MONTELPARO (FM) NEGLI STUDI DI CROCETTI GIUSEPPE PER RIFERIMENTI STORICI FINO ALL’ETA’ DEI COMUNI

M  O  N  T  E  L  P  A  R  O

BIBLIOGRAFIA

LE FONTI

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<PREMESSA: lo scrittore sacerdote Crocetti Giuseppe (1918-2000) nato a Santa Vittoria in Matenano e parroco a Monte Urano, dichiarava di godere per il patrimonio artistico e storico di Montelparo profuso un po’ dovunque nei palazzi e nelle chiese e in altre opere. Giovandosi di ricerche e di letture in diversi archivi e biblioteche ha esplorato molti rapporti di Montelparo con vari artisti, con l’Imperiale Abbazia di Farfa, con il monastero di Santa Vittoria in Matenano <per qualche decennio abbazia benedettina>, con il suo Presidato Farfense, con i Legati e con il Rettore della Marca. Sono apprezzate le pagine che egli ha redatto. Molte sue carte stanno nell’Archivio storico arcivescovile di Fermo (1). Auguriamo felice lettura di quanto qui estratto dai testi del Crocetti APPREZZANDONE LE CITAZIONI NELLE NOTE FINALI >

I

CENNI STORICI di MONTELPARO E DEI COMUNI VICINI FINO ALLE LIBERTA’ COMUNALI DEL SEC. XIII

   Il territorio di Montelparo certamente fu abitato nelle epoche protostorica e romana (2). La necropoli picena scoperta nel 1873 in contrada Celestrana testimonia la presenza di abitanti con la vita organizzata di provenienza pelasgica od etrusca (3). Non lungi dal confine di Montelparo, in territorio di Monterinaldo, la scoperta del maestoso tempio pagano (4), che si fa risalire al I secolo avanti Cristo, testimonia che in questa zona del Piceno, in epoca romana, repubblicana ed imperiale, pulsava la vita civile, e questo centro monterinaldese di culto era meta di pellegrinaggi da parte di famiglie e di gruppi sparsi nella zona, che in prevalenza abitavano le contrade più fertili esposte a sud-est, perché riparate dalle fredde correnti provenienti dal nord. Nel museo Pigorini di Roma ed in quello archeologico di Ancona si conservano suppellettili di notevole importanza archeologica con riferimento a diverse epoche dell’antichità: sono fibule, armille e pendagli estratti da tombe funerarie. Anche nell’area del nuovo campo sportivo, durante i lavori di scavo per effettuare il livellamento del terreno sono stati rinvenuti reperti che indicano presenza di insediamenti umani in epoca Picena e Romana.

   Documenti e monumenti del medioevo, anche se relegati in un grande silenzio testimoniano come la popolazione di queste zone era felicemente operosa nelle varie arti e mestieri.

   Allargando l’indagine si riassumono alcune notizie sui poderi Farfensi nelle diocesi del Piceno, dato che le testimonianze scritte altomedievali del territorio di Montelparo, specialmente del versante dell’Aso, provengono tutte dagli archivi dell’imperiale Abbazia di Farfa sita nella Sabina. Questo monastero laziale, secondo un’antica tradizione, fu fondato da S. Lorenzo il Siro, vescovo nel rietino nel corso del VI secolo. Sopraggiunta (nel 580 circa) l’invasione longobarda, i monaci furono dispersi e la costruzione andò in rovina. Alla fine del secolo VII un gruppo di monaci, reduci da un pellegrinaggio in Terra Santa, sotto la guida del francese Tommaso della Morienna, ricostruì gli edifici. La chiesa ebbe il nome di S. Maria in Acuziano, e il monastero S. Maria di Farfa, toponimo dal fiume che scorre vicino, a valle.

   La fama del risorto monastero accrebbe assai il numero dei monaci farfensi. Essi spesso furono intermediari per conciliare le vertenze conflittuali tra il papa ed il duca di Spoleto di parte imperiale, trovandosi il Monastero ai confini delle rispettive amministrazioni territoriali, e ricevettero aiuti, privilegi e protezione da entrambi. Il monaco farfense Marciano, che fu anch’egli pellegrino in Terra Santa con Tommaso, fu inviato dal papa a reggere, come vescovo, la diocesi di Fermo.

   Nel primo decennio del secolo VIII, il duca di Spoleto, Faroaldo II, assegnò al monastero farfense undici poderi curtensi, e ciascuna della superficie di undicimila moggi (o mogiuri) in diverse località. Queste “curtes”, legittimamente conferite e possedute dall’antichità, sono considerate da alcuni scrittori come “ il prestigioso feudo farfense” nei paesi dell’Appennino e nei suoi versanti sia tirrenico che adriatico (5). Al di qua degli Appennini, alcune di queste corti ricadevano nel Contado Fermano, «legalmente consegnate e possedute dall’antichità» (6), come si esprime lo storico dell’Abbazia di Farfa, Gregorio di Catino, nella sua Cronaca, quando elenca le possidenze «che furono poi disperse a causa della sottrazione fattane da persone inique» (7) soprattutto dal priore di Santa Vittoria in Matenano preteso abate, Ildebrando, a metà del secolo decimo.

   Tra le ‘corti’ cioè poderi con case, di fondazione del “feudo farfense” nelle Marche, attraverso documenti posteriori, ci sembra di poter riconoscere la corte di Mogliano di 11.000 moggi; la ‘corte’ di S. Marone, tra Belmonte e Monteleone, di 16.000 moggi; la ‘corte’ di S. Maria Matris Domini (=Madre del Signore), tra Ponzano, Petritoli e Monte Giberto, di 11.000 moggi; le ‘corti’ di Blotenano, Matenano e Montefalcone, lungo il versante sinistro dell’Aso, con il Monastero di S. Ippolito e S. Giovanni in Selva, di cui si hanno notizie sin dalla metà del secolo VIII (6).

   Gran parte dell’attuale territorio di Montelparo, per molti secoli, fece parte del «feudo farfense». Nei documenti dell’Abbazia, relativi ai secoli X, XI e XII, sono ricordate alcune corti particolari, quasi fossero un frazionamento della corte maggiore, o di fondazione, ricadenti proprio nel territorio di Montelparo. Vediamo di ricordarle nell’ordine cronologico dei documenti e, ove possibile, indicare la posizione geografica e la corrispondenza con le moderne contrade, sparse nel territorio montelparese. I testi più significativi sono anche confermati dagli atti notarili del «Codice Diplomatico di Santa Vittoria», pubblicato dall’abate Colucci nelle «Antichità Picene» (tomi XXIX e XXXI), nonché dalle «Pergamene» dell’Archivio Comunale di Montelparo (trasferite a Fermo).

.a- Il «Largitorio Farfense» ha una carta notarile dell’anno 926. Il documento dichiara che il diacono Oderigo Franco chiese all’abate Ratfredo la concessione a vita di 366 moggi di terra «in fundo Blotenano» e di 13 moggi «in fundo Casario», confinanti quasi da ogni parte con altri beni dell’abbazia di Farfa, impegnandosi il concessionario a corrispondere un canone annuo da versare nel castello del Matenano (8), che evidentemente cominciava a svolgere la funzione di «vicaria» di Farfa nel Piceno. Che il fondo, (o podere curtense) di Blotenano (o Plotenano) col suo castello, il suo villaggio (vicus) e la chiesa di S. Severino ed il fondo Casario erano siti in territorio di Montelparo, nel versante dell’Aso, come documentano alcune pergamene del «Codice Diplomatico di Santa Vittoria» (9) ed anche due pergamene di Montelparo, rispettivamente del 20.4.1279 e 10.5.1290. Il fondo Casario, probabilmente, corrisponde alla contrada «I Casali», nei pressi del fosso di Santa Maria che sfocia nell’Aso. In un manoscritto di Orazio Valeriani si legge che la chiesa di S. Severino era sita sul lato sinistro della strada per Monte Rinaldo in contrada «Bufine», probabile variante di Blotenano (10) nella contrada Cortaglie.

.b- Tra i beni dispersi dall’abate Campone nel 957 figurano 300 moggi a Feccline sull’Aso, 100 moggi in Emmiano, 42 in Casario e 30 in Collicello, dati a Rainerio di Adelberto con permuta onerosa (11). Le località di Emmiano, Casario e Collicello, per altri documenti del sec. X appartennero certamente al territorio di Montelparo. Quella di Feccline, probabilmente, era sita ad oriente, verso i confini con Monterinaldo.

.c- Nel luglio del 960 l’abate Ildebrando, che risiedeva a S. Vittoria, fece un’ampia concessione a terza generazione di 2.000 moggi di terra ad un tal Transperto d’Ingelperto; in questa carta sono menzionati circa trenta toponimi tra i quali Valle, Casario e Collicello (12). La contrada Valle è chiaramente localizzata nel privilegio imperiale di Enrico IV del 1084, ove si legge: «in Roncone (curtis) de Valle» (13); nonché negli «Statuti Comunali di Santa Vittoria», redatti nel 1446: nel riferire i confini territoriali con Montelparo dice: «Lungo l’Aso fino al fosso di Roncone, presso i confini di San Salvatore, quindi risalendo lungo la Valle di Giovanni di Bartolomeo raggiunga la strada di Montelparo sul Colle Gazinello, indi discenda per il Gaglianello e si rechi oltre Perito in contrada Ternano, verso Monteleone» (14).

.d– Nei diplomi di Ottone I ed Ottone III, rispettivamente del 967 e 998, unitamente alla ricordata «curtis de Blotenano», è nominata la «curtis de Sancto Antimo» (15).Quest’ultimo in origine poteva essere inglobata nella corte di Blotenano, poi, prese questo nome dopo che ebbe inizio la costruzione del centro di Montelparo con la chiesa ed il «vicus» dedicati a Sant’Antimo, santo particolarmente caro ai Farfensi (16). Donde ne deriva che risale al secolo X la costruzione del primo nucleo abitativo in cima al colle che diede origine al castello di Montelparo.

.e-  Lo storico di Farfa, Gregorio di Catino, nella sua Cronaca dedica un paragrafo ai possessi perduti tra la fine del secolo X e gli inizi del secolo XI. «Nel Contado Fermano… Gualcherio figlio di Ingelramo tiene ‘curte’ di S. Maroto e S. Gregorio a Ortezano con grandi pertinenze, la ‘curte’ di Feccline con le pertinenze, e Runcone e in Albangano e in Torrita… Il figlio Aderano tiene la ‘curte’ di Cerestano ivi» (17). Il podere curtense di Feccline era sito nel versante dell’Aso tra il territorio di Montelparo e quello di Monterinaldo; quello di Albaniano, o Alvagnano si presume che corrisponda all’attuale contrada di S. Maria, poiché in varie pergamene di Santa Vittoria e nelle ricevute delle «Rationes Decimarum» del 1290-92 è ricordata più volte la chiesa di S. Maria ‘de Alvagnano’, il cui rettore riceveva la nomina dal Priore di Santa Vittoria (18).

