tensione dell’uomo che a contatto con Dio, desidera anche vedere Dio, faccia a faccia. Ma questo non è possibile: il volto di Dio non si può vedere. Mosè è arrivato al massimo contatto, alla più profonda esperienza religiosa e nello stesso tempo non si estranea dal suo popolo. Totalmente solidale e immerso nel suo popolo e, nello stesso tempo, totalmente immerso in Dio.

In Mosè non è una presunzione il suo voler vedere Dio. E’ vero che tutto quello che ti sta intorno, anche la stessa storia, ti rivela Dio, ti fa conoscere Dio, la sua gloria, la sua potenza, le cose mirabili che fa Dio: nonostante questo c’è ancora da travalicare, andare oltre. Qui è l’immettersi totalmente in Dio per entrare in contatto con Lui. E’ un pochino quello che S. Paolo dice di se stesso nella seconda lettera ai Corinzi: “So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare”. (2Cor 12,2-4). Cioè l’uomo perde se stesso in Dio; l’uomo sente che tutto quello che è nella storia pur essendo la storia di Dio, va travalicato, per passare al di là: Mosè sente questo.

Il popolo che si è creato un Dio visibile (l’idolo) è stato punito. Come mai Mosè vuol vedere Dio? C’è una grande differenza: il popolo si sta dando un Dio visibile, perché ha perso il senso del futuro, di quello che Dio gli ha detto e si ferma a qualcosa di concreto perché ha perso il senso della prospettiva. Mose è su tutt’altro piano; Mose è in un cammino ancora da compiere.

Il popolo ha materializzato un suo dio (idolo), proprio perché ha perso la tensione della cosa a cui Dio lo chiamava, per fermarsi su qualcosa d’immediato, che prende ora; e quello che immediatamente gli interessa, ma che gli fa dimenticare il vero cammino.

Nella risposta di Dio c’è senz’altro la sua trascendenza, la sua sovranità, la sua purezza. Dio è veramente l’inaccessibile. Anche nel N. T. nel prologo al Vangelo di S. Giovanni, si legge; “Dio, nessuno lo ha mai visto; il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18) cioè il volto di Dio è il Cristo, lì veramente possiamo toccare con mano.

E S. Giovanni nella, sua prima lettera. (1,1) dice; “Quello che le nostre mani toccarono del Verbo della, vita” cioè la Parola stessa di Dio; noi l’abbiamo toccata con mano, l’abbiamo sperimentata; c’è la palpabilità quasi di questa, presenza di Dio.

Sta di fatto che Dio è proprio inaccessibile in sé. E’ accessibile soltanto quando Lui stesso si dona, quando Lui stesso viene incontro ed è al di là dell’uomo e della storia stessa. In fondo questa inaccessibilità di Dio dà l’idea del rischio che c’è nella fede. Quando si scala una montagna, tu vedi un certo picco e ti pare che quello sia l’ultimo, ti sforzi, arrivi, ed invece ce n’è un altro; raggiungi quello e ne trovi un altro. Il peccato del popolo ebraico è questo: prima crede in un Dio che lo lancia nel futuro, (un picco, poi un altro, poi un altro); poi si fa il vitello d’oro come per dire: sono arrivato, è questo e questo non cambia più.

Quando di Dio credi di poter dire: “L’ho raggiunto, adesso mi si è manifestato”, proprio allora cresce in te l’ansia, e ancora scopri che è veramente tanto più grande; e tu seguiti a camminare; è una scoperta continuamente nuova.

.c) Dio castiga e tollera l’iniquità

LETTURA: Es. 34, 1–9: proclamazione del significato di Dio stesso.

  1. 6: ecco la proclamazione del nome proprio di Dio: la bontà, la misericordia, la “hesed”, come dicevano, “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà“.
  2. 7: “Perdona la colpa, la trasgressione ed il peccato”. Mosè ha capito una grande cosa: Dio veramente perdona, perché è l’Onnipotente e può ricominciare da capo la storia. Dio ha dato a questo popolo anche il terribile potere di rinnegarlo, perché Egli è anche capace-di ricominciare.

