Verso il Giubileo Anno santo 2025 con la memoria di san Gualtiero da Servigliano

CON SAN GUALTERO DA SERVIGLIANO NELL’ANNO DEL GIUBILEO 2025

Servigliano ha il grande onore di avere un santo locale, san Gualtiero che invita con il suo esempio a fare spazio all’azione di Dio. Il Concilio Vaticano II ricorda a tutti coloro che credono in Cristo, in qualsiasi condizione si trovino, che sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità da cui proviene la felicità. Tutti siamo chiamati ad accogliere l’amore di Dio che per mezzo dello Spirito Santo è stato riversato nei nostri cuori. La Chiesa vuole ricordare i santi di ogni luogo.

   San Gualtiero da Servigliano ha mostrato il volto più bello della Chiesa che è santa e madre dei santi come ha scritto Papa Francesco nella lettera del 9 novembre 2024 con cui invita a ricordare i santi locali ogni anno il 9 novembre nelle celebrazioni liturgiche, a cominciare dall’anno santo 2025. Il Papa chiama i cristiani a lasciarsi stimolare dai modelli di santità.

   I santi locali sono stati canonizzati come esempi di vita cristiana e sono nostri intercessori. Ciascuno può riconoscere le persone che sono testimoni delle virtù cristiane in particolare della fede della speranza e della carità. San Gualtiero Abate ha vissuto a Servigliano i consigli evangelici come immagine viva di Cristo e come guida spirituale ha diffuso i doni della grazia sulla popolazione ed ha dato anche sostegno alle debolezze delle persone bisognose.

   Il Papa ci invita a questa memoria locale perché considera importante che siano ricordati i santi che hanno caratterizzato il percorso cristiano nei vari paesi. Questi santi sono nostri amici, sono compagni di strada e ci aiutano a realizzare in pieno la vocazione del battesimo dove viviamo. San Gualtiero è una delle persone di cui è stato riconosciuto l’esercizio eroico delle virtù nelle circostanze della sua vita a Servigliano e pertanto è segnato nel calendario liturgico delle parrocchie della diocesi Fermana che egli ha arricchito spiritualmente con il suo percorso personale di santità.

   Siamo invitati dal Papa a riscoprire o perpetuare la memoria straordinaria dei santi discepoli di Cristo, insieme con i vescovi ed i parroci perché essi sono segno vivo nella presenza del Signore risorto e ancor oggi sono guida sicura nel cammino comune verso Dio. San Gualtiero da Servigliano protegge ed aiuta in questo cammino e in lui risplendono le meraviglie della multiforme grazia divina. Come tutte le anime beate sospinge ad una più intima comunione con Dio e inspira il desiderio della città futura per giungere a cantare assieme le lodi dell’Altissimo.

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L’AMORE UMANO E DIVINO DI GESU’ CRISTO. Dilexit nos Papa Francesco 24.10.2024

INDICE GENERALE TEMATICO

INDICE

Si indica il numero di paragrafo

 I -…L’IMPORTANZA DEL CUORE

    Ritornare al cuore                                                       9

   manca il cuore                                                               10

   il cuore che unisce i frammenti                                     17

   il fuoco                                                                          24

   il mondo può cambiare a partire dal cuore                    28

II –   GESTI E PAROLE D’AMORE

   gesti che riflettono il cuore                                            33

   lo sguardo                                                                      39

   le parole                                                                         43

III –   QUESTO CUORE CHE HA TANTO AMATO

   l’adorazione di Cristo                                                    49

   la venerazione della sua immagine                           52

   amore sensibile                                                              56

   triplice amore                                                                 64

   prospettive Trinitarie                                                     70

   espressioni magistrali recenti                                     78

   approfondimenti e attualità                                        82

IV –   L’AMORE CHE DA’ DA   BERE

   sete dell’amore di Dio                                                    93

  risonanza delle parole nella storia                             102

  la diffusione della devozione al Cuore di Cristo      109

  San Francesco di Sales                                                 114

  una nuova dichiarazione d’amore                             119

  San Claudio della Colombière                                     125

  San Charles de Foucauld                                           129

  Jesus Caritas                                                                130

  Santa Teresa di Gesù Bambino                                  133

  risonanze nella Compagnia di Gesù                          143

  una lunga corrente di vita interiore                          148

  la devozione della consolazione                                 151

  con Lui sulla croce                                                        152

   le ragioni del cuore                                                      154

  la compunzione                                                            158

  consolati per consolare                                               161

V      AMORE   PER   AMORE           

  un lamento e una richiesta                                         165

  prolungare il suo amore nei fratelli                          167

  alcune risonanze nella storia della spiritualità      172

  essere una fonte per gli altri                                      173

  fraternità e mistica                                                      177

  la riparazione: costruire sulle rovine                      181

  riparare i cuori feriti                                                   185

  la bellezza di chiedere perdono                                187

  La riparazione: un prolungamento per il cuore di Cristo.191

  l’offerta all’AMORE                                                  195

  integrità e armonia                                                     200

  innamorare il mondo                                                  205

  in comunione di servizio                                            212

  conclusione                                                                 217

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San Giorgio Patrono dei Cavalieri al Merito della Repubblica Italiana dipinto da Salvatore Tricarico

   Il pittore Salvatore Tricarico ha composto in una struttura triangolare la scena dello spazio calibrato nella profondità del cielo azzurro e bluastro, ove sta innalzata l’arma ad asta colorata del tricolore verde, bianco rosso: bandiera onorata dall’Italia. Nello spazio etereo spicca per monumentalità Il valoroso giovane che sta combattendo la malvagità. Al centro del dipinto il suo sereno volto esprime la fermezza del coraggioso consapevole dei pericoli e pronto a superare ogni difficoltà.

   Nell’osservare il dipinto si avverte il senso della simbolica lotta vittoriosa. Il cavallo guidato a spron battuto, resta impennato. Brilla la radiosità del giovane che combatte la pessima spietata iniquità e sta dominando il drago sottomesso nell’arida landa deserta. In basso i colori sono piuttosto scuri in contrasto con il bianco quadrupede, puro sangue, che inarca le robuste ginocchia elevate con i forti zoccoli in moto gagliardo mentre il drago avversario è ridotto a sottostare.

   Il pittore è ispirato dalla diffusa iconografia di San Giorgio che nacque in Turchia e come cristiano fu martirizzato nell’anno 305. Viene onorato tra i quattordici santi Ausiliatori, patrono dell’Inghilterra, e di altri, anche dei soldati. In tenuta da combattimento con corazza, elmo e schinieri, l’abile giovane battagliero fissa con sguardo tetro la bestia malvagia. Egli tiene ferme le briglie, mentre nella velocità, il vento agita il suo mantello rosso.

   La massiccia corporatura del drago dalle grandi ali ferrigne s’alza sul collo e digrigna i denti taglienti puntando gli occhi sconvolti sul prode cavaliere contro il quale lancia la lingua biforcuta. Geme, allargando le sue acuminate zanne bianche. La bestia è simbolica, non ha la natura comune degli animali terrestri, come un orco.

   La pittura rende nitidamente i significati reali di aggressione e di difesa. San Giorgio è venerato nel lottare contro ogni male. L’arte conduce al contatto con il mistero e fa trasparire il dramma dell’umanità che affronta le forze distruttrici e omicide. Ora fa intuire il successo del bene che vince sul male. La pittura su tela cm 56 × 68 è segno di buon auspicio per i Cavalieri al merito della Repubblica Italiana, tra i quali è insignito il pittore Salvatore Tricarico.

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STATUTA FIRMANA in latino Fermo 1589 trascrizione Albino Vesprini

TABULA RUBRICARUM TOTIUS OPERIS

<rubricae prout in volumine scriptae sunt>

Statutorum Communis Firmi liber primus feliciter incipit

            Rubricae primi libri

1 Rubr.1- De veneratione festi Sanctae Mariae de mense Augusti.

1 Rubr.2- De cereis et aliis luminariis, et lampabus offerendis in dicto festo Beatae Mariae.

1 Rubr.3- De officialibus eligendis ad custodiam, manutenendum introitum, et res laborerii dictae Ecclesiae Sanctae Mariae.

1 Rubr.4- De expensis fiendis Scindicis Communantiarum, et aliis quibusdam forensibus venientibus ad dictum festum.

1 Rubr.5- De veneration Sanctae Spinae.

1 Rubr.6- De festo beati Bartolomei Apostoli singulariter honorando.

1 Rubr.7- De Scindicis, et Procuratoribus eligendis in qualibet Ecclesia Civitatis.

1 Rubr.8- De paliis dandis infrascriptis Ecclesiis.

1 Rubr.9- De Statuto Ecclesiae Sancti Salvatoris.

1 Rubr.10-De captivis offerendis.

       Statutorum Communis Firmi liber secundus feliciter incipit

2 Rubr.1- De cursu Palii.

2 Rubr.2- De bursiatis, et forma aperiendi cassettas, et extrahendi eos, et conservatione cassettarum, et remittendi alterum pro altero.

2 Rubr.3- De auctoritate Dominorum Priorum, et eorum officio.

2 Rubr.4- De speciali prohibitione dominorum Priorum et Confalonerii et Regulatorum ac etiam Bancherii Communis.

2 Rubr.5- De officio Confalonerii Communis Firmi.

2 Rubr.6- De electione Potestatis, et Capitanei.

2 Rubr.7- De iuramento Potestatis, et Capitanei, et eorum auctoritate, et officio.

2 Rubr.8- De deveto officialium forensium.

2 Rubr.9- De officio Cancellarii.

2 Rubr.10- De officio Notarii Dominorum.

2 Rubr.11- De officio, et ordine tenendo per Confalonerios Contratarum, et alios cives dictarum contratarum.

2 Rubr.12- De modo congregandi Concilia, propositas proponendi, et arrengandi et reformandi in eis.

2 Rubr.13-De Concilio speciali populi.

2 Rubr.14-De auctoritate, iurisdictione, et balia dicti consilii specialis.

2 Rubr.15-De Concilio generali.

2 Rubr.16-De arbitrio consilii generalis.

2 Rubr.17- De modo mittendi partita ad fabas nigras, et albas.

2 Rubr.18- De modo suspendendi Statuta.

2 Rubr.19- De Regulatoribus, eorum officio, et de introito, de exitu Communis et de revisoribus rationum Communis, et eorum officio.

2 Rubr.20-De officio Bancherii, et de eius Notarii.

2 Rubr.21- De officio Consulum Mercatorum.

2 Rubr.22- De officio Massarii, qui providere, et revidere debet massaritias, et munitiones Communis.

2 Rubr.23-De electione Notariarum Bancharum civilium et appellationum, et eorum officio.

2 Rubr.24-De officio Advocati et Sindici Communis ad causas.

2 Rubr.25- De officialibus Castrorum Communis Firmi imbursandis.

                      Nomina Castrorum Maiorum.

2 Rubr.26- Nomina Castrorum Mediocrum.

2 Rubr.27- Nomina Castrorum Minorum.

2 Rubr.28- Officiales sic extracti pro exercendo dicta officia non possint eligi nisi fuerint cives Civitatis Firmi vel comitativi Comitatus Firmi.

2 Rubr.29- De imbursatione Castellanorum Roccharum comitatus.

2 Rubr.30- De Scindacatu dominorum Priorum populi, et Vexilliferi iustitia, et Regulatorum, et eorum Notariorum.

2 Rubr.31- De Scindacatu officialium forensium.

2 Rubr.32-De Scindacatu officialium Castrorum comitatus.

2 Rubr.33- De Bannitoribus Communis, et eorum officio.

2 Rubr.34- De officio Baliorum Communis Firmi.

2 Rubr.35 -De officio custodis carcerum.

2 Rubr.36- De picturis in ianuis faciendis.

2 Rubr.37- De deveto officialium comitatus.

2 Rubr.38- De deveto officialium in civitate, et concursu officiorum.

2 Rubr.39- Quod nullus praesumat trahere cives, vel districtuales extra forum civitatis Firmi.

2 Rubr.40- Quod nullus Firmanus, vel districtualis audeat ire ad stipendium, vel provisionem alicuius sine licentia.

2 Rubr.41- De fortilitiis de novo non costruendis, et de destructis non reficiendis.

2 Rubr.42- De officio Ambasciatorum Communis Firmi.

2 Rubr.43- Quod Potestas, et Capitaneus, et alii officiales Communis non vadant pro ambasciatis.

2 Rubr.44- De recipientibus honorem militiae.

2 Rubr.45- De venditionibus factis de bonis exbannitorum.

2 Rubr.46- De officio Notarii Potestatis, qui debeat stare in Portu.

2 Rubr.47- Quod Potestas, vel Capitaneus, vel eorum officialis teneatur, quotiens opus fuerit, ire extra civitatem eorum expensis.

2Rubr.48- De Castellanis non recipiendis in districtu Firmi.

2 Rubr.49- Quod omnes de Castris et villis Communis Firmi pro civibus habeantur.

2 Rubr.50- De salario Notarii et baliorum a Scindicis Castrorum, et villarum non recipiendo.

2 Rubr.51- De libertate concessa venientibus ad docendum, vel studendum ad Civitatem Firmi.

2 Rubr.52- Ut cives, a quibus Commune Firmi non habet obsequium, non defendantur pro civibus.

2 Rubr.53- Quod notarii Potestatis, Capitanei, vel Iudicis iustitiae, vel alterius officialis forensis non possint publicare instrumenta.

2 Rubr.54- Quod Potestas teneatur observare franchitiam venientibus ad habitandum in civitatem.

2 Rubr.55- De immunitate concedenda venientibus ad habitandum per terras, et possessiones aextimatas hominibus civitatis Firmi.

2 Rubr.56- Quod nobiles comitatenses non solvant collectas.

2 Rubr.57- De notario appretiorum Communis Firmi.

2 Rubr.58- De pacibus faciendis per Potestatem.

2 Rubr.59- Quod Potestas, vel Capitaneus, vel eorum officiales nemini dicant iniuriam.

2 Rubr.60- De libertate, et franchitia illorum, qui per decem annos habitaverint in civitate Firmi, et vassallis venientibus, et volentibus habitare in civitate: et quod nullus possit esse Procurator pro forensibus in casu praedicto.

2 Rubr.61- Quod Notarii teneantur conficere instrumenta.

2 Rubr.62-De Syndico et Procuratore habendo in Romana Curia, et in Curia domini Marchionis.

2 Rubr.63- De lampadibus Mercatorum, civitatis Firmi.

2 Rubr.64- Quod liceat renunciari Statuto.

2 Rubr.65- Quod quando tractatur de negotio Potestatis, vel alicuius singularis personae in aliquo concilio, vel cernita, debeat de ipso recedere.

2 Rubr.66- Quod si aliquis habitaret, vel domum haberet in confinio contratarum, sit ei licitum se facere in contrata in qua magis sibi placuerit.

2 Rubr.67- Quod Potestas, Capitaneus, et alii officiales Commumis teneantur facere copiam  de se ipsis.

2 Rubr.68- De custodia, et immunitate <castrorum> Sancti Benedicti, Montis Falconi et Smirilli.

2 Rubr.69- Quod habitatores Castri Sancti Benedicti dictum Castrum die noctuque bene custodiant.

2 Rubr.70- De Capitaneis faciendis per Molendinarios.

2 Rubr.71- De venditionibus, et donationibus factis per aliquem, qui civis efficeretur.

2 Rubr.72- De observatione Statutorum.

2 Rubr.73- Quod predia sint tributaria.

2 Rubr.74- De parte danda officialibus de condemnationibus veteribus.

2 Rubr.75- De iurisdictione militis Potestatis.

2 Rubr.76- De delegationibus pecuniarum Communis alicui faciendis.

2 Rubr.77- Quod milites, et officiales Potestatis, et Capitanei non possint intrare domos pro executionibus civilium maleficiorum et damnorum datorum.

2 Rubr.78- De observatione Statutorum Societatum, et Castrorum Civitatis Firmi.

2 Rubr.79- Quod omnia pignora consignentur Depositario.

2 Rubr.80- De mercede scripturarum, executionum realium et personalium et aliorum actorum solvenda officialibus comitatus.

2 Rubr.81- De electione, et officio Barisielli.

2 Rubr.82- De civibus qui sunt de regimine in officio Prioratus.

2 Rubr.83- De non venientibus ad Cernitam et Concilium, et de prohibitis venire.

2 Rubr.84- Quod claves carcerum sint in manibus Potestatis.

2 Rubr.85- Quod debitores Communis scribantur in libro Speculi.

2 Rubr.86- De facientibus rumorem in Cernitis et in Conciliis.

2 Rubr.87- De exactione condemnationum, tam malefactorum, quam damnorum datorum, et aliorum debitorum fiscalium.

2 Rubr.88- De insigniis Communis non dandis dono Rectoribus.

2 Rubr.89- De favore praestando civibus Firmanis, et districtualibus pro beneficiis consequendis.

2 Rubr.90- Quomodo possit de malificiis supplicari, et de solutione capitum solidorum, et gratiis obtinendis.

2 Rubr.91- De custodibus eligendis in Castris riveriae maris.

       Statutorum Communis Firmi liber tertius feliciter incipit

3 Rubr.1- De officio, et iurisdictione Potestatis et Capitanei, et eorum Vicarii in civilibus causis .

3 Rubr.2- De citationibus in civilibus causis.

3 Rubr.3- De modo, et ordine procedendi in civilibus causis ordinariis seu libellariis.

3 Rubr.4- De interrogationibus in iudicio faciendis, et de his, quae ad fundamentum futuri iudicii tendunt.

3 Rubr.5- De feriis.

3 Rubr.6- De summaria cognitione in causis forensium, et de damno reficiendo damnum passo per repraesalias.

3 Rubr.7- De causis inter cives, et comitatenses in civitate terminandis.

3 Rubr.8- De testibus, et eorum examinatione.

3 Rubr.9- De confessis.

3 Rubr.10- De partitis, et iureiurando.

3 Rubr.11- De causis, et litibus potentiorum.

3 Rubr.12- De executione publici instrumenti, et scripturae privatae.

3 Rubr.13- De executione instrumenti guarentisiae.

3 Rubr.14- De executione scripturae factae per notarium deputatum pro scribendo credentias mercatorum.

3 Rubr.15- Quae res in tenutam capi non possint.

3 Rubr.16- De capiendo debitorem suspectum et fugitivum.

3 Rubr.17- De debitore morante in comitatu.

3 Rubr.18- De revocatione tenutae acceptae de bonis alterius, quam debitoris.

3 Rubr.19- De alienatione pignoris, tam conventionalis, quam praetorii.

3 Rubr.20- De modo praestandi patrocinium, et de salario patrocinantium.

3 Rubr.21- De non matricolato in iudicium non admittendo.

3 Rubr.22- De officio et mercede Notariorum bancharum.

3 Rubr.23- Quod Notarii sint scripti in Collegio seu Matricula.

3 Rubr.24- De abbreviaturis, et protocollis Notariorum.

3 Rubr.25- De instrumentis iam solutis restituendis.

3 Rubr.26- De regressu fideiussoris contra principalem.

3 Rubr.27- De arbitris, et arbitratoribus.

3 Rubr.28-De compromissis fiendis inter coniunctos.

3 Rubr.29- De rerum communium divisione.

3 Rubr.30- De muris communibus faciendis.

3 Rubr.31- De habentibus arbores in alieno, et de arboribus impedimentum vicino praestantibus.

3 Rubr.32- De societatibus, colligantiis, et rebus communibus, et ipsarum rerum petitione.

3 Rubr.33- De emancipationibus liberorum.

3 Rubr.34- De tutoribus.

3 Rubr.35- De furiosis, mentecaptis, prodigis, mutis, et similibus, et eorum curatoribus.

3 Rubr.36- De praescritionibus.

3 Rubr.37- De ementibus rem stabilem.

3 Rubr.38- De rebus publice emptis, vel a Pyratis.

3 Rubr.39- Quod propter ineptam petitionem quis non succumbat in causa civili.

3 Rubr.40- De simulatis contractibus reprimendis.

3 Rubr.41- De alienationibus rerum minorum.

3 Rubr.42- De alienatione rerum dotalium.

3 Rubr.43- De sponsalibus, et lucro sponsi, et sub cuius administratione sponsa, eiusque bona regantur.

3 Rubr.44- De restitutione dotium.

3 Rubr.45- De ultimis voluntatibus.

3 Rubr.46- De hereditatibus, et legatis factis Hospitali Sanctae Mariae Charitatis, et laborerio Sanctae Mariae Episcopatus, et aliis hospitalibus.

3 Rubr.47- De legatis piss locis, vel ad pias causas factis.

3 Rubr.48- De inventario conficendo.

3 Rubr.49- De successionibus ab intestato.

3 Rubr.50- De executione sententiarum causarum civilium.

3 Rubr.51- Secundum quae causae civiles, et negotia debeant terminari.

3 Rubr.52- De repraesaliis concedendis.

3 Rubr.53- Quod domini Priores populi, et Vexillifer iustitiae possint aptare omnes repraesalias.

3 Rubr.54- De praescritionibus contra Iudeos.

3 Rubr.55- De iuramento Iudeorum.

3 Rubr.56- De trium Iudicum causis.

3 Rubr.57- Quod supplicationes super civilibus causis non acceptentur in cernita.

3 Rubr.58- De debitore contumace exbanniendo.

3 Rubr.59- Quod quando partes contrahunt, de florenis intelligi debeat, non autem de ducatis, et e converso.

     Statutorum Communis Firmi liber quartus feliciter incipit

4 Rubr.1- De quibus malificiis et delictis per inquisitionem procedi possit.

4 Rubr.2- Quod Scindici Castrorum, et Villarum possint et debeant denunciare maleficia.

4 Rubr.3- De modo, et ordine procedendi in criminalibus causis, vel mistis.

4 Rubr.4- Quomodo procedatur in criminalibus contra comparentem.

4 Rubr.5- Quomodo procedatur in criminalibus contra contumacem.

4 Rubr.6- Ut nemo invitus accusare cogatur, et de non admittendo denunciatorem secretum.

4 Rubr.7- Quod minores, et filii familias habeant legitimam personam in criminalibus, et de beneficio ipsorum.

4 Rubr.8- Quomodo, et quando in criminalibus causis procurator, tutor, vel curator, et pater pro filio admittatur.

4 Rubr.9- De abolitione concedenda.

4 Rubr.10- Quod mulieres non cogantur intrare Palatia.

4 Rubr.11- De processibus non initiatis per unum Rectorem initiandis, et terminandis per alium.

4 Rubr.12- Qui admitti possint in criminalibus ad testimonium, et de testium examinatione.

4 Rubr.13- De tormentis.

4 Rubr.14- De sententiis criminalibus in Concilio proferendis, et per quem proferri possint.

4 Rubr.15- Quando, et quae sententiae non possint proferri in criminalibus.

4 Rubr.16- De beneficio confessionis, et pacis.

4 Rubr.17- In quibus casibus pax operetur, vel non.

4 Rubr.18- De poena dimidianda hominibus Castrorum, et Villarum comitatus, et districtus Firmi.

4 Rubr.19- De duplicatione poenarum.

4 Rubr.20- De multis et earum modis.

4 Rubr.21- De tempore solvendi condemnationes.

4 Rubr.22- Quod propter defectum solemnitatis, criminalis sententia non reddatur invalida.

4 Rubr.23- De bonis damnatorum.

4 Rubr.24- De blasphemantibus, vel maledicentibus Deum, vel Sanctos eius, et male, et turpiter importune de eis, vel per eos iurantibus, vel contra eorum imagines, vel figuras quicquid facientibus.

4 Rubr.25- De poena turbantis divina officia.

4 Rubr.26- De poena committentium proditionem, vel rebellionem.

4 Rubr.27. De poena ambasciatoris excedentis fines mandati.

4 Rubr.28- De poena facientis conventiculam, conspirationem, seditionem, vel similia.

4 Rubr.29- De poena offendentium dominos Priores populi, et Vexilliferum iustitiae, vel eorum Notarium, vel Cancellarium Communis.

4 Rubr.30- De confinis, seu relegationibus statuendis.

4 Rubr.31- De poena offendentium Rectores, vel officiales Civitatis, et Comitatus, et eorum familiam.

4 Rubr.32- De fractoribus carcerum.

4 Rubr.33- De poena opponentium se executioni Curiae, seu eamdem executionem impedientium.

4 Rubr.34- De poena prohibentis aliquem testari, vel contrahere, vel aliter disponere de propriis.

4 Rubr.35- De privatis carceribus.

4 Rubr.36- De assassinis, et eorum poenis, et de facientibus offendi per assassinos.

4 Rubr.37- De intercipientibus, auferentibus, surripientibus, subtrahentibus, vel occupantibus de bonis Communis mobilibus.

4 Rubr.38- De poena committentis baractariam, vel fraudem in eius officio.

4 Rubr.39- De poena committentium robbariam, plagium, vel similia, et deviantium fantescham.

4 Rubr.40- De poena auferentis rem mobilem.

4 Rubr.41- De poena imponentium taleam, seu facentium redimi per taleam, vel similia, et de nunciis eorum.

4 Rubr.42- De homicidio.

4 Rubr.43- De maleficii, veneficis, nigromanticis, et similibus.

4 Rubr.44- De adulteriis, stupro, incestu, raptu virginum, sanctimonialum, vitio sodomitico, nephario, et damnato coitu, et similibus, et de lenonibus.

4 Rubr.45- De furtis, et pactuali, vel bubulco furtum patrono committente.

4 Rubr.46- De poena expilantium bona hereditatis.

4 Rubr.47- De falsis.

4 Rubr.48- De poena submittentis partum.

4 Rubr.49- De poena fabricantium, seu expendentium falsam monetam.

4 Rubr.50- De poena revelantium credentias, vel secreta Communis.

4 Rubr.51-De poena facientis insultum cum colecta, vel sine.

4 Rubr.52- De poena adminantis cum armis, vel sine.

4 Rubr.53- De poena percutientis cum armis, vel sine.

4 Rubr.54- De poena percutientium alterius pactualem.

4 Rubr.55- De forense offendente Civem.

4 Rubr.56- De verbis iniuriosis.

4 Rubr.57- De poena reimproperantium.

4 Rubr.58- De his, qui offendunt aliquem ad sui defentionem, et de poena declinantis iurisdictionem Communis.

4 Rubr.59- De poena rumpentium pacem.

4 Rubr.60- Decretum consilii de vindictis transversalibus, confirmatum per Breve Pii Quarti sub Datum Romae die X februaris 1560.

4 Rubr.61- De fideisussoribus dandis de non offendendo.

4 Rubr.62- De poena intrantis, et exeuntis Civitatem, vel Castra, aliter quam per portas.

4 Rubr.63- De poena frangentis, vel occupantis muros Civitatis vel Castrorum.

4 Rubr.64- De incendiariis, et fractoribus molendinorum, et domorum, et similium.

4 Rubr.65- Quod Advocati, Procuratores, et Notarii non recipiantur in fideisussores.

4 Rubr.66- De poena deferentium arma.

4 Rubr.67- De poena euntium post tertium sonum campanae.

4 Rubr.68- De poena ludentium ad taxillos, vel alium ludum prohibitum.

4 Rubr.69- De poena negantis filiationem, notarium, vel similia.

4 Rubr.70- De poena petentis debitum iam solutum, vel plus debito

4 Rubr.71- De poena invadentium, vel occupantium rem immobilem vel turbantium aliquem in possessione sua.

4 Rubr.72- De poena fodientis, vel moventis terminos.

4 Rubr.73- De poena invadentis tenutam datam per Curiam.

4 Rubr.74-De offendentibus exbannitos.

4 Rubr.75- De exbannitis pro offensionibus factis contra iuratos populi.

4 Rubr.76- De capiendis  forensibus offendentibus Cives.

4 Rubr.77- De iis qui se subtraxerint, seu excusaverint ratione alicuius privilegii.

4 Rubr.78- De malefactoribus, qui post maleficium commissum religionem intraverint.

4 Rubr.79- De receptatoribus exbannitorum.

4 Rubr.80- De poena praestantium patrocinium, auxilium, consilium, et favorem alicui exbannito, vel condemnato.

4 Rubr.81- De beneficio exbanniti repraesentantis alium exbannitum.

4 Rubr.82- De Advocatis, et Procuratoribus paciscentibus de quota.

4 Rubr.83- De poena occupantium, et non probantium.

4 Rubr.84- De poena praestantium auxilium, consilium, et favorem alicui maleficio, vel committenti aliquod maleficium.

4 Rubr.85- De provocantibus ad duellum, sive bellum.

R ubr.86- De executione sententiarum criminalium.

4 Rubr.87- Quod unum genus aliud, et singularis numerus pluralem, et e converso concipiat.

4 Rubr.88- De possessionibus Civium, et rebus stabilibus non alienandis, vel tranfrerendis in non subiectis, et non parentando cum non subiectis.

4 Rubr.89- De poena occidentis, vel aliter percutientis bestias alicuius.

4 Rubr.90- De maleficiis non cognitis intra mensem in Comitatu.

4 Rubr.91- De poena, quam dominis Prioribus inobedientes incurrunt.

4 Rubr.92- Quod Albanenses ad civitatem Firmi, vel comitatum eius pro malificiis commissis extra districtum puniantur, ac si in Civitate, et Comitatu deliquissent.

4 Rubr.93- De poena committentium fraudem in suo apprecio.

4 Rubr.94- De poenis non terminatis per statutum.

          Statutorum Communis Firmi liber quintus feliciter incipit

5 Rub.1- De officio et iurisdictione Domini Capitanei.

5 Rub.2- De eadem iurisdictione Domini Capitanei.

5 Rub.3- De eadem iurisdictione Domini Capitanei contra dominas portantes ornamenta vetita.

5 Rub. 4- De eadem iurisdictione Domini Capitanei.

5 Rub. 5- Quod Capitanes teneatur exercere officium gabellae.

5 Rub. 6- Quod Capitaneus possit cognoscere de omnibus maleficiis.

5 Rub. 7- Quod Capitaneus teneatur exigere condemnationes.

5 Rub. 8- Quod Capitaneus inquirat contra offendentes Potestatem et eius officiales.

5 Rub.9-  Quod Capitaneus inquirat contra extrahentes grassiam.

5 Rub. 10- De bannis imponendis per Dominum Capitaneum.

5 Rub. 11-De baliis Domini Capitanei.

5 Rub.12- In quibus casis in criminali causa sit licitum appellare et de quibus non.

5 Rub. 13- De appellationibus in causis civilibus.

5 Rub. 14- Nihil innovari appellatione pendente.

5 Rub. 15- De poena Iudicis non permettentis appellare.

5 Rub. 16-  Quod omnia statuta loquentia in causis appellationum, intelligantur in primis et secundis appellationibus.

5 Rub. 17- Quod statuta loquentia in Capitaneo habeant locum in Iudice iustitiae et e converso.

=  Incipiunt damna data  =

Rub. 18- De iurisdictione et balia Iudicis damnorum datorum, viarum, pontium et fontium.

5 Rub. 19- De hiis qui in prima citatione non venerint.

5 Rub. 20- Quod Dominus Capitaneus mittat Notarios suos ad inveniendum damnum dantes.

5 Rub. 21- Quod officialis non recipiat aliquod ab aliqua persona.

5 Rub. 22- Quod Capitaneus faciat et fieri faciat bannimentum de non dando damnum, personaliter vel cum bestiis.

5 Rub. 23- De abolitione concedenda.

5 Rub. 24- De damnis datis in cassinis.

5 Rub. 25- De hiis qui debent admitti in accusandum.

5 Rub. 26- De damnis datis personaliter.

5 Rub. 27- De poena colligentis olivas alienas.

5 Rub. 28- De damnis datis cum bestiis.

5 Rub. 29- De poena incidentis olivas et alias arbores.

5 Rub. 30- De poena incidentis vites.

5 Rub. 31- Quomodo debat emendari damnum de die et de nocte et per quem et per quos.

5 Rub. 32- De hiis qui inventi fuerint per Dominum Capitaneum, vel suos officiales et familiam cum fructibus seu lignis in civitate vel via aliqua et non habeant possessionem et laboritium suum.

5 Rub. 33- De poena facientis cansarolam.

5 Rub. 34- De poenam facientis exvarchum.

5 Rub. 35- Quod nullus Notarius possit sedere ad banchum Domini Capitanei vel Iudicis.

5 Rub. 36- Quod Dominus Capitaneus seu Iudex iustitiae debeat ferre sententias.

5 Rub. 37- De beneficio confessionis et pacis.

5 Rub. 38- De poena mittentis ignem.

5 Rub. 39- De poena damnum dantis in malis aranciis.

5 Rub. 40- De poena mutantis sibi nomen.

5 Rub. 41- Quod unicuique liceat sua auctoritate propria capere bestias inventas damnum dare in sua possessiione et habeat quartam partem.

5 Rub. 42- Quod dominus non possit cogi ad solvendam condemnationem factam de famulo vel bubulco.

5 Rub.43- De damno dato cum bubus et aliis animalibus cuius malefactor non reperiatur.

5 Rub. 44- De parte danda accusatori vel denunciatori.

5 Rub. 45- Quod Capitaneus seu Iudex damnorum datorum et eius officiales teneantur dare copiam petenti accusationis, denunciationis et inquisitionis.

5 Rub. 46- De citatis non camparentibus in termino.

5 Rub. 47- De bannis imponendis per Dominum Capitaneum, suosque Iudices et officiales damnorum datorum.

5 Rub. 48- De exbannitis Curiae Domini Capitanei seu Iudicis capiendis.

5 Rub. 49- De his qui inventi sunt de nocte per officilem seu familiares Iudicis damnorum datorum damnum dare.

5 Rub. 50- Quod nullus portet cum bestiis, vel sine, legnamina, vites, cannas grossas vel minutas et de damnis datis in rotis custoditis.

5 Rub. 51- Quod dominus Capitaneus debeat mittere unum ex suis notariis per vicos et pageses et contratas ad inquirendum pro damnun dantibus.

5 Rub. 52- De poenis duplicandis in damnis datis de nocte.

5 Rub. 53- Quod Dominus Capitaneus seu Iudex damnorum datorum non possit cogere aliquem ad solvendum ante condemnationem de eo fiendam.

5 Rub. 54- De poena forensium damnum inferentium in possessionem Civium et

Comitatensium Civitatis Firmi.

5 Rub. 55- Quod condemnationes non cancellentur non satisfacto domino damnum passo.

5 Rub. 56- Intra quantum tempus possit procedi de damnis datis.

5 Rub. 57- Quod non possit pro cancellatione aliquid accipi.

5 Rub. 58- Quod Dominus Capitaneus vel Iudex Iustititiae non possit aliquem ponere ad torturam occasione damnorum datorum.

5 Rub. 59- De parte danda officiali damnorum datorum.

5 Rub. 60- Quod de damnis datis non possit fieri gratia.

5 Rub. 61- Quod custodes portarum non possint ire cum officiale damnorum

datorum.

5 Rub. 62- De poena capientis columbos columbariae.

5 Rub. 63- De poena capientis, vel necantis pisces in fonte vel in piscina.

5 Rub. 64- De poena capientis seu devastantis examen apium.

5 Rub. 65- In quibus casibus admittatur accusator, in iisdem admittatur denunciator.

5 Rub. 66- Quod Scindici Castrorum et Villarum Civitatis Firmi, ad quos spectat, debeant accipere copiam dictorum statutorum omnium in praesenti volumine contintorum.

=  Incipiunt Extraordinaria  =

5 Rub. 67- De diebus festivis celebrandis in Civitate et districtu Firmi.

5 Rubr.69- De poenis extrahentium grassiam de civitate, et districtu.

5 Rubr.70- De pedagiis non accipiendis.

5 Rubr.71- Quod nullus de Castro riveriae vadat alibi ad habitandum.

5Rubr.72- De deveto salis.

5 Rubr.73- De vestibus, et ornamentis mulierum.

5 Rubr.74- De donisiis.

5 Rubr.75- De modo, et forma servandis in luctu mortuorum.

5 Rubr.76- De conviviis, et ordinamentis in ipsis servandis.

5 Rubr.77- Quod nulli liceat aliquod novum opus facere, vel fabricare, seu fieri facere, vel fabricari iuxta viam publicam, vel vicinalem, non habita licentia, et praesentia, et auctoritate officialis, seu domini Capitanei, et vicinorum.

5 Rubr.78- Quod nullus possit vendere uvas, vel alios fructus non maturos.

5 Rubr.79- De grantiis non faciendis in primis, vel secondis senaitis.

5 Rubr.80- Quod nullus habeat nisi unam grantiam per contratam, seu vicum.

5 Rubr.81- Quod nullus bubulcus possit portare aliqua arma.

5 Rubr.82- Quod nullus possit retinere nisi quatuor boves armentitios.

5 Rubr.83 – De viis et stratis mundandis, et tergendis ubique per civitatem.

5 Rubr.84- De poena facientis suxuram in viis publicis.

5 Rubr.85- De proiiciente aliquam bestiam mortuam prope muros.

5 Rubr.86- Quod nullus emat fructus alibi, quam in platea.

5 Rubr.87- Quod nullus apprehendat aliquam gravariam.

5 Rubr.88- Quod nullus proiiciat aliquam bructuram, seu suxuram ex alto.

5 Rubr.89- De carraris, et vecturalibus, et mulateriis cogendis per dominum Capitaneum, seu Iudicem.

5 Rubr.90- Quod Iudex habeat arbitrium inquirendi, et procedendi contra omnes, qui accipissent lapides via, qua est iuxta stratam Sancti Francisci.

5 Rubr.91- De iurisdictione Iudicis circa pontes, fontes, vias, et de parte Iudicum quam exegerit.

5 Rubr.92- Quod nullus proiiciat letamen, vel suxuram in via maris, vel intra muros.

5 Rubr.93- Quod nullus debeat dare expensas alicui laboratori.

5 Rubr.94- De viis sive landronibus vicinalibus murandis.

5 Rubr.95- De viis, pontibus, et fontibus aptandis, et reparandis.

5 Rubr.96- De iis, qui occupaverint, et occupatam tenent aliquam viam Communis, vel vicinalem, pontem, vel fontem, vel paedictorum terrenum.

5 Rubr.97- De poena facientum immunditiam in splatio Sancti Salvatoris.

5 Rubr.98- De biblia non fluenda.

5 Rubr.99- De non cavando ad pedem limitis alicuius, vel fossati, vel viae.

5 Rubr.100- Quod nemo possit fodere terram in viis Communis.

5 Rubr.101- De quaestionibus confinium summarie terminandis.

5 Rubr.102- De poena habentium aliquam fornacem intra muros Civitatis Firmi.

5 Rubr.103- De grugiariis.

5 Rubr.104- De poena pistantium agrestam.

5 Rubr.105- De porcis non retinendis in Civitate.

5 Rubr.106- De poena lavantium prope fontes.

5 Rubr.107- Qui possint ire impune ad Monasterium.

5 Rubr.108- De pecudibus quae mittuntur in pascuis Firmanae Civitatis.

5 Rubr.109- De mercede capienda pro bestiis ad hospitium ductis.

5 Rubr.110- De leprosis expellendis extra Civitatem.

5 Rubr.111- De domibus destruendis causa incendii.

5 Rubr.112- De domibus non destruendis.

5 Rubr.113- De terris in Civitate, et districtu Firmi colendis.

5 Rubr.114- De famulis, et pactualibus recedentibus a dominis ante tempus promissum.

5 Rubr.115- De buzectis Communis, et aliis mensuris.

5 Rubr.116- De stateris, et aliis mensuris.

5 Rubr.117- De mensuris aequalibus faciendis in Castris, et Villis Communis Firmi, et de modo mensurandi fructus.

5 Rubr.118- De non excastellando de aliquo Castro Communis Firmi.

5 Rubr.119- Quod liceat habentibus Molendina accipere de terreno alieno ad caput acquae, ubi colligitur aqua pro dicta Molendina.

5 Rubr.120- De Molendinariis.

5 Rubr.121- De Becchariis, sive Macellariis.

5 Rubr.122- De piscibus vendendis.

5 Rubr.123- De Fornariis.

5 Rubr.124- De panifacientibus, et vendiriculis.

5 Rubr.125- De rebus comestibilibus intra senaitas non emendis.

5 Rubr.126- De modo, et forma danda hospitatoribus.

5 Rubr.127- Quod nulla persona capiat in tenutam possessionem Communis.

5 Rubr.128- De adiutorio faciendo volentibus facere cisternam.

5 Rubr.129- De vino, et musto deferendo ad Civitatem, et de securitate venientium ad eandem Civitatem ad ipsum vinum et mustum emendum.

5 Rubr.130- De calce, petra, et rena cantonibus, coppis, et de fornachiariis.

5 Rubr.131- Quod mercatores monstrent pannum extra domos, sive fundicos.

5 Rubr.132- Quod Fornarii non calefaciant furnum cum nocchis.

5 Rubr.133- De tabernariis.

5 Rubr.134- De lino non battendo in Civitate.

5 Rubr.135- Quod Iudei non intrent Palatia, nec vendant prohibita, et incedant signati.

5 Rubr.136-De stipulatione paenarun in fabricam murorum Civitatis Firmi.

5  Rubr.137- De civibus recusantibus solvere dativas possessionum, quas habent in comitatu.

5 Rubr.138- De non faciendo seccas in flumine Tenna.

5 Rubr.139- De Turrionibus Communis non locandis.

5 Rubr.140- De non emendo fructus ante tempus.

5 Rubr.141- De curribus non mittendis in Civitatem.

5 Rubr.142- De foeminis impudicis exspellendis de contrata, et de loco in quo possunt meretrices mansionem facere.

5 Rubr.143- De poena euntium ad pretium extra districtum.

5 Rubr.144-De poena euntium ad macinandum extra districtum.

5 Rubr.145- Quod victualia vendatur ad culmum.

5 Rubr.146- Quod civis et comitativus, qui esset leno,  posset capi pro manigoldo.

5 Rubr.147- De venditione olerum, et aliarum herbarum.

5 Rubr.148- De aptatione stratarum Civitatis.

5 Rubr.149- Ne ligna per mare extrahantur.

5 Rubr.150- De pretio, et mensura circulorum.

       Statutorum Communis Firmi liber sextus feliciter incipit

6 Rubr.1- De gabellis solvendis per libram.

6 Rubr.2- De gabella olivae quae venditur, et emitur.

6 Rubr.3- De gabella olei.

6 Rubr.4- De gabella olei conducendi à Terris non subiectis.

6 Rubr.5- De gabella pistrinorum.

6 Rubr.6- De gabella drappariae pannorum.

6 Rubr.7- De vegeticulis, lignamine, et circulis.

6 Rubr.8- De gabella ponderis mercantiarum.

6 Rubr.9- De gabella lini, ponderis, et mensurae, ac pannorum.

6 Rubr.10- De furnis.

6 Rubr.11- De pelliciaria.

6 Rubr.12- De vendiriculis.

6 Rubr.13- De gabella Fornachiarum, et cunctiarum curaminis.

6 Rubr.14- De mensura bladi, et aliarum mercantiarum.

6 Rubr.15- De gabella panis.

6 Rubr.16- De gabella rerum soluta semel, amplius non solvenda.

6 Rubr.17- De straciariae pannorum.

6 Rubr.18- De gabella nucum, ficuum, et seminis lini.

6 Rubr.19- De lignamine novo, et veteri laborato, quod non extrahatur de Civitate.

6 Rubr.20- De mittentibus linum graminatum, atque scapeciatum in Civitate Firmi.

6 Rubr.21- De mittentibus caseum, mala arancia, et avellanas.

6 Rubr.22- De venditione cerae, et speciariae.

6 Rubr.23- De lana vendenda in Civitate.

6 Rubr.24- De carbone.

6 Rubr.25- De castaneis.

6 Rubr.26- De vitrio laborato.

6 Rubr.27- De mola pro molendinis.

6 Rubr.28- De mercantiis non mittentis nisi per portas Civitatis.

6 Rubr.29- De non mittendo gravariam Communis.

6 Rubr.30- De Victurariis, et Barcharolis.

6 Rubr.31- De salmis scholarium, religiosorum et officialium.

6 Rubr.32- De notificatione emptionis, et venditionis omnium rerum de quibus solvitur gabella.

6 Rubr.33- De arbitrio Iudicis, et aliorum officialium gabellae Communis in exactione gabellarum.

6 Rubr.34- De exactionibus gabellarum.

6 Rubr.35- De auxilio, et favore praestando officialibus gabellarum.

6 Rubr.36- De poenis exigendis.

6 Rubr.37- De officialibus positis ad exigendum gabellas.

6 Rubr.38- De prohibitione Advocati, et Procuratoris in gabella.

6 Rubr.39- De non exigendo ultra gabellam debitum, vel gravando contra formam praesentis statuti.

6 Rubr.40- De rebus non nominatis.

6 Rubr.41- De poenis illorum, qui  contrafacerint contra formam praesentium statutorum.

6 Rubr.42- De tempore solvendi gabellam, et quibus.

6 Rubr.43- De his, qui habent aliquam immunitatem gabellae.

6 Rubr.44- De gabella vini venditi ad salmam, et ad spinam.

6 Rubr.45- De gabella fundicariae in Portu Firmi.

6 Rubr.46- Quod nullus patronus possit carcare, et descarcare aliquas mercantias ipsius sine licentia officialis.

6 Rubr.47- De navigiis, et barchis.

6 Rubr.48- De ramine novo, et veteri.

6 Rubr.49- De gabella becchariae, et eius membris, et de mittentibus carnes salitas, vel recentes in Civitate, vel Portu Firmi.