   Lo storico Pacini colloca la ‘corte’ di Torrita nella zona di confine tra Montelparo, Monteleone e Monsampietro Morico, ipotizzandone la identificazione con il castello «detto Torricella che è presso il torrente ‘Lubricu’» (ancor oggi), che era stato donato all’abbazia di Farfa da un tal Tedmario di Gisone nel 1019 insieme ad altri beni, posti al confine con una terra di un tal Gualcherio, quasi sicuramente il figlio di Ingelramo che si era impadronito di possessi farfensi contigui alle sue proprietà (19). Una contrada detta Torrecella esiste anche in territorio di Santa Vittoria nel sestiere di S. Croce, in una collinetta poco lontana dall’Aso. La Corte de Cerestano corrisponde all’attuale contrada solcata dal fosso Madonna della Celestiale, ove sussiste una chiesetta ricostruita, che nel dialetto locale è detta «Celestrana» e ricorda quella segnata nelle carte medievali: S. Maria de Cerestana.

.f – Nei diplomi degli imperatori Enrici, da quello di Enrico III (1050) a quello di Enrico V (1119) sono costantemente ricordati altri possessi farfensi ricadenti in contrade vicine o pertinenti all’attuale territorio montelparese. Si tratta di «’Corte’ de Cannitulo con un castello e la piccola ripa (Ripula)», S. Maria «in Casule con un castello et ara antiqua, ed il castello «de Tariamo» (20). La corte di Cannitulo richiama la contrada Cannigliette, o Ripa di S. Andrea, ad oriente del capoluogo; quella di S. Maria de Casule era in territorio di Monteleone; infine, il castello di Traiano sembra potersi identificare con la contrada Ternano di Santa Vittoria, sita al confine con Montelparo e Monteleone, ad oriente del corso del fiume Ete Vivo, come ricordato sopra.

   Gli storici sono consapevoli che questi diplomi dei secoli XI e XII, più che indicare un possesso reale, erano uno strumento giuridico per rivendicare l’inalienabile diritto dei Farfensi al possesso di diritti sottratti con ingiuste occupazioni e sopraffazioni. Ad esempio, è citata la «’corte’ di S. Maria Matris Domini» di Ponzano che certamente nel secolo XI era giuridicamente considerata «pieve» dal vescovo di Fermo.

.g – Nel «Codice Diplomatico di Santa Vittoria» si trovano altri documenti che riportano il nome del castello di Montelparo e di alcune sue contrade di campagna. Nel 1113 l’abate farfense, Berardo III, concesse in enfiteusi alcune possidenze monastiche, poste nel Fermano, ad Alberto di Azzolino, ai suoi figli e nipoti. Tra gli appezzamenti di terra concessi ne è ricordato uno posto lungo il Roncone: «Et in altro luogo detto Roncone, vocabolo Valle, terra estesa per misura di stari nove» (21).

   In un privilegio dell’abate Berardo V in favore del Monastero di Santa Vittoria dell’anno 1152, per ben tre volte ricorre il nome di Montelparo (Mons Elprandi) ed è la più antica testimonianza finora conosciuta. L’abate assegnò al detto Monastero, per il mantenimento e sostentamento dei monaci ivi residenti, le entrate provenienti “dalla ‘corte’ della stessa S. Victoria e di Montefalcone e di Monte ‘Elprandi’ e di castello Capistrelli provengono due parti… le decime tutte di frumento e di lino dalla ‘corte’ di S. Vittoria e di Monte Elprandi»”, «Inoltre in Monte “Helprandi” vi diamo un uomo per dover raccogliere la decima» (22).

Nel 1813 l’abate farfense Pandolfo concesse alcune possidenze del suo Monastero poste nel territorio di Móntelparo al signor Berardo de Dura Via: «bene di proprietà del santo nostro Monastero che est in territorio Firmano nella pertinenza di Monte ‘Helbrandi’, in loco detto Roncone, tenimento quod fu di Carbone di Janni per la pertinenza di costui ed altro “tenne in vita sua, terra” e vigna e selva et “salecta” (piccola sala =magazzeno) et corsi d’acqua e molini nell’Aso; da pedi Roncono et ha per confini da “capu ipsu Castellu”, da piedi il fiume Aso, da un lato Fluriano, dall’altro lato Colle Arsicio e fra isti confini giace questa terra» (23).

   Lo stesso abate Pandolfo nel 1192 ai fratelli Simone, Alberico e Rinaldo, figli di Ruggero di Alberico, concesse in enfiteusi a terza generazione (24): «i beni scritto sopra del nostro monastero posti in territorio Fermano in pertinenza di Monte ‘Elprandi’ e nello stesso castello: cioè due ‘masie’ (cascine) di uomini, cioè  iToseratio e i figli di Giso, beni con tutti i loro tenimenti e con tutte i loro servizi … concediamo a voi due molini nel fiume Aso presso il montem Cucumu (25). E concediamo a voi un campo in località chiamata Golficianu (26) una chiusa a Montecchio (27) con terra et vigne e selva … et concediamo a voi il  beneficio dove fuit Giovanni Rustici… Tuttavia non abbiate potestà di vendere, né di donare, né di cambiare, né trasferire nella potestà di altri se non soltanto per gli uomini nostri che abiteranno nel castello di Monte Elprandi. (28). Ogni anno all’Assunzione di Santa Maria,  o dentro la sua ottava, dovere dare tre denari Enrici di moneta alla chiesa di S. Vittoria a titolo di pensione» (29).

   In un documento che si può far risalire all’anno 1192, riguardante l’elenco delle famiglie che dovevano pagare il censo al monastero di S. Vittoria si legge: «In censo del castello di Monte ‘Elprandi’», segue un elenco di 53 famiglie, numero maggiore che non nella stessa Santa Vittoria dove le famiglie contribuenti erano solo 36. Nell’elenco dell’anno 1199 (circa), «nel censuario di Monte ‘Helprandii’» le famiglie contribuenti salgono a 59, per un totale della somma contributiva di 135 soldi e mezzo (30).

   Dai documenti selezionati e trascritti risulta che per oltre cinque secoli, dall’alba del secolo VIII agli inizi del secolo XIII, risultano poderi in quasi tutto il territorio di Montelparo facenti parte del ‘feudo’ dell’imperiale abbazia di Farfa. Si verificarono anche soprusi ed ingiuste appropriazioni. L’esame dei vari testi ci ha offerto una panoramica dello sviluppo estensivo dei vari possessi e una evoluzione sociale, graduale e progressiva, verificatasi nel corso di quei secoli. Prima si parla di «curtes», sinonimo di poderi con aziende agrarie; poi nella ‘corte’ si costruisce il castello omonimo «con castello», infine tra il secolo X e l’XI appare il «castello», cioè l’agglomerato di case delle famiglie raccolte nel perimetro di un nuovo sistema difensivo costituito sia dalla posizione naturale quasi inaccessibile, sia dalle mura castellane dotate di opportune fortificazioni, come suggerivano le necessità dei tempi. Alla fine del sec. XII (1192) si fa la distinzione tra gli uomini abitanti nel «castello di Monte Elprandi», dipendenti dal ‘feudo’ farfense (‘uomini nostri’), da altre famiglie gentilizie, collegate con i Signori di Falerone e rappresentate dai cadetti residenti a Belmonte e Chiaromonte (a sud est di Servigliano).

Il toponimo «Montelparo»

Sulla origine del toponimo «Montelparo» sono state espresse varie opinioni. Francesco Panfilo da S. Severino nel suo componimento poetico «De Piceni nobilitate et laudibus»(31) afferma che il nome di Montelparo derivi dal fatto che ivi si fronteggiano due colli di pari altezza: (tradotto) “Sta di fronte Elpero, in una forte altura che suscita speranza, che di fatto agli agricoltori produce molti cereali. Propinquo ad esso si notano i colli, i monti vicini, produttivi di messi per gli uomini di pari arte”. – «Spem pariens saxo contra sedet Elperus alto; \ Nam parit agricolis plurima farra suis: \ Aitquia vicinos montes, collesque propringuos \ Frugibus aequiparet, viribus, arte pari».-

   Lo scrittore Quinto da Quintodecimo considera un rapporto con il sacerdote Elperino, fatto vescovo di Ascoli nel 950; ma evidentemente si tratta di un errore in quanto Montelparo mai fu soggetto ad Ascoli.

Lo storico Luigi Pastori dedica un intero capitolo sulla etimologia di Montelparo e conclude dicendo che deriva dal «Monte di Elprando» scritto per esteso nel contratto enfiteutico del 1192; in seguito questo toponimo, scritto negli atti notarili con le abbreviazioni d’uso «Montis Elpri, o Elpi)» fu detto Montelparo, o anche Montelpare, o Monterebere come tuttora nel gergo dialettale.

   Chi fosse questo signore, di nome Elprando, non ci è dato di saperlo attraverso documenti storici. Il Pastori, come ipotesi di studio, dice che Elprando indica un nome longobardo, come Liutprando, Tachebando, Ildebrando, ecc., che sovente si incontrano in documenti prima e dopo il mille. Scrive considerando l’altura: «Questo signore, di nazione longobarda, resosi padrone di questo fondo, vi costrusse un castello all’uso di quei tempi, e colla signoria sopra d’esso da lui prese il nome di «Castello del Monte d’Elprando». Per quanto riguarda il plurisecolare possesso farfense, ancora come ipotesi, egli conclude: «Così conviene credere che il detto Signor Elprando, o alcuno dei suoi discendenti, in mancanza di successione donasse i suoi fondi col suo castello all’Abbazia stessa di Farfa» (32).

   Per quanto conosciamo dai documenti trascritti nel paragrafo precedente, lasciando insoluto il problema insoluto della genesi del toponimo, si può aggiungere dai documenti riprodotti che questa denominazione del «Montis Elprandi» più antica è da anticipare di ben quarant’anni, rispetto alla documentazione del 1192 prodotta dal Pastori, cioè all’anno 1152, in riferimento al privilegio dell’abate Berardo V in favore del Monastero di Santa Vittoria, inoltre tale forma è costante fino all’anno 1235, come risulta nell’atto di donazione di Cincio in favore della madre, Rubbata, di tre pezzi di terra siti « in tre luoghi … nelle pertinenze di Monte di ‘Elprando’ in luogo detto Roncone nel vico di S. Maria». Dopo quattro anni, nel 1239 appare la forma attuale di Montelparo, che si legge in un atto del Codice Diplomatico di S. Vittoria con cui la suddetta Rubbata, facendosi conversa del Monastero di S. Vittoria, sottoscrive una donazione dei suoi beni in favore di detto Monastero: «et una abitazione sita in ‘Montelparo’… e la vigna sita in Mandano nelle pertinenze di Monte di ‘Elparo’» (33) edita dal COLUCCI..

   Nelle pergamene di Montelparo del secolo XIII si alternano le diciture «Monte Elparo» e «Monte Elpero» indifferentemente. Anche oggi nel gergo popolare e dialettale risuona la seconda forma, nonostante che da più di un secolo sia stato ufficializzato il nome di Montelparo. In una pergamena del 1325, trascritta e pubblicata dal Tanursi, relativa al parlamento fatto presso l’accampamento militare dei Fermani sul Colle Lardone, si legge: «Redatto nel territorio della Terra di Monte ‘Erpero’». L’uso della r, «er» al posto della l «el» è frequente nel gergo popolare, come l’inserimento della «be» al posto della «pe»; questa seconda forma si legge nel coro di S. Maria nuova a Perugia, ove nel 1456 Mastro Paolino di Ascoli scrive che gli fu socio nei lavori d’intaglio «Johanne de Monterbero». Anche oggi non è infrequente sentire queste forme nelle espressioni dialettali.

Le antiche chiese di Montelparo

   In ognuno di questi poderi curtensi di proprietà monastica antica ed anche nei suoi successivi frazionamenti del podere furono erette piccole chiese per radunarvi i lavoratori ed i signori per il culto divino, presieduto dal proprio Rettore o Cappellano, nominato dal Priore dei monaci farfensi che risiedevano a Santa Vittoria in Matenano.