In fondo la caratteristica dell’onnipotenza, è quella di dare la libertà agli altri; quanto più uno è potente, tanto più è capace di donare la libertà agli altri e quindi anche di dar la possibilità di dire di no, perché ha la capacità di ricominciare. Quanto più uno è piccolo e meschino, tanto più sarà incapace di donare la libertà agli altri. Questo è vero anche per noi; quanto più noi siano capaci di amare l’altro tanto più siano capaci di dargli la libertà e la responsabilità: quanto più noi siamo gretti, chiusi, tanto più negheremo la libertà all’altro. E, nonostante l’errore del popolo, possiamo dire che la Pasqua celebrata subito dopo la liberazione, aveva quel significato: “ti ho fatto popolo mio, sei popolo mio, nonostante che abbia questo terribile potere di dirmi di no”.

Potrebbe far difficoltà la frase (Es 34, 7) “che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli, fino alla terza e alla quarta generazione“. Attenzione al genere letterario che si esprime in questa prospettiva: l’amore di Dio è per mille generazioni, cioè è per ’’sempre’’; il castigo poi è insito nel tuo stesso operare; quando ti tagli da Dio, in quest’atto stesso trovi, immanente, qualcosa che ti punisce, perché significa fermarsi, e in questo tuo fermarti già rinneghi te stesso, punisci te stesso e questo dura “fino alla terza e alla quarta generazione” crei questa situazione di rottura, per te e per gli altri. Però Dio è talmente capace che fino a mille generazioni, sempre cioè, è capace di riprenderti e di portarti la sua misericordia. Guardate quindi lo sbilanciamento che c’è tra le due affermazioni: “Conserva il suo amore per mille generazioni, perdona la colpa, la trasgressione ed il peccato; ma non lascia senza punizione“? il peccato è sempre ricordato. Dio niente lascia, impunito: “Castiga la colpa dei padri nei figli e dei figli nei figli, fino alla terzo, ed alla quarta generazione“. Ecco il significato: per il fatto stesso che tu ti sei rotto, hai fatto il tuo male, ti sei fermato, non hai realizzato te stesso, non hai percorso quella strada che era la tua strada, in questo fermarti ti sei tagliato le gambe, per te e per gli altri. Ma, ecco, viene il Signore, ti riprende per mano e tu cammini ancora.

Il brano dice ancora che i figli e i nipoti portano le pene dei peccati dei padri e questo è vero. Ma c’è da intendersi sul fatto che questo è un cammino storico e nella storia, la realtà c’è, non la togli: se tu hai creato una situazione di stasi, di fermo, l’hai creata per te e per gli altri, quindi neppure gli altri si rimettono in cammino. Non che uno paga per l’altro, quando non c’è nessuna responsabilità. Quando tu hai creato una situazione, questo rimane, nemmeno Dio la può negare; ma Dio onnipotente è capace di tirarti fuori, però quella situazione l’hai creata tu. (Ad es.: se mio padre ha perso la guerra, l’ho persa anche io; se in una famiglia, il marito è ubriacone, la moglie è una donnaccia, mettono al mondo un figlio sbalestrato, matto, non educato. E’ colpa del figlio?  No! Però la situazione è quella). Dio è certamente capace di riprenderti e di ricondurti sulla strada e lo vuole; però è anche vero che la situazione creata da te, c’è.

Forse la difficoltà a capire nasce anche dal fatto che noi pensiamo solo alle realtà individuali; per noi conta il peccato individuale, l’opera buona individuale, quello che individualmente sappiamo fare. La realtà del Corpo Mistico ci dice, invece, che il mio bene rifluisce in bene degli altri e il male che io faccio è un’emorragia nel Corpo di Cristo, è un male inserito nella storia. Se oggi non facessi questo bene necessario, ne scaturirebbe un danno agli altri. Questa è la situazione. (Se su 300 preti di Fermo nessuno sarà veramente prete, il popolo cristiano scenderà nella fede, scenderà sempre di più; c’è il peccato personale del singolo prete. però la condizione di degrado sta su tutti).