6 Rubr.50- De mittentibus agnos, caprittos, vel porchetas.

6 Rubr.51- De ementibus agnos, caprittos, et porchetas causa revendendi.

6 Rubr.52- De bestiis emendis per Beccharios.

6 Rubr.53- De venditione carnium per Beccherios, et ipsorum ponderatione.

6 Rubr.54- De gabella bestiarum venditarum per Baccherios intra terminum solvenda.

6 Rubr.55- De porchetis coctis vendendis.

6 Rubr.56- De carnibus emendis pro conviviis, festibus, et nuptiis.

6 Rubr.57- De gabella piscium.

6 Rubr.58- De porcis occidendis per cives.

6 Rubr.59- De carnibus salitis extrahendis per mare.

6 Rubr.60- De bestiis infectis, et morticinis vendendis.

6 Rubr.61- De coriis mittendis in Civitate, et Portu.

6 Rubr.62- De bestiis emendis per Becharios, quae debent macellari in certum tempus.

6 Rubr.63- De coriis, et pellibus emendis in Civitate.

6 Rubr.64- De gabella equorum, et someriorum, et aliarum bestiarum.

6 Rubr.65- De gabella bestiarum pro vita, seu retinendarum in pascuis.

6 Rubr.66- De gabella equorum dandorum ad vecturam.

6 Rubr.67- De gabella bozzae, et membrorum, et bladi quod venditur.

6 Rubr.68- De gabella farinae.

6 Rubr.69- De ponderatione bladi.

6 Rubr.70- De gabella coptimorum.

6 Rubr.71- De pane mittendo in Civitate, et Portu.

6 Rubr.72- De gabella bestiarum locatarum ad soccitam.

6 Rubr.73- De gabella fori Belmontis.

6 Rubr.74- De gabella bestiarum, quae transierint per districtum Firmi.

6 Rubr.75- De gabella passus.

6 Rubr.76- Quod forensis possit extrahere de Comitatu omnes mercantias, exemptis lino,  et canavatio.

6 Rubr.77- Quod comitativus possit conducere omnem mercantiam in Comitatu sine gabella, quia solvit assectum.

6 Rubr.78- Quod quilibet extrahens de Civitate et Comitatu, linum, lanam, pannos, canavatios, somentam, nuces, vel aliam mercantiam, solvat gabellam.

6 Rubr.79- Quod forensis conducens maxime vendens aliquid in foro Belmontis solvat gabellam, et possit retro portare id quod non venderet.

6 Rubr.80- Quod liceat comitativus extra Comitatum cambiare, et vendere bovem  deterioratum.

6 Rubr.81- Quod liceat forensi retrahere mercantiam non venditam, solutis sex denariis per libram de venditis.

6 Rubr.82- Quod nemini liceat extrahere bladum extra districtum recollectum in ipso districtu et comitatu.

6 Rubr.83- Quod liceat comitativis inter seipsos vendere, emere, et portare mercantias, quia solvent essectum.

6 Rubr.84- Quod quilibet forensis conducens mercantias teneatur solvere gabellam primo gabellario invento in comitatu.

6 Rubr.85- De gabella passus.

6 Rubr.86- De carcantibus, et excarcantibus.

6 Rubr.87- De gabella salis, et pascuorum, baractariae, et scarfina non includenda in venditionibus gabellarum.

6 Rubr.88- De portantibus pannos ad tinctoria in Civitate.

6 Rubr.89-  Quod comitativi possint venire cum sex bobus sine solutione gabellae.

6 Rubr.90- De exemptione facientium artem lanae.

6 Rubr.91- Quod mercatores forenses possint mittere eorum mercantias, et non vendendo a decimaquinta Iulii extrahere sine datio, et gabella.

6 Rubr.92- De exemptione Clericorum super gabellis. Declaratio.

Quod de solutione gabellarum non possit fieri gratia.

Confirmatio contentorum in volumine statutorum

Capitula super foro et nundinis Civitatis Firmi

Ordinamenta et consuetudo maris per consules civitatis Trani.

Ordo, consuetudo et ius Varehae secundum Anconitanos.

.-.   Tabulae finis   .*.

Iohannis Baptistae Evangelistae Firmani

      in eodem Firmano Gymnasio humanarum litterarum professoris

Iure diu hoc Firmana stetit, stabitque perennis

   res et libertas, gloria, nomen, honos.

Iura Solon doctis quondam descripsit Athenis;

   cum patria illa tamen sustulit urbe dies.

Spartanis leges est fama tulisse Lycurgum:

   barbarico tamen est urbs ea presa iugo.

Sola perantiqui sunt iura aeterna Quirini

   sola et Firmani sunt rata iura soli.

Nempe quod hae tantumm leges et iura bonumque

   et complexa aequum, fasque piumque tenent.

Legibus his usum Firmum super astra feretur:

    hoc genus invictum sydera iure petas.

*

Aquilantis Simonetti Firmani

     humanarum litterarum professoris ad Magnificam Civitatem Firmi

Epigramma

Quod saxo fundata manes tam firma vetusto;

   quod tua firma fides nomina digna tenes,

Palladis urbs Martisque decus, Cererisque benignae:

   namque dedere hilaris manera quisque sua.

Consilum, ingenuas ac Pallas tradidit artes,

   et quae victrici Mars movet arma manu.

Alma Ceres fruges, astat cui copia cornu

   munifico fundens omnia lata suo.

Hinc ducibus, quondam insignis patribusque togatis,

   et modo clara magis tu foris, atque domi.

Lumine suo cuncta vincit ceu sydera Phoebus:

   Picenas urbes sic super una nites.

Ius quoniam, quo fasque, pium, rectumque colatur,

   litibus, et scribis ne strepat inde forum.

Quod scriptumm tabulis bis sex habuere Quirites,

   tu brevibus promis Civibus ac sociis.

Prona igitur felix in publica commoda vivas,

   et feriat nomen sydera celsa tuum

Giovanni Battista Evangelista di Fermo professore di lettere umane nel Ginnasio Fermano

 – Realtà Fermane perenni, con questa giuridica costituzione,  l’onore, la fama, la gloria, la libertà, esistettero ed esisteranno.

   Solone descrisse i diritti per la dotta Atene del suo tempo, finalmente educò la vita quotidiana con quella patria città.

   Licurgo per fama è noto che arrecò le leggi agli Spartani, tuttavia la Città fu oppressa dal giogo della tirannia.

   Sono eterni soltanto i diritti dell’avito Quirino: anche i soli diritti del territorio Fermano sono ratificati chiaramente soltanto perché l’equità, la legalità, e la pietà

stanno abbracciati a queste leggi e ai diritti e al bene.

   Fermo praticando queste leggi sarà elevata sopra le stelle. Questa discendenza resistente aspira al cielo nella prudenza giuridica”.

*

EPIGRAMMA di Aquilante Simonetti fermano professore di lettere umane

  per la Magnifica Comunità di Fermo.

=  Duratura ti conservi poiché sei fondata su ben fermo calcare,

   mantieni dignitosa la tua fama poiché sei ferma nella fede,

o Città di Pallade, decoro di Marte e della fertile Cerere,

   con gioia, infatti, questi diedero a te ciascuno i suoi doni.

Pallade ti affida il suo senno e le arti naturali.

   E Marte muove le armi con la mano che è vincitrice.

La nutrice Cerere chiama i frutti mentre per lei l’abbondanza

    dal suo munifico corno effonde ogni lieta cosa.

Insigne nel tempo per i padri cittadini romani e per i condottieri

   ora tu sei più gloriosa all’interno e all’estero.

Febo con la sua luce come le stelle vince ogni cosa

   e così unica tu risplendi sopra le Città di Piceno

giacché la rettitudine, la pietà, la legalità con il diritto si praticano

   affinché con ciò il foro non strepiti per le liti e per i legulei.

Ciò che i Quiriti ebbero nelle Dodici Tavole, tu

   ora lo sveli con mandati a favore dei cittadini e degli alleati.

Pertanto che tu viva felice, favorevole al benessere pubblico

   e il tuo nome colpisca l’eccelso cielo.

*

      <Documenta pontificia annis1446; 1555; 1586>

EUGENIUS Episcopus Servus Servorum Dei ad perpetuam rei memoriam. Decens reputamus, et debitum, ut iis, quae de nostra voluntate per nostros legitimos in nostrorum, et dictae Ecclesiae subditorum utilitatem, et commoda facta, et concessa comperimus, ut firma, et illibata permaneant, adiicimus Apostolici muniminis firmitatem. Sane nuper inter dilectum filium Ludovicum tituli sancti Laurentii in Damaso Presbyterum Cardinalem Camerarium nostrum Apostolicae Sedis Legatum, nostro, et ipsius Ecclesiae nomine, ac dilectos filios Communitatem, et homines Civitatis nostrae Firmanae quaedam conventiones, pacta, et capitula, quorum copiam fecimus praesentibus inscribi, pro eorum commodo, utilitate, pro eorum bono regimine inita, conclusa, et concessa fuerunt. Quare pro parte ipsorum Communitatis, et hominum nobis fuit humiliter supplicatum , ut eis pro ipsorum subsistentia firmiori, robur Apostolicae confirmationis, adiicere de benignitate Apostolica dignaremur. Nos igitur huiusmodi supplicationibus inclinati; conventiones, pacta et capitula ex certa scientia, auctoritate Apostolica confirmamus, et prasentis scripti patrocinio communimus. Tenor vero praefatorum capitulorum, et eorum ad singula concessorum sequitur, et est talis.

Pro parte Communis, et hominum nostrae Civitatis Firmanae, et sui comitatus humiliter supplicatur et petitur, ut infrascriptas petitiones, et capitula eidem Communi liberaliter Reverendissima D(ominatio) V(estra) concedere dignaretur.

In primis quod Communitas Civitatis praedictae gaudeat et gaudere debeat omnibus et singulis privilegiis, statutis, reformationibus, consuetudinibus, capitulis, commoditatibus et iurisdictionibus hactenus in dicta Civitate vigentibus et quomodocunque, et qualitercunque eidem per Summos Pontifices, Legatos, Rectores, et Vicarios Ecclesiae Romanae hactenus concessis, et approbatis: quae iurisdiltiones, privilegta, statuta, reformationes, consuetudines, et capitula sint, et esse intelligantur approbata, et confirmata, et approbentur, et confirmentur, et pro confirmatis per quoscunque inviolabiliter observentur.

   Placet: dummodo non sint contra libertatem Eccleliasticam.

Item quod omnes, et singuli introitus, et proventus dictae Civitatis, eiusque Comitatus, et districtus, tam ordinarii, quam extraordinarii quomodocunque, et qualitercunque obvenientes, tam introitus gabellarum, et assectus comitatus, quam etiam maleficiorum, et aliorum proventuum dictae Civitatis, et Commitatus sint, et esse debeant Communis Firmi, et hominum eiusdem, et quod Communitas praedicta, et Comitatus, et homines eiusdem non teneantur Camerae Romanae, et Sanctissimo Domino Nostro Papae praesenti, et futuris, nec aliis Rectoribus, et officialibus quibuscunque P<rovinciae> M<archiae> nisi solum, et duntaxat ad solutionem talearum, census, et affictus.

\   Placet.

Item quod Communitas praedicta Firmana, et Officiales, et Rectores dictae Civitatis habeant, et habere debeant merum, et mistum imperium, et liberam potestatem cognoscendi, et puniendi de quibuscunque excessibus et delictis commissis et committen(dis) in dicta Civitate, comitatu, fortia, et districtu, cuiuscumque generis excessus, et delicta existant.

\   Placet

Item quod primae, et secundae causae tam civiles, quam criminales cognoscantur, et cognosci debeant per Potestatem, et Capitaneum, et alios officiales dictae Civitatis, secundum formam statutorum, et consuetudinem dictae Civitatis.

\   Placet

Item quod dicta Communitas Civitatis Firmi habeat plenam, et liberam potestatem, et auctoritatem, et arbitrium eligendi Potestatem, Capitaneum, Cancellarium, et quoscunque alios Officiales , et Rectores, tam in dicta Civitate, quam in comitatu sua propria auctoritate de quibuscunque, dummodo non suspectis Sanctae Romanae Ecclesiae et Summo Pontifici, et electio dictorum officialium non fiat per alios, nisi per Communem, et homines dictae Civitatis.

\   Placet

Item quod dicta Civitas Firmana, nec aliquod Castrum comitatus, et districtus eiusdem non possint, nec debeant modo aliquo submitti, vel dari alicui personae, sed semper sit sub dominio Sanctae Romanae Ecclesiae et Castra comitatus sub pleno dominio dictae Civitatis.

\   Placet

Item quod omnia Castra loca et Terrae, quae hactenus fuerunt sub dominio dictae Civitatis

de comitatu, et districtu eiusdem sint, et esse debeant in futurum sub pleno dominio dictae Civitatis et non possint, nec valeant aliquo titulo, vel causa submitti alicui personae ecclesiaslicae, vel seculari, alicui Communitati, vel Collegio, nec quoquo modo liberari a dominio dictae Civitatis et quod omnia, et singula privilegia, pacta, et capitula facta vel concessa per Summum Pontificem, et alios quoscunque Legatos, vel Rectores eiusdem aliquibus Castris, et locis, vel Terris hactenus tentis, et possessis per dictam Civitatem, et sub eius dominio sint cassa, irrita, et annullata, et pro irritis, cassis, et annullatis habeantur: quae pacta, et capitula hic pro expressis singulariter habeantur, et omnes submissiones in contrarium facta revocentur et dicta loca et Castra, quae de praesenti possiderentur et retinerentur per alios, ut est Castrum Aquaevivae cum suis pertinentiis, et Castrum Montis Viridis restituantur dictae Communitati sine aliqua solutione per ipsam fienda.

\   Placet in omnibus praeter quam in iis, in quibus privilegia Apostolica aliter disponant.

Item quod dicta Civitas Firmana, et homines eiusdem possint, et valeant francare, et franchitias facere, et concedere omnibus, et singulis hominibus, et personis de quibuscunque locis ad dictam Civitatem ad habitandum venire volentibus, vel ipsorum res, et mercantias conducentibus, et conducere volentibus in dictam Civitatem Firmanam, et sui Comitatum, et quod per aliquos officiales, vel Rectores Ecclesiae non possint contraveniri.

\   Placet. De pertinentibus ad dictam Civitatem.

Item quod omnes et singuli contractus facti et celebrati et iudicia agitata et sententiae latae tempore Comitis Francisci, tam in Curia officialium Civitatis Firmanae, et sui comitatus, quam etiam in Curia generali Marchiae sint rati, validi, et firmi et modo aliquo non valeant revocari, et irritari, quibuscunque in contrarium facientibus non obstantibus,

\   Placet

Item quod si aliquae submissiones vel privilegia, vel concessiones sunt facta vel concessae aliquibus personis, vel Communitatibus de aliquibus bonis mobilibus vel stabilibus, iuribus, et actionibus pertinentibus ac spectantibus dictae Civitati Firmanae, vel aliquibus Civibus et comitativis, vel habitatoribus eiusdem, et contra eorum iura, tempore occupationis Comitis Francisci de Provincia Marchiae, sint nulla, cassa et irrita, et dicta Civitas, homines et personae praedicti sint restituti in dictis eorum bonis et iuribus, quibus gaudebant ante occupationem praedictam, in quibuscunque locis, et terris Provinciae Marchiae dicta bona et iura persistant.

\   Fiet iustitia.

Datae, signatae et subscriptae fuerunt praedictae petitiones sub impressione sui soliti sigilli per me Petrum Lunensem Secretarium infrascriptum de mandato Reverendi in Christo Patris et Domini domini Ludovici Tituli Sancti Laurentii in Damaso Presbyteri Sanctae Romanae Ecclesuae Cardinalis Aquilegen<sis> Domini Papae Camerarii Apostolicae Sedis Legati etcetera in terra Monticuli, die undecimo Decembris Millesimo quadringentesimo quadragesimoquinto indictione octava, Pontificatus Sanctissimi in Christo Patris et Domini nostri domini Eugenii Divina Providentia Papae IV Anno quintodecimo. Petrus Lucensis.

Nulli ergo omnino hominum liceat hanc paginam nostrae confirmationis et communitionis infringere, vel ei ausu temerario contraire. Si quis autem hoc attentare praesumpserit, indignationem Omnipotentis Dei et Beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius, se noverit incursurum. Datum Romae apud Sanctum Petrum Anno incarnationis Dominicae Millesimo quadringestesimo quadragesimo sexto, octavo Kalendas Aprilis. Pontificatus Nostri Anno sextodecimo. Poggius.

Emanatae de mandato Domini Nostri Papae. A. de Corneto. Registrata in Camera Aposlolica. P.

.-.

<Doc. a.1555>

Dilectis filiis Prioribus ac Communitati, et hominibus Civitatis nostae Firmanae: PAULUS PAPA IV. Dilecti filii, salutem, et apostolicam Benedictionem. Dilectos filios Mattheum Corradum, et Andream Fancolinum laycos, et Cives Firmanos, Oratores vestros, quos nuper ad nos cum litteris vestris ad supplicandum, ut statuta, privilegia, indulta, reformationes, consuetudines, iurisdictiones, libertates, facultates, immunitates, conventiones, pacta, et capitula ipsius Civitatis nostrae Firmi confirmare dignaremur, misistis, libenter vidimus, atque audivimus. Proinde vestris huiusmodi supplicationibus inclinati, harum serie auctoritate Apostolica omnia, et singula statuta, privilegia, indulta, reformationes, consuetudines, iurisdictiones, libertates, facultates, immunitates, conventiones, pacta, et capitula praedicta, et alia, et specialiter per felicis recordationis Eugenium IV. Iulium II. Leonem X. Adrianum VI. Clementem VII. Paulum III. Iulium III. et alios Romanos Pontifices praedecessores nostros, tam per litteras in forma Brevis, quam sub plumbo concessa, et concessas, data, et datas, confirmata, et confirmatas, ac innovata, et innovatas, illorum tenores praesentibus pro sufficienter expressis habentes, quatenus sint in usu, et contra Ecclesiasticam libertatem non tendant, ex certa nostra scientia approbamus, et confirmamus, ac prasentis scripti patrocinio communimus: mandantes omnibus, et singulis Provinciae nostrae Marchiae Anconitanae Legatis, Vicelegatis, Commissariis, ac eiusdem Civitatis Gubernatori, officialibus, et executoribus quibuscunque, nunc, et pro tempore existentibus et aliis ad quos spectat in virtute sanctae obedientiae et sub nostrae indignationis poena, quatenus praemissa omnia absque morae dispendio, ad unguem observent, et observari sub praedictis, seu aliis sententiis, censuris, ac etiam pecuniariis eorum arbitrio infligendis, et applicandis poenis, omnino faciant vobisque opportunis favoribus assistant. Ac decernentes ex nunc irritum, et inane quicquid secus super his a quoquam quavis actoritate scienter, vel ignoranter contigerit attentari, non obstantibus quibusvis apostolicis, nec non provincialibus, et sinodalibus conciliis editis, generalibus, et spiritualibus constitutionibus et ordinationibus, coeteris contrariis quibuscunque. Datum Roma apud Sanctum Marcum sub anulo Piscatoris, die VIII Iunii MDLV Pontificatus Nostri Anno Primo. S. Io<hannis> Larin<ensis>

.-.

<Doc. a.1586>

Dilectis filiis Communitati et hominibus Civitatis nostrae Firmanae SIXTVS PAPA V.    Dilecti filii, salutem, et apostolicam benedictionem. Fidei constantia, ac devotionis sinceritas, quibus nos, et Romanam colitis Ecclesiam, nos inducunt, ut honestis petitionibus vestris libenter annuamus. Vestris itaque supplicationibus inclinati, omnia et singula statuta vestra, ordinationes, et reformationes, necnon privilegia, concessiones, immunitates, gratias, et indulta vobis, et Communitati vestrae hactenus per quoscunque Romanos Pontifices praedecessores nostros, eorumque Legatos pro tempore concessas, concessa, quatenus sint in usu, et contra libertatem Ecclesiasticam, et Camerae Aposlolicae praeiudicium non tendant, necnon taxas mercedum Iudicibus, et Notariis criminalibus huius nostrae Civitatis Firmanae per vos assignatas, et per dilectum filium Nobilem virum lacobum Boncompagnum dictae Civitatis tunc Gubernatorem alias comprobatas, atque rescriptum ab eodem lacobo Gubernatore super nonnullis causis per Curiam Capitanei dictae Civitatis et Vicarios Castrorum eius comitatus duntaxat respective cognoscendis editum, et per eius Locumtenentem, sub die 2 Aprilis 1578 admissum, et die IV eiusdem mensis Cancellario Criminali, et Capitaneo intimatum, citra tamen praiudicium exactionum, et aliorum iurium Cameralium, auctoritate Apostolica tenore praesentium ex certa nostra scientia approbamus et confirmamus, illisque perpetua, et inviolabilis firmitatis robur adiicimus, ac ab omnibus, ad quos spectat, exacte observari praecipimus, et mandamus, irritum, et inane decernentes quicquid secus super his a quoquam quavis auctoritate scienter, vel ignoranter contigerit attentari. Non obstantibus felicis recordationis Pii Papae IV praedecessoris nostri de registrandis, et insinuandis in Camera Aposiolica gratiis interesse eiusdem Camerae concernentibus infra certum tempus, ac quibusvis aliis constitutionibus, et ordinationibus Apostolicis, ac Civitatis Firmanae iuramento, confirmatione Apostolica, vel quavis firmitate alia roboratis statutis, et consuetudinibus, privilegiis, quoque, indultis, et litteris apostolicis quomodolibet concessis, approbatis, et innovatis. Quibus omnibus eorum tenores praesentibus pro expressis habentes ad effectum praemissorum duntaxat, specialiter et expresse derogamus, caeterisque contrariis quibuscunque. Datum Romae apud Sanctum Petrum, sub anulo Piscatoris die X Februarii MDLXXXVI Pontificatus Nostri anno primo.

Io<annes> Baptista Canobius

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FERMO città romana storico Giuseppe Michetti

I PICENI

Da Giuseppe MICHETTI, Fermo nella letteratura latina, dalle origini alla fine del Regno Longobardo, vol.1, Edizione La Rapida, Fermo, 1980

PLINIO- Historia Nat. Cap.13.1.3

“ Quinta regio Piceni est quondam oberrimae multitudinis: CCCLX millia Picentium in fidem populi romani venère: orti sunt a Sabina voto vere sacro. Tenuère ab Aterno amne,  ubi hunc est ager Adrianus et Hadria colonia a mari VII mill. Passuum; flumen Vomanum: ager Praetutianus Palmensisque; iten Castrum Novum et flumen Vibatinum; Truentum cum amne quod solum Liburnorum in Italia reliquum est. Flumina Albula, Tessuinum Elvinum (Tervinum) quo finitur Pretutiana regio et Picenum incipit (o Palmentrum?), Cupra oppi dum, Castellum Firmanorum et super id colonia Piceni nobilissima; intus Novana, in ora Cluentum, Potentia, Numana a Siculis condita. A iisdem colonia Ancona apposita promontorio Cumero, in ipso flectentis se orae cubitu, a Gargano CLXXXIII m. pass. Intus Asculani, Auximantes, Beregrani, Cinculani, Cuprenses cognomine montani, Falerienses, Pausulani, Pleninenses, Ricinenses, Septempedani, Tolentinates, Treienses cun Urbe Salvia Pollentini iunguntur”.

La quinta regione é il Piceno, un tempo fiorente per popolazione; si sottomisero a Roma 360.000 Piceni. Ebbero origine dai Sabini in occasione della Sagra di Primavera. Tennero il territorio che comincia dal Fiume Aterno, dove è l’Agro Adriano con la colonia Adria, lontana dal mare sette miglia; il fiume Vomano; l’Agro Pretuziano e il Palmense. Particolareggiatamente: Castronuovo  e il fiume Vibrata: Truento col fiume, che rappresentano ciò che rimane dei Liburni in Italia..Il fiume Albula; il Tesino col quale termina l’Agro Pretuziano e incomincia il Palmense. Il castello di Cupra; il Castello dei Fermani e a monte di questo la più insigne colonia del Piceno. Nell’interno Novana, sul litorale Cluana, Potenza, Numana fondata dai Siculi. Fondata pure la loro Ancona attaccata al promontorio Conero, proprio all’insenatura del gomito, lontana 183 miglia dal Gargano. Nell’interno: gli Ascolani,  Osimani, Beregrani, Cincolani, Cuprensi di nome Montani, Faleriensi, Pausolani, Pleninesi, Recinensi, Settempedani, Tolentinati, Treiensi, si congiungono a Urbe Salvia del Pollentino.

     Questa di Plinio è la descrizione geografica del Piceno, la più particolareggiata e la più esatta che ci hanno tramandato gli scrittori dell’antichità romana. Da questa descrizione possiamo dedurre:

1)- Castrum Novum erano alla valle del Vibrata (flumen Vibatinum), quindi non era Giulianova. Ce lo fanno pensare anche i reperti dei dintorni di Corropoli.

2)-Truento è legata “cum amne”, quindi era nella Valle del Tronto, ma non presso la foce, perché quella pianura era inabitabile. Né, come sostiene il Colucci e qualche scrittore abruzzese, a Martinsicuro, perché quella pianura, nella remota antichità non esisteva. Tutte le cittadine rivierasche del Piceno sono sorte sui “relitti nel mare”.

3)- Truentum e Castrum Truentinum sono due località diverse da identificarsi, la prima con Monteprandone, la seconda con Acquaviva Picena, come ci suggerisce l’Itinerario di Antonino, e anche la Carta Peutingeriana. L’Itinerario, in questo punto è esattissimo. Esaminiamolo:

   A)- Da Milano, attraverso il Piceno:

          “Potentia Civitas-Castello Firmano M.P. XX – Truento Civiats M.P. XXVI- Catronovo            

           Civiatas M.P. XII”. Quindi dal Castello Fermano a Truento città, con 26 miglia.

    B)- Per la via Flaminia, da Roma fino a Brindisi, attraverso il Piceno: “Ancona-Numana 

           m.p.VIII – Potentia m.p. X – Castello Firmano m.p. XII – Castro Truentino m.p. XXIIII –

          Castronovo m.p.XII” . Quindi dal Castello Fermano a Castro Truentino corrono 24 miglia, 

          due in meno di Truento città. Da queste due miglia in meno deduco che Truento e Castro

         Truentino non erano sulla stessa via; Truento era sulla via Adriatica, che allora correva

         sulle colline. Tre miglia prima della città, l’Adriatica incrociava la Salaria, la quale

        raggiungeva, dopo un miglio, Castro Truentino. Ed ecco spiegate le 2 miglia di differenza

       tra Castro Truentino e Truento, indicate dall’Itinerario. Anche oggi è così.

4)- La via Salaria, della quale si discute se corresse a destra o a sinistra del Tronto, sicuramente usciva da Ascoli a destra del fiume e a un certo punto si biforcava: un ramo risaliva le colline di Ancarano e scendeva a Castronuovo (Corropoli); l’altro ramo attraversava il fiume (come oggi) all’altezza di Castel di Lama, e risaliva le colline di Offida, o di Castorano, o forse di Monsampolo, e andava a Castro Truentino (Acquaviva), venti miglia lontana da Ascoli. Per questo, nell’Itinerario di Antonino, la Salaria non tocca Truento città che era sulla via Adriatica, a sud del suo Castro. Alla Salaria non interessava la città, quando il suo “Castrum”, che sicuramente aveva raggiunto uno sviluppo superiore, per i traffici del vicino porto alla foce dell’Albula e per le saline. (Solo sull’Albula poteva stare porto di Truento; e le saline restarono attivissimi fino al tardo medioevo).

          5)- “Castellum Firmanorum”, porto di Fermo, (che sicuramente non era Porto San Giorgio, ma

          situato sulla foce dell’Ete, vicinissimo alla quale è il porto anche oggi) era una località distinta 

         da Fermo che stava più in alto (super id) “più in alto la più insigne colonia del Piceno”, che era

          Fermo.

         6)- Novana era nell’interno: “intus Novana”.

         7)- Il Fiastra (Fiastrello) si chiamava”Fiume Pollentino “, da Pollentia, che era il nome piceno

         della romana Urbe Salvia. Questa bella città occupava un posto centrale e una importanza   

         particolare, perché congiunta alle altre città picene da comode strade.

CHI ERANO E DA DOVE VENIVANO

    Vediamo che cosa ne pensano gli scrittori antichi.

    Plinio: “ I Piceni trassero origine dai Sabini, per voto sacro di Primavera”.1

    Strabone: “antichissimo e il popolo dai Sabini che sono indigeni; loro coloni sono i Piceni e i Sanniti”.2

     Festo: “La regione Picena è chiamata così, perché quando i Sabini partirono per Ascoli, un pica si posò sul loro vessillo”.3

     La favola di Festo e ripetuta da Paolo Diacono:” Dopo la regione Flaminia(Emilia), viene dodicesima il Piceno, che ha dalla parte australe i monti Appennini e dall’altra il Mare Adriatico. Questa regione si estende fino al fiume Pescara. In essa sono le città di Fermo, Ascoli, Penne e Adria decrepita per vecchiezza, la quale diede il nome al mare Adriatico. Quando gli abitanti di questa regione quì si diressero  dalla Sabina, una pica si posò sul loro vessillo, per cui la regione prese il nome di Piceno.4

   Queste leggende, come argomenti storici, valgono quanto la favola di Romolo che scava con l’aratro le fondamenta delle mura di Roma. Argomenti storici sull’origine dei  Piceni non possiamo averne, ma questo non ci permette di scambiare la leggenda colla storia.5

   Senza dilungarci a dimostrare irragionevoli tutte queste affermazioni, proponiamo una teoria che non è del tutto nuova, perché trattata, a modo loro, anche da autorevoli scrittori, specialmente da Giuseppe speranza nella sua opera: “Il Piceno”.6

   Nel secolo XV a.C., l’Italia fu invasa da un grande popolo sceso dalle Alpi Orientali che man mano si dilatò fino alle regioni del Sud Italia, dove si incontrò con potenti colonie di altri popoli della stessa levatura civile. Era il popolo degli  “UMBRI” (uomini forti), i quali probabilmente iniziarono l’età del bronzo delle nostre regioni.

   Gli Umbri, occupata la Penisola, svilupparono la loro civiltà, a seconda della regione occupata, e da questo fattore nacquero pure le diverse autonomie politiche e culturali. Gli Etruschi, di fronte a un mare aperto, si diedero al  commercio e raggiunsero presto una ricchezza e un progresso sociale meraviglioso, assimilando anche la cultura dei Greci e soprattutto dai Fenici, coi quali si trovarono presto a contatto di traffici; le popolazioni interne, come i Sabini, i Sanniti, i Vestini, si diedero alla pastorizia; i Piceni, di fronte a un mare segregato dalle vie dei grandi traffici, ebbero sì contatti commerciali con i Greci, ma la loro terra meravigliosamente fertile li spinse all’agricoltura, della quale divennero maestri. Strabone ci fà del Piceno questa descrizione:

“L’agro piceno è per natura adatto a ogni attività. La sua marina e tranquille pescosa e non è esposta incursioni piratesche; il suo clima è saluberrimo; le acque delle sorgenti pure e leggere; i suoi abitanti illustri in ogni epoca, sia nelle lettere, che nelle armi”.7

I PICENI E LE LORO CITTA’

   Non sappiamo con sicurezza da che derivi il nome “Piceni” o “Picentes”, ma data l’antichissima leggenda del picchio, pensiamo che Piceni si chiamassero così, perché il loro simbolo, il loro emblema era il Picchio.

   “Picentes” ci suggerisce anche un’altra possibile spiegazione: Picentes (da pix-picis) perché fabbricavano l’ambra artificiale, della quale troviamo abbondanti reperti archeologici, o anche perché usavano spalmare di pece le loro case di terra battuta, per renderle impermeabili.

   Piceni potrebbero anche essersi chiamati, per dirsi discendenti del dio Pico, figlio di Saturno e agricoltore.

   Di città PICENI stavano dove stanno oggi, perché l’origine di una città non è determinata dal capriccio, ma dall’ambiente favorevole all’insediamento umano. I Piceni non furono essi a scegliere la posizione delle loro città, ma trovarono anche che i luoghi abitati dagli indigeni erano le più adatte all’insediamento umano, egli si stabilirono. Le città picene non stavano nel fondovalle, a causa della malaria; non sugli estuari dei grandi fiumi, che s’impantanavano quasi tutti in grandi paludi; né in riva al mare per il pericolo di incursioni piratesche.8

   Da Plinio e da Strabone possiamo conoscere che le città marinare Picene erano in media a sette o otto km distanti dal mare. Auximum supra mare, Potentia, Cluana (Civitanova alta), Firmum Cupra Marittima, Truentum, Adria. Le città interne erano in collina: Cupra Montana, Beregra, Settempeda, Pollentia (Urbisaglia), Pausula, Falerion, Novana, Ausculum.9 Nessuna nel fondovalle.10

ORIGINE DI FERMO

   lasciando da parte le dotte elucubrazioni del Catalani, dello Speranza11 e di altri, i quali vogliono le città picene costruite da popoli, dei quali non sappiamo niente e, tanto meno, se hanno fondato città; scartando come infondata e illogica l’invasione del Piceno da parte dei Sabini e negando, per conseguenza, che il Colle Sabulo ripeta il suo nome da “Sabio”, progenitore dei Sabini; mi permetto di affermare che l’origine di Fermo si perde nella preistoria e la città non fu “fondata” da nessuno.12 Tremilacinquecento anni fa, anche nella nostra regione gli uomini abitavano nelle grotte e, dove non era possibile avere caverne asciutte, in capanne. Ce lo dicono le grotte che ancora rimangono a Montefiore, a Massignano, a Ripatransone, a Atri, a Civitella del Tronto; e anche il Colle Sabulo  ospitò una città abitata da cavernicoli.

   Furono gli “Umbri” a portare su queste colline i primi aneliti di civiltà e di progresso. Da questo grande popolo, sceso dal Nord, dobbiamo ripetere l’origine dei popoli Italici; la meravigliosa documentazione della millenaria civiltà etrusca; e l’Impero universale di Roma, che impose per sempre alle genti la sua civiltà col pensiero, colla lingua, colle leggi.

   La parte degli “Umbri” che occupò la nostra regione determinò col tempo la sua autonomia politica; fissò i suoi confini dall’Esino al Pescara, e diventò una forte nazione: il Piceno.

   Non furono essi a scegliere il Colle Sabulo, per costruirvi una città, ma trovarono che gli indigeni avevano scelto bene la loro residenza su questo colle, aperto su una immensa regione di ricche terre; alla luce abbagliante del sole nascente; alla brezza vivificante del mare sempre verde. Qui, vicino alle grotte degli indigeni incominciarono a costruire le loro abitazioni di terra battuta e alcune anche di pietra; ma preferivano costruire colla terra, perché la pietra scarseggiava in queste fertili campagne, e le case di terra resistevano meglio alle frequenti scosse telluriche.

   Per la felice posizione, per la ricchezza del territorio, per la comodità dei traffici terrestri e marittimi, la città si ingrandì man mano, diventando la più rappresentativa del Piceno, e si chiamò Palma13. La descrizione infatti che del Piceno fanno gli antichi scrittori ci fanno supporre che le quattro grandi province che lo costituivano prendessero nome dalla loro città principale: Ager Adrianus = territorio di Adria; Ager Pretutianus = territorio di Pretuzio14; Ager Palmensis = territorio di Palma; Ager Beregranus = territorio di Beregra15.

   Dei Piceni, nel migliaio d’anni prima della conquista romana, sappiamo pochissimo: solo quello che hanno voluto tramandarci scrittori romani di tarda epoca, nella quale anche Virgilio cantava la favolosa origine del popolo romano; poco anche possiamo conoscere della loro lingua molto affine a quella degli altri popoli italici, e della loro civiltà, testimoniata da scarsi reperti archeologici.

   Qualche scrittore si affanna a descrivere l’ordinamento politico e l’organizzazione familiare dei Piceni, ma sono solo supposizioni fantasiose, impossibili a documentarsi. Qualcuno parla pure di re Piceni, ma la storia non si può fondare sulla fantasia.

   Sappiamo che nel terzo secolo a.C., il Piceno era una forte nazione, poiché i Romani cercano l’alleanza “cum Picenti populo”, ma nessuno ci dice l’organizzazione civile e politica di questo popolo. Forse è probabile l’ipotesi del Catalani16, che il Piceno fosse una specie di repubblica federativa, che trovava la sua unità nei “Concilia” al tempo della dea Cupra, dove periodicamente si adunavano i rappresentanti delle varie città; e della loro vita civile possiamo solo affermare che usavano per i loro morti sia l’inumazione, che la cremazione.

   Molto invece possiamo dire della loro attività e della loro potenza.

ATTIVITA’ DEI PICENI

Pesca- Commercio-Artigianato-Agricoltura

   L’attività marinara dei Piceni era molto sviluppata. Si può arguire dalla descrizione di Strabone riportata sopra: “Piceni ora pisculanta”; se il mare era molto pescoso, avrà offerto un lavoro proficuo a molti pescatori. Il litorale, anche se le colline finivano quasi ovunque a strapiombo sul mare, presentava pure comode insenature per accogliere pescherecci, negli estuari dei fiumi minori17.

   Ma i porti più grandi: Ancona, Numana, Fermo, Truento, Pretuzio, altri non ospitavano solo barche da pesca, ma da essi partivano le entravano velieri carichi di merci. In territorio ricco di agricoltura, ma povero di minerali, i Piceni avevano bisogno di esportare prodotti agricoli e artigianali, e importare materie prime per fabbricare arnesi da lavoro, armi, oggetti di lusso e monili.

   Per la tintura delle stoffe, arte molto diffusa nel Piceno, avevano bisogno di materie coloranti, che le navi di Ancona, di Fermo, di Truento importavano dal sud, principalmente da Taranto18.

   Benché il Piceno fosse molto boscoso19, era vantaggioso importare dal golfo veneto il legname di larice per la costruzione delle navi e delle case, data la sua maggiore resistenza.

   Ma la grande ricchezza del Piceno era l’agricoltura. Gli antichi scrittori romani sono concordi nel dire meraviglie dei prodotti agricoli Piceni20. Marziale come incantato di fronte alla meravigliosa qualità del pane Piceno21.

   Al pane si affianca il vino che abbonda in tutta la regione, ma si distingue per la sua finezza il vino dei colli palmensi e pretuziani22.

   Plinio, Orazio, Giovenale trovano impareggiabili le frutta del Piceno: pere, mele, olive. Marziale afferma che non era pregevole un banchetto che non cominciasse e non si chiudesse con le olive picene23.

   La lavorazione della carne suina e antica di tremil’anni, nelle Marche e raggiunse presto quella tipica perfezione, anche oggi imitata da ogni parte, ma non superata24.

   Diffuso l’allevamento degli ovini, ma la pecora adriatica aveva un pregio maggiore, perché secondo alcuni, figliava due volte l’anno. Forse volevano dire che facevano due figli all’anno; come avviene quasi sempre anche oggi, che le pecore partoriscano gemelli.

   Il tipico formaggio marchigiano si confeziona anche oggi come lo facevano gli antichi Piceni. Pure le galline di Atri fetavano due volte al giorno25.

   Queste attività, questa ricchezza possiamo tranquillamente riferire anche, e direi principalmente a Fermo, che era al centro del fertilissimo Agro Palmense e provvista di un porto, tra i più grandi e comodi di tutto il Piceno.

POTENZA MILITARE DEI PICENI

   Dopo quasi settecento anni dalla calata degli “Umbri” in Italia, la storia della penisola inizia un nuovo corso. Già si erano consolidate le varie autonomie nazionali dei popoli italici. Gli Etruschi avevano dovuto cedere i nuovi invasori Galli le pianure padane, ma restavano sempre una ricca e forte nazione, che dominava il territorio ovest degli Appennini, con favorevolissime relazioni commerciali verso Oriente, favoriti dalle miniere di ferro dell’isola d’Elba.

   I Sanniti, intorno ai quali gravitavano le popolazioni minori dei Frentani, dei marrucini, dei Peligni, costituivano la fortissima nazione italica nel sud, che arginava all’espansione greca nella Penisola. I Sabini, in collaborazione coi Vestini e i Marsi, spaziavano con le loro greggi dai monti al mare, a sud del Tevere. I Piceni, che avevano fermato l’avanzata dei Galli all’Esino, occupavano la regione di qua dei monti, da questo fiume al Pescara.

   Nell’ottavo secolo a.C., ci fu chi diede una organizzazione unitaria ai villaggi sparsi sui colli adiacenti al Tevere, facendone una città che si chiamò Roma e che doveva trasformare l’ordinamento politico d’Italia e del mondo. Su quei colli si incontravano i pastori Sabini e i trafficanti etruschi che vi avevano stabilito un fiorente emporio per i loro commerci. Da questi pastori e da questi commercianti, fusi con 1 accordo sapiente, se Roma, la città nella posizione strategica più felice d’Italia: abbastanza distante, per non subire attacchi dal mare, e abbastanza vicino ad esso, per goderne i vantaggi e annullare attacchi dall’interno.

  Roma in cominciò presto ad allargare il suo dominio sulle città etrusche  e sabine dei dintorni, e non nascose il progetto di sottomettere tutti alla sua obbedienza. Era il popolo degli “Umbri”, sceso in Italia tanti secoli prima, che si rinnovava e incominciava con Roma la sua riunificazione e la conquista del mondo.

   Il cammino di Roma fu difficile, circondata com’era da nazioni forti; tanti pericoli superati, con coraggio incrollabile, appoggiato da una Provvidenza che guidava la sua ascesa fatale.

  I progressi di Roma però non furono celeri, come a prima vista potrebbe sembrare, se nel 299 a.C. , cioè 455 anni dopo la sua fondazione, erano ancora minacciosi gli Etruschi, i Galli, i Sanniti, e poteva disporre di meno di trecentomila  combattenti.

   Quello che gli storici hanno voluto ignorare è , che Roma ebbe bisogno dei Piceni, per sopravvivere e per trionfare. Questo popolo di pacifici agricoltori non aveva mai avuto mire espansionistiche, ma era forte, sia per la sua ricchezza, sia per il numero dei suoi abitanti26. Nel 299 a.C. (455 di Roma), presentandosi gravi pericoli, a causa della feroce reazione Sannita da una parte, e gallo etrusca dall’altra, Roma chiese alleanza al popolo Piceno27. Questa alleanza difensiva e offensiva fu, per Roma, la salvezza, perché le sue forze venivano più che raddoppiate; per il Piceno, fu l’inizio della rovina.