   Nel secolo XIII, tutte le chiese di Montelparo che conosciamo dai documenti, risultano soggette al monastero di S. Vittoria, al pari di quelle di Montefalcone. Nel territorio del comune di S. Vittoria, invece, le chiese site nelle contrade esposte al nord e ad est, cioè: S. Salvatore, Tasciano, Poggio, Monterodaldo e Campiglia erano soggette al Vescovo di Fermo.

   Un elenco delle antiche chiese di Montelparo ci è offerto da due importanti documenti. Il primo risale all’8 maggio 1257, quando l’abate di Farfa, Giacomo I (1253-59), su richiesta del sindaco di Montelparo, accorda a questo Comune ed ai Cappellani alcuni diritti sulle chiese esistenti in quel territorio; fra i quali il «diritto di seppellire e di portare i corpi delle persone nelle chiese predette». Prima di questa concessione, erano sepolti presso il Monastero di S. Vittoria; inoltre accordava il «diritto di trasferimento delle chiese…  riedificando quelle esistenti nel distretto di Monte Elparo all’interno del castello, o fuori attorno ai fortilizi del medesimo castello»; nonché il diritto «suonare (le campane) presso le chiese» per la S. Messa, l’ufficiatura delle Ore e del Vespro.

   Per queste concessioni il Comune di Montelparo si impegnò a versare all’Abbazia di Farfa ed al Priorato di Santa Vittoria 100 lire di moneta volterrana da servire «per i vestiti dell’abate stesso, del priore e dei monaci». L’atto fu stipulato a Montelparo «in un’abitazione del Monastero Farfense» (34).

   Il secondo documento è costituito dalle ricevute delle decime straordinarie imposte dal papa ascolano, Nicolò IV, per sostenere le imprese di Sicilia nel triennio 1290-92 <Razioni di decime dell’archivio Vaticano> (35). Questi documenti non furono noti al Pastori, primo storico di Montelparo che nel Capitolo V della sua opera dà notizie sulle chiese di Montelparo in base ai documenti degli archivi locali. Noi le esaminiamo seguendo l’ordine del primo documento, integrandolo con annotazioni riguardanti la collocazione geografica ed l’evoluzione storica.

.1. – S. Maria de Alvangiano (Alvagnano), o de Albaniano; risulta elencata nelle predette Razioni delle Decime con i toponimi Maria de Alviano, o de Alvignano, o de Allungano (nn. 7536, 7693, 7695, 7703). Come accennato sopra ( .e-) si suppone che originariamente fosse collocata in contrada S. Maria, forse, nei paraggi di S. Maria de Camurano. Il toponimo ci induce ad ipotizzare che quella contrada, piuttosto arida, fosse stata data in concessione in epoca romana imperiale ad uomini, liberi, poveri, detti «albani». Certamente il titolo fu trasferito in altra chiesa costruita nel centro abitato moltelparese dopo il 1257; chiesa ben distinta da S. Maria Novella. La soggezione al Monastero di S. Vittoria fu confermata nel 1334 dall’abate Giovanni IV (1330-45): «chiesa di S. Maria de Alveniano»; doveva essere tra le chiese con cura d’anime più importanti del paese, poiché è ricordata espressamente dopo S. Angelo in Castello e prima di S. Maria Novella e S. Angelo de Gaglianello (36). Nel 1348 fu aggregata al Monastero (Collegiata) di S. Angelo de Castello; nel documento si dice: «chiesa di S. Marie de Alvangiano sita in detta terra di Monte Elpero»; ove «terra» indica espressamente il centro abitato (37).

.2. – Sant’Angelo de Castello è la chiesa parrocchiale e matrice (primaria parrocchia) di Montelparo, posta in cima al colle del suo centro abitato, rione che si chiama tuttora «Castello». Soggiacque per molto tempo alla giurisdizione farfense amministrata tramite il Monastero di S. Vittoria. Nel 1348 divenne Monastero e Prioria farfense autonoma; il monastero fu soppresso nel 1628, e la parrocchia fu data ai sacerdoti secolari con nomina riservata all’Abate Commendatario Farfense (38).

.3.- San Severino: secondo una memoria del Valeriani, pubblicata da Amico Ricci, era sita alla sinistra della strada per Monte Rinaldo, nella contrada detta «Butinè»; in essa nel secolo XVII si raccoglieva la maggior possidenza dei Frati di S. Agostino di Montelparo; l’abitazione fortilizio detta castello fu trasformata in casino di campagna di spettanza dei medesimi Frati agostiniani; poco lungi si dissotterrarono molti cadaveri con anticaglie d’epoca precristiana. Al tempo di Gentile II, abate di Farfa (1247-50), fu ricostruita in paese «in località detta Tufu»; il Priore di S. Vittoria conservò il diritto di nomina dei cappellani e di percepire due terzi dei diritti di sepoltura (39), essendo chiesa parrocchiale. Nelle R.D.I. (n. 7720) si legge che D. Tommaso di Raniero, prebendato di S. Severino, il 12.4.1291, nella qualifica di procuratore e nunzio del Priore di S. Vittoria, si recò in Offida per le decime del terzo anno, imposte dal papa Nicolò IV.

   Agli inizi del Trecento appare unita alla chiesa parrocchiale di S. Angelo in Castello. Il santo titolare della chiesa, S. Severino, figura nel polittico di Niccolò Alunno, dipinto nel 1466: è il primo personaggio in piedi sul lato sinistro, con spada in mano (40).

.4. – S. Maria de Roncone nel castello rurale omonimo, lungo il versante dell’Aso. Ad essa fu unita la chiesa di S. Pietro de Roncone. In un documento del 1298 si dice che possedeva molini all’Aso, poi passati al Comune. Non figura nelle ricevute delle Razione delle Decime del Vaticano. In altro documento del 1303 si dice che la prebenda di S. Maria de Roncone era unita alla chiesa parrocchiale di S. Angelo de Castello.

.5. – Sant’Angelo di Galianello nella omonima contrada; nel sec. XVIII, a testimonianza del Colucci e del Pastori, vi si scorgevano piccoli avanzi di detta chiesa curata, che nel 1348 restò unita con le sue rendite alla Prioria parrocchiale di Sant’Angelo in Castello. In un documento del 1533 è detto che era sita «sotto la ripa di Monte Elpero».

.6. – Sant’Angelo de Capistrello nella omonima contrada, attraversata dalla moderna strada provinciale «Monto(tt)onese», ai confini con il territorio di S. Vittoria in Matenano. In questa contrada vi era un castello; due parti delle rendite patrimoniali nel 1152 dall’abate Berardo V furono assegnate in favore del Monastero di S. Vittoria (41). In seguito fu unita alla parrocchia di Sant’Angelo de Castello. Non si sono conservate tracce né del castello, né della chiesa. Non figura nelle ricevute delle decime del triennio 1290-1292, segno questo che era avvenuta l’accennata aggregazione.

.7. – S. Pietro de Roncone era rurale e fu trasferita ricostruendola al centro del paese nel 1286. La designazione del cappellano spettava al Monastero di S. Angelo Magno di Ascoli che nella contrada Roncone, ai Casali, ebbe varie possidenze; ma la conferma giuridica della nomina del cappellano suddetto spettava al Priore di S. Vittoria. Cfr. S. Maria di Roncone.

.8. – Sant’Antimo, probabilmente è da considerarsi la chiesa più antica eretta nel centro abitato di Montelparo, figurando nei diplomi degli Ottoni del secolo X la «curte de Sant’Antimo». Fu chiesa parrocchiale. Nel 1279, dall’abate farfense, Morico, fu donata ai Frati dell’Ordine Eremitano di S. Agostino, i quali la trasformarono in chiesa conventuale dedicandola a S. Agostino. Era sita a nord-est dell’antica piazza del castello, accanto al Palazzo comunale; entrambi gli difici furono gravemente danneggiati dalla frana del sec. XVII e dal terremoto del 1703.

.9. – S. Benedetto – S. Lucia: queste due chiese rurali, vicine tra loro, erano site nella contrada di S. Lucia, non molto distanti dalla chiesa di S. Maria in Montorso, esistente in territorio di Monte Rinaldo. Andarono distrutte in tempo indeterminato. Una cappella dedicata ai SS. Benedetto e Lucia fu eretta nella chiesa di S. Maria Novella, con proprio beneficio di collazione farfense fino al secolo XVIII (42).

.10. – S. Maria de Cerestana sorgeva nella omonima contrada, fin dal secolo XI, sulle sponde del fiume Aso, fu distrutta dalle alluvioni del fiume troppo vicino, fu riedificata in luogo più discosto dal fiume nel 1690. Corrisponde all’attuale Madonna della Celestiale, nella omonima attuale contrada (43).

.11. – S. Pietro de Catelliano, nella contrada omonima, un tempo aveva un proprio castello, sorgeva a nord di Montelparo e ad ovest di Monte Rinaldo. Nel 1242, distrutto il castello, gli abitanti si raccolsero in maggior parte in un rione all’interno del paese, che prese il nome di Catigliano che comprendeva la chiesa di S. Pietro e quella seguente. Il suo cappellano pagò le decime nel 1290.

.12. – S. Martino de Catelliano chiesta esistente ancora presso il cimitero di Monteleone. Un tempo il territorio di Montelparo si stendeva fin là (44); i montelparesi l’hanno reclamata per molti secoli. Nel 1265 altra chiesa con la stessa denominazione fu ricostruita in Montelparo.

.13. – S. Martino de Podio, chiesa diruta da più secoli. Il Colucci annota che il sito in cui sorgeva la chiesa era l’aia del beneficio di S. Maria de Montorso e che per pochi passi era esclusa dal territorio di Montelparo ed inclusa in quello di Montalto (45).

.14. – S. Maria de Montorso, esiste tuttora e si conserva nella sua identità di struttura e di sito in territorio di Monte Rinaldo, poiché da quella parte i confini territoriali tra i due comuni furono fissati come stabili solo nel 1507 (46). La nomina del suo rettore era di competenza del Priore di S. Vittoria, fino al 1747 (47). Nel 1290, il suo rettore, D. Giacomo di Bucchiano, pagò otto soldi per la decima straordinaria (N. 7550).

.15. – S. Maria Novella, tuttora esistente nel centro abitato, non figura nel primo documento perché fu costruita nella seconda metà del sec. XIII; pagò regolarmente le decime straordinarie del triennio 1290-92 (nn. 7535, 7694 e 7705). Fu chiesa parrocchiale fino al 1960 circa.

.16. – S. Pietro di Bucchiano, nel castello di Bucchiano, ad ovest di Monte Rinaldo, nella giurisdizione del vescovo di Fermo. Il rettore, D. Giacomo, ed il cappellano, D. Tommaso, pagarono a Fermo le decime relative all’anno 1290. Fu distrutta nel 1378 (48). In S. Gregorio si conserva una campana fusa nel 1354, proveniente dalla chiesa di Bucchiano.

Montelparo libero comune del secolo XIII.

   Come già riferito, il primo nucleo abitativo attorno al colle, denominato Montelparo, esisteva già nel secolo decimo con la chiesa ed il «vicus» dedicati a Sant’Antimo. In seguito si aggiunsero il castello e la chiesa di Sant’Angelo de Castello. Nel secolo XIII si accentuò il fenomeno dell’incastellamento delle famiglie dei signori di campagna ed il trasferimento dentro le mura castellane dei titoli delle loro chiese rurali.