Da questo si capisce come nella Messa si fa la richiesta individuale di perdono alla comunità e della comunità a me. “Confesso a voi fratelli …” Noi siamo strettamente uniti, è il grande valore della comunità; siamo legati gli uni agli altri. Gli ultimi secoli invece ci hanno fatto credere che il grosso valore è l’individuo, ma in senso individualistico esasperato.

Facciamo anche un’altra considerazione: oggi stiamo assorbendo una mentalità che è terribilmente ancorata ai beni materiali ed alla loro valorizzazione esclusivamente; ne segue una mentalità edonista e consumistica: questo non può non portare del male; è un male che sta nella storia. E’ la tua e nostra situazione di peccato: tu la, crei, la dài ad altri che si trovano in questa mentalità; uscirne fuori è terribile per gli altri che ne portano il peso. C’è da scartare l’idea di un Dio che aspetta il momento della vendetta, come a dire: tu hai fatto il bene, ti dò il premio, tu hai fatto il male, devi essere castigato. (Quasi un Dio che sta a spiarci, per il gusto di punirci e vederci soffrire). Questa è la mentalità sbagliata. La punizione di Dio è lo stesso male che hai compiuto: ti sei fermato, non hai realizzato te stesso; Dio non ti punisce dall’esterno; hai rinnegato te stesso e quello è il tuo male, quella è la punizione con tutte le conseguenze che porta; in questo senso l’inferno siamo noi.

La mia realizzazione poi è fortemente legata all’uscire da me stesso, perché se Dio è amore, io mi realizzo solo come amore; più esco da me stesso, dal mio egoismo e individualismo, più mi riempio degli altri e della realtà degli altri; più io vado avanti. Così mi realizzo e apparterrò a Dio, sarò tanto vicino a Dio, per quanto io sono diventato amore; e il mio paradiso sarà quello.

Noi siamo potenzialità di conoscenza e di amore: più mi potenzio in questo, più mi completo e più vado verso l’essere simile a Dio, quasi io conosco il nome di Dio come diceva Mosè. Lui conosce il mio nome e c’è unità con Dio; ma, per essere tale unità con Dio, ho bisogno di spogliami del mio egoismo, perché l’egoismo è l’anti-Dio.

Questi sono gli aspetti fondamentali del libro dell’Esodo. Il libro evidentemente presenta tanti altri aspetti. Quelli che abbiamo toccati sono come i punti cardine e le strutture portanti: sono le linee di teologia biblica; tutto il resto, le leggi, le istituzioni e altro vanno visti sotto questa luce.

APPENDICE

L’ARCA dell’ALLEANZA -La TENDA del CONVEGNO -IL TEMPIO

Il popolo ebraico è un popolo nomade. Uscito dall’Egitto, attraversa il deserto e quindi vive negli accampamenti, sotto le tende. Dio che aveva detto: “io sono in mezzo a voi; la mia Gloria vi precederà”, abita anch’egli in una tenda, la tenda di Dio è al centro dell’accampamento, intorno ad essa ci sono le tende del popolo. E’ bellissimo questo concetto: Dio abita in mezzo al popolo ed allo stesso modo del popolo.

. – La TENDA DI DIO viene indicata con diversi nomi: il più generico sembra quello di ‘Tabernacolo’; nomi più specifici sembrano: “Dimora” ed in Medio Oriente è il nome più comune che si dà ad ogni Tempio come ‘dimora di Dio’. Inoltre, santuario.

-“TENDA DELLL’INCONTRO” è denominazione israelita, l’incontro non è quello tra gli uomini in assemblea di adorazione, ma è l’incontro di Jahvè con Israele per mezzo di Mosè. Il Tabernacolo è il luogo della Rivelazione. Il Tabernacolo è allora il Santuario di Israele fino a quando egli è nomade. Ne parla il libro dell’Esodo, ci sono termini quasi identici, in due sezioni: nei capp. 25-31 dove si riportano gli ordini per la costruzione del santuario; nei capp. 35-39 dove si descrive la esecuzione.