ALLEANZA ROMANO-PICENA

   Prima di narrare i fatti successivi a questa alleanza, per facilitarne la lettura e comprenderli meglio, voglio presentare un quadro cronologico di essi, sia”ab Urbe condita”,  sia “ante Cristum natum”, avvertendo che nella narrazione userò solo le date a.C.

A.U.C.      Ante CH

 455            299       alleanza omano-picena

 457            297       colonia romana in Adria

 458           296        battaglia del Sentino

 470           284        sconfitti i Galli Senoni 

 472           282        nuova guerra coi Senoni

 474           280        guerra contro Taranto

 475           279        sconfitta romana sul Siri

 479           275        contro Pirro

 483           271        conquista di Taranto

 485           269        GUERRA ROMANO-PICENA

 488           266        di deduzione della colonia a Fermo   

 489           265        1ª guerra punica

   Nel 298 a.C., l’anno successivo all’alleanza, i Piceni avvertirono i Romani che i Sanniti preparavano la rivolta, sobillavano i popoli vicini, e anche essi erano stati sollecitati a seguirli28.

  Per far fronte al pericolo sannita, si dovette indebolire il fronte etrusco, e ciò portò al nuovo accordo dei Galli cogli Etruschi che cercarono di approfittare dell’occasione favorevole per sopraffare Roma.

   Il pericolo per Roma fu gravissimo. Mentre il suo esercito era impegnato su due fronti: a nord e contro i gallo-etruschi, a sud contro Sanniti, il condottiero di questi ultimi, Gellio Ignazio, compì una delle più brillanti operazioni strategiche di tutti i tempi. All’insaputa del nemico, con un forte esercito sannita, attraverso i monti, raggiunge l’esercito gallo-etrusco e, in una prima battaglia, sconfisse l’esercito romano presso Arezzo, ma ricostituitisi un nuovo esercito di romani e di Piceni, al comando di Fabio, e Decio Mure, i gallo-sanniti furono costretti a battaglia nella valle del Sentino,  (presso Sassoferrato), e furono sconfitti e dispersi. Dicono che in quella battaglia, detta poi “della Tovaglia” dal nome della località, caddero 25.000 Galli e 8000 Piceni; tra i caduti fu Decio Mure e genio Ignazio condottiero dei Sanniti.    

   Ho detto che l’alleanza con i Piceni, per Roma, fu la salvezza. Difatti, come sarebbe finita quella guerra, se i Romani l’avessero combattuto da soli, mentre, anche aiutati dai Piceni, stavano per perderla? Ho detto che l’alleanza con i Romani, per il Piceno, fu l’inizio della rovina. Difatti, una delle quattro province Picene, Adria, non volle aderire all’alleanza e fece causa comune con i Sabini, favore dei Sanniti, per cui fu invasa dai Romani che vi collocarono una colonia, promettendo ai Piceni di ricompensarli di quella perdita. La ricompensa avvenne nel 282 a.C., dopo la sconfitta definitiva dei Senoni, poiché i Romani cedettero ai Piceni il territorio gallico fino a Rimini29. Magra ricompensa: i Piceni avevano perso una grande vecchia provincia e avevano avuto in cambio un grande territorio da colonizzare e difendere contro i Galli.

     Però non azzardo l’ipotesi che le cose sarebbero andate meglio per il Piceno, se non avesse collaborato con Roma, perché qui si raccontano i fatti avvenuti, non i possibili.  

PRIMI DISSAPORI

   I Piceni si pentirono presto dell’alleanza contratta con Roma. Vi avevano aderito per una giusta valutazione politica. Questa città giovane irrequieta, polarizzava su di sé l’attenzione degli Etruschi e dei Galli al Nord, e dei Sanniti a sud; e finché queste tre forze si combattevano fra loro al di là degli Appennini, il Piceno poteva godere pace sicura. Ma ora che i gallo-etruschi e Sanniti si erano coalizzati per la rovina di Roma, i Piceni non si sentivano più tranquilli, perché l’eliminazione di quella città avrebbe accresciuto per essi il pericolo delle popolazioni confinanti, già alleate fra loro, e soprattutto il pericolo dei Galli, smaniosi di espansione. L’alleanza con i Romani significava per il Piceno salvaguardare l’equilibrio politico esistente, per assicurarsi la pace. Ma quando si accorsero, ed era troppo tardi, che l’alleanza con Roma significava obbedire a Roma, la loro collaborazione si raffreddò, e il peggio è che lo fecero capire.

   Era bene che Roma fosse forte, ma al di là dei monti; ora invece si era affacciata sull’Adriatico e aveva piantato una forte colonia in Adria, che non aveva voluto restituire ai Piceni; e da qui Roma poteva controllare il loro traffico con le colonie greche del sud. In cambio aveva dato ai Piceni la Gallia Senonia, ma questa cessione, più che costituire un acquisto, era un nuovo peso, perché impegnava il Piceno a mantenere al Nord una continua vigilanza contro una prevedibile reazione dei Galli che restavano sempre fortissimi: in sostanza non era un dono, ma un servizio imposto.

   Nel 280 a.C., i Romani mossero guerra Taranto. Gli alleati Piceni non potevano vedere di buon occhio questa guerra, perché le loro relazioni commerciali con questa città erano antichi e molto rilevanti; 1 vittoria avrebbe portato Roma sul Canale di Otranto, da dove avrebbe controllato i commerci dell’Adriatico e dello Ionio. I Piceni diedero a qualche aiuto, ma i Romani notarono la loro freddezza e corsero ai ripari, per costringerli a mantenere l’alleanza.

   Il console Levino subì, sul fiume Siri, una disfatta dagli elefanti di Pirro. Il Senato di Roma ordinò che le legioni sconfitte fossero mandate a svernare a Fermo30. È il Senato che ordina, senza chiedere il consenso dei Piceni; e ordina di costruire a Fermo l’accampamento per svernare due legioni, come si sarebbe fatto in territorio nemico: due legioni, cioè circa dodicimila soldati, nel punto centrale e  strategico della nazione.

  Sicuramente fu la prima volta che Fermo sperimentò un’invasione nemica, poiché, anche se quelle due legioni di Ciociari non si potevano dire ufficialmente nemiche, lo furono per il loro comportamento e per gli immensi danni recati al territorio fermano. 

GUERRA ROMANO-PICENA

  Nove anni di guerra era costata ai romani la conquista di Taranto; ma la caduta di questa città aveva dato a Roma il dominio di tutta l’Italia Meridionale; sul versante Adriatico, Roma dominava dal Vomano in giù.

   Non sappiamo se fu il Piceno a rompere l’alleanza e a darsi da fare per cercare aiuti contro di potere pericoloso di Roma; o piuttosto se furono i Romani a prevenire le mosse dei Piceni e attaccarli, prima che riuscissero a trovare alleati e formare una forte coalizione31.

   Nel 269 a.C., il Senato romano spedì contro il Piceno i due consoli, Appio Claudio e T. Sempronio Sofo, il primo dall’Umbria, per le strette di Pioraco, scese nella valle del Potenza e conquistò Camerino, già occupata e fortificata dai Piceni; il secondo, per la via Salaria, scese nella Valle del Tronto.

   Dalle mosse dei due consoli si può arguire che il loro intento era: ricongiungere le forze e invadere prima l’Agro Palmense e la sua capitale Fermo, per dividere il Piceno superiore da quello inferiore e costringere il nemico a combattere diviso su due fronti. Difatti il console T. Sempronio Sofo, evitò Ascoli, che gli avrebbe procurato gravi ritardi, perché in posizione imprendibile, e cercò di dirigersi nella valle dell’Aso. Superata la resistenza degli Ascolani a “Interamnia Poletina Piceni”, un centro nei pressi dell’attuale Comunanza32, giunse a Urticinum (Ortezzano), dove i Palmensi avevano organizzato una forte resistenza. Anche questa fu spezzata e Urticinum distrutta nel furore della battaglia33; ma il Console non poté seguitare l’avanzata, perché dovette ritornare nella Valle del Tronto, per fronteggiare un forte esercito piceno che stava organizzandosi presso Truento.

   Qui si affrontarono l’esercito romano di Tito Sempronio Sofo, composto da due legioni, quindi non meno di 24.000 uomini34, e l’esercito Piceno, non meno numeroso e forte, benché gran parte delle forze picene fossero impegnate contro l’altro console, appio Claudio.

   Già stava per iniziare la battaglia, quando un terribile terremoto seminò il terrore nei due eserciti. I Romani furono i primi a superare il timore superstizioso, per merito del loro condottiero che fu pronto da arringare i soldati, affermando che quel presagio era favorevole ad essi, e fece voto di un tempio alla dea Tellure; ma anche i Piceni, superato il primo terrore, si gettarono ferocemente nella mischia, la battaglia fu così feroce, che pochi furono i superstiti, da una parte e dall’altra35.

   Dopo questa battaglia, i Piceni non videro alcuna possibilità di rivincita, e cercarono di salvare il salvabile, chiedendo la pace36.

   L’importanza di questa vittoria fu stimata tanto grande dai Romani, che il Senato decretò di ricordarla, coniando per la prima volta monete d’argento37; e di onorare i  due consoli con la celebrazione del trionfo38.

   Con la conquista del Piceno, mentre per i romani veniva eliminata 1 nazione pericolosa, il loro territorio si accresceva di una grande e ricca provincia, popolata da oltre un milione di abitanti39.

NOTE

 1- PLINIO SEN.- Historia Naturalis III-13.”Picentes a Sabini horti sunt voto Vere sacro”

 2- STRABONE – Geographia – III-13- “Antichissima est gens Sabinorum et aunt indigenee; horum coloni sunt Picentini et Samnites”.

  3- FESTO – Picena Regio – “Picena regio dicta, quod Sabina cum Asculum profisciscerentur in vexillo eorum picus consederit”.

  4- PAOLO DIACONO – Storia dei Longobardi – “Post Flaminiam duodecima Picenus occorri, habens ab Austro Appenninos montes; ex altera vero parte Adriaticum mare. Haec usque ad flumen PiscariamPertendit.In qua sunt civitates Firmus, Ausculum et Pinnis, et iam vetustate consumpta Adria, quae Adriatico pelago nomen dedit. Huius abitatores cum e Savini illuc properarent, et eorum vexillo pivus consedit, atque hac de causa Picenus nomen accipit”.

 5- non mi sembra ragionevole sostenere la migrazione dei Sabini nel Piceno, perché la popolazione si espande verso 1 zona più povera di abitanti; ma il Piceno, per la sua fertilità, doveva essere molto più popolato che non la Sabina a sparare montuosa. Così mi pare più ragionevole dare alla “Sagra di Primavera di Plinio il significato di una festa al tempio della dea Feronia che, come dice il nome, era protettrice degli animali (ferae), come il nostro S. Antonio. Quella festa si faceva per invocare la protezione della dea sui prezzi che, come si sa, in Primavera migrano verso la montagna. Non si capisce poi quale valore possa avere l’affermazione di Strabone secondo la quale sarebbero stati coloni dei Sabini “Picentini e Sanniti”, proprio 2 popoli che più d’ogni altro avevano fatto tremare Roma.

 6- GIUSEPPE SPERANZA – Il Piceno – c. VI, p, 63 – Ed. S.T.A.M.P.A., Ancona, 1924.

 7- STRABONE – Geographia: “Natura Picenus ager aptus ad omnia,  cuius maritima ora tranquilla pisculenta, nec piratum incursioni bus esposita, cuius aer saluberrimus,  cuius latice set et scatebrae innoxiae et leves;xuius incolae tam literis, tam militia clari Omni Tempore”.

 8)- STRABONE dice il Piceno”non è esposto mai incursioni piratesche”; ma Strabone non poteva ignorare che ai suoi tempi l’Adriatico era infestato dai pirati. Forse voleva dire che i pirati non erano pericolosi, perché le città erano distanti dalla costa.

9)- T. LIVIO V-12 (Ascoli) “…locus munitissimus et (ob collem) in quo positus est murur et colles cingentes, qui coscendi a nullo possunt exercitu”.

10)- Mi si potrebbe contraddire citando Falerion ed Helvia; ma fo osservare che esse erano città romane, non picene. Anche Falerio Picena non era in pianura, ma addossata alla collina.

11)- MICHELE CATALANI – Il Piceno – Ancona ED. S.T.A.M.P.A. – 1934. Sono opere che, nonostante l’insufficienza critica ed evidenti manchevolezze, restano basilari per la storia locale.

12)- “Sabulo”, da sabbia. “Colle Sabulo”, Colle di sabbia, colle tufaceo,

13)- Alcuni autori, tra i quali G. Fracassetti: memorie della città di Fermo – Ed. Atesa- Bologna 1977-sostengono che la città si chiamasse Fermo anche prima dell’occupazione romana (pag.10). È 1 probabilità.

14)- Non si sa quali località corrisponde “Pretuzio”. L’agro Pretuziano andava dal bono, Tesino. I romani diedero molta importanza 1 città chiamata “Castrum Novum”, che qualche scrittore vuole identificare con Giulianova, la cui origine non mi pare possa essere Picena. Tutto sarebbe più ragionevole se si ponesse Pretuzio presso l’attuale Corropoli. 1 zona ricca di agricoltura; con un comodo porto sulla foce del vibrata; dove terminavano la via Salaria e la via di Campli e di Teramo. Invece di Pretuzio, forse si dovrebbe leggere “Prepuzio”, dalla forma del promontorio che la sovrasta.

15)- E’ incerta la posizione di Beregra. Con ogni probabilità Beregra corrisponde a Filottrano (Turchi-  De Ecc. Camerin. Dissetatio praelim.).

16)- M. CATALANI – Origini e antichità permane – c. XI, p.89 – Ed. Lazzarini, Fermo, 1778.

17)- I porti non potevano essere sugli estuari dei fiumi maggiori, e non ci sono nemmeno oggi, sia per il loro corso a volte impetuoso, sia perché quasi tutti impantanavano in grandi paludi,

18)- SILIO ITALICO – Punica – VIII, 432: “Stat fucare colos nec Sidone vilior Ancon . Murice nec Libico…Q, Ancona non inferiore a Sidone e alla Libia per le porpore. Celebri pure le tintorie di Truento.

19)- LUCIO FESTO AVIENO – Descritio orbis terrae – v. 500: “Et nemorosi maxima cernes culmina Piceni Q. Ammirerai le altissime cime del boscoso Piceno, (Anche: VITRUVIO – II Lo: Plinio – XVI, 191.

20)- T. LIVIO – l. XXII – IX: “Per Picenum avertit iter non copia solum omnis generis frugum abundantem, sed refertum praeda, quam effusae avidaequae suae gentes rapiebant”. (Annibale volse la sua marcia attraverso il Piceno, non solo abbondante di ogni genere di frumento, ma ricco di prede che le sue genti sbrigliate e insaziabili portavano via).

21)- MARZIALE – Xenia 46 – “Picentina ceres nivea sic nectare crescit- Ut laevis  arrepta sponcia turget aqua”. Il pane Piceno si gonfia di bianchissimo nettere, come una spugna si gonfia di acqua

22)- RUFO FESTO AVIENO – v.501 – “Mirum in Piceno gallicam placere vitem, picenum in Gallia”. Nel Piceno è molto gradita la vite gallica, come in Gallia la vite picena.

Idem- “Coma largi palmitis illic – tenditur, ac fuso baccu stegit arva flagella – tum qua vitiferos domitat praetutia pubes – plena vigoris agro”: Là si estendono larghe chiome di pampini, e dopo la vendemmia la vigorosa gioventù pretuziana tende i tralci su tutti i campi fertili di viti da essi coltivati.

PLINIO – l. XIV, c. 6 “Ex reliquis vinis a Supero Mari praetutia et Anconae nascentia et quae a Palma una sorte enata, palmensia appellantur”. I vini dell’Adriatico, quello prodotto a Pretuzio e Ancona e quello della stessa qualità prodotto da Palma, si chiamano “Palmensio”.

T. LIVIO – XXII,87 – “…opulenta fertili provincia exercitum alebat veteribus vinis, quorum permagna est copia, pedes equorum abluens”. In quella ricca e fertile regione, rianimava i soldati contadini invecchiati che la abbondano, medicandoci perfino gli zoccoli dei cavalli.

23)- MARZIALE – Xenia 35 – Epig. L. 1, 44 e seg. “Haec quae picenis venit subducta trapetis. Incoat, atque eadem finit oliva dapes. Questa oliva che viene sottratta ai Fantoni piceni apre e chiude il pranzo.

PLINIO – “Praeferentur … in ipsa Italia ceteris picenae”. Nelle stesse Italia (che vuole olive straniere), sono preferite alle altre le olive picene.

MARZIALE – “Et quae Picenum senserunt frigus olivae. Haec satis in gustu”. Sono molto gustose di olive che sentirono il freddo del Piceno.

PLINIO – c. 15 “Quid cum picenis excepersent semina pomis gaudes?” (Cioè: quanto è gioioso mangiare pomi piceni.

“Picenis cedunt pomis Tburtia succo, nam facie praestant”. I pomi tiburtini eccellono per l’apparenza, ma cedono ai piceni per il sapore.

24)- Marziale – Xenia – Ep. L. I,I ivi – “Filia Picenae venia Lucanica porcae – Pultibus hinc niveis grta corona datur”. (Le salsicce PICENI, confezionate in corona di profumate carne suina). Potete mangiare anche oggi ovunque salumi confezionati alla maniera marchigiana, ma quelli fabbricati dai nostri campagnoli sono un’altra cosa.

25)- PLINIO – V 53 – “Atrianis laus maxima”

(26)- PLINIO – “Regia Piceni quondam uberrimae multitudinis, CCCLX millis Picentium in fidem populi romani venerunt”.

27)- T. LIVIO – X – 11 – “Romae terrorem praebuit fama gallici tumultus ad bellum etruscum adiecti. Eo minus cunctanter fedus ictum cum Picenti populo est”. Terrorizzò Roma la notizia delle agitazioni dei Galli che aggravavano il pericolo della guerra etrusca. Immediatamente fu conclusa l’alleanza col popolo Piceno.

28)-  T. LIVIO – X – 11 – “Cum hoc bellum segnius opinione esset,  alterius belli quod non nullis invicem cladibus terribile erat, fama Picentium novorum sociorum inditio, orta est. Samnites arma et rebellionem spectare. Seque ab iis  sollecitatos esse, Picentibus gratiae actae, et maxima pars curae Patribus ab Etruria in Samnites versa est”. (Mentre la guerra cogli Etruschi era nell’opinione comune non troppo vicina, per avvertimento dei suoi alleati piceni, si diffuse il timore di un’altra guerra più terribile, per il ricordo di alterne stragi passate. Dicevano che i Sanniti preparavano le armi per la rivolta e anche essi erano stati sollecitati a seguirli. Furono ringraziati i Piceni, e la massima attenzione del Senato si spostò dagli Etruschi ai Sanniti).

29-  POLIBIO – “Regio Galliae quam Picenum vocant”.

        T. LIVIO – “Ariminum in Piceno”.

        EUTROPIO – “Senam Piceni civitatem”.

30)- FRONTINO – Stratagemma IV – l. “P. Valerio Consuli Senatui praecepit exercitum ad Sirim victum, ducere Firmum inique castra munire et hiemen sub tentoriis exigere”. Senato ordinò al Console P. Valerio di condurre a Fermo l’esercito vinto al fiume Siri e lì fortificare un accampamento e svernare sotto le tende.

31)- EUTROPIO – l. II, e XVI – “Pecentes bellum commovère”.

         LUCIO FLORO – l. I, c. XIX –  “Omnis mox Italia pacem habuit, quid enim post Truentu auderent? Nisi quod ultro persequi socios placuit. Domiti hinc  Picentes et caput gentis Asculum”. Quasi tutta l’Italia fu in pace; dopo Taranto difatti chi avrebbe osato muoversi? Se non che si volle castigare che aveva favorito i nemici. Furono perciò sottomessi i Piceni e la prima città di quel popolo, Ascoli.

32)- Nei documenti medievali, Comunanza è sempre detta “Interamnia” Teramo.

33)- PLINIO – l. III – c. XII – “Item Urticinum in Piceno, deletus a Romanis”. Plinio afferma che gli Urticini furono deportati a fondare una colonia presso il lago Fucino, dove sorse una nuova Urticinum, che fu poi inghiottita dal lago.

34)- Una legione era composta da circa seimila soldati romani e quasi altrettanti alleati.

35)-  FRONTINO – Stratagemma l. I – “Titus Sempronius Solus Consul acie adversus Picentes directa, cum subitus terremotus utrasque partes confudisset, exortatione confirmavit suos et impulit ut costernatun supertistione hostem invaderent, adhortatusque devicit”.

            I. FLORIO: l. I, c. XIX – “Domiti hinc Picentes et caput gentis Asculum, P. Sempronio duce, qui tremente inter proelium campo, Tellurem deam promissa sede placavit”.

           EUTROPIO – l. II, c. XVI – “Quinto Agulnio, C. Fabio Pictore Consulibus, Picentes bellum commovere, et ab insequentibus consulibus P. Sempronio et Appio Claudio victi sunt, et de bis triumphatum est”.

            PAOLO DIACONO (da Orosio IV – II: “Sempronius Consul adversus Picentes duxit exercitum, et cum directe intra iactum teli utraque acies constituiaaet, repente ita cum orrendo fragore terra tremuit,  ut stupore miraculi utrunque pavefactum agmem bebesceret, diu attoniti utrique populi esitavere praeiudicati incepti coscientia: tandem procursi conciti iniere certamen.Triste adeo istud proelium fuit, ut merito tantum humanum sanguibem, etiam cum gemitu horrisono, tunc evasere vicerunt et ad bis triumphatum est”. Contro le Sempronio diresse l’esercito contro i Piceni e trovandosi già le due schiere a un tiro di freccia, all’improvviso la terra tremò con sì orribile boato, che i due eserciti restarono esterrefatti da quel misterioso avvenimento e stettero sospesi per lungo tempo, esitanti se proseguire nel combattimento; finalmente riavutisi, si gettarono nella mischia. Fu tanto crudele il combattimento, che giustamente la terra tremò per il versamento di tanto sangue umano. Vinsero i pochi romani che poterono sopravvivere a quella battaglia e celebrarono il trionfo.

36)- T. LIVIO – Epit. L. XV – “Picentibus victis pax data”.

37)- T. LIVIO – ivi – “Tum primum argento uti coepit”. Allora per la prima volta incominciò a usarsi monete d’argento.

38)- SIGONII – Fasti Consulares ac triumphi – “… P. C. Consul de Picentibus anno CDXXCV … Ap. Claudius Consul, de Picentibus anno CDXXCV”.

39) – T. LIVIO – “Regio Piceni quondam uberrimae multitudinisCCCLXmillis Picentium in fidem populi romani venerunt”. Trecentosessantamila erano, secondo usavano fare il censimento i Romani, gli uomini dai 16 anni in su. Volendo includere donne e bambini, bisogna triplicare questa cifra.

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Giuseppe Michetti scrive “Fermo, aspetti della città medievale” storia

GIUSEPPE MICHETTI

ASPETTI MEDIEVALI DI FERMO

~dal dominio dei Franchi alla fine del medio evo~

volume secondo

FERMO – EDIZIONE LA RAPIDA – 1981

Ti voglio presentare questo secondo libro di storia fermana con qualche giudizio autorevole riguardante il primo: « Fermo nella letteratura latina”. Fra i tanti attestati di simpatia i più significativi sono i seguenti:

1° – « Si tratta in verità di una preziosa ricerca che al pregio di una documentazione minuziosa, unisce quello di una narrazione avvincente, impreziosita da intuizioni originali e da argute considerazioni “.

2° – « La tua è una ricerca sui documenti letterari, ampia e gioiosa, almeno per quanto riguarda l’epoca romana “.

3° – « La grande mole di notizie di fatti svoltisi nella terra che abitiamo, lo stile sobrio; le osservazioni acute rendono il libro non solo interessante, ma prezioso “.

Voglio anche fornirti una testimonianza negativa. Un amico studioso illustre, un giorno che stavo consultando un « tomo “ del Muratori, mi ha affrontato con brutto cipiglio e mi ha detto testualmente: « Ma lascia andare questi libri vecchi. Il tuo libro non mi piace affatto. La storia non è per te; cambia mestiere “.

Caro amico, sono troppo vecchio per cambiar mestiere. Però le tue parole non mi offendono, perché non ho mai preteso che i miei libri piacessero a tutti.

E tu, lettore? Leggi questo secondo libro di storia fermana poi aggiungerai il tuo parere e mi dirai se è proprio un libro inutile.

Intanto ti saluto

                                                                                                       D. Giuseppe Michetti

                                                                 Chi vive la storia deve sforzarsi

                                                         di far rivivere i sentimenti

                                                              e le passioni dei tempi andati.

                                                                                         (A. Gabelli)

                                                                                                                AL LETTORE

   Per un libro di storia come questo del Prof. D. Giuseppe Michetti di una introduzione non ci sarebbe bisogno.

    In esso niente parole grosse, fumose o superflue: tutto è vivo, schietto, parlato. Perché il linguaggio di Michetti rispecchia il suo carattere: semplice, lineare, tutte cose; egli racconta le vicende con discorso familiare, franco, pulito. Leggendo questo libro ci pare di essere usciti fuori dagli inquinamenti e ammorbamenti cittadini e di respirare quell’aria ossigenata, limpida, fresca della campagna e del poggio di Rocca Monte Varmine, ove Michetti vive e lavora.

   Infatti egli non è alle prime armi per quanto riguarda il suo interesse per la storia locale. Ha dato alle stampe, “In attesa che sia pubblicata la storia più voluminosa e particolareggiata”, un volumetto su S. VITTORIA IN MATENANO (tip. La Rapida di Fermo, 1969); una breve memoria su”ROCCA MONTE VARMINE (tip. La Rapida di Fermo, 1980) che però è una revisione del primo opuscolo pubblicato con lo pseudonimo “Sibillino” (edizioni Paoline – Pescara): “DAL FEUDALESIMO AL GOVERNO COMUNALE NEL PICENO” (tip. La Rapida di Fermo, 1973); “UGO di FARFA” La Destrucio” – traduzione e note – 1980).

   Il primo volume già pubblicato di questa storia di Fermo (G. Michetti – Fermo nella letteratura latina – La Rapida, 1980) reca la dedica: “A tutti i miei scolari mai dimenticati”, con la quale l’autore dichiara apertamente il suo intento.

   Con l’impegno responsabile e vivo senso delle difficoltà egli si appresta a contribuire ad aiutare il lettore a conoscere e a riflettere: a conoscere la storia quanto mai interessante di una antica importante città, quale è Fermo; a riflettere sulle vicende e sui fatti umani che sono sì quelli di ogni tempo, ma che assumono aspetti, modi, colori particolari in ogni epoca storica e che vanno valutati appunto in relazione  ad essa. Con logiche deduzioni e lepide notazioni Michetti “invera il certo”, secondo l’espressione vichiana, promuovendo quei valori che sono patrimonio della società e danno un senso alla vita. L’autore sfronda le intricate vicende, presentandoci nudi fatti, ma non tralascia i suoi bravi e brevi commenti, che sono poi anche quelli del lettore, ben sapendo col Manzoni, che la storia da sola senza immaginazione dice troppo poco, perciò occorre sollecitarla per coglierne i valori eterni e i richiami incisi nella nostra società.

   Il Michetti narra con vigile partecipazione le vicende della città nel periodo medievale, avvertendo che cosa ardua scrivere nella storia, per la quale non bastano affetto, cultura locale. Così ha intrapreso ricerche e indagini sul municipio romano, compulsando archivi e fonti letterarie; e in questo secondo volume rammenta e tiene sempre presente il principio di non scrivere nulla che non sia documentato.

   Ciò non vuol dire che non vi debbano essere altri studiosi che apportino contributi nuovi, più copiosi e larghi, perché la storia di Fermo nel Medioevo non è soltanto la storia di una città, ma ha richiami e implicanze molto più vaste del semplice ambito cittadino e della Marca Fermana, cosicché chi legge finisce per avere davanti a sé l’illuminante profilo della società italiana dei secoli tumultuosi che prepararono le trasformazioni dell’epoca moderna. Opportunamente il Michetti intitola il volume: “Aspetti medievali di Fermo”.

   La lettura di questo secondo lavoro ci rende impazienti e ci fa più pungente il desiderio di leggere il seguito del racconto chiaro, pacato e allusivo che concluderà l’operosa fatica di D. Giuseppe Michetti nell’itinerario storico della città di Fermo fino all’inizio del nostro secolo.

                                                                                                   Prof. Mario Retrosi

INDICE

CAPITOLO I

pag.      7           L’unità europea

“             8         Organizzazione politica di Fermo sotto i Carolingi

“             10         II feudalesimo

“             1o         Vita agricola nel sistema feudale

“             12         Lotario imperatore e l’università di Fermo

CAPITOLO II

“             15         I monaci farfensi nel fermano

“             16         La battaglia del Garigliano

“             17         Fermo sotto gli imperatori tedeschi

“             17         I Vescovi di Fermo nel secolo X

“             19         I normanni a Fermo

CAPITOLO III

“             23         I Vescovi di Fermo preparano i Comuni

“             24         II Comune

“             25         Indole del Comune Fermano

“             27         Difficoltà per Fermo nel sec. XII

“             28         Distruzione di Fermo

CAPITOLO IV

“             31         Fermo alla fine del sec. XII

“             32        Organizzazione politica del fermano nel sec. XIII

“             33         La contea del Vescovo di Fermo

“             34         Ugo II e Pietro IV

“             35         Rainaldo (1223-1227)

CAPITOLO V

“             39         Fermo e Federico II – Fermo capitale della Contea

“             39         Resistenza a Rinaldo di Urslingen Duca di Spoleto

“             41         Organizzazione  comunale

“             43         Federico II e la guerra del 1240

“             44         Fine della Contea dei Vescovi

“             46         Fermo e Re Manfredi

“             48        Sviluppo edilizio a Fermo nel secolo XIII

            CAPITOLO VI

 “         51     Fermo nella prima metà del sec. XIV

“          52     Mercenario da  Monteverde

“          54     Giacomo Vescovo e Principe di Fermo

“          55     Confraternita di S. Maria

“          56     Gentile da Mogliano

CAPITOLO VII

“           59      Fermo nella seconda metà del sec. XIV – Il Card. Albornoz

“           59      Prima missione del Card, nella Marca

“           61      Costituzioni Egidiane

“           63      Seconda missione del Card. Albornoz nelle Marche

“           63      Fermo dopo il Card. Albornoz     

“           65      Rinaldo da Monteverde

 CAPITOLO VIII

“         71      Fermo e lo scisma d’occidente dal 1380 al 1433

“         71      Antonio de Vetulis

“         74      Dal 1400 al 1417

“         76      Fermo e Martino V

“         79      Dopo Ludovico Migliorati

CAPITOLO IX

“        82       Francesco Sforza a Fermo – La Signoria

“        82       La signoria di Francesco Sforza

“        85       Opere pubbliche – La grande carestia del 1440

“        87       Sollevazione a Ripatransone

“        89       Saccheggio di Torchiaro e Moregnano

“        89       La battaglia di Santa Prisca

“        90       Fine della dominazione Sforzesca

“        92       Restaurazione

CAPITOLO X

“        94       II pericolo turco

“        95       Fermo e Pio II

“        96      Guerra per Monsapietrangeli

“         97      La battaglia di Vetreto

CAPITOLO XI

“         99      Attività economica di Fermo nei secoli XV e XVI

“          99     Agricoltura

“         100    Artigianato

“         101    Commercio

“         101    La fiera di Fermo

“         102    La comunità ebraica a Fermo

“         103    II Monte di Pietà

CAPITOLO I

I Longobardi nel Fermano si erano romanizzati più presto che in tante altre zone; la fusione tra l’elemento romano e il longobardo, dopo due secoli era completa, anche se fino al secolo XI molti signori ritenevano titolo onorifico dirsi «Longobardi“, come si può rilevare da alcuni documenti1. Da ciò possiamo argomentare che i Fermani sicuramente non festeggiarono la caduta del Regno Longobardo e l’avvento del Regno Franco.

      Difatti Fermo, Osimo, Ancona, anche per evitare la dominazione franca, si affrettarono a offrire al Papa il loro territorio. Mandarono ambasciatori ad Adriano, per giurare fedeltà al Vicario di S. Pietro, ed egli, in segno di accettazione, tagliò loro un ciuffo di capelli, secondo l’uso romano 2.

Alla caduta del Regno Longobardo, sarebbe dovuto andare in vigore il Patto di Quiercy del 754, col quale Re Pipino assicurava al Papa il possesso di tutta l’Italia Peninsulare3; ma esso non ebbe mai esecuzione, forse perché il cattolicissimo Carlo Magno era anche un grande politico e capiva che affidare al Papa un regno così grande significava vanificare in breve la sua conquista ed esporre l’Italia a grandi disordini, o al pericolo di invasioni esterne, per l’innata debolezza militare della S. Sede; e della plebiscitaria decisione delle città picene non si tenne conto.

Difatti, dopo pochi anni, nel 781, Carlo Magno credette bene dare all’Italia una diversa sistemazione: rinunciando al titolo di Re dei Longobardi, istituì il Regno d’Italia, investendone il figlio Pipino.

Questo regno comprendeva tutta l’Italia Settentrionale, la Toscana e il Ducato di Spoleto che sul versante Adriatico si estendeva fino al Pescara; restava al Papa il Lazio, una piccola parte dell’Umbria, l’Esarcato di Ravenna e le due Pentapoli4. Fermo seguitò ad essere considerata parte del Ducato di Spoleto e come tale fu trattata dai Duchi e dai Re carolingi.

Nel 799, si dimostrò quanto fosse errato il Patto di Quiercy, poiché Papa Leone III (795 -816) dovette fuggire in Francia, per una agitazione popolare provocata dai Signori laziali.

L’UNITA’ EUROPEA

     Verso la fine dell’anno 800, Carlo Magno riaccompagnò papa Leone III a Roma e, nella festa di Natale, fu consacrato da lui « Imperatore del Sacro Romano Impero “.

     In questo Impero “Sacro e Romano“, come il Papa era capo universale della Religione, così l’Imperatore sarebbe stato capo universale di tutte le nazioni cristiane, col compito di guidarle e di difendere il Papa e la Chiesa.

Bisogna valutare bene la portata di questo avvenimento, per poter comprendere nel loro giusto valore i fatti che la storia del Medioevo ci presenta.

     L’istituzione del Sacro Romano Impero non è un regalo che Leone III fa a Carlo Magno, per ringraziamento di averlo riaccompagnato a Roma e consolidato il suo seggio papale.

     Leone III è il genio politico che, insieme a Carlo Magno, dà inizio a una istituzione che dovrà essere la salvezza del mondo Romano – Cristiano,-allora in gravissimo pericolo.

     Il mondo Romano non poteva fare affidamento sugli Imperatori di Costantinopoli, imbelli, fautori di scismi, che odiavano i Romani e il Papa, e perdevano continuamente terreno di fronte agli Arabi e ai Turcomanni che premevano da Oriente. Soprattutto gli Arabi erano un pericolo mortale per la civiltà cristiana.

    Essi non erano come i popoli barbari del Nord, che venivano in cerca di terra e anche di civiltà; ma erano feroci invasori, potenti e organizzati, che si proponevano di annientare la civiltà cristiana e imporre la loro, essenzialmente diversa. La loro espansione sembrava inarrestabile.

     Già avevano occupato tutta l’Africa mediterranea e la Spagna fino ai Pirenei, a stento contenuti a prezzo di sanguinose battaglie da Carlo Martello prima, poi da Carlo Magno.

     Era in atto uno scontro mortale tra due grandi civiltà: la civiltà cristiana e quella islamica.

     Il Sacro Romano Impero aveva lo scopo di estendere il cristianesimo tra le popolazioni germaniche e slave; riunirle sotto una unica guida, l’Imperatore, per salvarle dal tremendo pericolo islamico.

     Il sacro Romano impero è il primo tentativo di Unità Europea: Unità che si ripete oggi, dopo più di un millennio, in condizioni similari, anche se i protagonisti non lo avvertono.

     Questa Europa unita, travagliata attraverso i secoli di mezzo da mille

discordie, ma costretta, nonostante tutto, a restare unita, per opera dei Romani pontefici, salvò la civiltà cristiana e la fece trionfare nel mondo.

     Sotto questa luce bisogna guardare il rito di Natale dell’800; e allora ci accorgeremo che molti Imperatori non compresero la loro missione europea, e ritennero il titolo come un ornamento personale, da sfruttare a proprio vantaggio; che le scomuniche di alcuni Papi contro imperatori regnanti hanno un valore diverso da quello attribuito loro da scrittori cosiddetti laici5.

ORGANIZZAZIONE POLITICA DI FERMO

SOTTO I CAROLINGI

     I Carolingi non portarono in Italia mutamenti sostanziali, che nel progresso civile e nell’arte di governare, i Franchi non erano molto superiori ai Longobardi.

     Carlo Magno, deposto il Re Desiderio, si proclamò Re dei Longobardi, finirono quindi Re Longobardi, ma restarono molti Duchi, che si erano amicati i Franchi; seguitarono i grossi signori terrieri longobardi e restò il Codice Longobardo, poiché Carlo Magno lasciava a ogni nazione conquistata le proprie leggi.

   Specialmente nel Ducato di Spoleto, se nell’organizzazione politica qualche cambiamento, esso fu insignificante.

   I “Comitatus” c’erano prima dei carolingi, e restarono anche per secoli; i Conti nelle “civitates”c’erano prima  e restarono, finché non cedettero il loro ufficio ai Podestà Comunali (per il fermano nei secoli XII e XIII).

     Alla caduta del Regno Longobardo, finì il Ducato di Fermo, e la città fu governata da un Conte, alle dipendenze del Duca di Spoleto.

     Nel 776, difatti era conte di Fermo un certo Lupo6.

     Nelle 778, c’era un Conte a Fermo che si chiamava Rabennone; e c’era un Conte a Spoleto7.

     Il fatto che perfino nella città del duca c’era un Conte dimostra che esso era un ufficio del Duca; un incaricato a governare e ad amministrare la giustizia in nome del sovrano.

     Anche il Conte di Fermo quindi era un funzionario che reggeva il territorio fermano temporaneamente, a disposizione del Duca Spoletino.

     E anche se non abbiamo documenti che ci parlino della organizzazione civica di quei tempi, possiamo essere certi che il Conte non era il padrone della città, non era un despota; ma accanto a lui c’erano altre autorità che collaboravano nel governo di essa.

      Autorità fosse anche eletti dal popolo, che curavano l’andamento civile; mentre al conte era riservata la responsabilità di controllare; l’amministrazione della giustizia; la polizia e le forze armate.

     Affermo questo, perché la sapiente organizzazione romana non poteva sparire con le invasioni barbariche; subirono mutamenti anche deterioramenti nei vari periodi, ma fu nella sostanza mantenuta: la civiltà prevale sempre sulla barbarie.

     Forse durante il secolo IX, si tentò di ricostruire il Ducato di Fermo.

     Ciro suggerisce un diploma di Berengario II8 come altri documenti ci fanno pensare a un Conte di Fermo, alla fine del secolo, con autorità pari a quella del Duca9.

   Nelle campagne, i signori longobardi seguitarono a vivere nei loro castelli e a coltivare le terre, per mezzo di affittuari e servi della gleba: metodo che poi si chiamò “feudale”, che non era stata una loro invenzione, ma istituito almeno cinque  secoli prima e codificato da Diocleziano.

     Questo metodo che oggi possiamo giudicare disumano, perché oppressivo e lesivo della dignità dell’uomo, non impediva che i signori longobardi si convertissero al Cattolicesimo e si sentissero buoni cristiani.

   Semmai qualche scrupolo venisse a turbare la loro coscienza, potevano sempre porci rimedio prima della morte, col destinare parte o tutta la loro possidenza a qualche monastero, o a qualche vescovado; i quali poi seguitavano a condurre l’agricoltura con lo stesso metodo, perché ancora non se ne era inventato un altro.

      Le nuove invenzioni, in certi campi, sono sempre molto difficili!

IL FEUDALESIMO

      Se volessimo tradurre la parola “Feudalesimo”   in una più comprensibile, dovremmo dire: “affittanza”; quindi “feudo” significa “affitto”; feudatario significa “fittavolo”.

     In quale senso?

     Con la istituzione del Sacro Romano Impero (Natale ‘800) si tentava l’organizzazione dell’Europa nell’unità; Unità religiosa che già esisteva, almeno di diritto, nel governo della Romano Pontefice; Unità politica, sul modello della prima rendendo tutti i potentati europei tributari di un solo capo: l’Imperatore. In altre parole: come il mondo religioso dipendeva da un solo capo, il Papa; così il mondo politico avrebbe dovuto essere diretto dal supremo governo dell’Imperatore.

     Questi, ricevendo il potere da Dio, avrebbe dovuto estendere la sua autorità su tutto, come padrone assoluto. Regni, Ducati, Marchesati, Badie, Vescovadi avrebbero dovuto considerarsi come dati in feudo = affitto dall’Imperatore, e i loro padroni considerati legittimi, solo se riconosciuti da lui.

     Questi grossi signori, che si chiamavano “Feudatari”, pagavano all’Imperatore l’affitto o tributo e disponevano del loro feudo liberamente, sempre alle dipendenze dell’Imperatore; e subaffittato ad altri signori più piccoli, che si chiamavano “Valvassori”,  o  “feudatari minori”, le varie parti del loro feudo.

     In teoria, si dava col Sacro Romano Impero una gerarchia al potere:

l’Imperatore, arbitro di tutto; dipendenti direttamente da lui i “Feudatari” (re, duchi, vescovi, abati); dipendenti da feudatari i “valvassori o feudatari minori”10.

Se nella realtà non sempre questa organizzazione raggiunse lo scopo voluto, fu perché all’Imperatore mancò la forza sufficiente per imporre la sua volontà.

     Le due difficoltà, che non furono mai risolte, riguardavano il Papa e i Vescovi; il Papa aveva un dominio temporale legittimo che non poteva essere controllato dall’Imperatore, per non rendere il Papa dipendente da lui; i Vescovi, capi religiosi, avevano anche un feudo, che li sottoponeva all’autorità imperiale; chi avrebbe dovuto sceglierli?

     Queste difficoltà causavano aspre contese che durarono secoli.

VITA AGRICOLA NEL SISTEMA FEUDALE

     Le relazioni reciproche Tra i detti signori erano regolate dal “Diploma Imperiale”, che rendeva il feudatario legittimo possessore del feudo, che poteva lasciare in eredità ai discendenti; o dal “Privilegium”, contratto col quale il feudatario rendeva il Valvassore legittimo possessore del piccolo feudo, a tempo indeterminato o a volontà del feudatario o, come qui da noi, per tre generazioni.

     Questo fino al 1037, quando l’editto di Corrado II, “DE BENEFICIIS” resi ereditari anche i feudi dei valvassori11.

     L’editto di Corrado non aveva valore nel Dominio Pontificio, nel quale l’Imperatore non era sovrano, e se seguitò a dare in feudo le terre per tre generazioni.

     Diplomi, privilegi, editti  riguardavano solo i feudatari e valvassori, quelli cioè che in qualche modo si potevano chiamare signori; ma per la massa dei nullatenenti e per i servi non c’erano diritti.

     La proprietà del feudatari e dei valvassori si estendeva a tutto quello che si trovava nell’ambito del territorio loro affidato: le terre, le selve, i corsi d’acqua ed eventualmente le acque marine; quindi il diritto di caccia, il diritto di pesca, le carbonaia, i mulini, i forni e ogni altra possibile fonte di risorse economiche appartenevano al signore; all’umile gente restava il lavoro12.

     Ma il lavoro libero era quasi inesistente.