   All’inizio, alla formazione del nucleo abitativo contribuirono uomini liberi: ex feudatari inurbati, artigiani, commercianti, liberi professionisti, ecclesiastici e nullatenenti. Uniti insieme in aggregazioni naturali, denominate «comunanze», «unione di convenzioni», e talvolta «università», erano comunità rappresentate dai loro sindaci e governate da propri «consoli» e formavano il «consiglio», organo rappresentativo della comunità.

   Questa nuova realtà che si sviluppò tra la fine del secolo XII e gli inizi del secolo XIII in quasi tutti i centri abitati del Piceno, si consolidò giuridicamente in modo stabile per le concessioni fatte dalle maggiori autorità locali: il papa, il vescovo di Fermo, l’abate di Farfa e il consenso estorto ai signori feudatari laici.

   Fermo ed Offida ottennero la libertà comunale dal papa, rispettivamente negli anni 1189 e 1192, per far fronte alle mire di espansione dei marchesi imperiali nel Patrimonio di S. Pietro. Il vescovo di Fermo fece varie concessioni di libertà agli uomini di Monte Santo (= Potenza Picena) in data incerta, attorno al 1178, ancora nel 1199, a quelli di Ripatransone nel 1205; a quelli di Montottone, nel 1217, diede facoltà di eleggersi il loro Podestà da scegliere tra i Fermani.

   Nel secolo XIII, per concessione dell’abate farfense, divennero comuni autonomi: Santa Vittoria prima del 1213: una pergamena del 30 agosto1213 dell’Archivio Comunale di Santa Vittoria in Matenano contiene una transazione tra l’Abate di Farfa e la Comunità di S. Vittoria da una parte, ed i figli di Milone dall’altra, in cui si stabilisce che i vassalli di questi ultimi, dimoranti in Santa Vittoria, abbiano la libertà di cui già godevano i vassalli dell’Abbazia ed il diritto di far «comunanza», come gli altri (49); Montefalcone certamente comune nel 1214 (50); Montelparo, probabilmente nello stesso decennio, infatti da un documento del Monastero di Sant’Angelo Magno di Ascoli Piceno risulta che nel 1222 era Podestà di Montelparo il monaco farfense Enrico da Cossignano, famoso giurista, che, poi, fu anche abate di Farfa (51); il più antico documento superstite dell’Archivio Storico Comunale di Montelparo, che risale al 1242, riferisce che in quell’anno fu podestà del comune montelparese Alessandro di Attuccio da Falerone (52). Il comune di Force, nel 1239, si ribellò alla sudditanza farfense per passare sotto la protezione del Comune di Ascoli, e, nel 1247, ottenne dal papa la facoltà «di fare comunanza e di vivere liberamente nella fedeltà e nella devozione alla Romana Chiesa, come gli altri castelli della Marca» (53).

   Non conosciamo quando Montelparo conseguì la facoltà di organizzarsi in libero comune. Leggendo alcuni passi dell’istrumento stipulato tra l’Abate Matteo I e gli uomini di Montefalcone, nel 1214, ipotizziamo sostanzialmente che fosse simile a quello stipulato in quei tempi con gli uomini di Montelparo, e possiamo farci un’idea della portata dell’avvenuta concessione, tramite reciproca intesa. ”Concediamo agli uomini di Montefalcone, nella persona di Gerardo da Valcaturio che li rappresenta, piena facoltà di eleggersi i podestà, consoli, giudice, notai e balivi; di fare leggi ed organizzare il governo del paese con piena libertà, come e meglio di qualsiasi altro castello meglio organizzato al di qua dai monti”.

   L’abate si impegna a rispettare i loro diritti e a non intervenire nel loro territorio, se non per difendere i loro uomini e le loro cose; ed aggiunge: «se qualche altro paese, eccettuata Offida, avrà qualche concessione più favorevole col passar del tempo, sarà concesso anche a voi». Non si fecero, né si imposero regalie; i cittadini avevano regalato all’abate il campo Vignola; l’abate lo accettò con gratitudine e non pretese altro dal comune.

   Nel suddetto documento sono chiaramente ricordati gli elementi costitutivi del comune medievale: l’abate riconosce il «Sindaco», personalità giuridica che cura gli interessi del comune ed interviene per esso nell’atto pubblico; dà facoltà di formare il «Consolato», ossia il consiglio di amministrazione; di eleggere il Podestà, gli officiali (giudici e notai) ed i messi comunali (bajuli).

   Si presume che anche gli uomini di Montelparo, intorno al secondo decennio del sec. XIII, ottenessero dal medesimo abate farfense, Matteo I, la facoltà di organizzarsi in libero comune. Però la piena libertà di governarsi autonomamente fu acquisita gradualmente ed a titolo oneroso, come avvenne per gli altri comuni limitrofi.

   Nelle concessioni fatte dal vescovo di Fermo, per le libertà comunali, si prescriveva che l’amministratore della giustizia (Podestà), i rettori e i consiglieri (e consoli, qualora fossero scelti tra forestieri, dovevano aver licenza del vescovo. E quando la città di Fermo vincolò a sé i vari castelli del Contado Fermano, si fecero solo parziali concessioni di autonomia. Nei comuni riconosciuti dall’autorità Fermano, la comunità locale aveva il suo Parlamento Generale, il suo Consiglio ordinario con i Massari e Sindaci, mentre la Città vi inviava un suo «Vicario» con funzioni podestarili per la tutela dell’ordine pubblico e per l’amministrazione della giustizia.

   I Signori di Amandola e di Penna S. Giovanni, negli anni 1248 e 1265 vendettero i loro diritti feudali ai rispettivi comuni, ma si riservarono il diritto di amministrare la giustizia per uno o più anni (54). La stessa cosa si era verificata in Montelparo, dato che nel 1222 vi ricoprì la carica di Podestà Fra Enrico da Cossignano, monaco farfense del Monastero di Santa Vittoria. Così pure Rinaldo da Castelnuovo, che nel 1242 aveva venduto il castello di Bucchiano al Comune di Montelparo, nel primo semestre del 1249 è Podestà di Montelparo.

   Nelle prassi comunale dell’epoca il Podestà, eletto generalmente per sei mesi, talvolta anche per un anno, nel corso del tempo assunse sempre più il carattere di rappresentante politico, perciò doveva essere persona gradita al Rettore della Marca, uomo di legge, forestiero, non imparentato con cittadini del luogo.

   Il nome del primo Podestà che figura nelle pergamene di Montelparo è un certo Assalto di Taffurio da Ascoli. Nel 1244 fu retribuito con 40 libbre di moneta volterrana, oltre il rimborso delle spese per missione in Osimo per conto del Comune e per la spedizione di suoi soldati a Faenza in servizio presso la corte imperiale. La concessione di libertà comunale di Montelparo fu ottenuta a titolo oneroso, come si legge nella pergamena locale del 26 febbraio 1257 quando Fra Leonardo, procuratore dell’Abate di Farfa, Giacomo, esentò il Comune di Montelparo dall’annuo censo di 50 lire e da tutti gli oneri feudali dovuti al Monastero.

   L’affrancamento da ogni giogo di servitù e di gabella avvenne dietro esborso da parte del Comune della somma di 1250 lire volterrane, (a fine secolo XX circa 40milioni di lire italiane (55). Intorno all’anno 1257 si verificò nel Fermano il fenomeno dell’annessione di tanti comuni dei castelli alla città di Fermo. Montelparo, invece, preferì restare comune autonomo, pagando saporitamente la sua libertà. L’affrancamento ottenuto dal Comune di Montelparo riguardava tributi, omaggi, regalie, prestazioni reali e personali.

   Nel contempo rimaneva invariata la dipendenza religiosa, o delle realtà spirituali, in riferimento all’Abbazia di Farfa e al Monastero di Santa Vittoria. Per tutto il secolo XIII e la prima metà del secolo XIV, per l’erezione di chiese, per la loro demolizione, per il trasferimento delle chiese rurali dentro il castello i montelparesi hanno dovuto richiedere l’autorizzazione agli abati di Farfa, mentre la nomina dei rettori, o cappellani delle loro chiese era demandata al Priore del Monastero di Santa Vittoria.

   Risale al maggio 1257, cioè tre mesi dopo l’affrancamento, la concessione fatta dallo stesso abate alla comunità di Montelparo di poter seppellire i morti nelle chiese del territorio. non più presso il Monastero di Santa Vittoria, come riferito a proposito delle antiche chiese (56).

   Nel 1260 l’Abate di Farfa, Pellegrino, concesse al clero ed al popolo di Montelparo un privilegio di assoluta esenzione dalla autorità del priore di S. Vittoria (527. Ma, circa un mese dopo, il Vicario farfense nella Marca annullò alcune concessioni fatte al clero ed alla comunità di Montelparo, come pregiudizievoli ai diritti del Monastero di S. Vittoria (58). Per queste contraddizioni i rapporti tra le autorità di S. Vittoria e il clero di Montelparo non furono sempre pacifici.

   Nel febbraio 1261 il papa Urbano IV pose l’Abbazia di Farfa sotto l’immediata giurisdizione della Sede Apostolica, concedendoli il privilegio «nullius diocesis», cioè Abbazia non soggetta a nessun vescovo; e nell’elenco dei possessi e delle chiese appartenenti all’Abbazia incluse il «Castello di Monte Elprando con le chiese, le ville e le pertinenze» (59).

   La struttura amministrativa del comune nel secolo XIII era simile a quella degli altri comuni della zona montana e dell’area farfense. Il Podestà era Rettore e Giudice, coadiuvato dal socio milite e dai balivi (uscieri e guardie comunali). Egli presiedeva i consigli per garantirne la regolarità ed amministrava la giustizia secondo le norme statutarie montelparesi, restava in carica per sei mesi, proveniva sempre da altro paese, al termine del mandato riceveva il salario pattuito che, ordinariamente, oscillava tra 40 e 50 lire.

   In un primo periodo la nomina del Podestà doveva essere confermata dal Legato Pontificio della Marca di Ancona. Sul finire del secolo XIII il papa Nicolò IV concesse a molti comuni marchigiani la facoltà di eleggersi autonomamente Podestà e gli officiali. Tra le prime concessioni figura la bolla in favore del Comune di Montelparo che reca la data 28 ottobre 1291. Il Podestà era competente a istruire, giudicare e sentenziare su tutte le vertenze giudiziarie, civili e criminali, eccettuati i crimini di lesa maestà, di omicidio, di adulterio, di rapimento di vergini, di incendio doloso e furto; per detto privilegio a questo Comune fu imposto il censo annuo di 34 lire ravennate (60).

   La convocazione del Parlamento Generale ci doveva essere per la riforma delle norme statutarie la convocazione del Parlamento Generale, che pur ci doveva essere per la riforma delle norme statutarie. Dalle pergamene, che generalmente fanno riferimento ad atti amministrativi relativi a possessi, non risultano notizie sul Parlamento. Più volte, invece, si parla del Consiglio Generale, specialmente nella nomina di «Procuratori» per la stipula di contratti per l’incastellamento dei signori rurali e dei loro vassalli; Questo Consiglio era formato da 100 uomini scelti in pari numero tra le quattro contrade, o quartieri: S. Angelo; S. Maria o del Mercato; S. Pietro; e S. Giovanni. Al Consiglio di Cernita, formato da 32 elementi, 8 per contrada, competeva l’amministrazione ordinaria.