Le descrizioni dell’Esodo amalgamano elementi antichi, (come l’arca, la sua tenda ed il materiale con cui sono fatte, che risalgono sicuramente a Mosè) con altri elementi che provengono dallo sviluppo del culto nel corso della storia di Israele, specialmente dopo la sedentarizzazione. Esse tengono presente il Tempio di Israele, costruito da Salomone e poi ricostruito che però riproduceva nell’essenziale la Tenda del Convegno con il suo Recinto Sacro. (Nota qui alla fine del paragrafo)

-Nella parte più interna del Tabernacolo (nel Santo dei Santi) era conservata l’ARCA dell’ALLEANZA. Era una cassetta, che conteneva le cose più sacre per un israelita: le tavole della legge, la manna, la verga di Aronne: questi erano i segni della storia di Israele:

–       le tavole della legge rappresentavano il rapporto con Dio;

–       la manna, l’intervento dell’aiuto di Dio;

–       la verga di Aronne, il segno del potere e dei sacerdoti che erano i ministri del culto.

L’Arca era ricoperta da una lamina d’oro, chiamata Propiziatorio(o Espiatorio). Sopra l’Arca c’erano anche due Cherubini, l’uno di fronte all’altro, costruiti in modo che le loro ali sovrastassero il ‘coperchio’ o Propiziatorio (in ebraico ‘kapporet’). Così l’Arca è il tronco e lo sgabello di Jahvè che siede sui cherubini (1 Sam 4,4) e custodisce la sua Parola sotto i suoi piedi.

Nell’Esodo il ‘Coperchio’ è presentato distinto dall’Arca. Nel rituale post-esilico esso interviene senz’Arca nel giorno della ‘espiazione’ ed in 1 Cronache 28,11 si chiama il ‘Santo dei santi’ luogo per il ‘coperchio’.

Legata all’Arca dell’Alleanza c’è l’immagine della NUVOLA (in ebraico kabod) che indica la “gloria di Jahvè”. La nube in genere può avere duplice significato come esperienza religiosa della vicinanza benefica di Dio (copre dal sole cocente, porta la pioggia benefica); e come castigo di Colui che vela la faccia. Comunque è soprattutto un simbolo privilegiato per indicare il mistero della presenza divina; manifesta cioè Dio pur velandolo.

LETTURA: Esodo 40,34-38 Nube (=Gloria di Dio) sulla ‘Tenda’ del Convegno

In questa Tenda si svolge il culto. Il sabato, il giorno di riposo, il popolo vi si dà convegno. In questo luogo Mosè amministra la giustizia per cui diventa il punto di convergenza di tutto. Questo aspetto si presta ad un bellissimo sviluppo. Quando Israele si sedentarizzerà nella terra di Canaan e abiterà nelle case, costruirà un tempio al Signore (sarà Salomone a costruirlo: leggi la prima parte del 1° libro dei Re). Questo tempio diventa segno della presenza di Dio. Ma si tratta sempre di un “segno” perché la realtà è un’altra: Dio è presente nella vita del suo popolo. Quando il popolo si allontanerà da Dio e non osserverà l’Alleanza, i profeti diranno che quel tempio non serve più a niente e sarà distrutto da Dio. Anche Gesù dirà del tempio del suo tempo, quello costruito da Erode: “Distruggete questo tempio ed in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19). Diceva questo perché il vero tempio non è quello di pietra, ma il vero tempio di Dio è Cristo che nella sua vita, nella sua umanità rende presente, rivela il Padre: è Dio in mezzo a noi. Egli è la nuova “Tenda“. S. Giovanni nel prologo dirà: “La Parola di Dio si è fatta carne e ha posto la ‘tenda in mezzo a noi” (Gv 1, 14).