     Tutto sia centrava nel castello del signore terriero, perché la fonte principale della ricchezza era l’agricoltura; e alle dipendenze del castello lavoravano i “Vassalli”, fossero essi servi della gleba, colonia affittuari o mezzadri, piccoli proprietari13.

     Sì, anche piccoli proprietari, perché non dobbiamo credere che la parola “Vassallo” significhi uno spiantato che, per campare, stia al servizio di un signore.

     “Vassallo” era uno che aveva obblighi servili verso un signore; e in questo senso, anche i Feudatari erano vassalli; vassalli del governante.

     Vassallo poteva essere un servo della gleba che lavorava la terra e custodiva il bestiame del padrone, alla completa dipendenza da lui; legato alla terra che lavorava, della quale seguiva le sorti, tanto che il valore di questa era misurato anche dalla capacità lavorativa dei servi 14.

     Vassallo poteva essere un colono che riceveva in affitto dal signore un piccolo appezzamento; un mezzadro, cui era affidata della terra che pagava con una parte del prodotto di questa.

     Essi potevano contare su condizioni pattuite, molte volte imposte dal padrone, il quale esigeva anche servizi extra in sovrappiù, sia dagli uomini che dalle donne, le quali eseguivano i vari lavori domestici nel castello.

     Vassallo poteva essere un piccolo proprietario che doveva signore l’”homagium” (servizio di uomo), o perché aveva comprato la terra con obblighi servili, o perché doveva pagare al signore la sicurezza che gli veniva vivendo nell’ambito del territorio feudale.

     I vassalli potevano liberarsi del vassallaggio, pagando un riscatto, ma ciò avveniva raramente, perché non sempre conveniva.

     Ovviamente non conveniva al vassallo proprietario, per motivi di sicurezza; non sempre conveniva agli altri, sia per mancanza di lavoro indipendente; sia perché raramente un vassallo riusciva col magro guadagno a mettere da parte la somma necessaria per il riscatto: somma che era sempre alta, perché il padrone era sempre contrario a concedere il riscatto15.

     Rari sono i casi di fuga, perché raramente si trovava chi volesse appoggiare la fuga di un vassallo, per non crearsi noie.

LOTARIO IMPERATORE

E L’UNIVERSITA’ DI FERMO

     Alla morte di Carlo Magno, prese l’impero il figlio Luigi il Pio, il quale nell’817, si associò al governo il figlio Lotario, destinandolo al regno d’Italia; e nell’823, il Papa Pasquale I lo consacrò Imperatore.

     Poco ci interessa qui se il Lotario si mostrò un po’ anticlericale; se, per finirla con i disturbi continui provocati dai Romani, si intromise negli affari del Papa e ne vigilò il governo non sempre efficiente; Fermo deve a lui riconoscenza, perché qui fondò la prima UNIVERSITA’, nell’829, stabilendovi uno dei nove studi del Regno Italico, al servizio di tutto il Ducato Spoletino16 .

     La scelta di Fermo dipese sicuramente dalla sua posizione preminente e centrale nel Ducato che si estendeva fino al Pescara, ma forse anche dal desiderio di cultura dei Fermani, che era testimoniato dalle scuole molto frequentate, istituite dal Vescovo Lupo, pochi anni prima17.

     Questa UNIVERSITA’ fermana, la prima istituita nel Piceno, giunse con alterne vicende alla rispettabilità di un migliaio di anni.

     Nell’833, sorsero gravi discordie tra Luigi il Pio e altri regnanti carolingi, che si trasformarono in un vera guerra civile, della quale approfittarono i predoni saraceni per scorrazzare impunemente per l’Italia.

     Anche nel Piceno provocarono danni immensi, depredando città e villaggi meno difesi e distruggendo Truento e  Cupra Marittima, verso l’840.

     Fermo non fu toccata, perché per il pirata Shabat sarebbe stato troppo difficile espugnarla, e anche senza la protezione dell’Imperatore, la città era in grado di difendersi da sé.

     Cominciò a crescere l’autorità del Conte, e ad allentarsi la dipendenza dal Duca di Spoleto.

     Nell’893, troviamo un Conte di Fermo che non sembra più un funzionario del Duca. Difatti la frase: “Temporibus Alberici Comitis Firmani, anno eius XVIII” ha tutta l’aria di citare, non un funzionario, ma un quasi sovrano che governa Fermo per 18 anni.

     D’altra parte Guido di Spoleto non ha tempo per pensare a Fermo, e ai saraceni, intento com’è a contendere il Regno d’Italia a Berengario del Friuli e a strappare al Papa il titolo di Imperatore (891).

     In appresso fu consacrato Imperatore anche suo figlio Lamberto, ancora bambino, finché  Guido muore, nell’894.

     Il Papa, stanco dei Duchi Spoletini che definisce “peggiori dei Longobardi”, elegge imperatore Arnolfo di Carinzia.

     La vedova di Guido, a Geltrude, col figlio Lamberto, lascia Spoleto e si rifugia Fermo, considerata la città più forte di tutto il Ducato, dove viene assediata da Arnolfo.

     Ma la Duchessa si ricorda di essere una longobarda e, con astuzia felina, riesce a trovare un traditore che propina al nuovo Imperatore una pozione venefica che lo paralizza; e l’esercito di Arnolfo si allontana da Fermo, portando l’Imperatore su una barella18.

NOTE

1   Ex Reg. Ep. – doc.1055 p.382 – “Rampa, quae Pulcina vocatur mulier longobarda ecc.

2   ANASTASIO BIBLIOTECARIO – Vita PP. Adriani – “Anno 773 excusso per Carolum Magnum  

      Longobardorum jugo, omne abitatores ducatus, Firmani, Auximani, Anconitani, ad Summum 

     Pontificem occurrentes, illius se ter beatitudini tradiderunt, prestitoque iuramento, in fide ac  

     Servitio B. Petri ac eius Vicari fideliter permansuros, more romano tonsurati sunt”. Nell’anno 773, 

     liberati per opera di Carlo Magno dal giogo longobardo, tutti gli abitanti nel Ducato di Fermo, di

     Osimo, si rivolsero al Papa, consegnandosi alla Sua Santità; giurando nelle sue mani di restare

     per sempre fedeli a San Pietro e al suo Vicario. Il Papa tagliò loro 1 ciuffo di capelli, 2º l’uso

     romano.

“Beato Petro eiusque omnibus vicarilis  possidendis”. Il Patto di Quiercy del 754 stabiliva la

      spartizione del regno longobardo, quando fosse conquistato, tra i Franchi e il Papa. I Franchi si

      sarebbero tenuti la Valle padana; al Papa sarebbe andato tutto il territorio sotto la linea 

      Monselice, Passo della Cisa, Luni. Compreso il Ducato di Spoleto e quello di Benevento. (V.

      Todisco – St. delle  Chie. V. III p 88).

4    Pentapoli Marittima: Rimini, pesano, Fano, Senigallia, Ancona.

       Pentapoli Annonaria: Urbino, Fossombrone, Cagli, Jesi, Gubbio.

5    Leggo in un libro moderno che vorrebbe insegnare la storia d’Italia ai giovani(lo dice nella

       presentazione) queste parole: “Fu di sorpresa, e senza nessun previo accordo, che costui (Leone

       III), alla fine della messa di Natale, gli si avvicinò e gli pose sulla testa la corona di imperatore.

       Secondo gli storici Franchi, Carlo se ne mostrò sgradevolmente stupito”Uno scrittore, capace di

      ridurre la cerimonia di Natale 800 a questa farsa, non so che cosa possa capire della storia

      medievale.

6   C. MARANESI – I Placiti del “Regnum Italie” – Roma, 1955 – “Dicembre 776: Lupus Comes de

      Firmo”.

7    GREGORIO DA CATINO – “Cronicon” …… datum iussum Spoleti in palatio nostro anno ducatus 

       nostri XIV mense Augusti in inditione X. SUB GUARINO COMITE genero nostro, ipse  Rabenno

       volontarie monacus effectus est”.

8    “……. in ambobus Ducatibus nostri Firmano ac Spoletino” (dal diploma di Adalberto e Berengario

       II al monastero di San Michele in Barrea).

9     LIBERI LERGITORIUS: hanno 904: “Temporibus Alberici Comitis Firmani, anno eius XIII”.

        Anno 911: “Temporibus Alberici Comitis Firmani, anno eius XVIII

10   In questo nel capitolo seguente, riporto alla lettera dei brani dal mio lavoro “Dal feudalesimo al 

        Governo Comunale nel Piceno”. (La Rapida Fermo 1973).

11   L’editto di Corrado II “De beneficiis – Anno 1037”

        “Ordiniamo pure che, se un valvassore dei maggiori o dei minori se ne va da questo mondo, il

         figlio suo abbia il feudo. Se poi non avrà figli, ma 1 nipote da figlio maschio, questi abbia il

         feudo, mantenendo l’uso dei valvassori maggiori di dare i cavalli e armi al proprio signore”.

12   “Similmente promettiamo che non ci sarà in Marano altro forno, fuorché quello del signore, nel

        quale promettiamo di cuocere il pane di tutto il castello, con proprie legna e pagare buon

        “fornatico”, in modo che il fornaio o la fornaia delle Vescovo faccia il fuoco con le nostre legna,

         non con le sue.

         Circa i forestieri che verranno qui ad abitare in un avranno padrone siano uomini del Vescovo

         e  servano a lui, secondo i patti con lui stabiliti”. (Catalani – De Eccl. etc. app XXXIX p. 347).

13   il piccolo affitto, pagato periodicamente in generi agricoli, e la mezzadria, cioè divisione

        proporzionale o a metà del prodotto dei campi è frequente nello Stato Farfense e nel

        Fermano.

14   (Colucci – A. P. XXIX app. CVII p. 200 – Ivi XXXI app. IV p. 8)

15   “Cola Palonis de Massa …… (libera) Benedictum Gulterutii ab omni nexu vassallaggi et singulis

         debitis servitiis …. pro eo quod dictus Benedictus restituit dicto Colae domun et omnes res 

        quas habuit in feudum …. et promisit sibi dare viginti florenos aureos pro liberatione. Ac etiam

        promisit dare septem salmas cum dimidio grani…..”.

        (Colucci – A. P. XXXI n. XXII p. 33).

        Cola Paloni di Massa (libera) Benedetto Gualterucci da ogni vincolo di vassallaggio e di ogni

        debito di servizi ……. Per il fatto che detto Benedetto ha restituito al detto Cola la casa, e tutto

        ciò che teneva in feudo ……. E ha promesso di dare 20 fiorini d’oro per la liberazione …… ha

        promesso anche di dare sette salme e mezzo di grano….”.

16   L. MURATORI – Rer.Ital. Script. – l I p. II pag. 151

        “Circa l’istruzione che quasi scomparsa dovunque per la pigrizia e la trascuratezza degli

         incaricati, stabiliamo che sia osservato quando noi disponiamo. Cioè, che quelli che per nostra

        disposizione sono stati mandati nei vari luoghi a esercitare l’arte dell’insegnamento, mettano il

        massimo impegno a che i loro scolari progrediscano e si approfondiscano nello studio, come  

        richiede la condizione attuale della cultura.

        Per comodità di tutti, abbiamo scelto delle particolari località per questo esercizio culturale,

        affinché la difficoltà di raggiungere luoghi distanti, e la mancanza di mezzi finanziari non

        costituisca una causa alla trascuratezza. Questi luoghi sono: Primo, in Pavia si radunino presso

        il Duncallo, da Milano, da Brescia etc. A Fermo si radunino dalle città spoletino etc.

17   CATALANI . De Eccl. Fir. Etc. Lupus p. 107

18   LIUTPRANDO – De Rebus Imper. Et REg. I cap. IX “…..il castello che si chiama Fermo di nome, ma lo è anche di fatto per la posizione, viene circondato e si preparano tutte le macchine da guerra per espugnarlo. Trovandosi la moglie di Guido stretta da ogni parte senza nessuna speranza di poter fuggire, incominciò con viperina astuzia a studiare il modo di uccidere il Re. Chiamato pertanto presso di sé un tale molto amico di Re Arnolfo, lo colmò di doni pregandolo di aiutarla. Ma, rispondendo quello che non avrebbe potuto farlo, prima di consegnare la città al suo signore, lo prega calorosamente, offrendogli subito molto oro e promettendogliene di più, che propini al Re suo signore una bevanda preparata da lei stessa: la quale non provocherebbe la morte, ma solo mitigherebbe l’odio. E per confermargli la verità della sua affermazione, alla presenza di lui, da a bere la pozione a un suo servo, che dopo un’ora, si allontanò sano…. Quello prese la bevanda mortale e la propinò al Re, il quale la bevve e fu preso da un sonno profondo, che non valse a svegliarlo, per tre giorni, lo strepito di tutto l’esercito. Si dice che, mentre i familiari lo sollecitavano con grida e con scosse, aprì gli occhi, ma non poté sentire né pronunciare bene una parola; sembrava che muggisse invece di parlare. La conseguenza di tutto questo fu che tutti furono costretti a non combattere, ma a fuggire”.

CAPITOLO II

I MONACI FARFENSI NEL FERMANO

     Proprio in questi anni, ultimi del sec. IX, avvenne un fatto di somma importanza per la storia Fermana.

     Mentre a Fermo l’Imperatore Spoletino e l’Imperatore Tedesco si combattevano accanitamente, come abbiamo visto, i Saraceni erano arrivati a depredare proprio alle porte del Ducato di Spoleto. Mi servo del racconto di Ugo Abate, che traduco in italiano1.

     “…. Sopraggiunsero i Saraceni …… che si sforzarono di occupare la Badia, circondandola da ogni parte, ma non ci riuscirono; poiché il venerabile Pietro, Abate di quel monastero, fidando nell’aiuto di Dio e sostenuto dal valore dei suoi soldati, ricacciandoli più volte la territorio del suo monastero, li faceva inseguire lungamente e uccidendone molti, per qualche tempo riusciva a ottenere un po’ di sicurezza.

     “Ma quei maledetti ritornavano continuamente. L’Abate Pietro, avendo resistito coi suoi monaci e coi suoi soldati per sette anni, sentendo di non poter resistere più a lungo, divisi i monaci e il tesoro in tre parti.

     Una ne mandò a Roma; una nella città di Rieti; la terza poi, presala con sé, la condusse nel Comitato Fermano, lasciando vuoto il monastero.

     “Ma  i Saraceni cominciarono a fare razzie anche in qualche zona del Comitato Fermano.

     “Perciò l’Abate Pietro, messo di nuovo in apprensione, adunò i suoi monaci e i suoi soldati e costruì un castello sul Monte Matenano, dove poi fu collocato il corpo di Santa Vittoria”.

   L’Abate Pietro si trasferì nel Comitato Fermano, perché qui i Farfensi avevano cospicui possessi; e il Conte di Fermo Alberico, che governava da pochi anni (si era nell’897),  sapeva mantenere una certa sicurezza.

     I possedimenti Farfensi nel Piceno erano cospicui e di antica data.

     Nel 787, il Duca di Spoleto Ildebrando aveva affidato alla Badia i beni confiscati al figlio del Conte di Fermo Rabennone e a sua moglie Falerona2, e altri vasti territori a Montelparo, Monteleone, Monterinaldo ecc.; Carlo Magno aveva confermato alla Badia il possesso di Ortezzano3; l’Abate Ingealdo, verso l’832, aveva   rivendicato la Badia il possesso della Curtis S. Abundi” e altre terre “in Comitatu  Camertino”4.

   In un Diploma dell’840 l’Imperatore Lotario aveva confermato alla Badia:

“In Comitatu Firmano, Monasterium S. Silvestri vel Sanctae Marinae cum omni integritate ….. et portum in Aso5, vel alias res quas Ildeprandus dare ei condonavit …… res Gualtierii fili Aimonis … res Rabennobis et uxoris eius; res Mauri presbiteri Firmanae civitatis”.

     Questi vasti territori, dei quali abbiamo riportato solo una parte, in seguito si accrebbero per le spontanee donazioni di signori, soprattutto per la donazione del signore longobardo di Offida Longino di Ottone, nel 938; e costituirono lo Stato Feudale Farfense, che durò ricco e potente fino al 1261, sommamente benemerito del progresso del Piceno.

LA BATTAGLIA DEL GARIGLIANO

     Nel 916, il Papa Giovanni X riuscì a mettere d’accordo alcuni principi italiani, tra i quali Randolfo di Benevento e il Duca di Spoleto e assalì le basi dei Saraceni nella Valle del Garigliano, sterminandoli fino all’ultimo combattente, come afferma Gregorio da Catino6.

   Anche il Papa partecipò alla battaglia, combattendo armato come un soldato qualunque.

   In questa battaglia non si fa menzione di combattenti fermani, ma è ovvio che molti di essi vi prendessero parte, poiché sicuramente si reclutano soldati da tutto il Ducato, se vi parteciparono Spoletani e Camerinesi.

     In questo periodo, dal 911 in poi, non ci sono documenti che ci dicano che governava Fermo e le relazioni tra questa città e Spoleto.

     Ugo dice: “Morto lui (Pietro) il predetto Rimone prese il Governo di quel luogo (Matenano). Ugo, Re di Borgogna, incominciò a governare sopra gli italiani, è venuto nella Marca Fermana7, cacciò dalla loro provincia i parenti di Rimone e anche lui insieme ad essi8.

     Non sappiamo il nome di questa potente famiglia che ha un figlio prete, Rimone: un buon prete che i monaci di Santa Vittoria e i soldati dell’Abate Pietro vogliono loro capo, per avere la protezione della famiglia di lui.

     Re Ugo, appena venuto nella Marca di Fermo (928) di caccia tutti dalla “loro provincia”.

     Da queste parole è lecito che la famiglia di Rimone si fosse impadronita della Marca Fermana e Re Ugo, ovviamente, non poteva tollerare la sua pericolosa potenza.

     Volendo riorganizzare il Regno Italico, che poi governò dal 926 al 944, Ugo aveva bisogno di sostituire i vecchi con nuovi funzionari, capaci e di provata fedeltà, specialmente nei punti principali del Regno, e molto si servì dei suoi parenti.

     Mise come vescovo di Verona il nipote di Raterio; stabilì Abate della Imperiale Badia di Farfa il nipote Ratfredo 9 , e affidò la Marca Fermana a un suo parente di nome Ascherio, come si può ricavare da un brano della “Destructio” dell’Abate Ugo.

     Egli dice:

      “Verso quel tempo (probabilmente 939) si accese una grande guerra tra Salirone e Ascherio, per contendersi la Marca Fermana.

     Prevalse Salirone che uccise Ascherio con molti dei suoi e si impadronì della Marca.

     Saputa la cosa Re Ugo si infuriò contro di lui e incominciò a perseguitarlo per l’uccisione di Ascherio che era suo stretto parente”.

FERMO SOTTO GLI IMPERATORI TEDESCHI

     Ottone I di Brunsvik, chiamato in aiuto da Adelaide vedova di Lotario, figlio del Re Ugo, venne, sposò Adelaide e fu incoronato a Pavia Re d’Italia, nel 951.

     Morto, nel 961, il principe Alberico che si era sempre rifiutato di ricevere Ottone, il figlio di lui Giovanni XII (955-965) lo invitò a Roma e lo incoronò Imperatore del Sacro Romano Impero, ufficio vacante da oltre quarant’anni; e come era nei patti, il 13 febbraio 962, col privilegio di Pavia, Ottone si obbligò a rendere al Papa i territori d’Italia destinati alla Chiesa da Carlo Magno10.

     È difficile giudicare l’operato di questo grande Imperatore.

     Qualcuno potrebbe mettere in dubbio la sua buona fede sul Privilegio di Pavia, perché subito dopo sorsero attriti gravissimi tra lui e il Papa, proprio perché il Privilegio non andava mai a effetti; anzi l’Imperatore gravava la mano sulla chiesa, giungendo a stabilire che l’elezione del Papa doveva avere la conferma imperiale.

     A qualcuno fa meraviglia questa ingerenza da parte di un Imperatore sinceramente cattolico, marito di una santa, la grande Adelaide che sapeva influire sul marito, come seppe poi guidare il figlio Ottone II.

     Ma siamo onesti! Come poteva questo Imperatore che, appena incoronato, dovette scappare da Roma per una rivolta popolare; che stava combattendo per riconquistare le terre della Chiesa contro Berengario annidato nel Montefeltro, affidare l’Italia dei Papi in balia di signori irrequieti, circondati, da un clero indisciplinato e corrotto. Perché tali erano allora le condizioni della Chiesa italiana.

     Da Ottone I cominciò l’ingerenza degli Imperatori tedeschi negli affari interni della chiesa che durò per quasi due secoli; ingerenza insopportabile, inammissibile; ma almeno bisogna salvare la retta intenzione di molti di essi, anche se il fine non giustifica i mezzi.

     A Fermo, durante l’impero degli Ottoni, non succede niente di particolare importanza.

     Nel 982, vi fa sosta Ottone II, che si recava a combattere in Calabria; questo soggiorno, che qualcuno riporta come onorifico per la città, era in effetti una calamità che si prolungò per secoli, rendendo le Marche, e soprattutto il Fermano, zona di transito di innumerevoli soldatesche e, in conseguenza, zona di disordini, di rapine e di lutti.

I VESCOVI DI FERMO NEL SECOLO X

     Poche notizie abbiamo della diocesi di Fermo, fino alla fine del secolo X.

     Di questo secolo conosciamo solo il nome di tre vescovi: Amico (940-960), Gaidulfo (960-977) e Uberto (996-1044), eletto negli ultimi anni del secolo.

     I vescovi fermani che conosciamo, secondo i documenti che ci restano, sono all’altezza del loro alto ufficio.

     Possiamo osservare che essi hanno una posizione preminente nel Piceno, poiché li vediamo intervenire spesso con autorità in affari di altre Diocesi.

     Il vescovo amico arbitra nei contrasti tra un certo Leone di Arciprando e l’Abate Campone della Badia di Farfa, per certi possedimenti nella Sabina; il Vescovo Gaidulfo più volte interviene, insieme al Conte di Fermo Lupo, nelle questioni tra Giovanni Vescovo di Penne e l’Abate Ilderico di Causaria (Abbazia presso Torre de’ Passeri).

     Anche la potenza economica dei vescovi fermani in questo periodo incomincia a crescere enormemente.

     Dobbiamo notare che anche la Chiesa, o meglio, gli uomini che la compongono, nei secoli X e XI, si adeguano ai tempi e poggiano la sicurezza e la libertà nella potenza economica e, per molte ragioni, non possiamo condannarli.

     I vescovi di Fermo erano già ben provvisti, per le donazioni di re longobardi, specialmente di Aginulfo e Liutprando. Ma nella seconda metà del Novecento le donazioni di terre e anche di interi villaggi abbondano, fino a costituire il più potente feudo di Piceno, al pari del potentissimo feudo Farfense.

     Le donazioni fatte alla Chiesa Fermana durante questo secolo sono tante, ma non credo opportuno menzionarle, poiché per il lettore sarebbe cosa inutile, essendo la maggior parte di quelle località non rintracciabile, perché i loro nomi sono cambiati.

     Nel 995, il giovane Trasone dona alla Chiesa Fermana una possidenza di quasi 500 ettari, vicino al mare, tra il Potenza e il Chienti. Il documento afferma che la donazione sarà irrevocabile, come vuole il Codice Longobardo11.

     Fino a tutto il secolo X e oltre, il Vescovo di Fermo (come tutti i vescovi delle Marche) non esercitò un vero governo civile; i poteri civili e militari erano in mano al Conte.

     Il Vescovo influiva molto sul governo comitale, per la sua autorità vescovile e per essere senza confronti più grosso feudatario del Comitato; ma la sua autorità era religiosa e morale, non politica.

     La sua autorità nel campo civile era quella di un grande feudatario con impegni particolari impostigli dalla sua condizione di Vescovo.

     Abbiamo visto come incominciarono a darsi a lui interi villaggi, popolati di povera gente che stentava la vita intorno alle Pievi; gente di nessuno, perché libera da obblighi servili verso altri signori.

     Questa gente aveva bisogno di aiuto, di guida, di difesa, di organizzazione; e il Vescovo feudatario, appunto perché vescovo, non poteva disinteressarsi di essa, come avrebbe potuto fare un signore qualsiasi: quella gente era “la plebe del Vescovo”, ed egli aveva il dovere morale di guidarla; e vedremo come i vescovi di Fermo seppero guidare le loro plebi fino alla libertà comunale.

     Questo interessamento del Vescovo comportava anche dirimere le questioni della gente nel suo feudo, senza intromettersi nel giudicare i delitti che spettavano al Conte, non avendo il vescovo “il mero e misto impero”12.

     Ma un chiarimento è necessario. Di chi era feudatario il vescovo di Fermo?

     La Marca Fermana, di diritto, era proprietà della Santa Sede, perché ancora in vigore il privilegio di Pavia, ma questo non ebbe mai esecuzione, anzi, da Ottone I in poi, gli Imperatori agirono come se l’autorità del Papa dipendesse dalla loro.

     Il Vescovo di Fermo quindi, di diritto era feudatario del Papa, di fatto però dipendeva dall’Imperatore, il quale aveva influenza decisiva anche sulla sua elezione.

     Provvidenzialmente i Vescovi di Fermo nel Novecento e del Mille furono tutti all’altezza del loro Ministero.

I NORMANNI A FERMO

     Nel 1049, finalmente la Chiesa, dopo tanta decadenza, ebbe un degno Papa, Leone IX, Alsaziano e il cugino dell’Imperatore Enrico III.

     Fu il primo dei Papi che, dietro i consigli di Ildebrando (poi Papa Gregorio VII), lavoro seriamente per la riforma della Chiesa, per la quale più volte viaggiò attraverso l’Europa.

     Per la storia nostra, mi sembra di poter affermare che Fermo avesse bisogno della riforma meno di altre diocesi.

     Certamente non possiamo affermare che Fermo fosse immune dai mali del tempo, dei quali tutti è sempre risentono; ma conoscendo i grandi vescovi di questo secolo: Uberto (996-1044), Fermano (1047-1057), Olderico (1057-1075), la loro attività pastorale, la fiducia popolare che godevano, attestata da innumerevoli donazioni; conoscendo infine la relazione amichevole del vescovo fermano col terribile riformista Pier Damiani, siamo autorizzati a credere che a Fermo le cose andavano meno peggio che in altre parti.

     Il pericolo maggiore per Roma, in quel tempo, erano i Normanni che dalla Puglia scorazzavano nelle regioni vicine, razziando e maltrattando ferocemente le popolazioni che facevano resistenza.

     Nel 1053, Leone IX, di ritorno da un viaggio in Germania, condusse con sé una schiera di soldati tedeschi, per rafforzare un esercito di Spoletini e Fermani, pronti per combattere contro i Normanni.

     Anche l’Imperatore Bizantino aveva promesso di inviare un esercito che però, come al solito, non arrivò mai. Il Papa stesso si mise a capo del suo esercito; ma presso Civitate sul Fortore, l’esercito fu sopraffatto dai Normanni e Leone IX preso prigioniero13.

     O che l’imperatore Enrico III, al quale spettava il dovere di difendere il territorio della Chiesa, si fidasse nel suo cugino Papa, che in gioventù era stato un buon capitano; o che il Papa preferisse non far troppo ingerire l’Imperatore negli interessi della Chiesa, Leone IX commise un errore che gli costò sette mesi di prigionia e la morte prematura a soli cinquanta anni; poiché, riportato in barella da Benevento a Roma, vi morì nel marzo 1054.

     Questo, come tanti altri fatti storici, dimostra che, mentre i comuni mortali è concesso di fare molti sbagli, un solo errore può abbattere i grandi.

     Per Fermo questa guerra fu rovinosa, poiché (fortunatamente per pochi anni) i Normanni dilagarono nella Marca Fermana e possiamo solo immaginare, giacché non abbiamo documenti, cosa poterono compiervi quei feroci conquistatori.

      Nel 1059, per interessamento di Ildebrando e di Desiderio, Abate di Montecassino, il Papa Nicolò II (1058-1061) e Roberto Guiscardo si incontrarono a Melfi, per un accordo.

     Col trattato di Melfi, i Normanni si ritirarono da tutte le terre della Chiesa, quindi anche della Marca Fermana e, in cambio, Roberto il Guiscardo veniva investito della Puglia, della Basilicata, della Calabria e giurava fedeltà al Papa, quale feudatario della Chiesa, che si impegnava a difendere.

   Il 22 aprile 1073, alla morte di Alessandro II, fu acclamato Papa, dal popolo romano, Ildebrando che si chiamò Gregorio VII14.

     Roberto di Guiscardo che, finché era stato impegnato a consolidare il suo dominio più che raddoppiato col trattato di Melfi, era stato utile la Chiesa in varie occasioni, cominciò a vagheggiare di nuovo la conquista della Marca Fermana, forse approfittando delle difficoltà che Enrico IV procurava al Papa.

   Ma Gregorio VII non tremò e scomunicò tanto Enrico IV, come anche i Normanni che minacciavano “Marchiam Firmanam et Ducatum Spoletinum”.

     Nel 1084, Gregorio è costretto a chiedere aiuto a Roberto il Guiscardo, allora impegnato contro l’Imperatore di Costantinopoli.

     Enrico IV, seguito da un antipapa, aveva occupato Roma e Gregorio si era chiuso in Castel Sant’Angelo.

   Guiscardo accorre con trentamila soldati normanni e saraceni, mette in fuga il re tedesco e libera il Papa.

  In questa impresa i normanni occuparono anche la marca Fermana; e il Guiscardo, che non si era mosso certo pero solo amore di Dio, volle ripagarsi del servizio reso; e Gregorio VII dovette accontentarsi di cedergli la parte della Marca a sud del Tronto. Quel fiume diventò il confine tra la Marca Fermana il territorio normanno, e anche oggi è il confine meridionale delle Marche   .

     Quanto abbia sofferto la città di Fermo in questa pur breve occupazione normanna non lo sappiamo, poiché sono rarissimi gli storici che si occupano delle sofferenze della povera gente, ma possiamo farcene  un’idea, conoscendo la ferocia di questo esercito di briganti che nella stessa Roma aveva perpetrato stragi crudeli.

     Era Vescovo di Fermo Golfarango, che forse qui si chiamava Wolfango, probabilmente venuto dal Nord, come ci suggerisce il nome. Vale la pena di fermarci un po’ su questo personaggio su alcuni fatti che sono in relazione con lui, perché ci aiuta a conoscere meglio la storia di questo periodo.

     Morto Olderico, verso la fine del 1074, Gregorio VII scrisse al Conte di Fermo Uberto, al clero e a tutti i fedeli che, benché gli fossero state riferite cose riprovevoli nei riguardi dei loro Arcidiacono, pure, conosciute false le accuse, a lui affidava l’amministrazione della Diocesi che, d’accordo col Re (Enrico IV), non si fosse trovata la persona degna dell’Episcopato.

     Intanto si impedisca la dispersione dei beni della diocesi, e “fate in modo di diportarvi come figli fedeli della Chiesa”.

     Questo, perché avveniva sempre che alla morte di un vescovo, clero e popolo saccheggiavano l’episcopio; il che succedeva non solo a Fermo, ma anche altrove15.

     Nei primi mesi del 1075, fu eletto vescovo Pietro I, che l’anno appresso scompare, ma non si sa se per morte, o per rinuncia volontaria, o per rinuncia imposta da Enrico IV.

     Io sospetto che quest’ultima ipotesi sia la più probabile perché a Enrico IV non poteva piacere la fedeltà dei vescovi fermani al Papa, né la loro intraprendenza politica; nel Giugno di quell’anno, loro stesso Pietro I aveva imbrigliato il potere degli Aldonesi, piccoli feudatari, obbligandoli a fare i conti col Comune di Civitanova, già formatosi sotto Olderico e in via di sviluppo16.

     Al principio del 1076, Enrico IV insedia un nuovo vescovo a Spoleto, e a Fermo manda Wolfango, senza sentire il Papa, il quale si lamenta col Re, perché ha osato dare le due diocesi a due sconosciuti, mentre egli non può consacrare se non persone ben conosciute provate. Ma per amore di pace, il Papa consacrò i due vescovi.

     Nel VI Concilio romano che si celebrò nel Febbraio 1079, troviamo Wolfango comunicato insieme ad altri vescovi17.

     Che era successo?

      Si era al colmo della lotta per le investiture, contro la simonia e per il celibato del clero; lotta che Gregorio VII sosteneva con successo da una trentina di anni, prima come segretario dei papi, poi come Papa, e che gli aveva attirato l’odio della gran parte del mondo cattolico.

     Questo piccolo gigante, cui era ignoto il senso della paura, alle minacce tedesche, al pericolo normanno, ai conciliaboli dei vescovi partigiani di Enrico IV che si ribellavano ed eleggevano antipapi, rispose col VI Concilio Romano, dove si scomunicò di nuovo il Re e tutti i vescovi ribelli e, tra questi, per la prima volta si trovò un Vescovo Fermano, Wolfango, il quale come gli altri doveva l’episcopato a Enrico IV.

     Ma per l’opera dei grandi vescovi precedenti, Fermo non era la sede adatta per un vescovo ribelle, e Wolfango o se ne andò, o più probabilmente si riconciliò col Papa dopo poco tempo18.

NOTE

1     UGO DI FARFA – “Destructio” – Traduzione e note di Fiuseppe Michetti (Fermo – La Rapida 

        1980).

2     COLUCCI – A. P. XXXI p.15

3     CHRONICON col. 469 – “Curtem S. Marinae in Ortatiano

4     COLUCCI – XXXI pp. 16-17

5     per attraversare il lasso non c’erano punti. Nei punti dove confluivano le vie di maggiore

       traffico, era organizzato il trasbordo per mezzo di zattere che si chiamavano “Portoria”, e il

       luogo si chiamava portus = dazio, gabella. Il trasbordo dei passeggeri e delle merci era fonte di

       grossi guadagni. Il “portus” di fortezza sano era in proprietà dei monaci di Santa Marina, cui

       monastero era poco lontano.

6     GREGORIO DA CATINO – Cronicon – in Muratori – Scrip. Rer, Ital. t. II – COLUCCI XXIX p. 20 –

      “Denique Joannes Ravennas tunc praesidebat Ecclesiae Romanae, qui consultu Randulfi

       Beneventanorum et Capuanorum principis legatos dixerit ad Imperatorem Costaninopolim, a

      quo acceptis non modicis copiis, simulque accersitis Spoletanis atque Camerinis, contra POenos

      satis studuit pugnam preparare. In quo bello visi sunt a religiosis fidelibus Petrus et Paulus

      Apostoli, quorum precibus cristiani victoriam obtinuerunt et Poenos viriliter effugaverunt”.

      Era a capo della Chiesa Romana Giovanni di Ravenna…..  reclutati spoletini e camerinesi preparò

       accuratamente la guerra contro gli Arabi.

7    E’ la prima volta che troviamo l’espressione: “Marca Fermana”.

8    ABATE UGO – Destructio – in Colucci t. XXIX p. 8.

9     DA CATINO – Chronicon – in Muratori A. I. T. t. II part. II.

10   Patto di Quercy del 754, riconfermato da Carlo Magno nel 774.

11   CATALANI – De Eccl. app n. II – riporto questa donazione per far notare che nei contratti si

        poteva usare il Codice Longobardo o quello Romano. Nel Fermano prelevare l’uso del primo.

12   Et si aliqua quaestio inter nomine praedicti castri oriebatur, ipse Episcopus faciebat

        determinare per iudicem suum” (Catalani – DE Eccl. etc. – App. n. 340).

        E  se sorgeva qualche questione tra gli uomini del detto castello, il Vescovo la faceva a

        dirimere dal suo giudice.

13   Di Leone IX e della guerra contro i Normanni parlano: Bruno di Segni, Anacleta Bollandiana t.      

       XXV; Chalanton – Histoire de la nomination normande en Italie (Parigi 1907).

14   Ildebrando, nato a Savona da umilissima famiglia, fu un monaco Benedettino, poi consigliere

        dei Papi per una ventina di anni. Piccolo di statura, di voce esile, dimostrò meravigliose qualità

        diplomatiche politiche che, insieme a una volontà ferrea, lo pongono tra i più grandi uomini  

        della storia.

15   CATALANI – De E. F. – app. n. XII

        Anche Leone IX, nel 1051, aveva scritto nello stesso modo al clero e al popolo Osimano.

16   Ex Reg. Episc. P. 116

17   “Excomunicati sunt in eadem Sinodo, sine spe recuperationis, Archiepiscopus Narbonensis,

        Tebaldus dictus Archiepiscopus Medionalensis, Sigifridus dictus Episcopus Boboniensis,

        Rolandus Trevisinus, item Episcopi Firmanus et Camerinensis; hique omnes cum seduacibus

        suis tam clericis, quam etiam laicis”.

18   CATALANI – Hist. Eccl. Firm. – Gulfarangus p. 124.

CAPITOLO III

FERMO E I COMUNI

I vescovi di Fermo preparano i Comuni

        L’organizzazione municipale romana, che era sopravvissuta nella “civitas”, era venuta meno nei villaggi e nelle città ridotte a misere borgate per le invasioni barbariche e divenuti, in qualche maniera, tributari dei feudatari, e condizionati dalla potenza dei signori terrieri.

     Alla fine del secolo XI e al principio del secolo XII, l’organizzazione municipale comincia a ricostituirsi nel Piceno, soprattutto per merito dei Vescovi di Fermo e degli Abati di Santa Vittoria.

     Abbiamo accennato ai patti sottoscritti dai signori Aldonesi, nel 1075 per incastellarsi a Civitanova, un Municipio risorto pochi anni prima con un certo autogoverno; difatti tra i firmatari c’è anche un “Massaro” = pubblico amministratore.

     L’attività politica dei vescovi fermani in questo periodo consisteva nel dare una organizzazione civica a questi villaggi, a queste libere plebi, mano mano, che l’ambiente ne presentava la possibilità .

     Così nel 1083, Ulcandinus = Ugo Candido diede organizzazione civica Ripatransone1; l’Abate Berardo III fortificò Offida “et civitatem fecit”, cioè diede organizzazione civica a Offida, nel 10992; nel 1108, il vescovo Attone dettò a diversi signori di campagna i patti per la formazione di un paese fortificato intorno alla pieve di San Marco che poi si chiamò Servigliano3: nello stesso anno, fece la medesima cosa con Macerata4. È chiaro che si tratta di iniziale organizzazione civica.

       Nella città di Fermo non possiamo fare lo stesso discorso che facciamo per gli altri Comuni del contado. Nella città l’organizzazione municipale, pur subendo mutamenti e deterioramenti, non era venuta meno con le invasioni barbariche. L’influente presenza del vescovo e il progressivo incivilimento degli invasori, particolarmente dei Longobardi, avevano mantenuto una organizzazione municipale sufficiente. Circa l’anno 600, in una lettera di Gregorio Magno al vescovo Passivo si parla di “Tributi Fiscali dovuti al Municipio”5. Certo non possiamo ancora parlare di libero Comune; la libertà arriverà dopo parecchi secoli.

     Per mancanza di documenti, non sappiamo i titoli dei reggitori della città di quei tempi. Sappiamo che fino a tutto il secolo XI Fermo fu governato da un Conte; ma questi sicuramente aveva avuto bisogno di collaboratori, per le molteplici e varie esigenze della vita cittadina. È ovvio quindi pensare a un gruppo di persone autorevoli, forse anche elette dal popolo, destinate alla guida civile del Municipio, sotto la vigilanza del Conte.

     Solo nel 1101, conosciamo il nome di un Console: il Console Reginaldo che accompagna in Terra Santa il Vescovo Attone6. Ma la piena autorità di questi Consoli e la relativa piena libertà del Comune di Fermo la troviamo solo nel 1189, quando la città si dà il primo Statuto e al posto del Conte, troviamo un Podestà eletto dal Comune: il Podestà Baldo di Nicola da Firenze.

     L’opera dei vescovi fu compresa e appoggiata pienamente dalla città di Fermo, perché capiva i vantaggi che le potevano derivare dall’organizzazione unitaria di un Feudo così vasto.

   Dopo avere sperimentato quasi inesistente la potenza militare del governo pontificio, in tempi che la forza valeva più del diritto; constatata vana la fiducia nella protezione dell’Imperatore; sofferta l’oppressione dei feroci Normanni, Fermo e il suo vescovo si persuasero che bisognava riorganizzarsi meglio, accrescere la solidarietà e la forza in questa zona, destinata a diventare il punto di scontro tra Tedeschi e Normanni.

     Ma per avere questa forza, questa solidarietà, non bastava il sistema feudale vigente.

     Questo è l’aspetto principale da tenere presente in questo argomento: il sistema feudale favoriva la divisione e l’urto tra i signori dei castelli feudali; e soprattutto favoriva l’indifferenza e il disinteresse della plebe inerme.

     Il Vescovo di Fermo capì che queste plebi che per lui erano state, in qualche modo, un peso, potevano diventare una potenza, qualora fossero costrette a governare se stesse.

     E i Vescovi (essi soli erano in grado di farlo) prepararono le popolazioni all’autogoverno e gradatamente le condussero al Governo Comunale.

     Questo genere di organizzazione però poteva generare un certo frazionamento, favorire un autonomismo esagerato e pericoloso; ed ecco la sapiente politica dei Vescovi: libertà nella solidarietà; Comuni liberi, ma solidali con la capitale Fermo.

     Questa solidarietà e sempre imposta nei contratti comunali: in principio solidarietà col vescovo; poi quando il Comune di Fermo aveva raggiunto una efficienza notevole, si imponeva solidarietà con quella città e speciali riguardi pei suoi cittadini7.

IL COMUNE

     L’istituzione del governo comunale non nasce da una decisione improvvisa e arbitraria di    una popolazione, ma è l’epilogo di una grande preparazione, di una lunga esperienza di autoamministrazione popolare.

     Questa autoamministrazione formatasi in ogni centro anche piccolo, per la necessità, che tutti gli uomini naturalmente sentono di un organismo che regoli le loro relazioni reciproche, diriga, in altre parole, la loro convivenza, fu esercitata da uomini scelti che si chiamarono “Boni Homines”.

     Essi avevano la poca autorità che  loro permetteva l’arbitrio del feudatario, o la prepotenza del signore terriero; autogoverno popolare quindi molto limitato e imperfetto.

     Con la istituzione del Comune questa autogoverno popolare si perfeziona sempre di più; e diventa completo, quando acquista anche il diritto di amministrare la giustizia.

     L’istituzione del Comune quindi non è l’inizio dell’autogoverno popolare, ma la perfezione di esso; e per conseguenza, è l’inizio della libertà responsabile di una popolazione.

     Poiché siamo abituati a dare alla parola “rivoluzione”un significato violento, faremmo meglio a chiamare la lotta per il governo comunale: “evoluzione”; una lenta, ma non violenta evoluzione di più secoli, che porta al libero Comune.

     Ciò non toglie che essa sia una rivoluzione nelle conseguenze, poiché conduce a una radicale trasformazione dell’assetto sociale.

     Le “plebes”, composti di gente libera ma povera; di artieri, di piccoli commercianti anche di professionisti riscoprono l’organizzazione romana dei “Collegia” = corporazione, e sperimenta la grande convenienza della solidarietà.

      Queste plebi crescono, si organizzano e reagiscono contro l’oppressione del nobile signore di campagna che, nel sistema feudale, controllava tutte le fonti della ricchezza, essendo la terra base principale dell’economia.

     Anche una maggiore comprensione popolare della giustizia e della libertà spinse le plebi verso il governo comunale, poiché fece loro sentire la necessità di rompere quella rete di diritti e di privilegi signorili che condizionavano lo sviluppo della stessa vita civile.

     Non era più sopportabile che i pedaggi, per esempio, pagati dai commercianti sulle strade e sui ponti, e la percentuale che la povera gente pagava per servirsi dei mulini e dei forni, tutti in proprietà del signore, andassero completamente a profitto di lui che non si curava affatto delle necessità della plebe, la quale abitava in raggruppamenti di tuguri, tra vie impraticabili per fango e immondizie.