   Il Sindaco era il rappresentante legale del Comune; il Massaro ne era l’economo; il Cancelliere fungeva da segretario; i Notai erano impiegati con distinte mansioni ed avevano rapporti di dipendenza alcuni col Podestà, altri dal Cancelliere. I Balivi erano impegnati in compiti diversificati; messi comunali, banditori, guardie per vigilare sull’ordine pubblico ed uscieri.

   Per diversi anni il comune di Montelparo non ebbe un suo Palazzo, cioè una sede fissa per gli organi amministrativi. Le assemblee consiliari si tenevano nella chiesa di S. Michele de Castello, o in case di privati. Nell’ultimo ventennio del sec. XIII con regolarità si tennero nella casa dei signori di Chiaromonte, che, probabilmente divenne la sede stabile del Comune (61).

   Dal punto di vista giurisdizionale, il Comune di Montelparo dipendeva dalla Sede Apostolica, per il tramite del Legato Pontificio nella Marca di Ancona. Nella lotta tra Guelfi e Ghibellini la comunità montelparese rimase fedele al papa; nel 1254 si oppose con le armi ad alcuni ribelli e nemici della S. Sede, ed avendo loro arrecati molti e gravi danni, fu da questi citata presso il tribunale del Rettore della Marca. I Montelparesi allora ricorsero al papa Innocenzo IV, il quale da Assisi spedì un breve al suo Legato nella Marca con l’ordine di non molestare in alcuna maniera il Comune di Montelparo per i danni arrecati a quei cittadini nemici e ribelli (62).

Intorno al 1275, per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia ed altre competenze territoriali proprie del Legato Pontificio la Marca di Ancona fu divisa in tre «Giudicature»: al nord «ludicatus S. Laurentii in Campo» dal fiume Esino fino ai confini con la Romagna; al centro: «ludicatus Camerini, Auximi, Humane et Ancone»; «ludicatus a fluminibus Salini, Tenne ac Tennacule usque ad partes Regni»’, che in seguito più comu¬nemente fu detto: Presidiato dell’Abbazia di Farfa, con sede a Santa Vittoria, presso il Palazzo Comunale, al piano superiore.

Il territorio di Montelparo fu compreso in quest’ultima circoscrizione giudiziaria; ad essa dovevano ricorrere i montelparesi per cause di appello, civili e criminali; nelle questioni circa i confini territoriali; per far autenticare copie di pubblici strumenti; per ricorsi contro le tasse imposte dal Comune; per pagare censi e taglie dovuti alla Sede Apostolica (63).

   Nei successivi paragrafi saranno riferiti alcuni interventi dei giudici del Presidato Farfense in controversie riguardanti l’integrità territoriale del comune, il trasferimento dei beni mobili degli immigrati che si incastellavano, emigrando da altro comune, per reprimere ogni appoggio che si desse a banditi e ribelli.

   Il Presidato Farfense col trascorrere dei secoli perdette lentamente la sua iniziale- forza giuridica di Curia Generale, per il progressivo accentramento delle pratiche presso la Curia del Legato Pontificio con sede a Macerata. Mentre gli altri Presidati svanirono sul finire del Quattrocento, quello Farfense funzionò fino agli inizi del pontificato di Sisto V (nel 1585). Nel primo anno del suo pontificato, il papa indirizzava un suo Breve «ai diletti figli, alla comunità, e alle persone del nostro Castello di Monte Elparo, nel Presidato Farfense». Ma l’anno appresso, 1586, cercò di dargli nuova vitalità, creando il «Presidato di Montalto» che durò fino all’istituzione del primo Regno Italico, al tempo di Napoleone.

                                                                      L’incastellamento

   Alla formazione del libero comune inizialmente no partecipò tutta intera la popolazione concentrata dentro le mura del castello, ma solo una parte. L’organizzazione comunale conferì grande forza morale e sicurezza difensiva alla generalità dei suoi abitanti e residenti. I nobili signori di campagna progressivamente nel tempo rimasero isolati ed indifesi, facile preda di scorrerie militari da parte degli imperiali e dei fiancheggiatori ghibellini (64).

   L’istituzione del libero comune contribuì notevolmente al cambiamento della condizione sociale di molte famiglie. Tra le sue finalità istituzionali non ultima era quella dell’ampliamento del proprio territorio e l’accrescimento della popolazione urbana per i conseguenti miglioramenti tributari. Questo processo avveniva a scapito dei vari signorotti di campagna che possedevano i loro poderi curtensi (curtes) nell’ambito dell’originario territorio del comune. Gli amministratori comunali costringevano costoro, persino con l’esercito e con la violenza, a cedere l’antica giurisdizione feudale e ad inurbarsi nel centro abitato con i propri vassalli. Quando il signore di campagna chiedeva di rifugiarsi in paese, trovava accoglienza e protezione dall’amministrazione comunale, mediante il contratto di incastellamento (“fare castellania”), col quale ordinariamente il comune concedeva al signore un’esenzione dai tributi, almeno per un certo numero di anni, una casa dentro le mura del castello, o il materiale, e lo spazio per costruirla ed un orto. Era norma abituale che dalla nuova sede il proprietario inurbato potesse controllare a distanza le attività svolte nei campi donde era partito. Ai signori di Catelliano fu concessa un’intera contrada del paese che prese il loro nome, nella quale poterono costruire una loro chiesa.

   Come contropartita per l’incastellato il Comune dava ai signori alcune prestazioni personali, armi e cavalli per la comune difesa in tempo di guerra; per assicurare che i prodotti delle sue terre rimanessero nell’ambito del comune; per finire con il cedere al comune, previo pagamento di una somma convenuta, ogni diritto sui suoi beni e sulle famiglie dei lavoratori (65). I servizi gratuiti che i vassalli sottoposti e i servi della gleba avevano prestato al loro signore, conseguentemente ai patti, venivano dati al comune che li aveva resi liberi.

   I vassalli potevano continuare a lavorare per il vecchio padrone, ma non gratuitamente; il lavoro doveva essere adeguatamente ricompensato in giornata; e contro eventuali inadempienze ogni cittadino trovava giusta difesa presso la curia del Podestà.

   In questa nuova situazione il signore di campagna non perdeva la sua funzione politica e sociale, ma, per quanto è logico pensare, una volta inurbato, entrava a far parte dei cavalieri dell’esercito comunale con competenze dirigenziali, ed essendo formato da una secolare tradizione amministrativa, veniva naturalmente a far parte del ceto dirigente del comune. Una ventina di pergamene dell’Archivio Comunale di Montelparo documentano l’incastellamento di alcune famiglie rurali. Eccone un breve elenco, riassumendone il contenuto, poiché documentano i primi passi del nostro libero comune.

   II 24 febbraio 1242 Marco di Tebaldo da Catelliano promette ad Alessandro di Attuccio da Falerone, Massaro e Rettore di Montelparo, di inurbarsi con la sua famiglia e tutti i suoi beni mobili ed immobili e di prestare giuramento di sudditanza al Podestà, e di corrispondere le collette al pari degli altri abitanti (66). L’8 luglio 1242, Ruggero, figlio del defunto conte Ferro, vende al procuratore del Comune per 100 lire una casa, un orto, dieci mansi con i rispettivi lavoratori livellari (per contratto di livello) esistenti nel castello di Bucchiano con l’impegno di farli abitare in Montelparo (67).

   Il 24 novembre 1242, Rinaldo e Gentile, figli del fu Giacomo di Fratre, a nome proprio e del loro fratello Giberto, si impegnano con il procuratore del comune a fare incastellare in ‘Montelpero’ alcuni livellari della corte di Bucchiano di loro proprietà, ed in cambio dovevano ricevere la protezione da parte del Comune. La cessione era a titolo oneroso. Nel 1245 i suddetti rilasciano ricevuta di una rata di 80 lire (68). Il 15 gennaio 1245, Ruggero da Castelnuovo ed il figlio Ferro vendono al Comune di Montelparo i loro beni immobili ed i livellari dei castelli di Bucchiano e di Pastina per la somma di 1000 lire volterrane (69). Il 12 maggio 1264 il Consiglio Generale ed il Podestà di Montelparo nominano loro procuratore Bonaggiunta di Gisone di Benedetto per ottemperare a tutte le formalità richieste dalla legge locale per incastellare Matteo, Paganuccio e Federico Vinciguerra; Trasmondo e Ruggero di Leto da Chiaromonte, proprietari di metà della corte di Torre di Casole, oggi Monteleone, dietro pagamento di 550 lire. L’anno seguente il suddetto Ruggero di Leto completava l’atto di incastellamento, cedendo tutti i suoi beni e le sue competenze giuridiche nei territori di Torre di Casole e di Montelparo, dietro compenso di 137 lire. La corte di Torre di Casole e di Montelparo, dietro compenso di 137 lire. La corte di Torre di Casole apparteneva ai Signori di Chiaromonte, colle a sud-est di Servigliano, cioè: Ruggero di Leto, Gualtiero di Alistrante, Risabella figlia del fu Corrado. I Signori di Chiaromonte possedevano in Montelparo anche una casa, usata dal comune per le riunioni del Consiglio, ma nonrisulta che vi fissarono la loro residenza, dato che nessuno di essi compare mai come testimone, né come attore nei documenti montelparesi (70).

   L’8 gennaio 1268 avvenne l’incastellamento di Suppolino di Giorgio da Fermo e della moglie Anfelisia, con i loro beni e i vassalli nella corte del diruto ed incendiato castello di Catelliano, facendo obbligo a non ricostruire detto castello in pregiudizio e danno del Comune di Montelparo. Per i danni precedentemente arrecati alle case ed alle persone Guamerio e Guglielmo, rispettivamente marito e figlio della suddetta Anfelisia, il Comune corrisponde in due rate la somma di 100 lire volterrane (71).

In data 1 agosto 1269 si registra l’incastellamento di Marco di Pietro da Catelliano, dietro esborso di 180 lire da parte del Comune. Facendo eccezione alle leggi statutarie, si concedeva la facoltà, a sua scelta, di abitare anche a Fermo, e l’esenzione per sé e per i suoi eredi dal combattere contro la città di Fermo, qualora il Comune di Montelparo avesse sostenuto una guerra contro questa città. Documenti successivi riferiscono che i rapporti tra il Comune di Montelparo e gli eredi di Marco, cioè la vedova Contadina ed i figli, furono pieni di tensioni per ratei non corrisposti in tempo debito dal Comune (72).

   In occasione dell’incastellamento non si potevano trasferire nel comune di nuova residenza i beni mobili posseduti in altro comune. Questa norma singolare emerge da un atto del 3 novembre 1291 del giudice del Presidiato Farfense, Giorgio di Lorenzo da Tivoli, il quale ordina ai signori amministratori di Monte Rinaldo di proibire ai rappresentanti di Pucciarone, diventato cittadino di Montelparo, di esportare da Monte Rinaldo a Montelparo i beni mobili di costui. La sentenza fu confermata da Malomo, Podestà di Fermo, al quale si era rivolto lo stesso Pucciarone, dato che Monte Rinaldo si trovava sotto tale giurisdizione (73).