Cristo risorto ci associa a sé, ci dona lo Spirito Santo: noi diventiamo il corpo di Cristo, ed in Cristo siamo tempio di Dio. Il vero tempio di Dio non sono le chiese, edifici costruiti di pietra, per quanto belli, ma il tempio di Dio è la Chiesa, cioè siamo noi.

La TENDA del CONVEGNO o DIMORA risulta divisa da un velo in due parti:

.1.   Il SANTO dei SANTI conservava l’Arca dell’Alleanza (Es 25, 10-22).

.2.   Il SANTO che conteneva:

–       La Tavola dei pani dell’offerta (o Mensa dei Pani) (Es 25, 23-30);

-…….il Candelabro (Es 25, 31-40);

–       L’Altare dei Profumi (Es 30, 1-5).

.B. Il RECINTO SACRO per la Tenda del Convegno (Es 27, 9-19). Avanti alla Tenda erano posti:

–          L’Altare degli olocausti (Es 27, 1-8);

–           La Conca (Es 30, 17-21).

 

APPENDICE   –  LINGUAGGIO BIBLICO E MESSAGGIO DI DIO

Dio, nella Sacra Scrittura, ha parlato per mezzo di uomini e alla maniera umana. Chi interpreta la S. Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicare, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi (cioè quelli che hanno scritto i libri) in realtà abbiamo inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con la loro parola, perché se vogliamo capire quello che Dio dice, non abbiamo altro mezzo che questa parola scritta, e quindi non possiamo prescindere da questo scritto, da questa storia, da questa tradizione. È assurdo voler arrivare a Dio quasi misconoscendo tutta la S. Scrittura, tutta la storia sacra: non capiremmo nulla della storia della Salvezza: di Dio, di Cristo, della Chiesa. Bisogna mettersi in questa linea, se vogliamo capire bene, dobbiamo saper interpretare quello che gli agiografi vogliono dirci. Questo è molto importante. La S. Scrittura quindi deve calare nella nostra vita, deve diventare il punto di rifermento del nostro parlare e del nostro agire. Esaminiamo due possibili domande:

.a)- Forse è importante, essenziale, mantenere il linguaggio della Bibbia?

Ogni linguaggio, ogni modo d’esprimersi è sempre, per forza di cose, inserito in una terminologia: e non esiste pensiero disincarnato da un linguaggio; ed è anche vero che il linguaggio fa il pensiero. Questi due aspetti sono correlativi; mentre io creo una civiltà, creo un linguaggio; e mentre creo un linguaggio, creo anche una civiltà: vanno di pari passo. Non è esatto dire: prima esistono i pensieri e poi viene il linguaggio. Esiste prima di tutto la parola di una lingua la quale è portatrice di un pensiero, di una mentalità, di un modo di concepire le cose.

I Padri della Chiesa non sono caduti in quest’errore. Prendiamo per tutti S. Agostino. Egli, nell’opera più famosa, le “Confessioni”, parla con il linguaggio della Bibbia: è presente il suo linguaggio filosofico, culturale derivato dalla cultura classica, ma le espressioni sono pregne del linguaggio della Bibbia; è presente il suo linguaggio filosofico, è tutto un riferire, un parlare con Dio sulla base di una mentalità e di un linguaggio biblico. Questo significa che, assorbendo il linguaggio biblico, se ne assorbe la mentalità e quando si è raggiunta la mentalità non si troveranno espressioni migliori, per esprimersi, che quelle bibliche.

.b) E come si fa a sapere con sicurezza quello che l’agiografo voleva, dirci a nome di Dio?

Questo fa capire che non c’è altro mezzo per capire quello che è la rivelazione se non entrare in quello che l’agiografo ha detto (agiografo è colui che scrive cose sacre, cioè quelle che ci portano la rivelazione di Dio). E’ necessario tuffarsi nella storia sacra, comprendere l’intervento di Dio nella storia. Dobbiamo metterci in questo cannino, aprire le nostre prospettive, uscire un po’ dal mondo chiuso nel nostro io; bisogna che ci apriamo, che usciamo da noi stessi, che ci mettiamo nelle prospettive di Dio, che ci immettiamo nel la storia, e poi capire che noi stessi siano chiamati a fare la storia insieme con Dio; se usciamo da questa mentalità, siamo quasi tagliati fuori.