     Questi capi eletti dal popolo difesero la libertà di ogni cittadino, abolendo la servitù della gleba e la prestazione gratuita di servizi obbligati; amministrarono la giustizia secondo le leggi comunali, uguali per tutti; provvidero al bene sociale, organizzarono la vita cittadina con maggiori comodità e più decoro.

     Non si deve però credere che con l’istituzione del Comune sparissero immediatamente gli inconvenienti del feudalesimo; anche il Comune è una istituzione umana e, se è umana, non sicuramente perfetta.

INDOLE DEL COMUNE FERMANO

     Nel fermano, i Comuni nascono con pacifici contratti tra il Vescovo e i rappresentanti delle popolazioni; nessuno colla lotta violenta. E questo perché il Comune era voluto dalla Chiesa, favorendo esso lo sviluppo sociale delle plebei le quali, divenute consapevoli della loro dignità e responsabili di se stesse, avrebbero costituito una forza capace di far fronte, sia allo strapotere dell’Imperatore tedesco, sia all’irrequietezza dei Normanni e di altri potenti signori.

     Nella istituzione dei Comuni la Marca Fermana non fu seconda a nessuno nel tempo. I Comuni Fermani ripeterono molti aspetti del Municipio romano, e molti ne suggerirono all’organizzazione del Municipio moderno.

     Per dimostrare le mie affermazioni, sottopongo all’esame del lettore il contratto che riguarda il Comune di Macerata, poiché gli altri che conosciamo sono redatti pressappoco nello stesso modo.

     Nel 1116, il vescovo Azzone concede il governo comunale a poggio San Giuliano, uno dei castelli che formò poi la città di Macerata, dando tutte le concessioni e i privilegi accordati a Civitanova dal Vescovo Olderico (1057-1074), una cinquantina d’anni prima. La motivazione è motivata:  “ut omnes nostare Ecclesiae minores sudditi juste sibi quaesita possideant” = affinché i nostri sudditi minori posseggano con sicurezza quanto giustamente reclamato”.

     E premette: “da oggi in poi, vi staremo vicini, vi difenderemo, lavoreremo con voi e ci interesseremo di tutti i bisogni del vostro castello.

     Mai valendoci del Codice Longobardo o di quello Romano, vi molesteremo per i mercati e negozi che si terranno nel vostro castello; per essi, non siete tenuti né a tasse, né a dazi.

     Non terremo tribunali per gli abitanti del vostro castello, se non per i quattro delitti che ci riserviamo: insurrezione, omicidio, furto e adulterio incestuoso; e se questi diritti avverranno entro le vostre mura, chiederemo il consenso dei vostri Consoli.

     Non esigeremo il vettovagliamento (forum), se non in caso di visita dell’Imperatore.

     Poiché anche voi avete promesso di stare con noi, di agire d’accordo con noi e di opporvi contro tutti, in fedeltà verso la Chiesa Fermana.

      E se il castello verrà distrutto, lo ricostruirete con noi fino a tre volte.

      Inoltre difendete le cose della nostra Chiesa entro i confini del vostro territorio.

      Potete vendere, con votare, donare le cose vostre, purché non ci inviate le terre situate entro i vostri confini a Conti, a Capitani, o ad altra chiesa (diocesi)8.

      Da questo documento appare chiaramente che gli abitanti di San Giuliano chiesero l’autogoverno comunale; il Vescovo concesse la libertà più ampia; concesse anche l’amministrazione autonoma della giustizia; imponendo però al nuovo Comune la solidarietà con la Chiesa Fermana e la proibizione di vendere terre a estranei.

     Mi pare di poter affermare che il Vescovo Attone, nel suo lungo Pontificato, abbia mirato principalmente a dare una organizzazione unitaria al suo immenso feudo, con lo scopo non confessato di costituire un potente principato fermano, capace di far valere il suo peso nelle interminabili lotte tra il Papato e le potenze avversarie.

     La sua politica fu seguita dai suoi successori Grimaldo, Alessandro II e ancor più da Liberto (1128-1145) che appena eletto costituì il Comune di Monte Santo (Potenza P.); da Presbitero (1184-1202) che il lavoro per consolidare i comuni; fino ad Adenulfo (1205-1213) il primo Vescovo-Conte di Fermo, investito della Contea “per vexillum”, da Papa Innocenzo III.

DIFFICOLTA’ PER FERMO NEL SEC. XII

     Allo stato delle cose, religiosamente positivo, politicamente efficiente nel Fermano, non faceva riscontro una condizione altrettanto positiva per la Chiesa Romana.

     Mentre il vescovo Liberto (1128-1145) aveva bisogno di pace, per organizzare i Comuni Fermani, a Papa Innocenzo II (1130-1143) fu contrapposto l’antipapa Anacleto, sostenuto principalmente da Ruggeri di Sicilia.

     Per difendere l’antipapa, i Normanni occuparono Roma e la Marca Fermana.

     Non sappiamo quale resistenza poteva opporre il Vescovo Liberto coi suoi Comuni, ma la disparità di forze a suo scapito era enorme; e solo con l’intervento dell’Imperatore Lotario II di Sassonia i Normanni furono ricacciati nei loro confini, nel 1137.

     Nella Pasqua di quell’anno, Lotario II passò le feste a Fermo e ricevette la Comunione dalle mani del Vescovo.

     L’ultimo atto del Vescovo Liberto fu l’incastellamento dei signori Gualtieri a San Benedetto in Albula, nel 1145.

     Gli succedette immediatamente, nello stesso anno, il vescovo Balignano (1145-1167, Arcidiacono della Chiesa Fermana.

     Veniva da una nobilissima famiglia comitale, poiché  figlio del conte Giberto.

     Per la sua elezione, i suoi fratelli degli donarono il castello di Francavilla, con tutti i suoi abitanti e le sue pertinenze9.

     Seguito la politica dei suoi predecessori, organizzando sempre meglio e accrescendo il numero dei Comuni Fermani.

     Ricostituire fortificò il castello di Morrovalle, la qual cosa lo portò alla guerra col Marchese di Ancona, un personaggio nuovo nella nostra storia.

     Era successo che, nel 1112, contro l’aperta opposizione del Papa Pasquale II, Enrico V aveva affidato la Marca al Marchese Guarniero, allo scopo di farne una provincia dell’Impero, mentre essa era di diritto pontificio.

     Questo marchese non sembra un arrabbiato antipapalino, perché con una scrittura dello stesso 1112, il vescovo Attone gli diede in enfiteusi per tre generazioni il castello di Agello (Ripatransone); in quel documento il Vescovo loda la bontà di lui e si dice grato di tanti benefici del Marchese verso la Chiesa Fermana10.

     Il Marchese ebbe discordie con il Vescovo Balignano fu il figlio, che si chiamava Guarniero come il Padre. Il fatto è questo.

     Balignano, ricco e potente come vescovo, appoggiato dai suoi vecchi fratelli, vuole fare del villaggio di Morrovalle un grosso castello fortificato, che diede in feudo ad Alberto di Montecosaro, che nominò suo Visconte

     Il Marchese di Ancona Guarnerio non vedeva certo di buon occhio la potenza del vescovo fermano, e tantomeno che si fortificasse verso i suoi confini e, circa il 1153, assalì il territorio fermano.

     L’esercito di Balignano respinge sul principio le forze del Marchese; avanzò anche sul territorio di lui distruggendo il castello di Casio, ma poi dovette ritirarsi e cedette Morrovalle.

     Il tempo era a sfavore del vescovo, poiché Federico Barbarossa era in aspettativa della corona imperiale, che ottenne nel 1155; e Balignano ottenne giustizia solo dopo undici anni. Nel 1164, nel tribunale costituito a Fano presso la chiesa di San Paterniano, presieduto dal vescovo di Trento, Vicario dell’Imperatore, si stabilì che Morrovalle doveva essere restituita al vescovo di Fermo11.

     Forse questa rivincita costò molto cara moralmente al Vescovo Balignano; poiché, esaminando la successione cronologica dei fatti, mi son convinto che fu per ottenerla, che nel conciliabolo di Pavia del 1160, insieme ad altri, anche Balignano firmò a favore dell’antipapa Vittore IV, ivi proclamato.

DISTRUZIONE DI FERMO

     Forse nessun Imperatore si accanì tanto contro gli Italiani e contro il Papa, e forse nessuno raccolse in Italia tante umiliazioni, quante Federico Barbarossa.

     Ogni volta che scendeva nella Penisola, portava il terrore; ma sempre doveva affrettarsi a ripartire a causa di pestilenze, regolarmente inseguito da ribelli italiani che decimavano quella parte del suo esercito risparmiata dalla peste.

     Eppure i Comuni italiani non erano contro l’Imperatore.

     Essi riconoscevano la sua autorità, ma non sopportavano l’oppressione e lo sfruttamento del feudatari che egli difendeva: volevano la libertà.

     E siccome avevano trovato un grande Papa. Alessandro III (1150-1181) che favoriva i loro ideali, non sopportavano che l’imperatore volesse imporre i suoi antipapi, fecero di Alessandro III la loro bandiera; in suo onore fondarono una città, Alessandria; e da quella città iniziò il declino di Barbarossa.

     Tutte le crudeltà dell’Imperatore non valsero a fiaccare i Comuni italiani: nel 1162, distrusse Milano, ma dopo cinque anni i Comuni longobardi concordi l’avevano ricostruita più forte e giurarono a Pontida di difendere la loro libertà, uniti nel nome di Alessandro III.

     Il Barbarossa ridiscese in Italia dopo poco tempo, ma a Legnano, il 29 Maggio 1176, subì una sconfitta che fiaccò per sempre la sua prepotenza.

     Chiese la pace del Papa, con l’intento di separarlo dai Comuni lombardi, ma Alessandro rispose: “Che preferiva essere segato in due dai nemici, piuttosto che fare la pace senza i Comuni”; e questi dall’altra parte: “preferiamo la guerra nell’unità della Chiesa, piuttosto che la pace con la divisione da essa”. Fu durante questi tentativi allo scopo di fiaccare la resistenza del Papa che il cancelliere dei Federico, Cristiano Won Buk, detto “il Cancelliere Cristiano”, rivolse le sue forze contro la Marca Fermana, il territorio della Chiesa più ricco più organizzato.

     Non sappiamo dei danni subiti dai vari Comuni Fermani, perché mancano documenti, ma certo il Cancelliere non ebbe nella Marca la mano tanto leggera, poiché era recente lo smacco subito in Ancona, che non era riuscito a sottomettere; e ricordava sicuramente che i Comuni Fermani, pochi anni prima, concordi col loro Vescovo avevano rintuzzato tanto bene le la prepotenza del Marchese di Ancona Guerniero.

     A Fermo poi, loro capitale, era riservata la sorte di Milano, di Crema e di Spoleto.

     Occupata dalle truppe del Cancelliere, il 21 settembre 1176, saccheggiata e data alle fiamme.

      Nell’incendio perirono, insieme a tanti cittadini, i migliori edifici, compresi la Cattedrale coi suoi tesori e l’archivio; l’episcopio attiguo alla Cattedrale; il vicino palazzo dei Priori12.

      Era vescovo di Fermo Alberico, del quale non conosciamo la fine che deve cadere in quello stesso anno, poiché al convegno di Venezia del 1177, nel quale si firmò la pace tra il Papa, i Comuni e l’Imperatore, insieme ad altri vescovi del Piceno, non figura Alberico.

     Mentre ci sono documenti sulla distruzione di Fermo, nessuno ci parla della sua ricostruzione che sicuramente cominciò subito, dietro la guida dei suoi Consoli.

     Nell’agosto del 1177, da Venezia, Alessandro III scrisse ai vescovi della Marca, e al Comune di Fermo che si interessassero delle chiese della città, imponendo a chi ne fosse detentore la restituzione dei libri e delle suppellettili da esse asportati.

      Esorta i chierici e fedeli ad essere generosi nell’aiutare i canonici nella ricostruzione della cattedrale, al fine di scontare i loro peccati13.

     Nella cattedrale di risorse, ma fu completata solo nel 1227, dell’architetto Giorgio da Como14.

NOTE

1   CATALANI – De Eccl. Firm. – App. n. XV p. 128 “…. in ipso monte qui vocatur Agello qui edificata

      est ipsa civitate quan fecit Ulcandinus….”

2   GIORGI E BALZANI – Reg. Farf. Vol. V – p. 389

3   CATALANI – app. n. XX

4   CATALANI – app. n.XIX

5   CATALANI – De Eccl. Firm. Etc. – Passivus p. 100

6   CATALANI  – Ivi – Actius p. 130

7   Tipico in questo senso è l’accordo del Vescovo Presbitero con la comunità di Monte Santo(leggi

      Potenza Picena). (Catalani – app. n. XXXVIII).

      “Item nostrae civitati Firmanae promisistis hostem seu exercitum et parlamentum cum requisiti

      fueritis a consulibus rectoribus et potestate ….. Item nostrae civitati  promisisyis suis inimicis

      vivam guerram facere et amicis suis vivam pacem tenere …. Item promisistis quod quicunque

       civium Firmanae civitatis intra Monte Santo causas abuerit sicut personas vestras eum tractare

       debetis, et personas et res civium in tota fortia vestra salvare et defendere promisistis”.

       Avete promesso alla nostra città di Fermo accordo e aiuto militare quando ne sarete richiesti dai

      Rettori e dal Podestà …. Che qualunque cittadino fermano avesse interessi a Monte Santo sarà da

      voi trattato come vostro cittadino ecc. …..

8   CATALANI – Ivi app. XXII

9   CATALANI – De Eccl. Firm. – Balignano p. 189

      Forse i fratelli diedero al vescovo Balignano il castello di Francavilla come sua parte di eredità;

      perché, diventato Vescovo, non faceva più parte della famiglia.

10 CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XXII

11 CATALANI – ivi – app. n. XXVIII e XXIX

12 ANTON DE NICOLO’ – Cronache Fer, – “In festo Beati Mathei mense Septembri, civitas Fermana

      fuit invasa, occupata et destructa ab archiepiscopo Maguntiae, dicto alias Cancellario Cristiano”

13 CATALANI – app. n. XXXII

14 CATALANI – De Eccl, etc. – Diatribe p. 37.

CAPITOLO IV


FERMO ALLA FINE DEl SEC. XII

     Costretto dalla pace di Venezia, Federico Barbarossa più comprensivo verso i comuni italiani. Un “Privilegio” del Cancelliere Cristiano di Magonza, nel 1177, l’anno successivo alla distruzione, ridà a Fermo i beni la libertà che godeva prima della eversione1.

     Fermo seppe approfittarne, e riacquistato un po’ la calma, nel 1189 promulgò il suo primo “Statuto” ed elesse il suo primo “Podestà” nella persona di Baldo di Nicola, da Firenze.

     Nel 1190, muri Federico e l’anno appresso fu consacrato imperatore da Celestino III il figlio Errico VI, al quale non andava troppo a genio la floridezza dei comuni marchigiani; ed anche Fermo ricadde sotto il controllo dei funzionari imperiali.

   Enrico VI, impegnato nella conquista della Sicilia tenuta da Tancredi, ritenne che il marchese d’Ancona fosse troppo arrendevole verso la Chiesa e non desse sufficienti garanzie per il sicuro possesso della Marca, e lo sostituì con Marcoaldo di Anweller, che poi i Fermani per disprezzo chiamarono “Marcoaldo di Anninuccia”2.

     Fu un Marchese feroce contro i Comuni, contro i Vescovi, contro i monasteri e le chiese, tanto da acquistarsi una buona collezione di scomuniche da parte del Papa.

     Particolare impegno unisce nel perseguitare il Vescovo di Fermo, vedendo in lui il principale ostacolo; tanto che il Vescovo Presbitero, non potendone più e non trovando nessun luogo della Marca sicuro per lui chiese al Papa di trasferirsi in Dalmazia. Ma Celestino III gli raccomanda di essere forte e di restare al suo posto, perché attendeva il prossimo arrivo dei rappresentanti dell’Imperatore per trattare certi accordi, avrebbe trattato anche il suo caso3. Se accordi con l’Imperatore ci furono, non lo so; però l’anno appresso il 28 settembre 1197, Enrico VI morì ancora giovanissimo, e nel Dicembre dello stesso anno, Celestino III ordinò al vescovo di Fermo e all’Abate Farfense che raccogliessero dalla città e dai castelli della Marca fino a Rimini, il giuramento “che non obbediranno ai tedeschi (Teutonicis), ma resteranno fedeli alla Santa Sede4”.

     La morte inaspettata dell’Imperatore aveva prodotto un po’ di incertezza tra i Ghibellini della Marca e Celestino III ne approfittò per preparare la riscossa contro Marcoaldo.

     Il Marchese era ancora forte, ma la sua posizione non si presentava più sicura come prima, di fronte a un futuro politico incerto, in una regione che lo odiava e senza l’appoggio del suo imperiale protettore.

     Inoltre, pochi mesi dopo, anche l’imperatrice Costanza morì, lasciando un figlio di tre anni, Federico II.

     Per la morte di Costanza, Marcoaldo dovette recarsi in Sicilia, della quale circostanza approfittarono i Comuni Marchigiani, per prepararsi contro di lui.

      L’urto più feroce dei ghibellini lo sostenne Ripatransone.

      In assenza del Marchese la città si era fortificata di mura, senza il permesso di lui che, tornato dalla Sicilia, volle punirla.

     Assalita da un forte esercito di ghibellini guidati dal marchese, dopo un lungo assedio sostenuto era ovviamente, Ripatransone fu presa e incendiata, nell’Agosto 1198, ma da quella città cominciò la fine di Marcoaldo.

     L’esempio di Ripatransone fu seguito dalle altre città marchigiane, e Marcoaldo dovette fuggire in Sicilia, dove morì poco dopo5.

     Nel 1198, con la fine di Marcoaldo, incomincia per Fermo una nuova epoca di sviluppo, di crescente potenza, e anche di dure lotte.

ORGANIZZAZION POLITICA DEL FERMANO NEL SEC XIII

     Non è una cosa troppo semplice capire la complicata organizzazione politica del Fermano, nel secolo XIII.

     Fermo era un libero Comune, organizzato ben governato dai suoi Priori, dal suo Podestà in una regione spettante di diritto la S. Sede, ma di fatto contesa aspramente tra il Papa e l’Imperatore.

     Nel periodo di prevalenza imperiale, i Priori erano controllati e il Podestà imposto dai messi imperiali; in periodi di prevalenza papale, le autorità erano elettive e godevano di una maggiore libertà d’azione, senza timore di interventi armati, che non erano nello stile e nelle possibilità del governo pontificio.

     Ciò non toglie che l’autorità pontificia fosse molto sentita, poiché, come appare da tanti documenti, il Papa si limitava ad esortare, a raccomandare, ma tutti sapevano che, pur non avendo un forte esercito, aveva un’arma morale capace alla occorrenza di annientare perfino la potenza imperiale.

     Benché i feudatari, i grossi terrieri, cercassero ancora di resistere al Comune, pure cominciavano a piegarsi, costretti dal timore dell’isolamento materiale e morale che li minacciava.

     Il più grande feudatario del fermano era il Vescovo; ma il Comune di Fermo non faceva parte del suo feudo e non c’era nessuna interdipendenza politica tra le due autorità.

     Il vescovo non interferiva nel governo comunale, benché la sua autorità pesasse molto, sia perché Vescovo, sia perché potente signore.

     Tra il Vescovo e il Comune c’era stata sempre intesa e collaborazione, poiché l’uno e l’altro capivano che in questo poggiava la loro sicurezza.

     La collaborazione positiva col Comune di Fermo incoraggiava il Vescovo a estendere accordi similari con altre popolazioni del suo feudo, e così erano sorti Comune di Civitanova, di Macerata, di Potenza Picena, e altri erano in preparazione.

     Non si deve quindi confondere il Comune di Fermo, col feudo del Vescovo di Fermo; erano due cose ben distinte.

     Il Comune governava la popolazione nell’ambito del suo territorio; il Vescovo governava il suo feudo che comprendeva un territorio molto più vasto; con città e villaggi che, anche diventati liberi Comuni, restavano legati a lui e gli giuravano fedeltà come a Caposignore.

     Possiamo quindi comprendere come la potenza del Vescovo fosse maggiore di quella del Comune, il quale però, lo ripetiamo, non dipendeva politicamente da lui.

     Questa libera ma insostituibile alleanza tra il Comune di Fermo il suo Vescovo, nel 1199, alla fine del governo di Marcoaldo, quando i Comuni del Fermano riacquistarono la piena libertà, prese un nuovo indirizzo: i vescovi tentarono una maggiore unità tra i Comuni della loro Diocesi.

      Il loro ideale sarebbe stato trasformare l’immenso feudo in un  principato ecclesiastico con capitale Fermo, ma nel secolo XII non era stato possibile, perché i vari Comuni erano troppo gelosi della loro recente autonomia: Fermo non si sarebbe rassegnata a difendere politicamente dal suo Vescovo; e i Comuni della Diocesi non avrebbero sopportato il predominio di Fermo: i tempi non erano ancora maturi, ma si era su questa via.

     E abbiamo visto come il Vescovo Presbitero, nel 1199, impose al Comune di Potenza, in cambio di tanti privilegi, l’alleanza con la città di Fermo e riguardi particolari per i suoi cittadini6.

LA CONTEA DEL VESCOVO DI FERMO

     Innocenzo III (1198-1216), uno dei più grandi papi della storia, fu anche uno di quelli che più si occuparono delle Marche.

      Nel programma di riordino dello Stato della Chiesa, questa regione richiedeva una particolare attenzione, perché da essa, a lungo dominata dai tedeschi, erano venute tante preoccupazioni alla S. Sede.

       Innocenzo III, come si impegnò a sfrattare dalla Sicilia i feudatari tedeschi, per conservare intatto il regno al suo pupillo Federico II, affidatogli dall’imperatrice Costanza, così si preoccupò di richiamare i Comuni Piceni alla concordia e alla collaborazione, sotto l’autorità della S. Sede, per assicurare la loro futura libertà.

     Niente scissioni, ma concordia e collaborazione, per il bene di tutti.

     Appena eletto Papa, revocò la bolla di Celestino III che istituiva, nel 1192, una quasi Diocesi in Offida e sottraeva quella città al controllo dell’Abate Farfense7; e nel 1203, i Comuni Piceni furono convocati a Polverigi; per giurare perpetua concordia reciproca.

     A parte il feudo Farfense che aveva dimostrato fedeltà alla S. Sede, come a suo tempo l’aveva professata verso l’Imperatore, la zona che nella Marca presentava maggiore affidamento per il futuro era il feudo del Vescovo di Fermo, con i suoi Comuni ben organizzati e vitali.

      Bisognava incrementare l’efficienza di questo immenso territorio che si estendeva dal Potenza al Tronto.

     Nel 1205, fu eletto vescovo di Fermo l’energico Adenulfo, e Innocenzo III lo nominò conte del suo feudo, investendolo  “per vexillum”, come si diceva allora: il primo  Vescovo-Conte di Fermo, con tanto di insegne comitali.

     Col feudo Farfense e colla Contea del Vescovo, la Marca Fermana si poteva considerare abbastanza al sicuro dal Potenza al Tronto.

     Per dare sicurezza alla rimanente regione più a nord, che veniva comunemente chiamata Marca Anconetana, Innocenzo III credette utile affidarla in feudo, nel 1208 al Marchese di Este Azzone VI, nominandolo Marchese di Ancona, con l’incarico di conservarla alla chiesa, difendendola da ogni pericolo di invasione8.

     Intento di Innocenzo, ribadito dai suoi successori, era che la concorde collaborazione tra il Vescovo Conte di Fermo e il Marchese di Ancona desse pace e sicurezza alla regione che era stata sempre al centro di tutte le discordie, sia per la sua ricchezza, sia soprattutto per la sua posizione strategica, costituendo la via naturale tra il Nord e il Regno di Sicilia.

     Ma la concordia in quei tempi era difficilissima.

     Ottone IV di Brunswik, scelto e incoronato  Imperatore, nel 1209, da Innocenzo III, perché è di antica famiglia guelfa, l’anno seguente si mise contro il Papa e progettò l’occupazione del Regno di Sicilia, guadagnandosi la scomunica.

     Anche il Marchese Azzone VI passò all’imperatore, dal quale accettò l’investitura di tutta la Marca di Ancona, intendendosi per la prima volta con questa espressione tutta la Marca, fino all’Ascoli.

     Incominciò allora l’ostilità tra il marchese di Ancona e i vescovi di Fermo che durò una quindicina di anni, degradando qualche volta in scontri armati.

UGO II E PIETRO IV

     Nel gennaio del 1214, morto Adenulfo,  fu eletto vescovo di Fermo Ugo II, al quale Innocenzo III rinnovò l’investitura comitale e i privilegi del suo predecessore9.

      Nell’Agosto di quell’anno, si formò intorno al vescovo una lega di grossi Comuni Fermani, decisi a difendere la loro indipendenza dal Marchese di Ancona.

     Giurarono alleanza fra loro e fedeltà al Vescovo il Comune di Macerata, di Morrovalle, di Civitanova, di S. Elpidio e altri Comuni e signori della Contea.

    Per il momento le pretese del marchese furono arginate, sia per la vivace resistenza dei Comuni, sia perché, nel 1215, le cose cambiarono.

     Innocenzo III fece accompagnare in Germania il giovane Re di Sicilia dal Marchese di Este, e ad Aquisgrana Federico II fu proclamato re di quella nazione.

     Per una decina di anni, Federico II dimostrò ossequio alla gratitudine al suo Papa, e poi al suo maestro Onorio III, eletto nel 1216.

     Morto Ugo II, venne eletto Vescovo di Fermo Pietro IV (1216-1223).

     Il nuovo Papa di rinnovò l’investitura di Conte di Fermo, con tutti i privilegi concessi ai suoi predecessori; ma le difficoltà col Marchese di Ancona, Azzone VII (Azzolino) d’Este, si aggravarono.

     In un diploma del 1219, Onorio III, riconfermò al Vescovo Conte il possesso dei comuni di S. Elpidio, di Civitanova, Montecosaro, Morrovalle, Macerata, Montolmo, S. Giusto, Cerqueto, Montegranaro, Montottone, Ripatransone, Marano e Forcella, e scrisse ai Comuni, ai Conti e baroni della Contea che facessero il loro dovere verso il Vescovo Conte, perché il Papa non era disposto a sopportare la loro avversione e il loro disfattismo né riguardi del Vescovo10.

     Difatti questi signori cercavano di creare difficoltà al Vescovo Conte, incitati sia dal Marchese di Ancona, sia da Consolino coppiere dell’Imperatore e da Bertoldo, figlio del Duca di Spoleto, ai quali si aggiungeva Guglielmo da Massa e altri signori della Marca.

     Dietro le lamentele dei Vescovi, nel 1223, Federico II scrisse loro e a tutti gli abitanti nel Ducato Spoletino e della Marca d’Ancona che egli Imperatore (era stato coronato nel 1220) sconfessava l’operato dei sudditi Consolino e Bertoldo e dichiarava decaduti  tutti gli incarichi conferiti da loro in suo nome.

     Tutti invece debbono riconoscersi vassalli del Romano Pontefice e ubbidire a lui solo11.

     Ma la lettera dell’Imperatore non poteva reintegrare la Contea del Vescovo che aveva subito danni e perdite irreparabili, anche perché contro di essa stava il Legato Pontificio di Ancona.

     Nel 1221 Gisone, tutore procuratore del giovane Marchese di Ancona, Azzone VII  d’Este, per dare un aspetto giuridico alle usurpazioni operate nella Contea, fece nominare arbitri della questione col Vescovo, il Patriarca di Aquileia e Pandolfo, Legato Pontificio.

      I due illustri personaggi sentenziarono che le cose restassero come stavano, per tre anni, passati i quali, il Vescovo avrebbe potuto far valere in giudizio le sue ragioni.

     Noi diremmo: per ora quel che è stato, è stato; appresso si vedrà.

     Ma quel che era stato era tutto a danno del Vescovo, che perdeva, con Montolmo e Macerata, tutta la parte della Contea sopra il Chienti, eccettuata Potenza Picena12.

RAINALDO (1223-1227)

     Nel 1223 morì  Pietro IV, e Onorio III nominò vescovo di Fermoil “nobilem et provi dum et honestum” Rainaldo di Monaldo, e scrisse al clero ed al popolo della città e della Diocesi, ordinando che il Vescovo fosse accolto festosamente (ilariter) e gli fossero riconosciuti tutti i diritti accordati dai Romani Pontefici.

     Il Papa approva fin da ora tutti i provvedimenti che il Vescovo prenderà contro i ribelli13.

     Rainaldo, sostenuto dal Papa, incominciò subito a lottare per la reintegrazione il riordino della contea; ed essendo il principale avversario di essa il Legato Pontificio Pandolfo, Onorio III gli scrive il 24 Marzo 1224, ordinandogli che sia restituita al Vescovo tutta la Contea e tutti gli antichi diritti14.

     Il 20 agosto 1224, il Comune di Fermo, S. Elpidio, Civitanova, Monte Santo, Morrovalle, Montelupone, Macerata, Montolmo, Monte Giorgio, Monterubbiano, nella Cattedrale di Fermo, giurarono fedeltà al Vescovo e collaborazione reciproca, per difendere la loro libertà e i diritti della Chiesa Fermana15.

       Ma il Marchese Azzolino non si rassegnava a sopportare il Vescovo Conte e ordinò spedizioni punitive a Montelupone, a Macerata, a Montolmo e occupò Montegiorgio, recando gravi danni alla Contea.

       Il Vescovo Rainaldo ricorsi al Papa (1225), fornendogli anche la documentazione sulla legittimità del possesso del Vescovo su quei Comuni16.

       Il 3 Novembre 1226, Onorio III , comanda al Marchese di riparare i danni recati alla Contea del Vescovo, rimproverandolo per la sua ribellione agli ordini del Romano Pontefice, e lo minaccia: “Non devi credere che siamo disposti a sopportare le tue prepotenze verso le chiese, perché essi toccano da vicino la nostra persona”17.

     Ma l’anno seguente, con la morte di Onorio III, le cose cambiarono.

     Il successore Gregorio IX, o perché vedeva impossibile un accordo tra Azzolino d’Este e il Vescovo, o perché la potenza del Vescovo Conte faceva ombra alla Curia Romana, chiamò alla sua presenza il Vescovo e il Marchese e stabilì: Monterubbiano, S. Elpidio, Civitanova, Montelupone, Morrovalle, Macerata, Montolmo e Montegiorgio, pur restando proprietà della chiesa di Fermo, passassero sotto l’amministrazione del Legato Pontificio Rolando.

     Il Vescovo si sottomise al volere del Papa, a condizione che questa decisione fosse provvisoria e non recasse pregiudizio, né al diritto di proprietà, né all’attuale economia della sua Chiesa18.

     Spezzata così la Contea, i Vescovi di Fermo dovettero subire il prepotere dei Legati e dei Rettori Pontifici.

      Morto Rainaldo, nel 1227, dopo quasi due anni di amministrazione del Legato Pontificio Alatrino, nel 1229, Gregorio IX trasferì il vescovo Filippo II dalla Sede di Jesi a quella di Fermo, nominandolo Conte con tutti i diritti 19.

“In Dei nomine Amen. Ad honorem et bonum statum Sanctae Firmanae Ecclesiae et librtatis firmanae et Comitatus defendensun, nos Firmani cives et nomine Comitatus, scilicet S. Elpidi, Civitatis Novae, Montis Sancti, Murri, Montis Luponis, Maceratae, Montis Ulmi, Montis S. Mariae, Montis Rubiani simul promittimus jurisdictionem Ecclesiae Firmanae …… defendere et mantenere in suo bono statu pro posse etc. (ex Reg. Episc. P. 123 – Catalani app. n. LI).

“Affine di conservare l’onore e la proprietà della Santa Chiesa Fermana, e la libertà di Fermo e della contea, noi cittadini per mani e gli uomini della contea cioè: di S. Elpidio, Civitanova, Montesanto (Potenza Picena), Morrovalle, Monte Lupone, Macerata, Montolmo (Corridonia), Monte S. Maria (Montegiorgio), Monte Rubbiano, promettiamo di difendere unite, mantenere nell’attuale buona condizione la sovranità della Chiesa Fermana, ecc.”

     ma nel 1231, il escovo dovette vendere (è l’espressione del documento, che però doveva significare qualcosa di più) al Rettore dei beni ecclesiastici del Ducato di Spoleto e della Marca Anconetana i frutti della Contea di due anni, per duemila lire; il documento dice: “per pagare i debiti della Chiesa Fermana20”; e nel 1233, dovette vendere al Rettore della Marca di Ancona, card. Giovanni Colonna le rendite della Contea di tre anni, per quattromila lire21; e con lui svanì la Contea dei Vescovi di Fermo.

     Il Vescovo Conte Filippo II, nell’occupazione di Fermo da parte dell’esercito imperiale, nel 1242, dovette fuggire a Venezia, dove per qualche anno visse di elemosina22.

     D’altra parte la Contea di Fermo aveva terminato la sua missione: aveva consolidato i Comuni Piceni e aveva insegnato loro a difendere la propria libertà, in collaborazione tra di essi e con la Chiesa.

     Il suo compito era finito, ora che il Legato Pontificio della Marca era in grado di imporre l’autorità della S. Sede nella Regione; e si stava profilando uno Stato Pontificio più forte e unitario.

NOTE

1    M. DE MINICIS – Annotazioni alle Cronache Fermane.

       “Copia privilegi Christiani Arch. Magun, confirmantis omnia civitatis Firmanae bona, jura,

       rationes, justitias, terras agros,  vineas ac remittentis eandem civitatem et nomine in eadem

       libertatem, quam ante civitatis destructionem habuerunt, et relevantis eos seu ean intra

      proximos quinque annosa b omni exactione vel dativa quovis modo a quoquam hominum

      exacta”. Dat a. D. 1177, apud Assisium etc. (Ripreso dal belga Michele Hubart).

2    CATALANI – De Eccl. etc. – app. XXXV – Il documento riporta certi accordi tra Guttebaldo e il

       Vescovo Presbitero.

3    CATALANI – Ivi – app. n. XXXVI

4     CATALANI – Ivi – app. n. XXXVII

5     TANURSI – Memorie storiche di Ripatransone – in Colucci – A. P. t XVII

6     CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XXXVIII

7     La bolla di Celestino III si conserva nell’archivio della collegiata di Offida. Appena eletto, nel

        1198, Innocenzo III conferma all’Abate di Farfa: “Item Monasterium  S.tae Mariae in Offida cum

        eodem castro, cellis et aliis pertinentiis sui set cum ecclesiis”. (Ex arch. Rot. Archininnas Rom.).

8     CATALANI – Ivi – Petrus IV – p. 167

9     CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XLIV

10   CATALANI – Ivi – Petrus p. 162

11   CATALANI- Ivi – app. n. XLVIII

12   CATALANI – Ivi  app. n. XLVII

13   CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XLIX

14  CATALANI –  Ivi  app. n- L

15   CATALANI – – app. n. LI – il Comune di Ripatransone si rifiutò di pagare i tributi al vescovo. Nel

        1225, Rainaldo spedì 1 gruppo di armati contro quel Comune, che allora era in guerra con

        Offida.

16    CATALANI – Ivi app. n. XXIII

17    CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. LV

18   CATALANI – Ivi app. n. LVIII

19   CATALANI – Ivi app. n. LIX

20   CATALANI – Ivi app.  n. LIX

21   CATALANI – Ivi app. n. LX

22   CATALANI – Ivi app. n. LXIV

CAPITOLO V

FERMO E FEDERICO II

Fermo capitale della Contea

     Nel 1212, Azzone  VI d’Este. Marchese di Ancona, investito da Ottone IV di tutta la Marca, trovò un ostacolo insormontabile nella Contea di Fermo.

     Si tentò allora di dividere Fermo dal suo Vescovo e, a questo scopo l’Imperatore largheggiò di privilegi verso la città: concesse il mero e misto impero; la zecca e il possesso esclusivo del litorale, da Potenza al Tronto.

     Non so come il Comune di Fermo accolse i privilegi e se essi conseguirono l’effetto sperato; intanto essi c’erano, anche se probabilmente il possesso del litorale restò sulla carta per una ventina di anni, perché avrebbe messo il Comune contro il Vescovo Conte, tanto più che, nel 1214, il Marchese Aldobrandino nominò signore di Fermo Guglielmo Rangone di Modena; questo provvedimento sicuramente raffreddò il Comune che non tollerava signori e riaccese lo spirito di libertà nei Comuni della Contea che si strinsero, nell’Agosto di quello anno, intorno al Vescovo Ugo II, giurando di difendere uniti la loro libertà1.

     Se nel 1221, quando l’invadenza del marchese Azzolino d’Este fu favorita dal Legato Pontificio Pandolfo, Fermo fu dominata per breve tempo dal Marchese.

     Ma nel 1224, il Vescovo Rainaldo incominciò a battersi per la reintegrazione della Contea, e Fermo aderì al suo Vescovo Conte e gli prestò, per una decina di anni, la più fedele collaborazione2.

     Nel 1229 per la prima volta, il Comune di Fermo intraprese un’azione politica e diplomatica su vasta scala, e in nome proprio.

       La prepotenza di Azzolino favorita dal legato pontificio e la rettoria della Diocesi Fermana affidata al Card. Alatrino per due anni (1227-1228) avevano indebolito il potere politico del Vescovo Conte, ma avevano accresciuto l’intraprendenza del Comune di Fermo e la sua intenzione di raccogliere l’eredità politica.

     Fermo aveva lavorato e combattuto in collaborazione e sotto la guida del suo Vescovo, ora che questa guida minacciava di venir meno, il Comune si sentiva la forza di seguitare in proprio la politica del Vescovo Conte.

RESISTENZA A RINALDO DI URSLINGEN

              DUCA DI SPOLETO

     nel 1228, Federico Secondo, partendo per l’oriente, aveva lasciato suo luogotenente Rinaldo, duca di Spoleto, il quale si insediò in Ancona E incominciò l’invasione della marca, contro le proteste di Gregorio IX.

     L’ostacolo principale per Rinaldo era costituito da Fermo e dai Comuni della sua Contea.

     Il duca cercò di isolare Fermo, concedendo privilegi a vari comuni e conseguì qualche risultato con S. Ginesio, cui concesse il castello di Pieca; con Ripatransone, alla quale offrì  il permesso di demolire e incastellare Massignano e Cossignano3; e tentò anche l’occupazione di Montegiorgio.

     Il Comune di Fermo pensò di accrescere la resistenza, invitando all’alleanza i signori che ancora dominavano nell’Alto Fermano.

     Questa zona che va dalla linea Monteverde-Mogliano-Petriolo fino ai monti, era posseduta da numerosi signori, quasi tutti parenti tra di loro, che i più tra gli storici dicono discendenti dai Mainardi o dagli Offoni e di provenienza Franchi4.

     Per essi in questa zona tardarono molto le autonomie comunali, se si fa eccezione per Sarnano, S. Ginesio e parzialmente Urbisaglia, che dovettero combattere duramente.

     Essi erano: Fildesmido da Mogliano, Guglielmo e Federico da Massa, Rinaldo da Petriolo, Giovanni e Monaldo di Penna San Giovanni, Rinaldo di Loro, Balignano di Falerone, Rinaldo da Monteverde, Ugo da Monte Vidon Corrado e altri, i quali opprimevano i loro vassalli e in quell’epoca che i comuni del fermano godevano già della più completa autonomia, mantennero rigorosamente il più arretrato sistema Feudale5.

     Appresso vedremo che da questi signori, inseriti si nella vita Fermana vennero quasi tutti i tiranni di quella città.

     Tutti questi signori risposero, nel 1229, all’invito delle Comune di Fermo e accettarono l’alleanza, perché era per loro molto conveniente in quelle pericolose circostanze; ma imposero delle condizioni che Fermo, in tempo diverso, non avrebbe mai accettato, perché lesive dei principi che regolavano le libertà comunali.

       Ma il pericolo che incombeva era grande, e bisognava accordare qualche cosa questi signori che disponevano di ricchezze e di forza militare non indifferenti.

    L’accordo tra il Comune di Fermo e questi signori “Contadini” ha una grande importanza, per la migliore comprensione della storia del tempo6.

     Particolare attenzione meritano alcuni articoli del documento.

     Articolo n. 2: il Comune di Fermo si obbliga a non ricevere in avvenire ivassalli fuggiti dalle terre di quei signori, specialmente da Torre San Patrizio7.

     Questo, perché la fuga dei vassalli dai campi, nei luoghi dove ancora non esistevano le libertà comunali, era diventato un fenomeno impressionante.

     Fuggivano in cerca di libertà e si rifugiavano nei Comuni, dove venivano protetti, sia per accrescere il numero dei cittadini efficienti, sia perché il Comune non tollerava la servitù della gleba.

     Articolo n. 3: il Comune di Fermo si obbliga a costringere i Comuni della sua Contea, a restituire vassalli di quei signori, qualora vi si rifugiassero8.

       Questo articolo suppone una autorità di Fermo sui Comuni della Contea,

       Inoltre ci fa vedere che lo scopo principale dell’accordo, per quei signori, era impedire in ogni maniera la fuga dei loro vassalli; evidentemente questa fuga era il pericolo più grande che incombeva su di essi.

     Articolo. 14: siano salvi i diritti e gli ordini della Sede Apostolica; ma una parte deve aiutare l’altra, se attaccata da una signoria più forte. Si allude al Duca Rinaldo.

     Articolo n. 18 : se il territorio di Fermo sarà attaccato inaspettatamente di qua dal Chienti, noi ”Contadini” correremo in aiuto al cenno del Podestà di Fermo9.

     L’accordo fu firmato nel Consiglio Generale del Comune di Fermo, l’ultima domenica di Settembre del 1229, dal “Sindicus” = incaricato speciale del Comune per questo accordo; avanti al “Potestas” di Fermo: Guido da Landriano: al “Judex” del Comune: Villano;  al “Miles Potestatis”: Antonio; al “Massarius” del Comune: Filippo Giusti.

ORGANIZZAZIONE COMUNALE

     In mancanza di altre testimonianze valide e per non azzardare di scrivere cose non corrispondente a verità, mi appoggio al suddetto documento, per dire qualcosa dell’organizzazione del Comune Fermano di quel tempo.

     Gli “Statuta Firmanorum” che conosciamo sono gli statuti riformati dal fermano Marco Martello, nel 1506. Il complesso delle disposizioni legali saranno state per la gran parte le stesse; però l’organizzazione comunale, con l’andar del tempo, avrà sicuramente subito modifiche e perfezionamenti suggeriti dall’esperienza.

     Dal documento trattato sopra risulta che il Consiglio Generale era composto da 208 consiglieri scelti dal popolo. Erano rappresentate nel Consiglio tutte le classi sociali con esemplare democraticità e senza privilegi; semmai i commercianti e gli artigiani, organizzati in forti associazioni e guidate dai loro “capitani”, facevano sentire maggiormente il loro peso.

     Il Consiglio Generale eleggeva tra i suoi componenti il Consiglio SPECIALE, o consiglio di Cernita, o delle proposte. Era un consiglio di non più di 150 consiglieri, cittadini di condizione popolare, non nobile; dell’età di non meno di 25 anni; con reddito di almeno 50 lire. Aveva l’incarico di preparare gli argomenti da discutere, quando “sono campanae et voce praeconis” si adornava il Consiglio Generale. In esso ogni consigliere poteva prendere la parola, ma dopo aver giurato di parlare senza secondi fini.

     Il Consiglio Generale eleggeva tra i suoi componenti le autorità comunali, che ordinariamente restavano in carica per 6 mesi e vigilavano sulla esecuzione delle delibere del Consiglio. Essi erano:

“Sei PRIORI”, uno per ognuna delle 6 contrade che componevano la città. A capo dei priori un “MASSARIUS = Massaro”, che più tardi si chiamò indifferentemente anche “Sindicus”10.

     Il “Massarius” impersonava il Comune in tutti gli atti ufficiali e, per sei mesi, era il responsabile di tutto l’andamento del Comune; quindi era suo ufficio vigilare sull’operato anche del Podestà e di tutti gli impiegati comunali.