   Il Comune, inoltre, non perdeva alcuna occasione alcuna per consolidare ed ampliare i suoi possessi in terre e case, non solo nell’ambito territoriale di Montelparo, ma anche nei comuni confinanti. Nel 1267, per 50 lire di moneta corrente acquistava da Gualtiero di Alistrante da Chiaromonte le sue proprietà immobiliari con i suoi lavoratori, site nelle pertinenze di Torre di Casole (74). Nel 1291, Pucciarone di Giuliano, insieme con i suoi fratelli Federico ed Anselmuccio, vendeva al Comune di Montelparo per la somma di 800 libre di moneta corrente, una casa, diversi appezzamenti di terra, una vigna ed un orto, siti in territorio di Monte Rinaldo, tra il fosso Ilico (= Indaco) ed il fiume Aso (75).

   Nel 1294 il Comune montelparese prendeva possesso delle chiese di Sant’Angelo in Capistrello e di S. Maria di Scerestana (= S. Maria Celestiale) e dei rispettivi beni, già proprietà del fu Andriolo di Guglielmo di Ascaro, inoltre acquisiva alcuni appezzamenti di terra, case e mulini sull’Aso (76).

   Le pergamene montelparesi registrano anche atti con cui il Comune prende in affitto case e terreni, oppure procede alla vendita di case site nel centro abitato. L’economia del comune era basata principalmente sul gettito delle imposte pagate dai proprietari terrieri, sulla tassa del focatico (o del fumante) e sui proventi derivanti dal macinato. Per assicurarsi quest’ultima entrata gli amministratori comunali, nel 1298 si preoccupavano di acquistare dai rispettivi proprietari ben cinque mulini, posti lungo l’Aso ed il Roncone (77).

   Nonostante tutte le buone intenzioni che gli amministratori mettevano nel curare la prosperità del comune, non sempre conseguirono la pace e l’armonia tra i cittadini. Non fu cosa certamente facile ottenere la concordia e convivenza pacifica tra tutti i diversi residenti e abitanti. I nobili incastellati, abituati a comandare, miravano sempre più all’affermazione del prestigio del loro casato; mentre gli artigiani ed i liberi professionisti, che si consideravano i fondatori del libero comune, non volevano essere sopraffatti dalle famiglie incastellate.

   Alcune pergamene riferiscono glii atti giudiziari emessi dalla Curia del Presidato Farfense per furto in qualche bottega (78), per rissa fra cittadini, e cose simili. Un rotolo membranaceo, lungo 190 cm., riferisce con molti particolari le scuse e le difese del Sindaco di Montelparo, Giovanni di Pasquale, presso il suddetto Presidato per fatti di sangue ed eccessi verificatisi nel suo territorio ad opera degli abitanti di Bucchiano, onde ottenere la sospensione dell’inchiesta, promossa per competenza da quella Curia (79). Si conserva anche una ricevuta del 10.8.1301, rilasciata dal Tesoriere della Marca di Ancona a Mastro Lorenzo da Foligno, Cancelliere del Presidato Farfense, per conto del comune di Montelparo che era stato multato e condannato per aver dato ricetto a due banditi di Rovetino (80).

                L’antico convento dei padri Agostiniani (75bis)

   Concomitante alla formazione dei liberi comuni fu la diffusione degli ordini mendicanti: francescani, agostiniani e domenicani. A Montelparo nel 1259 erano presenti una comunità religiosa francescana ed una agostiniana: ricevettero lasciti nel testamento di un certo Andreolo di Rinaldo (81).

   La primitiva loro residenza fu certamente in campagna, in ossequio alla fondamentale scelta eremitica, cui univano un apostolato deambulante di casa in casa. Il Pastori dice che il luogo dei Frati Minori fu alle «Macchie» che era distante per un miglio dal centro abitato; però non vi dovettero restare per lungo tempo. Solo più tardi i francescani del Terz’Ordine Regolare verranno a stabilirsi presso la chiesa di S. Maria in Camurano, alla metà del Cinquecento, e vi resteranno fino al sec. XVIII.

   Per quanto riguarda la prima residenza dei Frati Eremitani di S. Agostino, si suppone che fosse stata presso la chiesa semiabbandonata di S. Severino, in contrada «Butinè», lungo la strada che conduce a Monterinaldo; in quel luogo gli agostiniani ebbero la maggiore estensione delle loro possidenze con annesso casino fino alla loro soppressione, nel sec. XIX. Più tardi, essendo quel luogo esposto alle scorribande dei soldati di opposte fazioni, sull’esempio di altre comunità religiose, decisero di trasferire la loro residenza nel centro abitato. Il 19 marzo 1279, l’abate di Farfa, Morico, donò loro la chiesa di Sant’Antimo, sita sulla parte alta del castello. Per dote e mantenimento della cura d’anime assegnò una vigna «in località detta Leguni», ossia «Liù». Di questa concessione esistevano nel convento le pergamene con gli atti notarili originali, lett dal Pastori (82).

   Intorno al 1290, nel sito urbano assegnato, gli agostiniani intrapresero l’ampliamento della chiesa  a cui era annesso il loro convento, dedicato a S. Agostino. In quel tempo i religiosi ricevettero diverse donazioni in case e terreni di cui il Padre Provinciale della Provincia Fermana, Fra Urbano da S. Giusto, autorizzò la vendita per utilizzare il ricavato in moneta sonante nel finanziamento della intrapresa costruzione (83).

   Una relazione del 1650 ce la descrive così: «La chiesa di S. Agostino è sita dentro la Terra di Montelparo, a capo della Piazza. Dentro vi sono sette altari: nell’altare maggiore, dedicato a S. Agostino, si conserva il SS.mo Sacramento; gli altri altari, disposti nelle cappelle alle pareti laterali, erano dedicati a S. Stefano, S. Monica, SS.mo Crocifisso, S. Nicola di Tolentino; seguivano quelli della Pietà e della Madonna della Consolazione; questi due ultimi erano gestiti dalle proprie Confraternite.

   Il convento ha un impianto largo 80 piedi (= 34 metri) e lungo 45 piedi (= 19 metri). Ha nella parte di sotto, ossia piano terra, sacrestia, cantina, refettorio, cucina, dispensa legnaia e granaio. Nel chiostro, in mezzo, una cisterna che non tiene acqua per una voragine che divide sacrestia, chiesa e convento; la quale continuamente cagiona rovine. Si ascende al piano superiore, dove c’è il dormitorio, per una scala. Lungo i corridoi sono disposte quattro o cinque camere per ogni lato con libreria e granaio dalla parte del chiostro. All’esterno si stendeva l’orto» (84).

   L’antico convento agostiniano di Montelparo fu ritenuto di notevole importanza: lo dimostra il fatto che in esso si tennero tre Capitoli Provinciali: nel 1341, 1498 e 1541. Il Priore e un religioso, cioè due religiosi per ogni convento agostiniano delle Marche partecipavano al Capitolo, per più giorni. Per una piccola Terra come Montelparo era un grande onore ospitare un Capitolo Provinciale.

   Ordinariamente la famiglia religiosa montelparese era formata da 10-13 religiosi, tra sacerdoti, conversi e studenti. Molti religiosi montelparesi furono apprezzati professori nelle scuole e nelle università del tempo, altri occuparono i più alti gradi della gerarchia dell’Ordine di S. Agostino, come i Priori Generali Fra Gregorio Petrocchini, elevato alla sacra porpora del papa Sisto V, e Fra Fulgenzio Travalloni.

   Molti giovani montelparesi usufruirono di una ricca borsa di studio, fondata nel 1512 da Fra Mario Marcolini, religioso offidano e figlio del convento di Montelparo; con le rendite di un terreno, sito in Offida, si assegnavano 4 ducati d’oro all’anno ad ogni giovane religioso professo, figlio dello stesso convento di Montelparo, per otto anni continui; inoltre 25 ducati d’oro erano dati «una volta per tutte» a ciascun religioso montelparese che fosse giunto a conseguire la laurea magistrale (85). Per questo lascito molti religiosi montelparesi frequentarono gli Studi Generali dell’Ordine in altre provincie e nelle università, ivi compresi gli illustri personaggi ricordati sopra.

   Purtroppo, chiesa e convento erano impiantati su terreno soggetto a slittamento verso nord-est. La voragine sotterranea, segnalata nella relazione del 1650, nell’anno 1683 causò il diroccamento della parte nord-orientale del centro abitato; nel 1686 gli agostiniani incominciarono una nuova costruzione dell’edificio del loro convento in altra parte del paese. L’antico fu devastato dal terremoto del 2 febbraio 1703. Fra le macerie della sacrestia trovò la morte il P. Maestro Alessandro Travalloni, ivi sorpreso mentre nei consueti riti, dopo aver celebrato la Messa della Candelora (86).

                                        I possedimenti del monastero di S. Angelo Magno

   A Montelparo esistevano due parrocchie e alcuni poderi appartenenti al Monastero femminile di S. Angelo magno di Ascoli Piceno sin dalla seconda metà del secolo XII (87). Nel diploma imperiale di Enrico VI, del 1187 si legge una conferma generica di quanto posseduto dalle religiose nel Comitato e nella Città di Ascoli, e in quelli di Fermo «e quanto possedete nel distretto dell’Abbazia di Farfa». L’enigma di quest’ultima indicazione è sciolto dal privilegio di Innocenzo III del 1199: «Nel Comitato Fermano (vi confermiamo) la chiesa di S. Pietro presso Roncone con la sua parrocchia, un campo in Rotiliano e un campo da Valle S. Martino, la chiesa di S. Silvestro con la sua parrocchia e il campo vicino alla prenominata chiesa, e il campo Polisiano».

   In un documento del 1235 si precisa che la chiesa di S. Silvestro era nelle pertinenze di Poggio Fantolino. Il Pastori ricorda che la chiesa di S. Martino era in contrada Sala, mentre nella contrada Cocciarella esisteva una chiesina dedicata alla Madonna Polisiana (88). Dalle pergamene del Monastero ascolano di S. Angelo Magno si rileva anche che nell’anno 1200 l’abbadessa Marsibilia concesse in enfiteusi ad Ogicio Pavimelda un terreno sito in contrada Roncone; nel 1273 il detto Monastero, tramite un proprio procuratore, fece una permuta di terre in contrada S. Lucia di Bucchiano, distretto di Montelparo.

   Nel 1286 il Monastero di S. Angelo, passato alle Clarisse, chiese al Vice Legato della Marca anconetana, residente a Macerata, la facoltà di trasferire dalla campagna il titolo della chiesa di S. Pietro de Roncone e la parrocchia in un piccolo oratorio, esistente dentro le mura del castello di Montelparo; la richiesta fu motivata dal fatto che, essendosi incastellati gli abitanti di quella contrada, per loro era molto disagevole scendere alla propria chiesa parrocchiale per assistere ai divini offici, specialmente nei mesi invernali. Successivamente, presso l’oratorio costruirono un piccolo monastero femminile.

   Contrariamente a quanto affermato da alcuni storici, sulla chiesa di S. Pietro in Montelparo la badessa di S. Angelo Magno esercitava solo un diritto di patronato per cui proponeva il nome del Cappellano all’abate di Farfa, che provvedeva alla nomina giuridica essendo giurisdizione della «Abbazia ‘nullius’ Farfense» non sottomessa ad alcun’altra diocesi: lo testimoniano in forma esplicita alcune pergamene inedite del Codice Diplomatico di S. Vittoria del sec. XIV e due documenti del 1524 dell’Archivio di S. Angelo Magno, al tempo in cui il detto Monastero dal papa Pio II era stato assegnato ai PP. Benedettini Olivetani. Questi nel 1555 unirono la chiesa di S. Pietro con quella di S. Silvestro, a Poggio Fantolino, esistenti nelle pertinenze dei loro beni, per cui prese titolo di S. Pietro e S. Silvestro, come documenta un’iscrizione tuttora esistente.