Ciò può sembrare astratto, ma deve nascere la convinzione che solo immettendoci in questa linea si realizza il piano di Dio, che è la storia: la storia dei patriarchi, di Mosè, del popolo ebraico; la storia di Cristo; la storia della Chiesa, e, nello stesso tempo, la storia del mondo, la storia di oggi. Io sono dentro questa storia, se sono aperto a essa e so cogliere, come Mosè, i segni della storia, il cammino che la. storia stava facendo e come Mosè l’ha interpretata, l’ha condotta e come il popolo ebraico ha risposto. E’ tutto un popolo che cammina. Mosè costruisce un popolo. Oggi il popolo nuovo è la Chiesa: ci saranno anche dei capi, delle grandi figure, ma non tutti sono capi e grandi figure; questo va da sé, ma tutti siamo questo popolo che sta camminando, e noi siano immessi all’interno di questa storia.

I salmi ci dicono come gli ebrei nella preghiera avevano dinanzi tutta la loro storia e la loro preghiera aveva carattere fortemente comunitario e si sente che era rivolta ad un Dio che faceva storia con loro.

E’ necessario abituarsi a pregare con i salmi, a capirne la prospettiva per uscire un po’ dalla nostra preghiera tanto piccola; la nostra preghiera è fatta di formulette o è fatta dì richieste: la scuola, la salute, le relazioni con gli amici e altro; bisogna invece che ci apriamo a questo respiro più ampio; il respiro ampio della storia della Salvezza.

E’ in questa storia, con il suo sviluppo, che noi abbiamo la garanzia della continuità dell’azione di Dio, della sua fedeltà, della sua Parola. Guardata con l’occhio della fede questa storia ha un senso ben preciso e non può essere letta diversamente. Questo ci dà la sicurezza della presenza di Dio e che la storia e il libro che la racconta sono sua Parola.

Nota

Trascrizione delle lezioni registrate durante la ’Quattro-Giorni’ di VITA COMUNITARIA e LETTURA della BIBBIA realizzata a Sassotetto di Sarnano.   Relatore: don Gabriele Miola 

CRONOLOGIA BIBLICA COMPARATA     CENNO SULL’EPOCA DEI PATRIARCHI –                        STORIA DEI POPOLI e  STORIA BIBLICA

La migrazione di Abramo e gli avvenimenti con Isacco, Giacobbe e Giuseppe in Egitto secondo una ipotesi avvennero dall’anno a. C. 1850 ca. al 1720 ca.; un’altra ipotesi data dal 1650 ca al 1560 cioè dalla dinastia degli Hyksos asiatici faraoni alla loro espulsione.

L’oppressione degli Ebrei datata dal 1370 al 1290 a. C.  faraoni Amenofis IV; Horemheb; Seti I; Ramses II

L’esodo dall’Egitto sotto la guida di Mosè, seguito dalla vita nel deserto del Sinai; Cades dall’anno 1290 a. C. al 1265.  L’invasione fatta dagli Ebrei del Canaan e Giosuè dal 1250 al 1225

Meneptah. RAMSES III respinge i Popoli del mare 1226- 1218

EPOCA DEGLI OPPRESSORI DI ISRAELE ca.1198

EPOCA DEI GIUDICI – Edomiti con Kusan- Riseataym; Moabiti con Eglon; Giudici in Israele – Otniel

CANANEI con Sisara ca.1130 a. C. In Israele Deborah e Baraq; Gedeone; Regno di Abimelek; Tola Yair

Jefte; Ibsan; Elon; Abdon

AMMONITI e FILISTEI  ca. 1100 a. C. in Israele Samgar; Sansone; Eli;  ca 1050 Samuele

 

 

 

 

 

 

 

 

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