     Il Consiglio Generale eleggeva anche gli impiegati comunali:

1°- “IL PODESTA’ era sempre un  egiurisperito forastiero, che restava in carica  

        ordinariamente per sei mesi. Aveva alle sue dipendenze alcuni “milites” che lo 

        accompagnavano sempre e lo assistevano nell’espletamento delle sue 

        mansioni.

        Il Podestà doveva sedere in tribunale e in giorni determinati: vigilare sull’ordine pubblico; controllare, custodire provvedere all’armamento del Comune e interessarsi della sua efficienza militare. Responsabilità gravi che gli venivano retribuite abbastanza bene, ma che doveva esercitare con grande attenzione, perché al termine dell’ufficio doveva venire “sindacato”, cioè sottoposto al giudizio di una severa giuria scelta dal Consiglio.

        Qualche scrittore parla di podestà che imponevano la loro signoria e diventavano dittatori. Ma no; nelle Marche non conosciamo nessun Podestà dittatore11.

Il podestà era un semplice impiegato comunale; impiegato speciale che impersonava la “POTESTAS” giuridica e militare conferitagli dal popolo; ma era strettamente controllato dall’autorità comunali. E i sei mesi che esercitava il suo ufficio non erano sufficienti per prepararsi una signoria. 

        2°-  Il “JUDEX”, equivale pressappoco al nostro segretario comunale. Doveva essere cittadino fermano; assistere per la parte giuridica il consiglio; presenziare alle sedute consiliari e rediger nei verbali; ordinare la riscossione delle molte delle gabelle; sedere al tribunale per le cause minori e in assenza del podestà. Come lui, alla fine del mandato che poteva durare a tempo indeterminato, veniva “sindacato”.

3°-  Il “NOTAIO DEI DANNI”: era un messo comunale incaricato di notificare 

        riscuotere le multe, dietro ordine del Judex.

4°- Il “CURSOR = valletto”o porta ordini.

5°-   Il “TROMBECTA” o banditore che notificava a voce e a suon di tromba la

        convocazione del consiglio, comunicazione del Comune, e altre notizie utili alla popolazione.

6°-  I “PORTIERI”, che venivano cambiati di frequente per il delicatissimo ufficio di aprire e chiudere le porte della città. Il loro lavoro era sospeso nei periodi di emergenza, quando le forze armate vigilavano le mura della città di giorno e di notte.

     In casi particolari, quando si doveva prendere decisioni di singolare gravità il

Consiglio chiedeva che si adunasse il “PARLAMENTO GENERALE” al quale poteva partecipare un membro di ogni famiglia, con facoltà di intervenire nel dibattito.

FEDERICO II E LA GUERRA DEL 1240

     Di Federico II si è scritto tanto e ogni scrittore l’ha giudicato secondo il proprio punto di vista: grande Imperatore per gli scrittori laici; ateo e perfido per gli scrittori ecclesiastici.

Io preferisco attenermi ai fatti.

     Quando morì la madre, Imperatrice Costanza, Federico aveva circa tre anni e, siccome il Regno di Sicilia era feudo della Chiesa, il piccolo Re passò sotto la tutela del Papa che ripose in lui molte speranze. Innocenzo III liberò il Regno di Sicilia da tanti feudatari tedeschi e cercò di mantenere integro e ordinato il regno del suo pupillo, che cresceva alla scuola del futuro Papa Onorio III.

     Nel 1215, Innocenzo III lo fece eleggere Re di Germania, per aprirgli la strada a un futuro titolo di Imperatore. Di tutte queste premure paterne del Papa, Federico si mostrò grato. In una lettera gli scriveva: “tra le tue braccia fui gettato fin dalla nascita …. Protettore e benefattore nostro, Pontefice venerando, dei cui benefici siamo stati nutriti, protetti al pari e innalzati….”.

     La sua condotta cambiò quando fu Papa Onorio III, che era stato suo educatore. Volendo Federico la dignità imperiale, il Papa gli fece giurare due cose: rinunziare al Regno di Sicilia in favore del figlio Enrico, ritenendo solo il titolo di Re di Germania; e guidare la Crociata per la liberazione di Terra Santa: due richieste ragionevolissime, poiché essendo il Re di Sicilia feudatario della Chiesa, non poteva essere eletto Imperatore; capeggiare poi la Crociata era un dovere per l’Imperatore capo dell’Europa cristiana.

       Federico II fece eleggere il figlio Enrico Re di Germania, dicendo poi che era avvenuto a sua insaputa; e Onorio III per amor di pace e sempre sperando che le cose migliorassero, lo consacrò Imperatore, nel 1220. In seguito sopportò pazientemente che l’Imperatore facesse fallire più volte la Crociata, con gravi perdite per tanti Stati europei che mandavano verso Oriente truppe, in attesa che l’Imperatore ne prendesse la guida.

       L’8 settembre 1227, erano raccolti a Brindisi circa 80.000 crociati di ogni nazione europea: erano scelti combattenti della nobiltà svedese, polacca, tedesca, francese, spagnola. Arrivò l’Imperatore e l’esercito crociato si mise in mare; ma dopo pochi giorni, Federico tornò indietro, dicendosi malato. Gregorio IX non sopportò la perfida condotta dell’Imperatore e lo scomunicò.

     L’anno appresso partì da solo per il Medio Oriente, dove concluse un trattato col sultano d’Egitto che allora dominava anche su Gerusalemme e tornò in Italia nel 1229.

     Per calmare le acque pericolosamente agitate da Rinaldo di Urslingen, Duca di Spoleto e dai signori ghibellini, firmò col Papa Gregorio IX il Trattato di S. Germano, nell’agosto del 1230. Ma la pace non venne, perché nell’Imperatore e nei ghibellini non c’era volontà di pace.

      Federico II fu uno degli Imperatori che non compresero i doveri del loro ufficio. Mentre allora il pericolo tremendo per l’Europa erano i Saraceni. Federico II trova il suo principale nemico nel Papa; immette nel suo esercito circa diecimila saraceni, e con essi causa devastazioni nel territorio della Chiesa, non risparmiando chiese e monasteri.

     Scriveva che odiava i papi, perché “essi hanno avuto sete del nostro sangue fin dalla nostra fanciullezza  ….. essi introdussero nel nostro regno l’Imperatore Ottone, per privarci dell’onore, del regno e della vita ”12.

     giustifica il suo odio con un sacco di bugie, in contraddizione con quanto scriveva a suo tempo a Papa Innocenzo III, nella lettera ricordata sopra, nella quale diceva che dal Papa aveva ricevuto ogni bene.

     Come nel Papa, così vide nei Comuni il principale pericolo per l’autorità imperiale come la intendeva lui. In teoria, era padrone assoluto in Europa; ma siccome nessuno governa meno di un governante assoluto, i ghibellini seppero far sentire il loro peso e, spinto da alcuni signori italiani, specialmente da Ezzelino da Romano, signore di Verona, combatté e vinse i Comuni Lombardi a Cortenova, nel 1237, ma da quella vittoria cominciò la sua fine.

     I comuni italiani, vinti non si arresero, ma continuarono a lottare tra mille difficoltà, per un decennio ancora; fino a che Federico II, dopo la disfatta del suo esercito di ghibellini e saraceni presso Parma, nel 1248; dopo la battaglia di Fossalta del 1249, dove i Bolognesi fecero prigioniero il figlio Enzo, morì a 56 anni, nel 1250.

FINE DELLA CONTEA DEI VESCOVI

     Per il Comune di Fermo gli avvenimenti furono duri, ma meno cruenti. Dietro l’ordine di Onorio III prima, e poi di Gregorio IX, che i comuni Piceni si fortificassero, i Fermani nel 1236, terminarono la costruzione del castello del Girfalco e appoggiarono analoghe operazioni nei Comuni vicini.

     Il Vescovo Conte Filippo Secondo, sentendosi impotente a organizzare una resistenza valida nella sua Contea, rinunziò ad essa. In un documento del 1238, Filippo II si dice grato al Comune di Fermo, per la sincera collaborazione prestatagli sempre; loda il Comune per la sua intelligente ed efficiente organizzazione e cede al Comune tutto il territorio di proprietà della Chiesa Fermana, dal Potenza al Tronto, con l’incarico di dienderla da ogni pericolo di invasione.13

        Le forze del Comune di Fermo, cui erano alleate le armi dei Signori “Contadini” dell’Alto Fermano; affiancate dall’esercito dell’Abate di S. Vittoria, erano all’altezza del loro compito. Queste ingenti forze però mancavano di una direttiva unica e soprattutto di coesione morale, per cui, pur combattendo per il medesimo scopo davano la principale attenzione ai loro particolari interessi. Però questo avveniva non solo nella parte guelfa, ma anche in campo ghibellino; perché quella, in effetti, era una guerra civile tra guelfi e ghibellini italiani, le cui forze si equivalevano. Chi faceva pendere la bilancia dalla parte dei ghibellini erano i 14.000 tedeschi e saraceni che l’Imperatore teneva al suo servizio.

     Nel 1239, Enzo, figlio naturale di Federico II e Re di Gallura, invase la marca Anconetana, invano difesa dal Rettore Pontificio Giov. Colonna.

     Dopo i primi rapidi successi che lo portò alla conquista di Osimo di Macerata, trovò una ostinata resistenza dei guelfi a Treia. Prevedendo le gravi difficoltà che avrebbe incontrato nel Fermano, pensò di aggirare l’ostacolo, e mandò una forte schiera di tedeschi e saraceni, al comando di Rinaldo di Acquaviva ad assalire il Presidiato Farfense. Rinaldo marciò direttamente al cuore del Presidiato, assalendo la fortezza di Force, dove si erano concentrate le milizie di Matteo II, guidate dal Vicario Abaziale Fildesmido da Mogliano. Per l’inferiorità delle forze abbaziali, Force cadde presto e gli imperiali dilagarono per il Presidiato, occupando Montefalcone e S. Vittoria, nel 1240.14

     L’occupazione del Piceno fu dura per gli imperiali che dovettero sostenere una battaglia per ogni Comune, e fu quasi completa nel 1242. In quest’anno, per conquistare Ascoli, città notoriamente imprendibile, fu spedito con un esercito Andrea Cicala che vi entrò a tradimento e la devastò, compiendo saccheggi ed eccidi feroci.15

     Nello stesso anno 1242, Fermo si decise a scendere a patti con il Vicario imperiale Roberto da Castiglione, che risiedeva a Macerata. L’accordo conveniva ad ambedue; al Comune di Fermo, per evitare ulteriore spargimento di sangue, la possibile occupazione violenta e conseguenti disastri da parte delle truppe imperiali; e a Castiglione conveniva eliminare pacificamente e al più presto la potenza Fermana, perché i Guelfi non disarmavano affatto, anzi era chiara la loro volontà di rivincita.

        Per il Comune di Fermo non fu difficile dimostrare al Vicario imperiale che la città era stata sempre imparziale tra guelfi e ghibellini; che non aveva più niente da spartire col vescovo Conte, il quale aveva rinunziato tutto al Comune ed era fuggito a Venezia; che ora Fermo era per l’Imperatore, e si sarebbe potuto legarla per sempre a lui, accordandole patti favorevoli. E in questi patti favorevoli furono compresi i privilegi accordati da Ottone IV, nel 1212: il mero e misto impero; la zecca; il possesso della zona costiera dal Potenza al Tronto.

     L’azione diplomatica, sempre molto valida Fermo, l’aveva salvata dalle stragi subite dalle altre città e le aveva conservato l’autonomia di governo, magari controllata dai messi imperiali.

     Con la caduta di Ascoli e Fermo, i ghibellini avevano occupato quasi tutte le città marchigiane; ma il Legato Pontificio Sinibaldo Fieschi, attestato col suo esercito a Penna San Giovanni e sostenuto da alcuni Comuni del Presidiato di S. Vittoria e di Camerino, stava in attesa che la scomunica del Concilio di Lione del 1246, che aveva deposto Federico II da Imperatore, producesse il suo effetto. Dovette aspettare quasi tre anni.

FERMO E RE MANFREDI

       Eempre il Comune di Fermo praticò l’astuta politica del tornaconto, la migliore politica, che lo salvò da tanti disastri. Abbiamo visto come seppe evitare le stragi della guerra del 1240, accordandosi col conte Roberto da Castiglione e sottomettendosi all’Imperatore; ma “non marciò con lui fino in fondo”. Constatata la disfatta dell’esercito imperiale presso Parma, nel 1247, la prigionia di Enzo a Fossalta, nel 1248, capì che per i Castiglione per Federico II rimanevano poche speranze, e nel 1249, chiese accordi al Legato Pontificio Card. Capocci e ritornò alla S. Sede, dietro conferma però dei privilegi dei quali godeva.

     Morto nel 1250 Federico II, seguitarono gli scontri armati tra Guelfi e Ghibellini. Il legato pontificio Annibaldo degli Annibaldeschi credette di poterli sopire, chiamando i contendenti all’accordo di Montecchio (Treia) del 1256; ma, proprio in quell’anno, Manfredi che reggeva il Regno di Sicilia per il nipote Corradino, spedì nelle Marche un esercito guidato da Pencirvalle di Oria, a sostegno dei Ghibellini. Anche allora il Comune di Fermo seppe evitare il peggio. Mandò ambasciatori a Manfredi, nel 1258, sottomettendosi volontariamente, e ottenendo la conferma dei suoi privilegi. La posizione di Fermo era difficile, ma l’astuta politica del suo Consiglio Comunale, equidistante dai due partiti di lotta, le permise di mantenere l’autonomia, della quale approfittò per incrementare i suoi traffici col Regno di Sicilia e con Venezia, con la quale firmò un’alleanza nel 1260.

     Il lettore non capirà come questa politica autonoma il Comune di Fermo possa accordarsi con la sottomissione al re Manfredi. Ma io lo invito a riflettere che i due partiti di lotta, i Ghibellini sostenuti da Manfredi e i Guelfi sostenuti dal Papa, erano troppo forti, per permettere che una parte prevalesse sull’altra definitivamente; quindi la preoccupazione la tensione da una parte e dall’altra era incessante. In effetti, la sottomissione al re Manfredi era solo il giuramento che Fermo non lo avrebbe infastidito e avrebbe pagato le tasse al regno di Sicilia; ma della politica interna del Comune di Fermo, della sua economia dei suoi accordi commerciali, Manfredi non aveva tempo di interessarsi. È vero che la politica regia, come quella imperiale, era contraria alle libertà comunali, ma bisognava usare prudenza, specialmente con una città potente come Fermo; bastava non averla nemica belligerante.

     La fedeltà di Fermo al re Manfredi era anche assicurata dal suo Vescovo Gerardo che, anche da Vescovo, non sapeva dimenticare di essere figlio del feroce ghibellino Guglielmo da Massa, e si adeguava a lui nella politica e nei costumi. Parteggiava apertamente per Manfredi e, per favorirne la parte, era prodigo di quattrini e di cavalli16 per cui ebbe i richiami e minacce dal Papa Onorio IV che ordinò pure una inchiesta sulla sua condotta morale notoriamente pessima; ma seppe sempre mantenersi a galla, bilanciando gli scandali favoriti nei conventi femminili, con i benefici elargiti in abbondanza alle potenti fraterie della sua Diocesi17.

     Il Comune di Fermo, o perché controllato dai ghibellini, o piuttosto perché sapeva sempre avvantaggiarsi nelle occasioni favorevoli, caldeggiò l’adesione di altri Comuni al partito di Manfredi, mirando sempre al proprio tornaconto; capiva infatti che quei Comuni, diventati manfrediani, sarebbero rimasti legati al carro fermano, anche quando Manfredi fosse tramontato. E nel 1257, col permesso di lui, Fermo occupò penna S. Giovanni, Monsammartino e fortificò Montefalcone che già aveva tolto ai fan pensi, e le tenne per sempre. Convinse S. Vittoria ad allearsi con essa, accettando il regio podestà; alleanza che durò solo quattro mesi18; non riuscì a spuntarla con Ripatransone che proprio in quella circostanza si staccò da Fermo definitivamente19.

       In questa seconda metà del secolo XIII, l’attività diplomatica, ma anche quella bellica del Comune di Fermo fu molto intensa. Il possesso del litorale dal Potenza al Tronto, rinnovatole da Manfredi accese le discordie con Ascoli che desiderava incrementare i suoi traffici sul mare. Nel 1256, preceduti presso il Re dalla diplomazia Fermana, gli Ascolani tentarono con le armi la conquista di S. Benedetto in Albula, per avere un porto degno di tale nome, poiché era poco agibile il porto di Sculcula (oggi Porto d’Ascoli), che già possedevano; ma furono sconfitti dai Fermani, nella Valle del Tronto.

     Erano continui le agitazioni tra Guelfi e Ghibellini nelle Marche, e Fermo necessariamente vi si trovava sempre implicata, non tanto per i contrasti di partiti, quanto per la gelosia che la sua massiccia potenza destava nelle città vicine. Nel 1260, forze guelfe guidate da Brunoforte di Perugia battagliavano qua e là contro i Manfredi a, e Fermo subì una momentanea sconfitta presso S. Marco alle Paludi. In quella battaglia parteciparono contro Fermo anche gli ascolani.

     Nel 1266, appena caduto re Manfredi, Fermo ritornò alla S. Sede. Però Guelfi e Ghibellini, tenuti a freno sotto la forte podesteria del futuro Doge di Venezia, Raniero Zeno, si risvegliarono con la elezione a podestà del ghibellino Ruggero Lupo e, venuti a battaglia nella valle del Tenna, il 4 ottobre 1270, i Ghibellini ebbero la peggio e il Podestà restò ucciso. Ma se il trionfo della parte guelfa ridiede sicurezza di libertà, non finirono le difficoltà per Fermo.

     La Repubblica di Venezia considerava di sua pertinenza il Mare Adriatico, e condizionava in vari modi il traffico delle altre città rivierasche. La prima a ribellarsi a questo stato di cose fu Ancona, la quale, sostenuta dal Papa Gregorio X, nel 1275, intraprese la lotta per la libertà dei mari, che durò vari anni. Fermo, tradizionalmente amica di Venezia, con la quale lo scambio commerciale era attivissimo, considerando che il porto di Ancona e anche più a nord e avrebbero potuto danneggiare il traffico nei suoi molti ma piccoli porti, credette più conveniente schierarsi con Venezia. Questa mossa la mise in contrasto col Governo Pontificio che, da allora e per vari decenni, la concederò come ribelle.

     Di conseguenza si fecero più arditi contro di essa i Comuni rivali. Nel 1276, Fermo saccheggiò e fece massacro a Monsampietramgeli, difesa da Ascoli. L’11 Novembre 1280, gli Ascolani tentarono la conquista di S. Benedetto, ma subirono una sconfitta che fu definitiva, perché l’intervento del Papa Onorio IV costringe i belligeranti a deporre le armi20.

SVILUPPO EDILIZIO A FERMO NEL SECOLO XIII

     In questo secolo XIII, secolo di agitazioni per le Marche e di lotte sanguinose, Fermo seppe consolidare la sua potenza politica ed economica, e seppe riparare i danni della distruzione del 1176, che sembravano irreparabili. In questo secolo si costruirono molti tra i migliori monumenti, dei quali va orgogliosa.

     Nel 1226, fu costruita la chiesa di S. Caterina. Nel 1227, fu riedificata la Cattedrale, su disegno di Giorgio da Como. Nel 1233, fu posta la prima pietra per la costruzione della chiesa di S. Domenico, costruita a spese della regina Berengaria, moglie di Guglielmo di Brienne, re di Gerusalemme, sul suolo donato dalla famiglia Paccaroni la quale aveva ospitato, una quindicina d’anni prima, S. Domenico che predicò a Fermo per due mesi.    

     Anche l’attuale Palazzo Municipale fu incominciato a costruire nel secolo XIII, poi fu rimaneggiato e terminato nel 1525.

     Nel 1236, fu terminata la costruzione del castello delle Girfalco, demolito poi dai Fermani nel 1446.

     Nel 1240, iniziò la costruzione del tempio di S. Francesco, su disegno dell’ascolano Antonio Vipera.

     Nel 1250, fu costruito il tempio di S. Agostino e il grandioso convento degli Eremitani di S. Agostino.

     Nel 1251, i Farfensi ingrandirono il monastero annesso alla chiesa di S. Pietro.

     E’ pure del secolo XIII la Torre Matteucci.

     In questo secolo di odio e di sangue, gli Ordini Religiosi che, appena sorti fondarono i loro studentati a Fermo, diedero nuovo impulso alla pratica della vita cristiana con la loro predicazione e il loro esempio; e alla cultura, con le loro scuole dirette da uomini di grande dottrina.

NOTE

1     CATALANI – De Eccl. etc. appendice doc. n. XLV Reg. p. 230

2     CATALANI – Ivi – app.  dipl. n. LI – Reg. Ep. P. 173

3     COLUCCI – A. P. XVIII app. doc. n. IX p. XIV – “…. Con l’autorità imperiale affidataci, concediamo

        che i castelli di Massignano, Marano, S. Andrea e Penna siano di pertinenza di Ripatransone.

        E se il Comune di Ripatransone vorrà, diamo le facoltà di demolire i detti castelli…..”

4     FABIA DOMITILLA ALLEVI – Mainardi e Offidani (tesi di laurea).

5     Sono molti gli scritti che trattano la storia particolare dei paesi e dei signori di questa vasta

       zona, ma non ho trovato uno scritto che metta in sufficiente evidenza la arretratezza politica di

      questo territorio e di questi signori. Nessuno mette in sufficiente luce il contrasto tra questa

      arretratezza, e il meraviglioso sviluppo delle libertà comunali della Contea dei Vescovi di Fermo.

       E non so se sia effetto della mia ignoranza il fatto che, fuori del Catalani, non ho trovato nessuno

       scrittore che prende in considerazione questa Contea; mentre essa. Per un trentennio  

       suscitatrice e difesa della libertà e del progresso delle Marche.

6      GIACINTO PAGNANI – Patti tra il Comune di Fermo e i nobili del contado nel 1229 – L’autore

        riporta per intero il testo dei “patti”. Tratto dall’Arch. Comunale di Fermo – Pergamena 1708.

7      “Item promittit et convenit Comune Firmi non recipere de cetero nomine qui sunt eorum

         vassalli vel alios de ipso rum segnoria et deterritoriis  de comitatu Firmano et undecunque sint

         de territoriis eorum et specialiter de Turri S. Patritii”.

8      “Item promittit dictum Comune Firmi quod si aliqua Comunitas Comitatus Firmi, vide licet Ripa

         Transonis, Mons Rubeanus, Mons S. Mariae in Georgio, Castrum S. Elpidi, Castrum Montis

         Granari,  Mons Ulmi, Macerata, Murrum, Mons Luponis, Mons Sancti,  Civitanova vel aliud

         castrum de Comitatu Firmano de cetero reciperet aliquem nomine vel nomine vel vassallum vel

         alique de sua segnoria de eorum terris aliquarum vel alici predictorum domino rum. Comune

         Firmi ipsam Communantiam requirat prius ut dictum nomine cun quis rebus restituita domina

         domino repetenti”.

         Se qualche Comune del Comitato Fermano in avvenire accoglierà qualche uomo o vassallo o

        qualcuno della loro signoria, fuggiti dal territorio di detti signori, il Comune di Fermo richiederà

        alla detta comunità che restituisca l’uomo e le sue cose al signore che le reclama.

9      L’impegno dei signori “Contadini” è parziale, limitato al di qua del Chienti, dove anche essi

        avevano interessi da difendere. Il territorio di Fermo arriva fino a Potenza; ma per quella parte

        essi non si obbligano.

10   Il “Sindicus” che troviamo in molti documenti, e anche in quello esaminato sopra, ha significato    

        diverso dal “Massarius”. Non era il capo del Comune, ma una persona scelta dal Consiglio solo  

        per un incarico particolare: non era un ufficio, ma un incarico transitorio, che qualche volta era

        svolto dallo stesso Massaro.

11   GIOACCHINO VOLPE – Medio Evo – Ed. Sansoni –p. 276 “Al posto dei Consoli ecco appare un

        funzionario unico, uomo di guerra e di leggi, rivestito da principio di autorità quasi dittatoria …

        Il Podestà più libero da aderenze locali …. Meglio può nell’amministrazione della giustizia; della

        finanza pubblica del patrimonio comunale…”(Tutte queste amministrazioni il podestà non le ha

        avute mai; almeno nel libero Comune Marchigiano) .

12   “…. Cum a pupillari etate nostra nostrum  sanguinem sitierint…. qui Othonem imperatorem

        introduxerunt in regnum nostrum, ut non honore regno et vita privarent”.

13   CATALANI – De Eccl. – app. LXIII. Documento ha il significato di incastellamento.

14  “Dominus Rainaldus de Acquaviva cum sua gente venit ad castrum Furcis et intravit et cepit

        castrum, in quo erat tunc dictus Abbas qui recessit de ipso castro plorando….”

       Dictus Abbas venit ad castrum Montis de Nove et coadunatis ho minibus ipsius vicinantiae et

       contradae,  predicabit ibi et monuit ut starent fideles in serrvitute Romanae Ecclesiae, et si non

      possent aliud, non paterentur destructionem et fecerent  quam meliu possent, et recessit tunc de

      contrada.Quia gens illa erat ex comunicata et Abbas timebat, aufugit et exivit de dicta terra….”.

      “Nuntiua Imperatoris venit cum Saraceni set militi bus multis ad castrum Furcis et tunxc Avìbbas   

       Matteus erat in ipso castro Furcis, et cum  nollet facere mandata ipso rum, recessit de ipso castro

       et homines ipsius castri Furcis fecerunt mandata (giurarono fedeltà) ipsius Domini Rainaldi, quia

      non poterant aliuds. Et eadem die ivit ipse Dominus Rainaldus versus castrum Montis Falconis ad

      ecclesiamo S. Januarii et ibi recepit nomine Montis Falconis ad mandata,”

      (Società Romana di storia patria – v. XI pp. 327-332-237)

       Rinaldo da Acquaviva venne coi suoi soldati a Force e vi entrò. L’Abate (Matteo II) fuggì nel

       castello di Monte di Nove, radunati gli uomini della contrada, parlò loro e li esortò a restare

       fedeli alla Chiesa Romana, se non potessero far altro cercassero di impedire le distruzioni; e si

       ritirò nel  territorio. Il Nunzio dell’imperatore venne con molti soldati e Saraceni al Castello di

       Force e allora  l’abate Matteo era nel castello; ma non volendo sottostare ai loro ordini, si ritirò

       da castello, mentre gli uomini di Force si sottomisero a Rinaldo, non potendo fare altrimenti. Lo

       stesso giorno Rinaldo si diresse verso Monte Falcone e presso la chiesa di San Gennaro ricevette

       la sottomissione degli uomini di Monte Falcone

15  TEODORI – Ascoli Piceno. P. 12. – “ Le truppe imperiali posero l’assedio Ascoli, nel 1242, ma

       considerando che le fortificazioni della città avrebbero imposto un lungo e difficile assedio,

       entarono uno stratagemma. Chiesero che il loro condottiero potesse ossequiare le autorità

       cittadine, dato che le truppe erano colà di passaggio. Gli Ascolani aprirono una porta sul ponte

       della Torricella, dalla quale entrò il capitano e una piccola schiera. La mattina seguente, si

       trovarono tutte le porte della città aperte, la città invasa e saccheggiata”.

       Il ponte,  la porta e la prima via interna si chiamarono: “Tornasacco”.

16  CATALANI – De Eccl. etc.  append n. LXX

17  CATALANI – Ivi – pp. 182-183 (Gerardo)

18  COLUCCI – A. P. t XXIX n. LVI e LVII p. 102-105

19  COLUCCI – A. P. t XVIII – app. n. XIV

20 FRACASSETTI – Notizie Storiche ecc. pp. 25-26

CAPITOLO VI

FERMO NELLA PRIMA META’ DEL SEC. XIV

     Il Giubileo del 1300, indetto da Bonifacio VIII (1294-1303), durante il quale Roma accolse i 200.000 pellegrini, tra i quali Dante Alighieri, avrebbe dovuto segnare l’inizio di una rinascita non solo religiosa, ma anche politica dell’Europa, che allora contava circa 50 milioni di abitanti.

     Invece segnò l’inizio di un secolo che vide aggravarsi l’aspetto negativo del secolo precedente.

     L’Unità Europea, a stento tenuta in piedi dai Papi, crolla politicamente in questo secolo e il Sacro Romano Impero perde il suo significato.

     Il Poeta “vede in Anagna entrar lo Fiordaliso – e nel Vicario suo Cristo esser capto”; con Filippo il Bello di Francia incomincia il trionfo dell’anticlericalismo e l’oppressione della Chiesa, la quale non ha più la forza di imporre il suo arbitrato nelle discordie delle nazioni europee che si fanno sempre più aspre.

     Ho detto che l’anticlericalismo trionfò con Filippo il Bello, ma quella fu la conclusione conseguente dell’anticlericalismo dei signori italiani, soprattutto romani: difetto di antica data, per cui i papi già una trentina di volte avevano dovuto lasciare Roma; e il Papa fuori di Roma, sua sede naturale, perdeva gran parte della sua efficienza.

     Nel 1305, per i maneggi di Filippo il Bello, fu eletto Papa il francese Clemente V, che non venne mai a Roma, ma invitò i cardinali a recarsi in Francia e, nel 1307, stabilì la sede in Avignone, dove essa rimase per circa settant’anni.

     La permanenza dei Papi in Avignone fu disastrosa per la Chiesa, per l’Europa, per l’Italia.

     Nelle Marche, la lontananza dei Papi causò l’indebolimento del guelfismo, la crisi delle libertà comunali e il pullulare delle piccole signorie, che tolsero pace e libertà alla maggior parte dei comuni Piceni.

     La prevalenza dei Ghibellini però non provocò la disfatta totale del guelfismo.

     Alcuni comuni, anche i potenti come Camerino e S, Vittoria con gran parte dei loro Presidiati, non perdettero la fiducia nella S. Sede e affrontarono con ammirevole coraggio la grave situazione, difendendo strenuamente la propria libertà.

     I Rettori Pontifici della Marca, quasi tutti francesi, con la loro politica dura e poco oculata e con insopportabile esosità, aggravarono la situazione.

     E inominciarono le ribellioni contro il Rettore, il quale rispondeva, inviando armati e multe salate: così avvenne per Fano, nel 1314; così per Macerata, nel 13151.

     Fermo, già compromessa nella stima della S. Sede, per la sua politica indipendente, di fronte a tante forze della Romagna e della Marca ribelli alla Chiesa, seguì anche questa volta la politica che credette favorevole ai suoi interessi: nel 1316 si unì a Recanati, sua alleata, e a Osimo ghibellina contro il Rettore della Marca.

     Ci furono scontri armati tra Guelfi e Ghibellini; ci furono tentativi di accordi tra il Rettore e i ribelli; ci furono minacce e castighi da parte della S. Sede, per ridurre i ribelli all’obbedienza.

     Nel 1319, Recanati fu privata del titolo di città e della sede vescovile, e si arrivò alla battaglia di Osimo del 1323, che avrebbe dovuto essere risolutiva.

     L’esercito guelfo, guidato da Bernardo Varano di Camerino, fu sopraffatto dall’esercito ghibellino, capitanato da Guido di Montefeltro e da Mercenario da Monteverde, che sfogò la sua rabbia in vari Comuni guelfi.

     Il Papa Giovanni XXII finalmente si decise a usare l’unica arma che avrebbe potuto sottomettere i Fermani.

     Il 10 Maggio del 1325 minacciò di privarla della sede arcivescovile del titolo, come aveva fatto con Recanati e con Osimo, e toglierle ogni giurisdizione sui suoi castelli.

     Fermo tremò, perché sapeva quando era difficile mantenere soggetti i suoi castelli.

     La Contea che aveva ereditata dai suoi Vescovi aveva cominciato a sfaldarsi. Macerata era diventato una rivale pericolosa, che minacciava il dominio fermano sui castelli di là del Chienti; Civitanova, S. Elpidio, Ripatransone non tolleravano più la sudditanza Fermo; e lo stesso pericolo correva con Monterubbiano, con Montottone, con Monsampietrangeli; questa ultima ceduta contro sua volontà al Comune di Fermo dal vescovo Gerardo.

     Il 26 Marzo 1326, si riunì il Consiglio Comunale che decise di venire ad accordi con la S. Sede.

     Ma improvvisamente piombarono a Fermo e Ghibellini osimani che uccisero i promotori degli accordi, incendiarono il palazzo priorale e saccheggiarono la città.

     Fu in questa occasione che il ghibellini osimani e fermani occuparono e menarono strage nella guelfa S. Elpidio a Mare.    

     Forse questa città aveva avuto parte nel persuadere Fermo a riconciliarsi con la S. Sede.

MERCENARIO DA MONTEVERDE

     Mercenario, signore di Monteverde, della famiglia dei Brunforte di Massa, della quale facevano parte, o lo erano imparentati, i “signori Contadini” dell’Alto Fermano, ghibellini ricchi e potenti, fu il primo di essi a impadronirsi di Fermo.

     Valoroso capitano, guidò i ghibellini fermano i nella battaglia di Osimo del 1323, nel saccheggio di S. Elpidio nel 1326, e costringere il Comune di Fermo ad aderire allo scomunicato Ludovico il Bavaro.

     Il suo dispotismo fu per Fermo molto funesto.

    La Chiesa Fermana stava attraversando uno dei periodi più neri della sua storia.       

     Sede vacante dal 1314 al 1317, aveva subito il malgoverno e le dilapidazione dei Canonici che non avevano saputo accordarsi sulla elezione di un vescovo.

     I sei anni di episcopato dell’ottimo Francesco I di Mogliano (1318-1324) non furono sufficienti a riparare quei danni, e già alla sua morte si apriva un nuovo più funesto interregno.

     Persistendo Fermo, dominata dai ghibellini di Mercenario, nella ribellione la S. Sede, Giovanni XXII la privò della sede vescovile e del titolo di città.

     Questo dovette avvenire alla fine del 1326, ma non si conosce il documento pontificio relativo.    

     In un documento del 1328 il Papa chiama Fermo: “villa Fermana”2.

      Mercenario e ghibellini per mani non ci piegarono, fidando nella potenza di Ludovico il Bavaro che, alla fine del 1327, scese in Italia per essere incoronato a Roma dai signori laici. In quella occasione (Gennaio 1328), fu eletto pure l’antipapa Niccolò V, il francescano Pietro di Corbara; e anche Fermo ebbe il suo di vescovo: certo Vitale, francescano.

   Nel seguente agosto 1328, Giovanni XXII protestò che solo lui aveva l’autorità di nominare il vescovo: “Per la morte del vescovo Francesco di buona memoria, la chiesa di Fermo è vacante e nessuno fuori di noi ha il diritto di provvederla”; e nominò amministratore della Diocesi Fermana il Vescovo di Firenze, Francesco II di Cingoli, con tutte le prerogative di Vescovo, anche se non doveva risiedere a Fermo.3

     La fortuna degli antivescovi nelle città marchigiane durò poco, poiché, ritirandosi dall’Italia Lodovico il Bavaro, Fermo e le altre città si ribellarono e cacciarono i vescovi eletti dall’antipapa.

   Il declino di Ludovico il Bavaro segnò anche l’indebolimento dei Ghibellini, il Fermo chiese al Papa l’assoluzione dalle censure. 

   Per Mercenario e i suoi ghibellini fu un momento pericoloso, ma egli non intendeva perdere la città e subire la rivalsa dei Guelfi .

     Nel 1331, avendo sufficienti forze economiche e militari, si proclamò signore di Fermo, dichiarando nello stesso tempo di voler aderire alla S. Sede.

     Il rettore della Marca e due incaricati del Papa vennero a Fermo, nel 1332, e sulla piazza, con grande solennità, la città fu riammessa i Sacramenti e le furono restituiti gli antichi privilegi4.

      Tra i castelli che non sopportavano il predominio fermano c’era Monterubbiano, la quale forse in quegli anni sventurati si era dimostrata un po’ troppo ostile verso Fermo.

      Mercenario, o per castigarla e ridurla all’obbedienza o perché la floridezza di quel castello faceva ombra a Fermo o perché aveva bisogno di denaro, nel 1334 l’assalì e la saccheggiò ferocemente.

     “La domenica 20 febbraio 1340, durante il pontificato di Benedetto XII, Mercenario da Monteverde aveva dominato per 10 anni come tiranno è padrone della città di Fermo, e aveva commesso molte ingiustizie, adulteri e scelleratezze.

     Finalmente, come piacque all’Altissimo che è giusto giudice mentre il tiranno cavalcava un po’ distaccato dai sette cavalieri di scorta fuori Porta San Pietro Vecchio5, uscirono dal monastero di San Pietro Gilardino di Giovanni da Sant’Elpidio e Fermo fratello del Priore di San Pietro, presente anche Matteo da Fano con altri tre o quattro cavalieri e con due servitori si gettarono su di lui e lo uccisero.

     Fu sepolto dai frati di San Francesco, senza la presenza o pianto di nessuno. Tuttavia nella città vi fu grande agitazione …. “6.

     Il martedì seguente, tutto il popolo fermano si radunò armato avanti il palazzo del popolo. Erano radunati più di diecimila uomini che gridavano: “Pace, pace, pace: morte a chi tenta di farsi tiranno: si caccino dalla città tutti i “Contadini”. E avvenne che, alla presenza dello stesso popolo, fu eletto Podestà del popolo fermano Masso del signor Tommaso da Montolmo e furono eletti i Priori del Comune.7

GIACOMO VESCOVO E PRINCIPE DI FERMO

     Dalla morte di Francesco I, nel 1324, Fermo non aveva più il Vescovo, poiché Francesco II di Cingoli era Vescovo di Firenze e teneva a Fermo solo l’amministrazione della Diocesi.

     Giovanni XXII, che aveva riservato a sé la designazione dei vescovi delle sedi vacanti, togliendo ai Canonici la facoltà di sceglierli, agì in conformità anche nei riguardi di Fermo e, l’11 Marzo 1334, nominò vescovo il domenicano Giacomo di Cingoli (1334-1342).8

     Si chiamò “Vescovo e Principe di Fermo”, e con questo titolo furono chiamati tutti i suoi successori, fino ai giorni nostri.

“Principe”! Qualche lettore sarà pronto a condannare il vescovo Giacomo come un ambizioso, perché questo titolo lo metteva, lui padre dei poveri nella classe dei potenti.

     Ma io gli ricordo che i personaggi devono essere giudicati nel loro tempo; e i tempi del vescovo Giacomo non erano quelli del Papa Giovanni Paolo II.

     Vuole essere chiamato”Principe”, forse perché lui, umile frate, aveva bisogno di un titolo nobiliare, per imporre la sua autorità in una città nobilissima, dominata dal “nobile contadino” Mercenario da Monteverde.

     Il titolo di Principe doveva essere anche un sostegno morale alla povertà nella quale era caduta la Diocesi Fermana.

     Dell’antica ricchezza erano rimaste delle briciole, insufficienti per un personaggio con gli impegni del Vescovo.

     Giacomo si adoperò attivamente per recuperare alla sua Diocesi tanti beni dispersi o usurpati in quegli anni di disordini e di malgoverno.

     Nel 1336, si rivolge al Papa Benedetto XII, chiedendo che Montolmo fosse chiamata a una riparazione, per aver distrutto il castello di Cerqueto, proprietà della Diocesi; S. Elpidio,  per la distruzione di Castello pure della Diocesi; Macerata, per usurpazione di beni diocesani9.

     Forse nel chiedere e nell’esigere qualche volta esagerò, tanto che fu accusato presso il Papa di molestare e di vessare indebitamente i fedeli10.

     Un’altra colpa si attribuisce al Vescovo Giacomo: l’aver favorito, insieme al Vescovo di Camerino, la setta dei ”Fraticelli”, condannati già da Giovanni XXII per l’esagerato rigore nell’interpretazione della povertà francescana e per altri pericolosi errori11.

     Ma queste sono inezie di fronte ai meriti di questo grande Vescovo.

     Tra essi uno dei più grandi e l’aver favorito la costruzione del primo Ospedale di Fermo.

CONFRATERNITA DI S MARIA

     In quei tempi di odi, di vendette feroci e di sangue, fioriva la carità, la virtù cristiana, che raggiungeva spesso l’eroismo, non solo in azioni di singoli, ma anche in  istituzioni sociali, allora difatti sorgevano Ordini Religiosi che esegevano dai loro seguaci che si dessero schiavi, se necessario, per liberare qualche cristiano schiavo dei Turchi.

     Ma questa era la carità eroica, che non poteva ovviamente essere universale; mentre universale era la pietà verso i diseredati e i bisognosi di assistenza.

     A Fermo era fiorente la Confraternita di S. Maria della Carità, alla quale erano iscritti artigiani, cavalieri e nobili dame, cristiani di fede sentita, persuasi che “la carità copre la moltitudine dei peccati”.

     Sua missione era assistere i malati e i vecchi abbandonati, raccogliere provvedere di un tetto i trovatelli e i vagabondi.    

     Ma la loro opera non aveva una organizzazione sufficiente: disponevano solo di pochi locali e della buona volontà di famiglie private.

     Nel 1341, chiesero al Vescovo Principe Giacomo l’autorizzazione per costruire l’Oratorio e l’Ospedale di S. Maria della carità. In questa costruzione si accentrarono le opere assistenziali della città e del suo territorio.

     L’Ospedale si arricchì di offerte e di lasciti di tutta la Diocesi Fermana, tanto da diventare una potenza economica molto rilevante12.

  Nel 1417, Matteo Mattei, Cavaliere fermano, lasciò con testamento all’Ospedale la grande tenuta di Monte Varmine di cui era signore .

     Del castello di Monte Varmine abbiamo le prime notizie storiche nel 1060, quando passò in proprietà del Vescovo di Fermo13

      Verso la fine delle ‘200 fu posseduto da Guglielmino da Massa, figlio di Guglielmo e fratello del vescovo Gerardo.

     Poi passò in proprietà di altri signori di Massa che, nel 1340, lo incastellarono a Fermo; e fece parte di quel Comune fino al secolo XVIII.

     Alla morte di Matteo Mattei, nel 1431, il brefotrofio ebbe una amministrazione propria e con altri beni gli fu assegnato anche il territorio di Monte Varmine, come nei desideri del testatore.

     Dopo l’unità d’Italia, passate le opere assistenziali all’amministrazione laica, quella del brefotrofio decadde progressivamente, fino alla quasi totale estinzione dei giorni nostri.

GENTILE DA MOGLIANO

     La libertà del Comune di Fermo durò solo otto anni, poiché nel 1348 si impadronì della città Gentile da Mogliano, anche lui dei “signori Contadini” detti sopra.

     Valoroso capitano che aveva militato nell’esercito di Mercenario, era stato chiamato a Fermo per guidare le forze armate del Comune e provvedere alla sicurezza del territorio.

     Incontrò gravissime difficoltà durante la signoria e finì male, come il suo parente predecessore, e come tutti i tiranni di Fermo che lo seguirono.

     Proprio nel 1348, Fermo, come in tutta Italia, infierì una terribile pestilenza che falciò i tre quinti della popolazione14, e per tutto l’anno seguente si scatteranno continui terremoti; qualcuno tanto violento da provocare il suono spontaneo delle campane, per l’oscillazione dei campanili.15

     Il 1 Maggio 1348, gli Ascolani, cacciarono Albertuccio, nipote di Clemente VI e chiamarono come signore della loro città Galeotto Malatesta di Rimini, sedicente guelfo, che si incaponì nel proposito di fiaccare la potenza fermana.

     È interessante osservare come questi feroci signori si azzuffassero accanitamente, incuranti della peste e dei terremoti, come se si sentissero immunizzarti contro questi mali.

   Gli Ascolani, calpestando i diritti di Fermo, negli ultimi tre anni, avevano costruito due torri e sette baluardi presso il mare di Sculcula (Porto d’Ascoli).