   Dal Catasto del 1783 si rileva che il grosso dei possedimenti, cioè un corpo unito di 293 mogiuri, (circa ettari 52,75), era in contrada «Casale», nel versante dell’Aso (89).

   La Biblioteca del Convento di San Nicola da Tolentino a Tolentino (MC) ha raccolto un’ampia bibliografia agostiniana. Auguriamo agli studiosi di ampliare le ricerche storiografiche (90).

UN ARTICOLO SULLA PROTOSTORIA EDITO NEL 1873

Preistoria

La necropoli di Montelpare e l’età Pelasgica nel Piceno

Nello scorso anno (1872) venne a mia conoscenza come si era scoperta a Montelpare una antica Necropoli, e poco appresso ne leggevo una relazione nel giornale fermano che si intitola: «Il Piceno». Il desiderio di studiare questo monumento che si riferisce alla storia dell’intero Piceno e rivela il costume di un’epoca assai remota e civile mi determinò a portarmi sul luogo dove avvenne la scoperta in compagnia del bibliotecario comunale, l’egregio amico G. Gabrielli; ed ecco quel tanto che ne fu dato osservare.

Tutti gli oggetti raccolti in questa Necropoli vennero dal proprietario, Sig. Sgrilli, ordinati in una camera di quel Municipio. Essi consistono in una completa collezione di fibule in bronzo e in ferro, quali di ambra e quali di eleganti pendenti di rame adorni: vasi di terracotta, ed utensili da cucina in rame, alcuni dei quali muniti di ansa di ferro. Avanzi di collane a pendagli: orecchini con ambra, o conchiglie cipree: impugnature di varie armi in bronzo; frammenti di corazza di rame; vari braccialetti che servirono a circondare gli avambracci; lame di spadoni, di pugnali e di coltelli e molte asce ed accette e filetti di cavallo in ferro; collane di ambra, di vetro e di bronzo; e finalmente parecchi grossi e pesanti anelli metallici, dei quali non può determinarsi l’uso.

Tutti questi oggetti rappresentano le tre sole età del bronzo, del ferro e del rame; cioè a dire un’epoca storica, nota appena per la sola tradizione.

Secondo quanto ci disse il cortese Sig. Sgrilli, questo sepolcro venne scoperto casualmente. Lavorandosi il terreno alla profondità di quasi due metri, si giunse a conoscere che in molti punti questo si avvallava sotto i piedi dei lavoranti. Allora egli faceva scavare pochi centimetri più sotto e trovava parecchi semicerchi di ferro, circondati da legni infradiciati e cedenti al peso lor nuovamente sovrapposto. Rimossa la terra, si rinvenivano scheletri, volti all’oriente, che tosto polverizzavano al contatto dell’aria e, intorno ad essi, i sopradescritti oggetti che venivano da lui cautamente raccolti e custoditi. Nessuna moneta, nessun oggetto d’oro o in argento gli venne fatto di rinvenire in più di cento tombe scoperte.

Sotto la testa di qualche guerriero trovava un anellone, del quale appunto abbiamo detto di non conoscere l’uso, e soventi volte intorno allo scheletro erano accumulate ossa di cavalli, di montoni, o di altro animale.

È cosa quasi impossibile rintracciare qual razza di popolo abitasse primitivamente la contrada, che poi si appellò al Piceno. Le armi di pietra, questi avanzi della prima industria umana, ritrovate nella valle del Tronto ed in quella della Vibrata, accertano l’esistenza di una popolazione antichissima che occupava questa regione, prima che altri popoli la conquistassero; ma investigarne il nome e le gesta sarà sempre una difficoltà insuperabile per qualunque archeologo. Si ha, poi, tutta la certezza (vedi C. BALBO, Meditazioni, e G. MICALI, L’Italia avanti il dominio dei Romani) tradizionale della comparsa in questa regione dei Pelasgi, così appellati dal semitico nome «phaleg», che significa dispersione: vaganti e dispersi erano essi che vi arrivaro¬no seicento anni prima della fondazione di Roma, e millequattrocento anteriormente all’era volgare. Ora a questo popolo Asiatico, agguerrito e già maturo nell’industrie, possono appartenere le Necropoli pur ora scoperte a Colli del Tronto, a Cupramarittima, a Montedinove e a Montelpare. Le due prime già furono descritte dal chiarissimo archeologo, Cav. Concezio Rosa e dal suddetto Gabrielli, i quali ammisero, in pieno accordo, un’epoca ante-romana per gli oggetti in esse ritrovati.

Quella di Montedinove, in prossimità del Tesino, non è ancora ben conosciuta, perché ciò che vi fu raccolto andò per la maggior parte in dispersione. Il Museo Archeologico di Ascoli ne Acquistò qualche avanzo che, tuttavia, basta ai confronti con le accennate due Necropoli, e a stabilirne la contemporaneità. L’ultima, ossia quella di Montelpare, venne descritta, come si è detto, nel periodico «Il Piceno», e si fa appartenere ad epoca romana, opinione motivata forse dall’avere osservato fra quei resti una lamina di metallo, ove è ritratta la «Lupa Romana».

Tale lamina, però, lo stesso Sgrilli confessa di avere acquistato e non aver trovato negli scavi. È mia opinione, invece, che corra tanta analogia fra le antichità dissotterrate a Montelpare e quelle delle altre tre Necropoli anzidette, da potersi ritenere, quasi con certezza, che tutte si riferiscono ad una medesima età.

Negli scavi Felsinei si sono trovati scheletri che avevano in mano un «Aes rude», ed in altri, ove vennero discoperte le tombe dei tempi romani, non mancarono mai le monete, come rappresentanti quell’epoca; ma qui dove sono esse?… E il non avervi trovato ombra affatto di oro, o di argento, non dice abba-stanza che quei popoli ivi sepolti siano di origine asiatica ed in conseguenza Pelasgici? Avvalora questa opinione il tradizionale costume di quelle genti: allorché qualcuno moriva, primo pensiero dei congiunti era la sepoltura; essi ve lo accompagnavano, portando ciascuno, per lasciarli presso il cadavere, le armi, gli ornamenti e gli utensili che esso aveva preferito vivendo. Chiudevano nel tumulo stoviglie e vasi pieni di cibo, nella superstiziosa credenza che il defunto avesse avuto a fare un lungo viaggio e, perciò, avesse avuto bisogno di rifocillarsi lungo il cammino.

Si sacrificavano sulla tomba cavalli, montoni, tori, e qualche volta serviva di vittima uno schiavo, se si giudica dalle ossa calcinate, che di frequente si incontrano in questi tumuli.

Checché dicasi in contrario su tale proposito, rimane sempre ragionevolmente appoggiata ai confronti archeologici già dichiarati, l’opinione che gli oggetti trovati nelle suddette Necropoli hanno l’età Pelasgica.

Ascoli Piceno 1873.

                                                                     Don Emidio Luzi

NOTE

(1) Cfr. G. CROCETTI “Il Convento di Sant’Agostino di Montelparo” in «Quaderni dell’Archivio storico arcivescovile di Fermo», n. 10 (a. 1990) pp. 39-62.

(2) Montelparo era abitato dai Piceni di cui parla Plinio nella “Naturalis Historia” cap. 13, 1-3. Molti studi illustrano i reperti archeologici del Piceno che sono stato trovati abbondanti in particolare a Belmonte Piceno

(3) E. LUZI, “La necropoli di Montelparo e l’età pelasgica nel Piceno”, Ascoli P. (Tip. Cesari) 1873.

(4) A. STRAMUCCI, “Conosci le Marche – Prov. di Ascoli P.” – Ancona 1974. T. EGIDI, “Gli scavi archeologici di Monterinaldo”, in «Annuario», Montelparo 1973, p; 32.

(5) G. COLUCCI, “Antichità Picene”, vol. XXXI, Fermo 1797, p. 7. Pubblica il testo del «Chronicon Farfense», pubblicato dal Muratori (col. 320) della «Pars Altera» dell’opera “Rerum Italicarum Scriptores”, Milano 1726. Edizione integrale in due volumi: U. BALZANI, “Chronicon Farfense di Gregorio di Catino”, Roma 1903, Vol. I, p. 135 (in seguito: Chron. Farf.): traduzione dal latino: “Gli antichissimi venerabili monaci seniori hanno riferito una relazione fatta a loro dai monaci anteriori e ci dicevano che il duca  di Spoleto a questo sacro cenobio e al religioso don Tomasso, fece offerta di undici poderi curtensi (curtes) e ciascuna di queste era congruente <alla superficie> di undici mila moggi».Si intende <duca longobardo Faroaldo II nel 705 circa>

(6) BALZANI, Chron. F. cit., vol. I, p. 151.

(7) Ibidem.

(8 ) “Liber Largitorius, vel notarius Monasterii Pharfensis”, a cura di G. ZUCCHETTI, vol. I, Roma 1913, n. 80, p. 73. (In seguito: Lib. Larg.).

(9) G. COLUCCI, “Antichità Picene”, vol. XXXI, Fermo 1797, «Supplemento al Codice Diplomatico di S. Vittoria», doc. XVIII, p. 27. L’abate di Farfa, Gentile II, nel 1250, permise la demolizione della chiesa «di S. Severino posta in località detta Blotenano fuori dal castello di Monte Elparo» perché fosse ricostruita dentro il castello di Montelparo. Quella contrada nel sec. XVIII era detta «Butiné», secondo alcuni appunti lasciati dal canonico santavittoriese Orazio Valeriani. Nei suoi paraggi, in seguito, nel secolo XX, si fece un sito di cacciagione «Roccolo» frequentato dai cacciatori.

(10) D. PACINI, “Possessi e chiese farfensi nelle valli Picene del Tenna e dell’Aso (secoli Vili-XII)”, in «Atti e Memorie della deputazione di Storia patria per le Marche» n. 86 (1981), pp. 352, 358. IDEM. “Per la storia medievale di Fermo e del suo territorio” Fermo 2000 pp. 361, 366, 371, 405, 419.  A. RICCI, “Memorie storiche delle arti e degli artisti nella Marca di Ancona”, Macerata 1834, vol. I, p. 63, nota n. 9.

(11) Il “Regesto di Farfa di Gregorio di Catino” pubblicato in 5 volumi da I. GIORGI e U. BALZANI tra il 1879 e il 1914 in Roma presso la Società Romana di Storia Patria. (In seguito: Reg. Farf.) vol. III, n. 362, p. 67; – Chron. Farf, vol. I, p. 309. <Il duca di Fermo Rabennone nel Reg. Far. vol II n. 20 p. 34 (il padre) ebbe successore il figlio che per omicidio fu deprivato delle sue proprietà: Reg. Farf. II n. 148, p. 124. Qualche studioso pensa che gran parte di queste proprietà che Carlo Magnò donò a Farfa costituirono il maggiore “feudo” farfense. Cfr. PACINI, Per la storia … pp. 35, 352 riferisce il fatto all’anno probabile 748>.

(12) Lib. Larg., vol. I, n. 232, p. 148.

(13) Reg. Farf. V, n. 1099, p. 95-99; – Chron. Farf. II, pp. 173-79.