     Il 29 Aprile 1348, Gentile assalì quelle fortificazioni e costrinse gli Ascolani a demolirle; consentendo, secondo quanto afferma il Fracassetti, che ne restassi in piedi solo una 16.

     I combattenti Fermani se ne riportarono a casa alcune pietre come trofeo, alcune di esse si possono osservare murate in un costolone  della torre campanaria di S. Agostino.

     Nel 1351, Gentile corse in aiuto dei signori Gozzolino, tiranni di Osimo, i quali erano stati cacciati dalla città; Gentile rioccupò Osimo, ma dovette ritirarsi, perché Galeotto chiamato in aiuto dei Guelfi ebbe il sopravvento.

     Un’altra sconfitta Gentile subì dal Malatesta presso S. Severino, e fu inseguito e assediato Fermo, nel 1353.

     Gli Ordelaffi signori di Forlì, imparentati con Gentile, corsero in suo aiuto, costringendo il Malatesta a togliere l’assedio.

     Gentile restò signore di Fermo fino al 1355, quando il Cardinale Albornoz impresse una svolta alla storia marchigiana.

NOTE

1      COLUCCI – A. P. t XXIX doc. XC – p. 157-158.

2       “Sane quia nos villiam Firmanam olim civitatem , suis demeritis exigentibus, per processus

           nostros solemniter habitos dudum sede episcopali et titulo privomimus civitatis…. Ecclesia

           Firmana olim Catedrali…” (Catalani De Eccl. etc. – append. N. LXXX p. 373).

           Poiché da poco con solenne decisione abbiamo privato la

3        “….. administratorem  Episcopatus et Ecclesiae Firmanae olim Catedralis, cum omnibus

           juribus et pertinentiis suis eo modo quo per Episcopos Firmanos, pro tempore teneri

          consueverunt et regi, administrationem in spiritualibus et temporalibus, gereret, non obstante 

          Sedis Episcopalis privatione”. Catalani – De Eccl. app. n. LXXX.

         …… Amministratore della Chiesa Fermana 1 tempo cattedrale …. Con tutti i diritti e gli attributi, 

         e nella maniera con la quale era tenuta dai vescovi di Fermo; la amministri nelle cose spirituali

         e temporali, nonostante la privazione della sede episcopale.

4      CATALANI – Ivi Franciscus . p. 206

5      Il monastero di S. Pietro Vecchio stava dove è ora la casa delle Benedettine. Era dei Canonici      

         Regolari.

6       ANTON DE NICOLO’ – Cronache.

          “MCCCXL, tempore Benedicti pp. XII, die dominico, XX mensis Februari. Mercenarius de Monte

  Viridi regnaverat tirannus et dominus in civitate Firmi per novem annos, et multas industrias,

  adulteria et scelera in civitate  commiserate t committi fecerat; et demum, ut Deo placuit 

  Altissimo qui est iustus judex, dum ipse tirannus equitaret spatiatum, una cum septem

  equitibus extra portam S. Petri Veteris, exiverunt de monasterio S. Petri Girardinus domini

  Joannis de S. Lupidio et Firmus frater Prioris D. Petri, et interfuit Matteus de Fano cum tribus

  vel quator equitibus et cum  duo bus vel tribus famulis, et supervenerunt in eum et eum

  occiderunt; et sepetus fuit a fratribus S. Francisci, nemine ipsum plorante neque existente,

  tamen fuit in civitate Firmi  magnus rumor—“

7         “Tertia vero die Martis, ibi ante palatium populi, , totus populus Firmanus conventus est

            armatus; ubi fuit multitudo populi ultra decem milia virorum vociferantium ed dicendum

           “pax, pax, pax” et moriantur omnes volentes esse tiranni, et quod expellantur de civitate

           omnes “Contadini”; et ita factum est et coram ipso populo electus fuit in Potestatem populi

            Firmani Massius domini Tomae de Monte Ulmi et fuerunt electi Priores populi etc…”.

8        CATALANI –De Eccl n etc. – Jacobus p. 207

9        CATALANI – app. n. LXXII

10      CATALANI – Jacobus – p. 212

11      CATALANI – Ivi – (..qui eisdem favorem ex causam quadam pietatis praestarunt)

12      Una pergamena dell’Archivio del Brefotrofio di Fermo è riportato un privilegio del Papa, che

           permette alla confraternita di S. Maria di poter esportare i prodotti delle sue terre dove vuole,

           purché non vadano in mano agli infedeli.

13      CATALANI – De Eccl. etc. – Quadalricu p. 119

           G. Michetti – Rocca Monte Varmine – (La Rapida – Fermo 1980).

14      PLATINA – Vita di Clemente VI –“…vix quisque decimus ex millesimo homine superfuerit”.

15      TANURSI in Colucci t XVIII p. 31.

16       ANTON DE NICOLO’ – Cronache – “MCCCXLVIII …. magnificus vir Gentilis de Moliano

            honorabilis gubernator boni status Communis et eius districtus … ivit hostiliter cum copia et

            cum toto populo firmano in obsidione contra Esculanos super edificia Portus prope … quae

            Esculani construerunt in tribus anni set quibquis mensibus, quae edificia habebant duas

            turres maximas et septem turriones in quibus erant  septuaginta merli…”

            Nel 1348 il magnifico Signore Gentile da Mogliano, onorevole curatore dell’incolumità del

           Comune di Fermo e del suo distretto…. Andò in guerra con un forte schiera del popolo

           fermano, per assalire gli Sscolani nelle costruzione del Porto (presso Sculcula) che gli Ascolani

           avevano costruito in tre anni e cinque mesi. Questi edifici consistevano in due grandissime

           torri e sette torrioni, provviste di settantacinque merli.

CAPITOLO VII

FERMO NELLA PRIMA META’ DEL SEC. XIV

     Alla metà del secolo XIV, tutti sentivano che la mancanza di un forte potere centrale era causa di confusione politica, di disordini e di agitazioni insopportabili.1   

      Il Rettore Pontificio della Marca, Vicario del Papa nella regione, era spesso impotente contro i prepotenti signori locali. Conseguenza di questa debolezza era il decadimento delle libertà comunali e il sorgere di tante signorie, alcune delle quali favorite dalle popolazioni locali che preferivano rinunziare del tutto o in parte alla libertà, in cambio di un governo forte, che garantisce ordine e tranquillità.

     I principali signori che dominavano nella Romagna e nella Marca erano: gli Ordelaffi a Forlì; i Malatesta a Rimini; Nolfo di Montefeltro; Lomo di Jesi; gli Alberghetti di Fabriano; Rodolfo Varano di Camerino; Mercenario da Monteverde e poi Gentile da Mogliano, signore di Fermo; Petrocco da Massa Fermana e tanti altri minori.2

     Molti di essi trovavano vantaggioso ostentare fedeltà alla Chiesa e perfino proclamarsi Guelfi; per cui, lettore, puoi capire quale peso si può dare ai vocaboli: “Guelfo e Ghibellino”, correnti politiche di quei tempi; e in genere a quelle di tutti i tempi. Restavano però tanti comuni fedelissimi e gelosi della loro libertà, i quali non conobbero mai nessuna signoria. Cito S. Vittoria in Matenano, dove le leggi comunali proibivano il solo pronunciare la parola “Guelfo o Ghibellino”3; Ripatransone che seppe sempre a reagire a ogni pericolo di dominazione signorile. Restavano pure in quel periodo fedeli alla S. Sede e pagavano a duro prezzo la loro fedeltà Ancona, Ascoli, Camerino con i suoi signori Varano; S. Severino col suo signore Ismeduccio; Macerata con i signori Molucci; Cingoli col suo signore Pangione, e la fedelissima Recanati4. In queste condizioni politiche si trovava la Marca, quando Innocenzo VI, proponendosi di tornare a Roma, mandò nel 1353, il Card. Egidio Albornoz a riordinare lo Stato Pontificio.

PRIMA MISSIONE DEL CARDINALE NELLA MARCA

      Al suo avvicinarsi, quasi tutti i signori marchigiani si affrettarono a dichiararsi al suo servizio; e anche Gentile da Mogliano si recò a incontrare il cardinale a Foligno, nel 1354, e fece atto di sottomissione, per cui fu nominato dall’Albornoz Gonfaloniere di S. Chiesa. Essi erano persuasi che si trattasse di uno dei soliti Legati Pontifici della Marca, i quali in definitiva lasciavano il mondo come lo avevano trovato; ma quando capirono che il Cardinale aveva propositi seri e che intendeva comandare lui solo in nome della Chiesa, si unirono per combatterlo. Gli Ordelaffi di Forlì si allearono con i loro avversari Malatesta di Rimini, e convinsero il loro parente Gentile da Mogliano a ritirare l’obbedienza giurata al Cardinale.

      L’Albornoz era venuto in Italia con un forte esercito di bretoni e inglesi, capitanati da Blasco Fernando di Belvisio, suo nipote. Nel gennaio 1355, si insediò in Ancona e, abilissimo stratega, concentrò il forte del suo esercito a Recanati, località ideale, sia perché poteva ospitare molti soldati per la scarsità di abitanti (ricorda la peste dei sei anni prima) e la ricchezza delle campagne; sia perché in ottima posizione strategica al centro della Marca, divideva le forze dei signori alleati: quelli del Nord  guidati da Galeotto Malatesta; quelle del sud , da Gentile da Mogliano.

     La riconquista della marca avvenne in pochi mesi. Il 29 Aprile 1355, a Paterno presso Polverigi, l’esercito del Cardinale guidato dal nipote Blasco di Belvisio e da Rodolfo Varano di Camerino, si scontrò con l’esercito dei collegati e lo sbaragliò facendo prigioniero anche il suo capitano Galeotto Malatesta. L’onore di farlo prigioniero toccò al tedesco Everardo di Austop che ebbe perciò un ricompensa di 200 fiorini5.

     Subito dopo, il Cardinale inviò il nipote Blasco ad assediare Gentile che si era chiuso sul Girfalco. Dodici giorni durò l’assedio, poi Gentile si arrese, tra manifestazioni festose del popolo fermano. Il Cardinale gli fece grazia della vita, purché uscisse dalle terre della Chiesa, ed egli si rifugiò presso gli Ordelffi di Forlì suoi parenti.

   Nel Giugno 1355, la riconquista armata delle Marche era completa. Col parlamento tenuto a Fermo il 24 di quel mese il Cardinale dava inizio allla riconquista morale, alla pacificazione, con atti di clemenza verso i ribelli e raccogliendo giuramenti di fedeltà alla S Sede.

     Nominò Rettore della Marca il nipote Blasco di Belvisio; trasportò la Curia di Macerata a Fermo, e ne spiegò al Papa il motivo: “Ivi (a Macerata) risiedette quasi continuamente la Curia Generale della regione ed è un luogo molto adatto per la Curia e per i giuristi che vi si debbono recare; ma non è gran tempo  che la città di Fermo fu riportata all’obbedienza della Chiesa. Per meglio trarre i cittadini di quella città all’obbedienza e alla riverenza verso la Chiesa, vi fu trasportata la Curia Generale, dove al presente si trova, di che non sono affatto contenti i cittadini Maceratesi e mi sollecitano spesso perché io riporti la Curia presso di loro. E’ certo che starebbe meglio là, che a Fermo, per la maggiore facilità di accesso e centralità di tutta la regione. Non ho voluto cambiare niente, perché per mani sono neofiti” (cioè di fresco convertiti…..).

   Il Cardinale, pur avendo visto il popolo festante per la liberazione dalla tirannia, non si fidava troppo di Fermo; la definiva “labilis ut anguilla, volubilis ut rota”, alludendo alla mutevolezza della sua astuta politica utilitaria.

     Ammirava Fermo e il suo territorio, per la posizione strategica e per la sua ricchezza in agricoltura e nel commercio: “Poi viene la città di Fermo che la aeconda chiave della Marca e ragguardevole città, dove è un girone che è stimato la più bella fortezza della regione e che è custodito da un gran numero di soldati e da un capitano. E faccia attenzione il mio Signore, che il capitano sia fidato e fedele, come richiede il luogo, poiché quella città fu retta per lungo tempo da tiranni ed è ghibellina per la maggior parte. Benché nel governo non si debba troppo peso alle parole Guelfo o  Ghibellino, pure riguardo allo Stato della Chiesa, sono stimati e sono realmente più fedeli i  Guelfi, che i Ghibellini….”.

       “Questa città possiede il litorale riceve grossi introiti. Questa città ha un bel Contado, con molti bei castelli…”6.

     Anticipando le riforme che sarebbero state poi codificate nelle sue “Constituziones “ , il 22 Settembre 1355 ordinò che tutti i castelli fermani inviassero rappresentanti (sindici) per prestare giuramento di fedeltà avanti a lui, e di sudditanza alla città di Fermo 7.

Thener Documenta….. domini pontificii etc.. l. I descrutiones p. 343

“Queste sono le città e castelli che appartennero sempre al Presidato della Badia di Farfa: città di Fermo, città di Ascoli, Offida, Ripatransone, Monte Rubbiano, Monte Fiore, Penna San Giovanni ecc. (Dal Tenna al Tennacola, fino ai confini del Regno)”.

“Queste sono le città e castelli che appartennero sempre al Presidato Camerinese: città di Camerino, città di Ancona, di Osimo, di Numana, di Recanati, S. Severino, Matelica, Fabriano, Tolentino, Sarnano ecc.”

“Queste sono le città e castelli che appartennero sempre al Presidato di S. Lorenzo in Campo: città di Jesi, di Senigallia, di Fano, di Pesaro, di Fossombrone, di Urbino, di Cagli, Corinaldo, Mondavio, Orciano, Piagge ecc.”

Prima del Card. Albornoz, i Giudici dei Presidati portavano a termine le cause civili e criminali con la stessa autorità del Rettore di Ancona.

COSTITUZIONI EGIDIANE

      Le “Costituzioni Egidiane” sono il primo Codice dello Stato Pontificio. Per le Marche fu promulgato alla presenza di rappresentanti di tutta la Regione, a Fano, il 1° Maggio 1357. L’organizzazione egidiana delle Marche rimase in vigore fino alla legislazione napoleonica e, in parte, fino ai giorni nostri.

     Era necessario dare alla Marca un ordinamento politico e giurisdizionale più organico e unitario, per impedire l’isolamento dei piccoli Comuni, facile preda di tiranni. Il Rettore Pontificio della Marca veniva a trovarsi isolato, senza la possibilità di dominare e governare una regione bollente per passioni politiche, frazionata in una infinità di Comuni gelosi della propria indipendenza, con una amministrazione della giustizia insufficiente e per conseguenza, poco efficiente.

     Le Marche, fino ad allora, erano divisi in tre grandi circoscrizioni giurisdizionali che si chiamavano Presidati8; il Presidato Farfense con sede a S. Vittoria in Matenano, dove il Preside aveva il suo tribunale di appello per i Comuni del territorio Fermano e Ascolano, che comprendeva pressappoco il territorio dell’attuale provincia ascolana, con le città di Fermo, Ascoli, Offida, Ripatransone: il Presidato di Camerino, con sede in quella città che era la seconda delle Marche per le grandezza, che comprendeva il territorio tra il Chienti, l’Esino, dal qualedipendevano anche le città di Recanati, Osimo, Ancona e Fabriano: il Presidato diSan Lorenzo in Campo (Pesaro), che comprendeva il territorio dall’Esino al Foglia, con le città di Jesi, Senigallia, Fano, Pesaro, Fossombrone, Urbino.

     Il Preside, o Giudice del Presidato, aveva piena autorità giuridica nella sua circoscrizione; a lui andavano in appello le cause discusse nei tribunali dei podestà comunali, e definiva ogni controversia legale, con la stessa autorità del rettore9.

A differenza di questi, non sembra però che il preside avesse alcuna autorità in campo politico o militare.

      Le costituzioni e siriane cambiavano completamente questo ordinamento regionale.

     Benché allora fosse Fermo la città principali della Marca, il Cardinale scelse Ancona come sede di un governo regionale; composto da un Rettore, nominato direttamente dal Pontefice; un Tesoriere, pure nominato dal Pontefice con l’incarico di riscuotere le imposte; un Maresciallo e quattro Giudici, che formavano il Tribunale Superiore per la Regione10.

     A questo governo regionale e facevano capo gli “Stati”, o “province”. Essi erano: Ascoli, Fermo, Macerata, Recanati, Ancona,Jesi, Cagli, Pesaro, Urbino, Montefeltro11. Rimanevano poi i tre Presidati, ma ridimensionati nella loro ampiezza territoriale: Presidato Farfense di S. Vittoria, Presidato di Camerino e quello di San Lorenzo in Campo12.

     Ad ognuna di queste città facevano capo un numero più o meno grande di Comuni minori, che subivano l’influenza di esse. Il Cardinale stringe maggiormente vincoli tra questi Comuni e le loro città, esigendo che essi prestassero giuramento di fedeltà e pagassero un tributo a quelle, come a capitali13.

      Con questa organizzazione non ci abolivano i Comuni minori, ma si mettevano sotto il controllo della Città capoluogo di Stato. In essa infatti esisteva, oltre Consiglio Comunale che governava la città, un CONSIGLIO DI STATO che vigilava sui Comuni del contado. Il Consiglio di Stato a Fermo era composto, più o meno, da una decina di consiglieri, scelti dalla Città e dal Contado. Essi sorvegliavano l’amministrazione dei Comuni del contado; nominavano in quelli i Podestà; curavano la relazione tra i Comuni e la Capitale; determinavano i contributi e i servizi civili e militari dovuti da ogni Comune alla Città14.

     Per i Presidati la cosa era diversa. Facevano capo ai Presidatiati i Comuni che non erano inclusi negli Stati, ma dipendevano direttamente dalla S. Sede. Nel Presidato non c’era il Consiglio di Stato. Il Presidato era retto da un giudice che riceveva a nome della S. Sede il giuramento di fedeltà dai Comuni dipendenti e a lui andavano in appello le cause discusse nei tribunali dei comuni. Il Preside non si intrometteva nel governo dei Comuni, i quali erano amministrati dai loro Consigli Comunali e giudicati dai loro Podestà liberamente eletti15. La differenza era questa: mentre nei Presidati i Comuni avevano piena libertà, negli Stati la libertà comunale era limitata dal Consiglio di Stato. Da ciò si spiegano anche i continui contrasti tra Fermo e i maggiori comuni del suo contado.

SECONDA MISSIONE DEL CARD. ALBORNOZ NELLE MARCHE

     Dei signori che avevano dominato sul territorio della Chiesa restavano ancora in piedi Francesco Ordelaffi di Forlì e Giovanni Visconti da Oleggio, signore di Bologna. Costituivano due pericoli da eliminare, sia perché usurpatori di possessi della S. Sede, sia perché rianimando il partito ghibellino, potevano sovvertire il lavoro organizzativo costruito con tanta fatica nella Marca. Difatti l’azione demolitrice di questi signori era cominciata. Gentile da Mogliano, protetto dai parenti Ordelaffi si era accordato con il Conte Lando la cui compagnia stanziava nel Fermano. Ma Gentile cadde di nuovo nelle mani del Cardinale e il Giudice Generale della Marca, con sentenza del 12 Gennaio 1359, lo condannò a morte, insieme al figlio Ruggero e ad altri complici16.

     Battuti gli Ordelaffi e restituita Forlì alla chiesa, il 12 luglio 1359, il Cardinale si preparava a combattere contro i Visconti per riconquistare Bologna; ma Giovanni da Oleggio, signore di quella città, inimicatosi col suo signore Bernabò Visconti, offrì la città all’Albornoz. Questi prese possesso di Bologna e, in ricompensa, con accordi stipulati il 1 Marzo 1360, concesse a Giovanni da Oleggio il Vicariato a vita della città e territorio di Fermo e, l’anno appresso, il Rettorato della Marca d’Ancona; a sua moglie Antonia de Bancionibus il possesso a vita di Marano e Grottammare17.

     Giovanni da Oleggio, benché avesse fama di avere esercitato la signoria di Bologna con tirannia e crudeltà, a Fermo fu un ottimo governatore, mite e benefico coi sudditi; operoso per la città che abbellì di nuovi edifici e cinse di nuove mura. Ma per spiegare questo cambiamento, bisogna ricordare che il Cardinale stava quasi sempre a poca distanza e, in quei tempi, forse all’opposto dei tempi nostri, i buoni cani mordevano solo col permesso dei loro padroni. Governò Fermo per 6 anni e morì l’8 Ottobre 1366. Nella Cattedrale si può ammirare il bel sarcofago fattogli costruire dalla moglie Antonia Bencioni.

     I fastidi che non aveva dato al Comune di Fermo il Governatore li diede, dopo la morte di lui, la vedova Antonia, con continui pretese di denaro; richieste molte volte appoggiate anche da Cardinale, al quale i soldi di Fermo non costavano niente. Ma il Comune non sempre era disposto a pagare; e allora avvenivano screzi fra Comune e il Cardinale, il quale sapeva che con Fermo non bisognava mai tirar troppo la corda18.

FERMO DOPO IL CARD. ALBORNOZ

     Nella seconda metà del secolo XIX, Fermo era la città più grande di tutta la Marca, e la seconda dello Stato Pontificio. Ma quando diciamo città, non dobbiamo intendere, per quei tempi, il centro cittadino isolato, ma considerato unitamente al suo contado: Fermo era una  “Città-Stato”, i sessanta castelli attribuitigli dalle Costituzione egiziane erano considerati quasi sobborghi della città e i loro abitanti cittadini fermani19. Il fatto poi che ogni castello fosse libero Comune non recava pregiudizio alla loro unità con la Città-Stato. A Fermo, mentre un Consiglio comunale governava la capitale, un “Consiglio di Stato”, composto di consiglieri della città e del contado nominava nei vari castelli i Podestà i quali, collaborando con le autorità locali scelte dal popolo, rispondevano della sicurezza della fedeltà di essi verso la città madre.

       I castelli giuravano fedeltà al Comune di Fermo, pagavano adesso un tributo annuo come a capitale ed erano tenuti a mandare una rappresentanza alla cavalcata di Santa Maria(15 Agosto), portanto un “palio”, segno di sudditanza. La cavalcata partiva dalla chiesa di Santa Lucia e si svolgeva fino alla Cattedrale, attraverso vie e piazze fangose d’inverno e polverose d’estate; fiancheggiate da modesti palazzi di ricchi e da molti tuguri e case di terra dei poveri. Era l’annuale ostentazione della potenza fermana; di questa città che avrebbe potuto essere, oltre che ricca, anche felice, se avesse saputo trovare il modo di salvaguardare sempre la propria libertà, senza bisogno di estenuarsi nel dover sopprimere periodicamente i suoi tiranni.

     Però Fermo era veramente potente. Questa città-Stato contava diecimila fuochi, cioè diecimila famiglie che pagavano il focatico (allora come sempre contavano solo i ricchi e quelli che potevano pagare le tasse). Diecimila fuochi equivaleva a circa quarantamila persone; consideriamone il doppio non paganti, e arriviamo a circa centoventimila anime. Una popolazione così numerosa permetteva al Comune di Fermo di approntare, in caso di necessità, eserciti poderosi con poca spesa. Un ordine del Consiglio di Stato imponeva ai singoli castelli  un certo numero di fanti e di guastatori equipaggiati assistiti a spese loro; mentre restava al Comune della Capitale il peso sempre rilevante di ingaggiare qualche compagnia di ventura (gli specialisti della guerra), e di ripagare le possibili perdite di cavalli ai signori “Contadini”.

     Delle continue guerre dei Fermani che la storia ci documenta solo in qualche raro caso era guerra di popolo, poiché il popolo del Fermano era un popolo di pacifici lavoratori e commercianti; la quasi totalità di esse furono volute da tiranni irrequieti, i quali dicevano di agire in nome e a vantaggio del popolo fermano, mentre il popolo non c’entrava affatto. Al popolo interessava solo la pace, senza della quale si vanificavano i frutti della loro attività.

     L’agricoltura, la ricchezza maggiore del Fermano, era seriamente compromessa dalle azioni belliche. Pensate al passaggio, e qualche volta al soggiorno di una o più compagnie di venturieri nel territorio. Erano cinque, seicento e a volte migliaia di cavalli che si sfamavano, calpestando senza freno e divorando foraggere e campi di grano, togliendo gli agricoltori la speranza del raccolto e la possibilità di nutrire il proprio bestiame. E io mi sono domandato spesso, con tutta quella moltitudine di cavalli, che cosa restava per i buoi e per le pecore.

     E anche per gli uomini; poiché quelle migliaia di soldati, i quali avevano intrapreso quel mestiere brigantesco per tentare di far fortuna e di arricchirsi col bottino, presentandosi l’occasione, estorcevano quanto potevano, non contentandosi dello stipendio elargito dai loro capitani, il più delle volte impossibilitati a mantenere la disciplina. Qualche cosa si poteva a stento salvare, fungendo con le bestie e con quel poco che si poteva trasportare in luoghi meno insicuri. Ma il lavoro languiva con la prospettiva di un lungo travaglio per riparare i gravi danni dei campi e dei casolari, e dei due mali che di solito seguivano ogni esercito: la fame e la peste.

     Con la guerra languiva il commercio. Le strade esposte al ladroneggio dei venturieri e alle insidie dei fuorusciti non erano sicure per il trasporto di frumenti, delle lane, della canapa, merci che abbondavano nel contado fermano, ma dovevano raggiungere il Porto per diventare retributive. Alla metà del secolo XIV, il porto di Fermo era ancora molto attivo, benché incominciasse a sentire la crisi che si profilava per i porti minori, causa le modifiche che si stavano introducendo nella costruzione delle navi. La numerosa flottiglia Fermana incominciava a non poter più competere commercialmente con le grandi navi moderne di Venezia e di Ancona, non più a chiglia piatta ma ad angolo, le quali, oltre ad essere più sicure per la maggior immersione, permettevano il raddoppio del carico. Esse non entravano nel porto fermano a causa del basso fondale; e se anche qualcuno aveva la compiacenza di trasbordare merci nelle navi fermane lontano dalla costa, preferivano sempre, per risparmio di tempo, filare direttamente sui porti maggiori. Ma la flotta fermana era sempre valida per il commercio sull’Adriatico: esportava nei porti adriatici prodotti fermani, rilevava dai grandi porti le merci orientali e le commerciava nei porti minori. Si restringeva un po’ il campo d’azione, ma restava sempre forte di lavoro e di ricchezza per lo Stato. Ha ragione il cardinale Albornoz e diceva: “Fermo possiede la costa adriatica, dalla quale riceve grandi introiti”.

RINALDO DA MONTEVERDE

     Il Card. Albornoz e morì ad Orvieto, nell’agosto 1367.

Per sua grandiosa realizzazione politica avrebbe avuto ancora bisogno di lui, perché l’organizzazione dello Stato Pontificio così laboriosamente costruita avrebbe dovuto consolidarsi sotto la sua guida, per aver garanzia di durata.

     Aveva affidato Fermo a Giovanni Visconti da Oleggio, e Ascoli a suo nipote Gomesio conte di Spanta, i quali per un po’ di tempo mantennero ordine nei due Stati, come lo permettevano quei tempi feroci, ma pace e sicurezza non ci furono nemmeno in questo periodo.

     Il Duca di Milano, Bernabò Visconti, incitava i Ghibellini marchigiani, offrendo il suo appoggio; i fuoriusciti e i soldati di ventura, privi di lavoro e di stipendio, si univano in gruppi e si davano al brigantaggio; gli ufficiali di Curia e gli impiegati dello Stato si erano resi insopportabili, per la loro esosità20. Il signore di Ascoli, Conte Gomesio, seppe liberare il suo Stato da una compagnie di ventura, detta “Compagnia degli Inglesi” spedendola a combattere in Sabina contro altri venturieri; ma ormai era invalso l’uso tra i signori e tra i regnanti di affittare queste compagnie di miserabili, che oggi chiameremmo briganti e di legalizzarne le rapine e le atrocità, perché fatte in nome loro che si dicevano signori. E per più di due secoli le Marche furono sottoposte a questo flagello, perché data la posizione la fertilità della Regione, qui si dirigevano, o di passaggio, o di fazione, o per svernare.

     Firenze, dominata da una oligarchia di nobili, si alleò con i Visconti e, nel 1375, costituì una lega ghibellina, alla quale man mano aderivano i signori marchigiani.

     A Fermo il malcontento popolare che era stato esasperato dalla carestia che si era aggiunta agli altri mali nell’annata 137421, sfociò in una ribellione popolare che causò la morte del Podestà Gregorio De Mirto da Ripatransone e la cacciata del vescovo Nicola De Merciariis . Il disordine e la confusione portarono la signoria di Rinaldo da Monteverde, nipote del Mercenario, di funesta memoria. Nel Febbraio 1376, anche Ascoli si ribellò al Conte Gomesio che si chiuse sul Castello del Monte22.

     Con un forte esercito di Fermani, Rinaldo occupò Ascoli, ”per salvarla dalla rovina”, dice Anton de Nicolò, ma in realtà per appoggiare i ghibellini ascolani contro il Conte Gomesio che si difendeva molto bene chiuso sulla fortezza; e questa situazione durò dieci mesi.

     Ma c’era per i ghibellini un altro pericolo: Ripatransone, sempre guelfa e alleata di Ascoli, avrebbe potuto tentare di portare aiuto al Conte Gomesio. Rinaldo la prevenne, spedendo contro di essa una schiera di Fermani, nel Maggio 1376; però la fortezza del luogo, il valore dei cittadini guidati dal loro capitano Carosino, costrinse i Fermani a togliere l’assedio; e se ne andarono, recando, secondo la bestiale usanza di allora, gran guasto alle campagne; bruciando case, tagliando viti e devastando seminati23.

     Questo impegnare le forze fermano in più imprese contemporanee forse non andava a genio a molti Fermani, specialmente ai signori “Contadini”; lo possiamo arguire da una frase delle “Cronache”. Il 4 giugno 1376, tenendo ancora un forte contingente fermano in Ascoli, Rinaldo assalì la guelfa S. Elpidio; Anton De Nicolò dice: “con pochi Fermani e Contadini che lo seguivano malvolentieri”. L’assalto durò solo cinque giorni.

     Di nuovo Fermani e Contadini, tra i quali Ludovico da Mogliano e Boffo da Massa, furono chiamati all’esercito contro Ripa, sotto la guida del capitano fermano Tommaso Iacobucci ( indignus et malus homo). Si trovarono sotto Ripatransone il 13 Settembre 1376; ma tra i capitani dell’esercito fermano successero baruffe, e il giorno stesso l’esercito tornò a Fermo, dove Rinaldo fece decapitare sulla piazza diversi onorati cittadini.

     Finalmente, il 17 Gennaio 1377, Gregorio XI (1370-1378, l’ultimo Papa francese, vinto dalle preghiere di Santa Caterina da Siena, tornò a Roma. Le sue preoccupazioni erano innumerevoli, poiché quasi tutto lo Stato era in rivolta; sulla collaborazione dei Cardinali poteva far poco affidamento; gli ufficiali dello Stato erano corrotti e infedeli.

     Cercò di rianimare la fiducia nelle zone restate sempre fedeli come Santa Vittoria e Camerino, promettendo ricompense e “soldati, ora che il Rettore ne ha tanti”24; ma ahimè, erano soldati di ventura bretoni, i quali, appena un mese dopo il suo ritorno a Roma, gli combinarono la “strage di Cesena” che valse ad accrescere la rabbia ghibellina, a raffreddare i Guelfi e ad aggravare le angustie del Papa che ne morì il 27 Marzo dell’anno dopo.

    La Lega fiorentina si mostrava sempre più irriducibile contro la S. Sede; però fortunatamente tra i Ghibellini non c’era un ideale comune. Le mire personali rendevano precario il loro accordo: Firenze aderiva ai Visconti sapendo che presto avrebbero dovuto combatterli; e i signori delle Marche partecipavano alla Lega fiorentina, ma non avevano nessuna intenzione di farsi dominare da Firenze. E anche tra i signori marchigiani un accordo sincero era impossibile; prova ne sia il fatto che il segretario fiorentino Salutati deve intervenire per mettere d’accordo Rinaldo da Monteverde e il suo lontano parente Boffo da Massa che reclamava il possesso di Carassai; e ambedue facevano parte della Lega25.

     Gregorio XI, stando ancora in Avignone, aveva scritto gli Anconetani che trovassero il modo di combattere contro i Fermani e ridurli all’obbedienza. Ci furono scontri di poca importanza, perché Ancona doveva badare che non intervenisse Venezia, alleata di Fermo. Ma l’11 giugno 1377, giorno di San Barnaba, dice De Nicolò, un esercito di Bretoni, guidato da Rodolfo Varano, occupò S. Elpidio; vinse l’esercito fermano presso il Tenna e si spinge fino al Colle di S. Savino, facendo più di trecento prigionieri fermani. Nel successivo 8 Settembre, “Natività della Vergine”, Rinaldo, appoggiato da seicento lancieri del Conte Luzio (compagnia di ventura), da Bartolomeo di San Severino e da Francesco di Matelica, rioccupò S. Elpidio abbandonandola al saccheggio e incendiandone una metà. Nel bottino fu compresa la preziosa Reliquia della Sacra Spina che fu portata a Fermo e sistemata nel tempio di Sant’Agostino. Poi cacciò da Montegiorgio il Varano e lo inseguì fin nella valle del Fiastra, dove, intervenuti in massa i combattenti di San Ginesio, Rinaldo riportò una terribile sconfitta che accelerò la sua fine.

     Il 24 agosto 1378 (S. Bartolomeo), mentre Rinaldo risiedeva Montegiorgio, i Fermani, aiutati dai comuni di Ancona, Recanati e da Rodolfo di Camerino, espugnarono il Girfalco, permettendo però che la moglie Luchina e figli Mercenario e Luchino che vi si erano rinchiusi si riunissero a lui. Ma, non rassegnandosi a perdere il dominio di Fermo, poco dopo, Rinaldo riordinò il suo esercito rafforzandolo con mercenari, nell’intento di rioccupare la città. I Fermani lo cacciarono da Montegiorgio e lo inseguirono fino a Montefalcone, dove lo assediarono per vari mesi. Sabato 2 Giugno, 1380, il capitano di ventura Egidio da Monte Urano lo tradì per mille ducati e aprì il castello ai Fermani. Rinaldo ed i suoi caddero prigionieri e furono condotti a Fermo. Il giorno di San Bartolomeo fu in seguito dichiarata “festa comunale”26.

     Anton De Nicolò ci ha lasciato una dettagliata descrizione della tragica fine di Rinaldo, della moglie Luchina e dei figli Mercenario e Luchino: “furono presi e condotti a Fermo. Entrarono per porta San Giuliano, ciascuno su un asino, cavalcando alla rovescia, con gran festa del popolo. Furono condotti in piazza avanti ai Priori di Fermo; e cosa da notare, gli abitanti di ogni contrada, specialmente i giovani, fecero abiti nuovi, ogni contrada col proprio colore; e mentre i vari gruppi erano in piazza San Martino festanti intorno ai loro capi, Rinaldo, Mercenario e Luchino suoi figli, nella detta piazza al cospetto di tutti furono decapitati”27.

     Fu messa in piazza San Martino una lapide che recava scolpita la testa di Rinaldo, con scritta: “Tiranno fu pessimo et crudele”.

     Rinaldo fu il terzo di Contadini eliminati in un secolo dai Fermani, per liberarsi dalla loro tirannide: ma non finì con lui questa e genìa di prepotenti.

I CASTELLI

che componevano lo Stato di Fermo, riportati negli Statuti Comunali, erano una ottantina. Qui ne ometto alcuni che non esistono più: o sono difficilmente individuabili.

   Sono distinti in:

    Maggiori

Grottammare – Petritoli – Servigliano – Falerone – Montefiore – Sant’Angelo in Pontano – Loro – Mogliano – Monte S. Pietrangeli.

     Mediocri

San Benedetto in Albula – Massimiano – Campofilone – Altidona – Lapedona -Monte Giberto – Rapagnano – Torre di Palme – Belmonte – Montefalcone – Smerillo -Torre S. Patrizio – Gualdo – Montottone – Marano -Porto (S. Giorgio.)

     Minori

Moregnano – Moresco – Torchiaro – Ponzano – M. Vidon Combatte – Collina –

M. S. Pietro Morico – Ortezzano – M. Leone – Grottazzolina – Acquaviva – S. Andrea – Petriolo – Monte Urano – Francavilla – Magliano – Cerreto – M. Vidon Corrado – Massa – M. Verde – Pedaso – Boccabianca – Castelletta di Petriolo – Mercato – Castrum Guardiae – Partino – Monte Varmine – M. Rinaldo – Alteta – Gabbiano – C. S. Mariae Matris Domini (oggi S. Marco di Ponzano) – Montappone – Poggio fuori Grottazzolina – Chiaromonte – Castello sotto S. Elpidio (oggi Casette) – Bucchiano.

     Cura particolare avevano i Fermani per i Comuni marittimi. Gli abitanti di San Benedetto sono dispensati dalle tasse, ma in cambio devono provvedere alla guardia del castello diurna e notturna e fortificare gli steccati verso il mare. (l. II p.69).

     Guardie per vigilare i porti: dieci a Torre di palme; sei a Boccabianca; dieci a Marano; dieci a Grottammare; quattro a San Benedetto (l II p.57).

NOTE

1       THENER – Documenta Domini Temporalis etc. p. 113 “…..si dictus rector sit bene fortis et  

         habeat ad sufficientiam de stipendiariis, dictaMarchia erit semper in obedientiam … et credit

         quod sufficerent CCCC vel D equites……

         ….. Se il diritto rettore sarà ben forte e avrà mercenari a sufficienza, la marca sarà sempre in

         obbedienza per questo sarebbero sufficienti quattrocento  o cinquecento cavalieri.….

2       COMPAGNONI – Regia Picena . I v. pag. 214 (Macerata MDCLXI).

3       LIBER STATUTORUM (di S. Vittoria). Ecco la rubrica I, del libro III p. 101: “Nessuno osi o

         presuma nominare o acclamare nel nostro paese o nel suo territorio, per la protezione di

        esso…. qualche signore, o Comune, o alcun partito guelfo o ghibellino, pena 200 denari di

        multa”. E questo avveniva anche in altri Comuni.

4      THENER – Documenta Domini Temp. etc.  – vol. II p. 110 –Ismeduccio di San Severino era stato

        focoso ghibellino, ma in questo periodo (circa il 1340) era ardente sostenitore dei diritti del

        Papa.

5     F. FILIPPINI – Il Card. Albornoz . Bologna 1933 c, IV p, 86. Dall’Arch. Vat. Introiti ed esiti- “Die VI

        Junii solutum fuit Everardo Austorp pro captura D. Galeotti de Malatesti in conflictu belli

        Paterni facto die 29 Aprilis ….. pro dicta captione, CC flor

6     THENER – Documenta etc. – v.II Descriptiones p. 356

7      SERAFINO PRETE – Documenti Albornoziani . pp. 16-17-18.

8      THENER – Documenta etc. Descr. March. – v. I p. 343

9      “Ab antiquo est constitutun”, dice il Albornoz, “che il Giudice del Presidato giudichi e porti a

         termine le cause civili e criminali con la stessa autorità del Rettore Generale della Marca. Ma

         siccome è più conveniente secondo il diritto che le cause maggiori siano discusse in un

         tribunale dove ci sia un maggior numero di periti, stabiliamo che le cause riguardanti i diritti e

         il territorio delle varie città; le cause riguardanti rivendicazioni contro la Sede Apostolica e il

         Rettore; le cause tra il fisco e privati, non vengano giudicate dal preside, ma dal Rettore e dai

         suoi giudici”.

10    F. FILIPPINI – Il Cardinale ecc. c. VI p. 142 (Bologna 1933).

11    FRANC. BONASERA – Il  Card. Albornoz nel VI centenario delle Cost. p. 9.

12    POMPEO COMPAGNONI – Regia Picena p. 222.

13    SERAFINO PRETE – Documenti Albornoziani – p. 16 – dalla pergamena 998 dell’archivio di

         Fermo.

14    ANONIMO FERMANO – p. 252, incluso nelle Cronache Fermane del Montani.

15    COLUCCI – A. P. t. XXXI p. 8 e seg. Sono molti i documenti che possono confermare quanto

         esposto. Non mi dilungo a riportarli. Invito piuttosto il lettore ad ammirare il genio

         organizzativo politico del Card. Albornoz e il suo spirito democratico, tanto più mirabile,

         perché attuali, dopo seicento anni.

16    Vedi SERAFINO PRETE – Documenti Albornoziani – doc. IX p. 18.

17    G. DE MINICIS – Di Giovanni Visconti da Oleggio Signore di Fermo(Roma 1840).

18    S. PRETE – ivi doc. XIII – XIV p.20

19   Gli Statuti Comunali alla rubrica 49 pag. 28, dice cittadini Fermani tutti quelli che prestano

         servizio per la città, o lo hanno prestato per cinque anni, o sono iscritti tra i paganti il focatico.

20    Riccardo di Saliceto, in una lettera, diceva al Papa: “(gli Italiani) Mai si allontanarono dalla

         Chiesa e dalla Santità Vostra, ne intendono allontanarsi, ma dai vostri diabolici  ministri…..”.

21    ANTON DE NICOLO’, nella sua cronaca, dice che una salma di grano costava 19 fiorini; una di

         orzo 6 ducati, una di spelta 5.

22    MURATORI – Rer. ital.: “Anno 1376, Asculum oppidum, die ultima mensis Februari defecit

         Ecclesia ubi erat Gomesius de Boniza nepos Card. Egidi; aufugit in arcem ubi se defendit per

         decem menses etc.” (Tanursi in Colucci t. XVIII pp. 41-42).

23     DE NICOLO? – Cronache Fermane

24    COLUCCI – A. P. t. XXIX . doc. VIII p. 202

25    POLINI – Storia di Carassai – p. 75 “Domino Boffo Amice carissime. Lamentatur Dominus

         Rainaldus quod tu contra Statum suum aliquod comitatinos, nobilesque firmanos sub pretestu

         nostri subsidii niteris concitare.Quod si verum foret, foret tua nobilitas multipliciter

         reprehendenda. Scis enim Dominum Rainaldum esse de nostris principalibus colligatis,contra

         quem attentari,  contra unitatem est Ligae etc,

         Amico carissimo. Il signor Rinaldo si lamenta che tu sobilli alcuni nobili di campagna e di città

         contro il suo governo, vantandoti del nostro appoggio. Se ciò fosse vero, la tua nobiltà sarebbe

         molto ripresibile; poiché sai che il signor Rinaldo è uno dei nostri principali collegati. Attentare

         contro di lui attentare contro l’unità della Lega.

26    STATUTI – p. 5 – “Cum populus civitatis Firmanae fuit in die Beati Bartolomei Apostoli

         tirannica rabie liberatus, et ut dona quae capiuntur a Deo intercedentibus meritis Sanctorum

         eiusdem non tradantur oblivioni, statuimus et ordinamus quod singulis annis in perpetuo in

         conservationem memoriae prelibatae,  in die festi et vigilia S. Bartolomei Ap.  de mense

         Augusti, fieri debeat  aliquof festum singulare ad honorem et reverentiam S. Bartolomei

         predicti, secundum deliberationem et voluntatem DD. Priorum populi et Confaloneri iustitiae,    

         qui pro tempore erunt, una cum regolatoribus dictae civitatis; et quod circa festum et

         solemnitatem fiendam in dicto festo possint dicti Domini espendere de pecunia et havere dicti

         Communis usque ad viginticinque libras denariorum absque alia deliberatione Cernitae vel

         Concili specialis, vel generalis”.

27    “Eodem Anno et die II mensis Junii, supradictus dominus Rainaldus cum omnibus

          Supranominatis fuerunt deducti ad civitatem Firmi ad portam Sancti Juliani,

          Quilibet fuit portatus in uno asino cum ore retro, cum corona spinea in capite et fuerunt ducti

          coram dominis Prioribus Firmi per se, iuvenes et etiam alii, fecerunt vestimenta nova, qualibet

          contrada de uno eodomque colore  per se, et aliae per se et sic de singulis,; et illico,  dum

          omnes brigatae essent in platea S. Martini et tripudiarent cum dominis predictis, dominus

          Rainaldus et dominus Mercenarius et Luchinus fuerunt decapitati”. (A. De Nicolò – Cronache p.7.