(14) G. CROCETTI, “Gli Statuti Comunali di S. Vittoria”, in «NEPI G. -SETTIMI G. ,” Santa Vittoria in Matenano. Storia del Comune», Camerino 1977, pp. 537-38. Gaglianello: cfr. PACINI, Per la storia …pp.  392, 417.

(15) Reg. Farf, III 135; V 98, 304; – Chron. Farf, I, 7.

(16) D. PACINI, op. cit., p. 372s.

(17) Chron. Farf, I 251; – Reg. Farf. V, 287.

(18) Chron. Farf, I 252; Reg. Farf. V 287; – Pergamena inedita di Montelparo n. 22; P. SELLA, “Rationes decimarum Italiae – Marchia” – Città del Vaticano 1950, nn: 7536, 7693, 7695, 7703.

(19) PACINI, op. cit., pp. 123, 379, 381s.

(20) Reg. Farf. IV, 275; – V, 96 e 305; – Chron. Farf, II 139, 174, 284. D. PACINI, op cit., pp. 398, 405, 419.

(21) COLUCCI, op cit., XXXI, «Supplemento al Codice Diplomatico di S. Vittoria», p. 103.

(22) Ibidem, pp. 4 e 5.

(23) Ib., p. 6

(24) . PASTORI, “Memorie istoriche della nobile Terra di Montelparo”, Fermo 1781, pp. 16-18. G. COLUCCI, op. cit., vol. XVII, pp. 10-14.

(25) Ibidem, p. 19. Mons Cucumus = Monte Cucco.

(26) Non è noto nemmeno al Pastori.

(27) Non è il Montecchio del territorio di Force. Il Pastori ci assicura che ai suoi tempi la contrada di Montecchio esisteva anche nelle pertinenze di Montelparo (p. 19). Montecchio di Force cfr. PACINI, Per la storia … pp. 404, 420

(28) Questa clausola, non comune nei documenti dei secoli precedenti, ma obbligatoria nell’organizzazione dei liberi comuni, evidenzia che già in Montelparo incominciava a funzionare una prerogativa protezionistica che fu fatta propria da ogni libero comune del secolo XIII.

(29) PASTORI, op. cit., pp. 16-18.

(30) COLUCCI, op cit., vol. XXIX, pp. 50, 53 e 54.

(31) F. PANFILO, “De Piceni nobilitate et laudibus” = Francisci Pamphili, praestantiss. poetae Sanctoseverinatis Picenum; hoc est de Piceni, quae Anconitana vulgo Marchia nominatur; et nobilitate, et laudibus opus. Nunc primum in lucem Iani Matthaei Durastantis, philosophi Sanctoiustani auspiciis, ac sumptibus, editum (Maceratae : Sebastianus Martellinus, 1575

(32) PASTORI, Op. cit. p. 20

(33) COLUCCI, Op. cit. XXXI, pp. 80 e 87

(34) COLUCCI, op. cit., vol. XXXI, Supplemento cit., pp. 28-31.

(35) P. SELLA, op cit., nn.: 7535, 7536, 7548, 7549, 7560, 7691, 7692, 7693, 7694, 7695, 7700, 7701, 7702, 7703, 7720.

(36) COLUCCI, op. cit., vol. XXIX, Codice cit. p. 179.

(37) Ibidem, p. 191

(38) Ibidem, p. 190-193.

(39) COLUCCI, op. cit., vol. XXXI, Supplemento cit. pp. 27 e 29. A. RICCI, Memorie cit., I p. 63, n. 9.

(40) G. CROCETTI, “M° Giovanni di Stefano da Montelparo, intagliatore marchigiano del sec. XV”, in «Arte Cristiana» N. 736, Milano 1990, p. 18.

(41) Vedi nota n. 20.

(42) PASTORI, op. cit., pp. 25-32.

(43) COLUCCI, op cit., vol. XXXI «Supplemento cit.» p. 29, nota 10.

(44) Ibidem, nota 11.

(45) Ib., nota 12.

(46) Ib., nota 14.

(4)7NEPI-SETTIMI, op. cit., p. 266.

(48) Ibidem, p. 234.

(49) G. CROCETTI, “Le pergamene dell’Archivio Comunale di S. Vittoria in Matenano”, in «Quaderni dell’Archivio Storico Arciv.le di Fermo», N° 5 (a. 1988), p. 96.

(50) G. COLUCCI, op. cit., vol. XXXI, «Supplemento cit.» p. 14.

(51) G. AVARUCCI, “Su Enrico da Cossignano ed altri Abati Farfensi della prima metà del sec. XIII”, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia» dell’Università di Macerata, VII (1974), pp. 369-370.

(52) M. R. MANCINI, “Le Pergamene cit., Doc. I. Certamente errata è la datazione (1216) che il Cicconi dà alla prima pergamena del suo regesto; essa è stata diligentemente corretta nella trascrizione fatta da M.R. Mancini del Doc. n. 61, che riferisce al 18.1.1287, al tempo del papa Onorio IV e dell’Abate Farfense Nicola II.

(53) N. G. TEODORI, “Force nel Medio Evo”, Ascoli P. 1967, p. 69.

(54) COLUCCI, op. cit., vol. XXX, «Penna S. Giovanni». P. FERRANTI, “Memorie storiche della città di Amandola”, vol. I, p. 52; vol. II, Doc. 65.

(55) G. CICCONI, “Le Pergamene dell’Archivio Municipale di Montelparo, oggi custodite nell’Archivio Diplomatico di Fermo”, in «Fonti per la Storia delle Marche» presso Deputazione di storia patria per le Marche, Ancona 1939, p. 15. MANCINI, op. cit.; Doc. n. 12.

(56) COLUCCI, op. cit., vol. XXXI, «Supplemento «cc.»» pp. 28-32.

(57) I. SCHUSTER, “L’imperiale Abbazia di Farfa”, Roma 1921, p. 312. A.L. PALAZZI-CALUORI, “I monaci di Farfa nelle Marche”, Ancona 1957, p. 80.

(58) COLUCCI, op. cit., vol. XXIX «Codice Diplomatico cit.» p. 99.

(59) J. GUIRAUD, “La Badia di Farfa alla fine del sec. XIII”, in «Archivio della R. Società Romana di Storia Patria», Vol. XV, fase. 1-2, Roma 1892. Trascrive e commenta la Bolla del papa Urbano IV del febbraio 1261 tratta dall’originale che si conserva nell’Archivio Segreto Vaticano (Miscellanea 1260-75). Copia autentica posteriore si conserva nell’Archivio di Stato di Ascoli Piceno.

(60) A. THEINER, “Codex Diplomaticus Domimi S. Sedis”, I Roma 1861, p. 311. G. CICCONI, op. cit., Pergamena XLII; – MANCINI, op. cit., Doc. n. 67. Analoga concessione ottennero i comuni vicini con censo proporzionato alla popolazione residente: Amandola 44 lire, Force 20 lire, Montefiore 74 lire, Monterubbiano 76 lire, Monte S. Martino 40 lire, Porchia 25 lire, S. Vittoria 81 lire.

(61) MANCINI, op. cit., p. LXIII. Nella perg. n. 6 si dice che il Consiglio Generale fu adunato nella chiesa di Sant’Angelo.

(62) L. PASTORI, Memorie storiche della nobile Terra di Montelparo, in G. COLUCCI op. cit., Vol. XVII, pp. 29-30.

(63) THEINER, Op. cit., II, Roma 1862. Nella «Descriptio Marchie Anconitane», erroneamente trascrive «Mons Thorarius» in luogo di «Mons Elparus».

(64) G. MICHETTI, “Dal Feudalesimo al governo comunale nel Piceno”, Fermo 1973, pp. 61 e ss.

(65) MANCINI, op. cit., pp. XLII-XLIII, con riferimento alle pergamene di Montelparo da lei numerate: 1, 2, 3, 17, 18, 19, 23, 25, 26, 27, 28, 29.

(66) La corte di Catelliano apparteneva a Marco di Tebaldo, a Marco di Pietro, ad Anfelisia, moglie di Suppolino da Fermo, e ad altri cfr. PACINI, Per la storia pp. 410, 419; MANCINI, op cit., Pergamena n. 1).

(67) Le corti di Bucchiano, Pastina e Castello degli Infanti appartenevano ai Signori di Castelnuovo, un ramo cadetto dei conti di Falerone: Ruggero del fu conte Ferro, al figlio di Ferro, Fratre e Compare di Fratre, Rinaldo, Gentile e Giberto, figli del fu Giacomo di Fratre. Per Bucchiano cfr. PACINI, Per la storia … pp. 407, 418.

(68) MANCINI, op. cit., Pergamene nn. 4, 6, 7, 8.

(69) MANCINI, op. cit., Pergamene nn. 6 e 7.

(70) Ibidem, pp. XLV e XLVI, nota 6.1. Pergamena n. 18.

(71) Ib., p. XLVII, Pergamene nn. 22 e 24.

(72) Ib., pp. XLVII-LI, Pergamene nn. 25, 30, 36 e 41.

(73) Ib., pp. LI-LII, Pergamena n. 68.

(74) Ib., p. LII; Pergamena n. 21.

(75) Ib., p. LIV; Pergamena n. 66.

(76) Ib., p. LIV; Pergamena n. 69.

(77) Ib., pp. LVI-LVII; Pergamene nn. 86, 87, 88.

(78) Ib., Pergamena n. 81.

(79) G. CICCONI, op. cit., Doc. LXXI, p. 31.

(80) Ibidem, Doc. LXXIII, p. 31.

(81) MANCINI, op. cit., Perg. n. 13. «Inoltre (lasciò) ai frati di sant’Agostino dieci soldi. Inoltre ai frati minori de Macchie dieci soldi».

(82) L. PASTORI, “Memorie appartenenti al Ven. Convento di S. Agostino della Terra di Montelparo, ms. n. 34, presso Bibl. Com.le di Ascoli.

(83) MANCINI, op. cit., Perg. nn. 70, 71, 72 e 73.

(84) Archivio Generale Agostiniano (A.G.A.) I – i/3, ff. 327 e ss.

(85) L. PASTORI, “Memorie istoriche e cronologiche della Religione Eremitana”, ms. n. 23 dell’anno 1776, presso Bibl. Comunale di Ascoli Piceno.

(86) Ibidem, p. 36.

(87) Le notizie di questo paragrafo sono state tratte dai volumi manoscritti «Archivum S. Angeli Magni» e dagli «Indici Cronologici» delle carte di detto Monastero che si conservano nell’Archivio di Stato di Ascoli Piceno.

(88) L. PASTORI, Memorie istoriche di Montelparo op. cit., p. 32.

(89) Archivio di Stato di Fermo, «Catasto di Montelparo del 1783», contrada Casale.

(90) Ai conventi agostiniani hanno dedicato particolare attenzione GAVIGNON – CRUCIANI, “La Provincia Picena negli ultimi due secoli”, in «Analecta agostiniana» Roma vol. 44 (a. 1981) pp. 307, 310, 313. V. FUMAGALLI – A. ROCCOLI, “Bibliografia storico-artistica degli insediamenti Agostiniani in Italia”, Provincia Agostiniana d’Italia. Monografie storiche Agostiniane N. S. N. 1. Biblioteca Egidiana, Tolentino 2005, pp. 58-67 in particolare p. 60 cita “Montelparo,. Sant’Agostino”, in «Gli Agostiniani. Architettura, arte spiritualità», a c. di F. Mariano, Milano, Federico Motta Editore S.p. a. 2004 pagg. 220-221

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