CAPITOLO VIII

FERMO E LO SCISMA D’OCCIDENTE

DAL 1380 AL 1433

     quando i germani si sollevavano contro qualche tiranno, gridavano “Viva la chiesa e lu popolu liberu”; e anche quando eliminarono Rinaldo da Monteverde, cercarono la libertà nella sottomissione alla Chiesa; ma questa era gravemente malata e non poteva garantire a Fermo quella libertà che nemmeno essa godeva.

     L’8 aprile 1378 era stato eletto Papa Urbano VI (1378-1389), un Papa di vita irreprensibile, ma eccessivamente severo e rigoroso, tanto che più volte Caterina da Siena è costretta a raccomandargli di usare mansuetudine e di non farsi trasportare dall’ira1.

     I Cardinali francesi, il 20 Settembre successivo, si adunarono in Anagni ed elessero Roberto di Ginevra, col nome di Clemente VII, dichiarando irrregolare l’elezione di Urbano VI, avvenuta anche col loro voto pochi mesi prima. Clemente VII si stabilì in Avignone; Urbano VI restò a Roma, e il mondo cattolico si divise; una parte per Avignone, una per Roma, e ne nacque una incredibile confusione, nella quale non ci si raccapezzavano più nemmeno i Santi; vediamo infatti Caterina da Siena, domenicana, sostenere Urbano VI; invece San Vincenzo Ferreri, pure domenicano, parteggiare per l’antipapa.

     Fu forse il più grave disastro mai sopportato la Chiesa2; e uno dei più gravi pericoli che incombé sull’Europa, poiché i Turchi avanzavano nei Balcani, minacciando di ingoiare la civiltà europea.

ANTONIO DE VETULIS

     La Marca fu una delle zone che più ebbero a soffrire in conseguenza dello scisma. A Fermo il primo ad esserne travolto fu il suo Vescovo Antonio de Vetulis (1375-1385), viterbese, uomo di grande intelligenza di profonda cultura giuridica. Fu nominato Vescovo di Fermo da Gregorio XI, nel 1375, in sostituzione del vescovo Nicola Marciari trasferito in altra sede. Forse il Papa fu costretto a quella sostituzione, poiché, benché il Catalani non faccia cenno dei motivi che lo provocarono, Anton de Nicolò dice che il popolo fermano, nel 1375, “rebellavit contra pastorem Ecclesiae”. Sapendo dal Catalani che il vescovo Nicola, dopo essere stato trasferito in varie sedi, finì vescovo titolare, possiamo arguirne che era un vescovo difficile, e accettare la notizia della rivolta popolare. Data la disperazione nella quale in quell’anno 1375, si trovava il popolo fermano, per la carestia cominciata l’anno prima, bastava poco per suscitare una rivolta.

     Sia per questo stato di agitazione, sia perché Antonio de Vetulis quando fu nominato vescovo, benché fosse dottore in legge, aveva solo gli Ordini Minori e si richiedeva un po’ di tempo per ricevere i Maggiori e la consacrazione episcopale, solo nel 1377, partì per la sua diocesi Fermana. In una lettera di quell’anno, Gregorio XI raccomanda al Comune di Santa Vittoria di aiutare il Vescovo con tutti i mezzi ed assisterlo nel recupero di beni diocesani perduti3. Ma qualche mese prima, Rinaldo da Monteverde si era impadronito di Fermo, e il vescovo Antonio dové tornare indietro per rifugiarsi a Roma, dove poté partecipare alla elezione di Urbano VI, l’8 aprile 1378. Eletto nel settembre successivo l’antipapa Clemente VII, forse dietro preghiera di amici francesi, sottoscrisse un livello, nel quale si sosteneva l’invalidità dell’elezione di Urbano VI; ma seguitò a mostrare devozione verso quest’ultimo per parecchi anni.

     Ci possiamo domandare: era persuaso Antonio de Vetulis che la elezione di Urbano VI era invalida?. Conoscendo il suo ingegno e la sua sapienza giuridica, dovremmo rispondere negativamente; ma forse l’argomento era tanto arruffato, da confondere non solo i santi, ma anche i giuristi. Non possiamo però seguire il Catalani quando afferma che il De Vetulis macchiò la sua condotta “turpissimo scelere”. Qui non si tratta di scelleraggine, ma di condotta intelligente e astutissima: quell’astuzia che il vescovo Antonio possedeva in sommo grado, che gli viene attribuita a lode anche nella iscrizione sepolcrale: ”astutus in omni” occupava nella chiesa un alto grado e l’altissima dignità di vescovo di Fermo, la più importante sede vescovile dello Stato Pontificio; non se la sentiva di mettere in pericolo la sua posizione, schierandosi per una delle parti in conflitto, e scelse la poco dignitosa condotta del doppio gioco. Non si poteva sapere quale fine avrebbe fatto Urbano VI, poco amato per la durezza del suo carattere; come non si poteva prevedere la sorte dell’antipapa Clemente VII, seguito forse dai più. Il De Vetulis credette opportuno affidarsi alla propria astuzia e mantenere il piede su due staffe. Andò ad ossequiare l’antipapa in Avignone; partecipò al convegno di Salmatica favorevole a Clemente VII e seguitò ad essere umile servitore di Urbano VI. Astuta condotta politica, con la quale tenta di non farsi travolgere dagli eventi, ma che non intacca affatto la sua fede il suo zelo per la Chiesa e per la sua Diocesi, perché non si trattava di eresia.

     Nel 1385 il suo gioco finì. Chiamato a Genova, dove si trovava temporaneamente il Papa insieme ad alcuni Cardinali tenuti sotto particolare vigilanza (poiché non erano astuti come lui), il Vescovo fermano, sospettando qualche pericolo, fuggì e ritornò a Montottone, sua abituale residenza. Urbano VI ordinò al Comune di Fermo di occupare Montottone, per togliere al Vescovo la possibilità di andare girando liberamente. I Fermani assalirono Montottone, ma furono respinti; tentarono un nuovo assalto, e il castello preferì scendere a patti; però il Vescovo non si trovò in paese, poiché Montottone che gli era affezionato, aveva protetto la sua fuga per destinazione ignota4.

     Al suo posto, Papa Urbano nominò Vescovo Angelo dei Pierleoni (1385-1390) di nobile famiglia romana, che tenne la Diocesi per circa cinque anni.

     Nel 1389, morto Urbano VI, fu eletto Bonifacio IX (1389-1404). L’anno seguente, alla morte di Angelo Pierleoni, a richiesta dei Fermani, Bonifacio IX volle che Antonio De Vetulis riprendesse la Diocesi fermana (1390-1405). In questo 2º periodo di episcopato il De Vetulis fu veramente insigne. Godette della piena fiducia di Bonifacio IX che se ne servì per numerose importanti incarichi, tanto che si può dire Antonio il più grande collaboratore di questo Papa.

     Fermo deve riconoscenza al Vescovo De Vetulis per la sua guida sapiente e per il Palazzo Vescovile, costruito da lui a proprie spese, su un’aria pure acquisita con denaro proprio, nel 13915. Morì nel 1405, un anno dopo Bonifacio IX.

     Soppresso Rinaldo da Monteverde, Fermo riacquistò la libertà, ma non poté goderla, perché quel periodo non permetteva la tranquillità.

     Nell’agosto 1382, scoppiò una peste che durò tre mesi e falciò nella città circa tremila persone. Nel 1383, l’esercito fermano dovette ricacciare il Duca di Camerino da Sant’Angelo in Pontano. Nel 1385, per ordine del Papa, dové marciare contro Montottone per imprigionare il proprio Vescovo; sbarazzare Montegiorgio dagli avanzi dell’esercito di Rinaldo e mandarvi per podestà Ludovico di Antonio, e ristabilire il governo fermano su altri castelli sottratti allo Stato. Nel 1387, il 4 Settembre, fu ucciso a Carassai Boffo da Massa, e quel Comune insieme a Cossignano e Porchia, che costituivano il suo dominio, tornarono a Fermo6.

     Nello stesso anno, Boldrino da Panigale, mandato nella Marca dal Governo Pontificio in aiuto ai Guelfi con 150 cavalli, per sostenere il suo esercito, razziò la zona tra Monte Urano e Fermo 200 bovini e 600 ovini.

     Nel 1390, Bonifacio IX rimandò a Fermo il Vescovo Antonio di Vetulis molto amato dai Fermani e nominò Rettore della Marca il proprio fratello Andrea Tomacelli, con soddisfazione dei Fermani e in genere di tutti i Marchigiani. I ghibellini intensificarono la loro azione di rivolta e, nel 1392, riescono a formare una lega delle principali città marchigiane: Ancona, Macerata, Fermo, Ascoli e altre; assoldano Biordo dei Micheletti da Perugia e, nel 1393, sconfiggono il Rettore e lo fanno prigioniero. A Fermo, capo della rivolta era Antonio Aceti, Gonfaloniere del Comune, che chiamò Luca di Canale e Conte di Carrara a sostegno del suo partito.

     Bonifacio IX chiamò a guidare l’esercito della Chiesa Antonio Acquaviva, sotto del quale militavano Marino Marinelli e Otto Mazarino Bonterzi, ambedue di S. Vittoria. Il Papa scrisse a questo Comune di accogliere e assistere il fratello Giovannello che stava per arrivare con cinquecento cavalli7. Otto Mazarino Bonterzi riuscì a occupare Fermo e porre l’assedio al Girfalco, mentre per il valore soprattutto della cavalleria di Marino Marinelli, l’esercito dei collegati, guidati da Biordo dei Micheletti, venne disperso a Monte San Giusto e il Rettore liberato. Intanto i Ghibellini fermani si erano risollevati e agitavano la città. Marino Marinelli riuscì a entrare di soppiatto nel Girfalco; rioccupò la città e costrinse Antonio Aceti a cedere il posto al Rettore e a lasciare Fermo. Il Rettore Andrea Tomacelli entrò a Fermo per Porta San Giuliano, festeggiato dal popolo, nel 1397.

     Il Girifalco fu affidato alla custodia del nobile capitano Zambocco  di Napoli. Le conseguenze della guerra si sentirono a lungo per i saccheggi di venturieri, per l’aumentata miseria dei poveri, per le malattie che seguivano sempre le guerre.

     Nel 1398, il Conte di Carrara saccheggiò alcuni paesi dell’Alto Fermano, tra i quali il Monte Vidon Corrado, liberata poi da Marino Marinelli che lo mise in fuga8.

     Nell’estate del 1399, comparve qualche caso di peste. Alcuni pellegrini che tornavano da Terra Santa dissero che il più efficace rimedio contro la peste era la costruzione di una chiesa in onore della Madonna della Misericordia. L’ultimo venerdì di Ottobre 1399, (era il 31 Ottobre, “quarta hora noctis”) si cominciò a costruire la chiesetta della Misericordia; in capo alla piazza San Martino9, e il giorno dopo, sabato 1° Novembre (alle 23 del giorno), fu consacrata con grande solennità; vi fu celebrata pure una Messa Novella10.

     L’anno seguente, la peste infierì più violenta e causò in città la morte di duemila  persone e nel contado più di quattromila.

     In quell’anno cominciarono pure nella nostra regione le processione dei “Bianchi”. A centinaia uomini e donne vestiti di bianco per le gravano da una chiesa all’altra e da un paese all’altro, pregando e cantando l’inno di Jacopone da Todi: “Stabat Mater”11. Non mancavano scene di incredibile fanatismo, da parte di gruppi di penitenti guidati da esaltati e da imbroglioni.

     Molti di questi pellegrinaggi avevano per meta la Cattedrale di Fermo, poiché ricorrendo l’anno del Giubileo, il capitano del Girfalco Zambocco ottenne da Bonifacio IX una bolla, per la quale le indulgenze del Giubileo si potevano lucrare anche nella Chiesa Cattedrale12.

DAL 1400 AL 1417

   Per evitare grande confusione nella mente del lettore, è necessario semplificare la narrazione di questo periodo agitatissimo, attenendosi a fatti principali, necessari per capire la storia fermana.

  Dalla confusione in campo religioso cercavano di trarre vantaggio in campo politico quasi tutti i governanti italiani. Ladislao, Re di Napoli, sostenendo il legittimo Papa, allargava il suo dominio sulle terre della Chiesa; altrettanto tentava di fare la Repubblica di Firenze, che aveva guadagnato l’adesione di molti signori dell’Umbria e delle Marche; e appoggiava l’antipapa. Anche Carlo Malatesta di Rimini, che era forse il più sincero sostenitore del Papa legittimo, aveva i suoi motivi politici per farlo, poiché la potenza della scismatica Firenze era un grave pericolo per il suo piccolo Stato.

     Fermo sopportò tutte le conseguenze disastrose dello Scisma. Nel 1404, fu eletto Papa Innocenzo VII, di Sulmona, che nominò governatore di Fermo e Rettore della Marca il nipote Ludovico Migliorati. Morto il vescovo Antonio De Vetulis nel 1405, il Migliorati ottenne dal Papa che fosse trasferito alla Diocesi di Fermo il Vescovo di Ascoli a Leonardo De Fisicis, pure di Sulmona, che gli storici dicono ubriacone e vizioso13

     A questa sventura si aggiunse, nel 1406, la morte di Innocenzo VII e l’elezione di Gregorio XII, (1406-1416) veneziano, che forse con poca oculatezza politica, volle togliere al Migliorati e la rettoria della Marca e il governo di Fermo. Ludovico Migliorati non si piegò e, pur perdendo la rettoria della Marca, restò signore di Fermo, cercando di mantenere buone relazioni col Re di Napoli.   

   Sentendosi in pericolo perché in disgrazia del Papa, divenne sospettoso e a volte crudele. Nel 1407, in una riunione del consiglio comunale, volendo il Migliorati imporre la sua volontà, si alzò Antonio Aceti14 che lo apostrofò: “in buon hora, lassate fare a li Priori, e se non volete, rimandateli a casa”. Il Migliorati, conoscendo bene il personaggio e vedendo in lui un pericolo per la propria signoria, il giorno dopo, fece prendere e decapitare l’Aceti con alcuni familiari ed amici.

     Nel 1409, si adunò un Concilio a Pisa che, il 26 Giugno di quell’anno, dichiarò deposti i due Papi, Benedetto XIII e Gregorio XII, proclamando solo Papa legittimo Alessandro V, eletto dal Concilio. Il risultato fu che, invece di due Papi se ne ebbero tre, peggiorando la confusione. Ludovico Migliorati, credendolo ormai il partito più sicuro, seguì le parti di Alessandro V, poi del successore Giovanni XXIII, antipapi sostenuti dalla Lega fiorentina, i quali gli confermarono la signoria di Fermo e il rettorato della Marca. Anche la Diocesi Fermana fu per vari anni in sua balìa, poiché osteggiò accanitamente i vescovi nominati da Gregorio XII e costrinse i vari antivescovi che si susseguirono a sottostare al suo arbitrio.

     Ludovico Migliorati fu il più fortunato tra i tiranni di Fermo, poiché, dopo aver tenuto più a lungo di tutti la signoria della città (33 anni), riuscì a morire nel proprio letto; ma nessuno collazionò più umiliazioni di lui, poiché in campo militare fu un imbelle.

     Il 23 Ottobre 1413, Carlo Malatesta si mosse contro Fermo. Da Montolmo assalì Francavilla, espugnando la “con una bombarda grossa che scagliava pietre pesanti più di 100 libbre”15, e in tre giorni, occupò Alteta, Cerreto, Montegiorgio, Falerone, Monte Vidon Corrado, Montappone, Massa, Mogliano.

     Nella notte tra il 26 e 27 Novembre tentò a sorpresa alla occupazione della città. Secondato dal traditore Vanni Andreoli di Fermo, ruppe il muro sotto i Macelli, ma accorsi al rumore i cittadini preferì ritirarsi e seguitare l’occupazione del contado.

     Dal 10 al 26 Dicembre, occupò Monteverde, Rapagnano, Torre San Patrizio, Monte San Pietrangeli, Monturano.

     Il 31 Marzo 1415, seguitò la conquista lo Stato Fermano, occupando Monte Leone, Monsampietro Morico, Montottone, S. Elpidio M. M. Vidon Combatte e Ortezzano. Più sfortunata fu Torchiaro che, mentre trattava la pace, fu occupata a

tradimento da un certo Giorgio da Roma che la saccheggiò e la diede alle fiamme. Gli abitanti di Petritoli, spaventati, abbandonarono tutti il paese. Tra i fuggiaschi c’era anche, colla sua famiglia, Anton de Nicolò, allora Podestà di Petritoli, che ci racconta questi avvenimenti16. Ma nemmeno lui, tanto ossequioso verso il Migliorati e verso Giovanni XXIII, ci riporta alcuna azione bellica di quel signore per contrastare l’occupazione del suo dominio. Forse sapeva che i Fermani non erano con lui, e non si sentiva sicuro fuori del Girfalco.

     Chi invece si mosse contro il Malatesta Rodolfo Varano, che temeva per il suo Ducato di Camerino. Però fu battuto presso San Severino il 21 Maggio 1415, e il Malatesta occupò Montecchio (Treia), Morrovalle, Montecosaro, San Giusto, Montegranaro e Petriolo. Ormai al Migliorati restava solo Fermo e qualche altro castello verso il mare.

      Ma il 1415 fu anche l’anno decisivo per la fine dello scisma. L’imperatore, che allora era a Sigismondo di Lussemburgo, spinto da tanti dottori che gli attribuivano il diritto e il dovere di rimediare ai mali della Chiesa, si accordò con l’antipapa Giovanni XXIII che dei tre era il più seguito, e ottenne da lui la bolla di convocazione di un Concilio che si aprì a Costanza nel Novembre 1414. Giovanni XXIII fu presente fin dalle prime adunanze, ma vedendo di non poterle guidare a modo e a favore suo, nel marzo 1415, di nascosto fuggì. Il Concilio stava già per sciogliersi, quando con intelligenza e magnanimità, proprio nel momento più opportuno, intervenne Gregorio XII. I due antipapi avevano perso ogni credito presso il Concilio per la loro condotta faziosa ed egoistica. Il 4 Luglio 1415, Carlo Malatesta, plenipotenziario di Papa Gregorio si presentò a Costanza con una bolla del Papa che convocava il Concilio, rendendolo così legittimo, e offriva la propria abdicazione.

     Si perse ancora molto tempo nella discussione se si dovesse leggere prima un nuovo Papa, o forse fare prima alcune riforme e, finalmente l’11 Novembre 1417, giorno di S. Martino, fu eletto Papa Ottone Colonna, (non era ancora Diacono), che prese il nome di Martino V; così finì lo scisma d’Occidente che era arrivato 39 anni.

     Carlo Malatesta pagò cara la sua fedeltà Papa Gregorio XII e i suoi servizi alla Chiesa. Firenze e i suoi alleati si videro in pericolo, sia per l’ingloriosa fine del loro antipapa, sia per la potenza del Malatesta che minacciava di accrescersi per il nuovo corso che stavano prendendo gli avvenimenti. Il 13 luglio 1416, Firenze mandò contro il Malatesta, Braccio da Montone che, presso Assisi, lo sconfisse e lo fece prigioniero.

     I castelli fermani che odiavano il Malatesta, sia per spirito di indipendenza, sia perché avevano dovuto troppo soffrire per la rapacità e la crudeltà del suo esercito, approfittarono della sua disavventura, per ritornare tutti alla obbedienza di Fermo.

FERMO E MARTINO V

    Lo Scisma non era stato una eresia, poiché non erano state mai in gioco le verità della Fede, se non in qualche testa di dottore; la cristianità era solo disorientata, e anche Fermo lo era, circa la legittima gerarchia ecclesiastica. Ma non per questo furono minori le difficoltà incontrate da Papa Martino V, che seppe affrontarle con abilità singolare. Possiamo un po’ misurare il suo tatto politico nella sistemazione del Fermano. Qui trattò gli individui senza tener conto dei quale parte avessero seguito durante lo scisma; d’altra parte non sappiamo nemmeno quale parte avesse seguito lui.

    Mostrò benevolenza verso il Migliorati e lo riconfermò nel governo di Fermo. In fondo, questo astuto volpone non era peggiore, né più pericoloso di tanti altri; non valeva la pena di farselo nemico, esautorandolo.

     A Fermo, dal 1412 c’erano due vescovi: Giovanni III De Bertoldis romagnolo, eletto dal legittimo Papa Gregorio XII, e Giovanni IV De Firmonibus, fermano, che era stato trasferito dalla diocesi di Ascoli a Fermo dall’antipapa Giovanni XXIII, dietro preghiera di Ludovico Migliorati. Ambedue erano uomini di grandi qualità; ambedue avevano partecipato al Concilio di Costanza; ma Giovanni IV si era distinto nel sostenere l’antipapa. Bisognava toglierne uno; Martino V, il 15 Dicembre 1417, trasferì a Fano Giovanni III e confermò a Fermo Giovanni IV.

     Tra Ludovico Migliorati e Giovanni IV De Firmonibus seguitò la consueta concordia, ma per il signor Ludovico quello non fu un quinquennio felice. Nell’Ottobre 1416, gli morì la moglie Bellafiore e nel Maggio successivo sposò Taddea, figlia di Pandolfo Malatesta di Pesaro. Nel 1418, Braccio da Montone si mosse contro Fermo e, saccheggiata la Badia di Fiastra, occupò Petriolo, Mogliano, Massa, Loro e Falerone. Il Migliorati, scarso di forze armate, dovette ricomprare la tranquillità con lo sborso di forti somme. Nel 1420, corso in aiuto del suocero che combatteva a Brescia contro il Duca di Milano, cadde prigioniero del Duca: non era mai stato valoroso combattente.

   Erano molti a Fermo i nemici del Migliorati, i quali non andava a genio la troppa amicizia tra lui e il Vescovo. Nel Luglio 1419, un certo Cicconi di Carassai, cittadino fermano, appese fuori Porta San Giuliano  uno scritto, dove si diceva che il Vescovo stava preparando una congiura contro il Migliorati. Questi, fattolo ricercare lo consegnò al Vescovo, perché lo giudicasse. Ciccone confessò di aver agito per inimicare il Vescovo con Ludovico, e fu condannato al carcere perpetuo.

    Del Migliorati conosciamo quattro figli avuti dalla prima moglie, tra i quali Giacomo, avviato fin da bambino alla vita ecclesiastica. Morto il Vescovo Giovanni IV De Firmonibus, il 1 febbraio 1420, il Migliorati pregò Martino V che al figlio Giacomo fosse affidata l’amministrazione a vita della diocesi Fermana. Il Papa (non cerchiamo per quali motivi), il 20 Ottobre 1421, concesse quanto Ludovico chiedeva17. Martino V non intendeva però nominare Giacomo Migliorati Vescovo di Fermo; difatti due anni dopo elesse Cardinale e vescovo di Fermo Domenico Capranica, un nobile chierico romano, di virtù e capacità singolari, che allora aveva ventidue anni; ma non volle rendere ufficiale questa nomina, continuando a servirsi di lui in varie delicate missioni che il giovane Cardinale espletò con singolare perizia.

     Intanto nel 1426, la signora Taddea partorì un figlio e, l’8 Giugno dell’anno appresso morì di peste bubbonica (sotto il braccio sinistro; ci visse tre giorni).

     Il 28 Giugno 1428, morì il Ludovico Migliorati, ma la sua morte fu tenuta segreta fino al 12 Luglio, per dar tempo al figlio Firmano, che stava presso il Duca di Milano, di venire in segreto a Fermo, per prendere possesso del Girfalco. Chi dirigeva tutto era Gentile, fratello di Ludovico.

     I Fermani, quando conobbero la morte del tiranno, assediarono il Girifalco e chiesero al Papa il permesso di distruggerlo, perché era per essi causa continua di oppressione. Martino V pregò il Comune di pazientare qualche giorno, poi avrebbe provveduto lui. L’assedio del Girifalco durò vari mesi, durante i quali si permise solo alle due figlie del Migliorati di uscire per andare spose, una a Ravenna, l’altra in Atri, sposa di Gioisia  Acquaviva.

     Il 13 Ottobre 1428, due albanesi uscirono di nascosto da Girifalco e riferirono ai Priori che Marinuccio Mostacci, offidano agli stipendi del Comune, introduceva nel castello, per un passaggio segreto, armi e vettovaglie. Fu giudicato e fatto impiccare.

     Ma finalmente, per impedire l’inutile strage della famiglia Migliorati, intervenne Martino V, e a quella gente fu permesso di emigrare altrove. Tra essi c’era anche Giacomo amministratore della Diocesi che aveva sempre dimorato nel Girfalco col padre. Così la Diocesi Fermana fu libera per il legittimo titolare Domenico Capranica.

     Fu uno dei più illustri personaggi che portarono il titolo di Vescovo di Fermo; ma come altri suoi predecessori, resse la Diocesi da lontano, per mezzo dei suoi vicari; venne a Fermo solo nel 1446.

      Martino V lo aveva nominato Cardinale e Vescovo di Fermo, ma non aveva reso ufficiale la sua nomina; se la era riservata “in pectore”, come si dice oggi. Dopo la cacciata dei Migliorati, non potendo recarsi a Fermo a causa dei suoi impegni diplomatici, aveva preso possesso della Diocesi per mezzo di un suo vicario, Giacomo Ranieri di Norcia. Morto Martino V, nel Febbraio 1431, il Capranica andò a Roma, ma non fu ammesso al Conclave per l’elezione di Eugenio IV, perché tra i Cardinali era sorta disparità di pareri circa la legittimità della nomina a Cardinale; per alcuni essa era legittima; per altri invece non era valida, perché non era stata completata con l’imposizione del berretto cardinalizio. L’esclusione del Capranica da Conclave suscitò anche qualche polemica circa la validità della elezione di Eugenio IV

     Il Capranica seguitò la sua missione, come se nulla fosse stato, aspettando che le cose si appianassero da loro e la sua nomina a Cardinale fosse col tempo ratificata dal nuovo Papa. Ma ci furono degli invidiosi che cercarono la sua rovina. Male lingue fecero credere a Eugenio IV che il Capranica impugnava la validità dell’elezione del Papa e cospirava con i Colonna contro di lui.

     Nel novembre 1432, il Papa non solo non convalidò al Capranica il titolo di Cardinale, ma gli tolse ogni incarico onorifico e il vescovado di Fermo; ordinò la confisca dei suoi beni e mandò delle guardie per arrestarlo. Il Cardinale, dopo essersi nascosto per due mesi in un romitorio del monte Soratte, si rifugiò presso il Duca di Milano e, nel 1433, seguito dal suo segretario Enea Silvio Piccolomini, un futuro Papa, si recò al Concilio di Basilea, dove espose il suo caso, senza animosità e con tanta umiltà, che il Concilio lo scagionò di tutte le accuse. Dietro la decisione del Concilio, Eugenio IV lo confermò Cardinale e vescovo di Fermo, nel febbraio 1434.

     Di questo secondo periodo di episcopato dovremmo trattare in seguito; ora torniamo al 1430, un anno notevole nella storia fermana.

DOPO LUDOVICO MIGLIORATI

     Dopo trent’anni di governo dittatoriale e poco efficiente, il Consiglio Comunale, che aveva dovuto subire le prepotenze del Migliorati, si trovò di fronte al non facile compito di riorganizzare il libero governo nella Città e nello Stato, per cui era necessaria la forza, ma anche molta prudenza.

     Tra Fermo e Ripatransone non c’era stata mai vera concordia; c’erano stati spesso dissensi e scontri armati. Non era facile tra esse la convivenza, perché Ripatransone si sentiva coartata dalla potenza fermana che dominava su tutta la costa e sul castello di Acquaviva; Fermo vedeva malsicuro il possesso della zona, per la vicinanza di quella forte città alleata di Ascoli.

     In Valtesino, sui confini tra Ripa e Acquaviva, esisteva la chiesa di S. Angelo in Trifonso, che aveva fatto parte del monastero farfense di S. Angelo in Val Tesino. Presso quella chiesa, come avveniva intorno a ogni monastero, accorrevano commercianti da ogni parte, per la fiera dell’8 Maggio che durava parecchi giorni. Il luogo era causa di contese e di zuffe tra fermani e ripani che ne rivendicavano il possesso, non per la Chiesa in sé, ma per i traffici che vi si praticavano e che procuravano rilevanti entrate al Comune che vi riscuoteva i dazi e pedaggi. Ogni anno si ripetevano disordini e scaramucce tra soldati fermani e ripani che presidiavano la fiera.

     Sia il Tanursi, che il Garzoni18, fanno scoppiare una feroce battaglia tra fermani e ripani durante la fiera del 1429; secondo me, è preferibile seguire Anton De Nicolò, scrittore contemporaneo; anche il Garzoni è contemporaneo, ma stava a Bologna. Il De Nicolò non riporta nessuna battaglia, ma dice che il Consiglio Fermano mandò, l’8 Maggio 1430, il “miles Potestatis” a Sant’Angelo con uomini, per sorvegliare la fiera; con l’ordine che, se i ripani li avessero respinti, essi se ne sarebbero dovuti andare, dopo aver fatto stendere un verbale da un notaio. Difatti così avvenne; i soldati ripani respinsero i fermani, che si ritirarono. Ma dopo tre giorni, i Fermani occuparono indisturbati la fiera con quattromila soldati19.

     In quell’anno stanziò a Fermo una carovana di cinquanta zingari che il Nicolò dice: “mala gente, ladri, trafficanti di cavalli”. Anche oggi gli zingari sono quelli di una volta e anche oggi sono in certi luoghi trafficanti di equini. Ma bisogna capire l’espressione dello scrittore, perché il possesso e il traffico dei cavalli era allora sottoposto a rigorose limitazioni legali, dato il largo bisogno di quegli animali per la guerra20. Il traffico degli zingari consisteva come del resto anche oggi, nel comprare o raccogliere per pochi soldi cavalli malandati, che essi curavano pazientemente e, con appropriati esercizi, rimettevano in sesto e rivendevano con qualche profitto a chi ne avesse bisogno per lavoro di poco impegno.

    Nel 1430, i Fermani si accorsero che la loro città, ricca e potente, adorna di splendidi monumenti come Girifalco, la Cattedrale, S. Agostino, S. Francesco, S. Domenico e altri minori, non era bella né pulita; e non poteva esserlo, a causa delle vie fangose o polverose orlate in molte zone di violacciocche e di ciuffi di falasco. Nelle vie secondarie poi non era raro il caso di osservare, vicino all’uscio di casa, la fossa per gettare i rifiuti e la spazzatura. Nell’Ottobre 1430 fu incominciata la seccatura delle vie. Non so se ci fu in proposito una delibera del Consiglio Comunale, ma il fatto che il selciato veniva eseguito dai privati, ognuno avanti la propria casa fino a metà della via; che il selciato cominciò prima vicino a S. Agostino, poi vicino a S. Francesco, ci fa pensare che non fosse estraneo all’opera l’incitamento dei frati.

     Nel 1433, un frate Agostiniano, fra Simone da Camerino, predicando a Fermo, lanciò l’idea che sarebbe stato bene che i Giudei si riconoscessero in pubblico con un distintivo visibile. E poiché le trovate dei frati venivano spesso accolte dai Consigli Comunali, quello di Fermo stabilì che i numerosi Ebrei della città portassero sul vestito una specie di coccarda che li distinguesse.

     Degli Ebrei, della loro attività e perché riscuotesse tanta avversione popolare, parleremo a suo tempo. Ora, per la migliore comprensione del periodo che stiamo trattando, è necessario esporre con la maggiore brevità e chiarezza possibile che cosa era la Signoria e la sua portata politica.

NOTE

 1      Dalle lettere di Caterina: Giustizia senza misericordia piuttosto sarebbe ingiustizia che  

          giustizi …. Babbo mio dolce, fate le cose vostre con modo e con benevolenza e cuore tranquillo. 

          Mitigate un poco, per l’amore del Crocifisso, quelli momenti subitanee che la natura vi porge.

2       Dico “disastro”, non “pericolo”, perché sono credente. Per i credenti la Chiesa non corre mai

          pericolo.

3       COLUCCI – A.P. XXIX – n. CIX p. 203

4       L’assalto di Fermo contro Mondottone probabilmente fu una finzione. I Fermani si fecero  

          respingere al prmo assalto per dar tempo al loro Vescovo, che amavano, di fuggire.

5       “Antonius Episcopus Firmi cum in nostra civitate Firmana domun episcopalem in qua apte

          commorari posset non haberet, de bpnis sibi a Deo collatis … de novo acquisito, episcopale

          palatium pro sua et  successorum abitatione contrui fecit”. (dalla lettera del Papa Bonifacio –

          Catalani – De Eccl. p. 227).

6       Questa data, 4 Settembre, è in contraddizione con quella riportata da Anton de Nicolò dice

         Boffo morto a Monterubbiano, il 30 Luglio; ma mi sembra più sicura, perché desunta dalla

         iscrizione apposta al sepolcro di Beaufort, che si trovava nella distrutta chiesa di S.  Eusebio in

        Carassai.

7      COLUCCI – A. P. XXIX p. 219.

8       ANTON DE NICOLO’ – “Gli abitanti di questa terra mandarono con segretezza a domandare

         aiuto a Marino Marinelli da S. Vittoria, il quale avendo sotto di sé gran numero di soldati col

        suo valore accostandosi con detti soldati riacquistò col cacciare i nemici la Terra e la restituì ai

        Fermani.

9      ANTON DE NICOLO’ – “Locus dictae ecclesiae fuit in capite Plateas S. Martini”.

10   La chiesetta della misericordia fu fatta demolire da Oliverotto Eufreducci per far luogo al

        palazzo del governo, oggi palazzo Apostolico. Costruita, secondo la testimonianza di Anton de

        Nicolò, in 19 ore. Difatti la quarta hora noctis, quando fu cominciata la costruzione,

        corrispondeva alle 10 di sera. Poiché l’inizio del giorno allora si considerava alle sei di sera. Fu

        terminata alle ventitré del giorno successivo che corrisponde alle 5 pomeridiane. In alcuni

        paesi delle Marche e della regione ci sono ancora vecchi orologi da torre che hanno il quadrante

        di sei ore.

11   Il fenomeno dei “Bianchi” non era solo fermano, ma diffuso in tutta Italia, secondo la

         testimonianza del Muratori:

         Rer. It. Script. T. XVII pag. 1171.

         MANOSCRITTI ASCOLANI: “Nell’anno del signore 1400 sorse 1 grandissima manifestazione di

        devozione e pratiche religiose in Italia. Tutti, uomini e donne andavano pellegrinando vestiti di

        bianco, e perdonavano le offese ai propri nemici e si perdonavano a vicenda”.

        ANTON DE NICOLO’ – Cronache pag. 6  – “Nel 1399 nel mese di giugno incominciò 1 certa moda:

        cioè che tutti si vestissero di bianco …. E facevano adunate di popolo e andavano con croce

        visitando chiese, cantando e ripetendo “Misericordia e pace”.

        LUCA COSTANTINI – Aggiunte alle Cronache: “Nel 1399 si formarono delle confraternite di

        devoti che vestendo cappe bianche e cappucci andavano in processione da una città all’altra,

        cantando l’inno: “Stabat Mater dolorosa”.

12   ANTON DE NICOLO’ . Cronache – “Nobilis vir Zamboccus de Neapoli capitaneus in Girone, fecit

         venire bullas Domini Papae etc.”.

13   MURATORI – t III p. 2 col. 834 – “Iste, Camerarius (Leonardo) ita exosus Curiae factus est

        avaritia, ebrietate et alis vitiis notatus, ut famam Innocentii praeteriram detraxerit….”

14   Antonio Aceti, allontanato da Fermo dal Rettore Andrea Tomacelli che gli aveva concesso la

        signoria di Montegranaro, allora era tornato a far parte del Consiglio, essendo cittadino

        fermano.

15   ANTON DE NICOLO’ – Cronache

16   Una seconda volta Anton de Nicolò è podestà di Petritoli e deve fuggire, come vedremo,

        nell’Ottobre 1443.

17   “MCDXXI die lunae, Mensis Octobris fuerunt lectae bullae dei privilegia fili Domini nostri qui

         erat episcopus civitatis Firmi et dicta die cepit possessionem episcopatus”.

18   Le memorie storiche di Ripatransone, sia del Tanursi, sia del Garzoni sono riportate da Colucci-

        A. P. t XVIII.

19   Il Tanursi appoggiato dal Colucci dice falsa la versione del De Nicola, perché farebbe intervenire

        l’esercito fermano il 10 Maggio, a fiera finita. Ma essi dimenticano che la fiera durava non meno

        di una settimana.

20   COLUCCI – A. P. t. XXIX n. XXXI p. 56.

CAPITOLO IX

FRANCESCO SFORZA A FERMO

LA SIGNORIA

     In questo argomento non ho bisogno di dilungarmi troppo, perché dalle pagine precedenti il lettore ha capito che cosa era la signoria: dispotico governo di un signore. Ha capito che nelle Marche le signorie mettevano in crisi l’autorità dello Stato Pontificio, ed erano sommamente dannose all’economia e alla libertà dei Comuni.

     L’origine della Signoria poteva avere varie cause: o era imposta dall’ambizione di qualche nobile che non ci contentava di essere ricco, ma voleva anche dominare; o qualche ufficiale dello stato che aveva avuto il governo di una città se ne faceva padrone, come nel caso di Ludovico Migliorati a Fermo; o qualche venturiero, avendo a disposizione forze sufficienti, imponeva il suo dominio colla forza, come a Fermo Mercenario da Monteverde, Gentile da Mogliano e Francesco Sforza; e in Ascoli Conte di Carrara.

     Nelle pagine precedenti abbiamo scartato la possibilità che un podestà potesse imporre la sua signoria.

     Interessante notare che ordinariamente la Signoria non esclude il governo Comunale, ma lo controlla e lo pone al suo servizio. Il podestà seguita ad amministrare la giustizia e a vigilare sull’ordine pubblico; il Sindaco e Priori  seguitano nel loro ufficio; guidano la città, riscuotono le tasse e pagano i pesanti tributi al signore, il quale ha a sua disposizione l’esercito, quindi ha la forza sufficiente per imporre la sua volontà e imprimere alle cose la direzione da lui voluta. E abbiamo visto sopra come finì male Antonio Aceti che aveva osato reclamare avanti al Migliorati i diritti dei Priori.

     Con la signoria il Comune perdeva il suo significato e diventava servo del potente signore che lo dominava.

     LA SIGNORIA DI FRANCESCO SFORZA

      I Duchi di Milano non avevano mai nascosto le loro mire espansionistiche ed egemoniche sulla Penisola.Bernabò Visconti era sempre sobillato e incoraggiato i ghibellini romagnoli e marchigiani, cercando di accrescere la sua influenza in questa zona, per incunearsi tra Venezia e lo Stato Pontificio.

     Il figlio, Gian Galeazzo portò il Ducato alla massima sua potenza, dominando su tutta la Valle Padana e su gran parte del Veneto.

     Filippo Maria Visconti tentò il colpo grosso: estendere la sua egemonia su tutta l’Italia. Credette fosse giunto il momento buono poiché Venezia era preoccupata per il pericolo turco; lo Stato della Chiesa era travagliato dalle piccole signorie; Firenze in crisi; Genova tremante per la potenza francese da una parte, e dall’altra per Alfonso, re d’Aragona, che già aveva la supremazia sul Mediterraneo, possedendo la Sicilia e la Sardegna, e minacciando la conquista della Corsica e del Regno di Napoli.

     Nel 1433, spedì i due capitani Nicolò Fortebraccio e Francesco Sforza a occupare lo Stato della Chiesa. Il primo occupò in breve tutta la Toscana; Francesco Sforza si diverse occupare la Marca.

     Da Jesi lanciò un proclama, invitando i Comuni marchigiani a ribellarsi al Papa e accettare la propria signoria che sarebbe stata per loro vantaggiosa, perché avrebbero trovato in lui sicurezza, non oppressione; egli avrebbe accettato la loro sottomissione, solo dietro accordi e trattati. Occupata pacificamente Macerata, dovete usare la forza con Montolmo che gli aveva chiuso le porte in faccia e, il 12 Dicembre 1433, quel Comune fu occupato e saccheggiato ferocemente; il che convince molti altri Comuni a sottomettersi volontariamente.

     Fermo, militarmente impreparata, senza poter sperare aiuti da nessuno, perché lo Stato pontificio in sfascio e l’alleata Venezia tremante per la minaccia turca, il 13 Dicembre 1433, mandò ambasciatori a Montolmo, per trattare la sottomissione al Conte. Gli ambasciatori fermani proposero un accordo che includeva il rispetto delle libertà comunali e la salvaguardia dell’integrità territoriale dello Stato Fermano; il Conte accettò le proposte fermane e aggiunse le proprie. Il Consiglio Comunale si riunì il 18 Dicembre, ed esaminate le condizioni imposte dallo Sforza, gli mandò la risposta affermativa. Il Conte mandò subito a Fermo il fratello Alessandro per prenderne possesso e fare i preparativi per il suo prossimo ingresso in quello che aveva già designata capitale del suo dominio.

     Il 3 gennaio 1434, una interminabile processione accolse il Conte Sforza a Porta S. Giuliano, cantando le Litanie dei Santi (cum Litaniis), perché era necessario che anche essi prendessero parte a quella pagliacciata. La presa di possesso del Girfalco fu riservata per il giorno dopo, 4 gennaio 1434.  

     La sottomissione di Fermo, città più prestigiosa delle Marche e sicuramente una delle più forti, produsse uno sbigottimento generale: Montecchio (Treia), Monte Milone (Pollenza) e S. Ginesio tentano di ribellarsi ai signori di Camerino; il Vescovo di Macerata e Recanati, Vitelleschi, allora Rettore della Marca, si imbarca per la Dalmazia; Camerino, tentando di evitare attacchi, si affretta a restituire  S. Angelo e Gualdo allo Stato Fermano, il 6 gennaio 1434. La maggior parte dei Comuni Fermani e Ascolani si sottomisero volontariamente, per evitare mali maggiori. Anche l’irriducibile Ripatransone aprì spontaneamente le porte al signore di Fermo, dopo una tempestosa seduta del Parlamento Generale.

     Nello stesso 1434, Alessandro Sforza occupò Amandola, ma dovette abbandonarla subito, per non cadere prigioniero di Nicolò Maurizi di Tolentino che corse a riconquistarla.

     Nel Marzo di quello stesso anno, Eugenio IV, per distaccarlo dal Duca di Milano, nominò lo Sforza Vicario nella Marca e Gonfaloniere di Santa Chiesa. La mossa politica del Papa riuscì, ma lo Sforza incominciò a lavorare per crearsi un principato proprio, indipendentemente dal Duca e dal Papa.

     Il Visconti, mentre aveva mandato i suoi capitani a occupare la Toscana e le Marche, si era alleato con Genova, alla quale aveva offerto soldati e armi contro Alfonso di Aragona. In una battaglia navale presso Gaeta, i Genovesi ebbero il sopravvento, facendo perfino prigioniero l’Aragonese, nell’agosto 1435.

     Eugenio IV, dopo la sconfitta di Re Alfonso, nel timore che il Duca di Milano potesse impadronirsi del Regno di Napoli, concluse contro di lui una lega con Firenze e Venezia e convince il Conte ad aderirvi.

     Il 23 agosto 1435, il banditore del Comune (trombecta) ordinò ai cittadini fermani che si facessero “focaracci” (falones), per festeggiare l’accordo raggiunto.

     Quei focaracci avevano lo scopo di consolidare la fiducia dei Fermani verso il Conte; far loro sentire che non erano più soli a seguirlo, ma erano alleate con lui altre potenze. Ma chi può dire che c’era nell’animo dei Fermani?

     Certamente non tutti la pensavano allo stesso modo. C’erano gli irriducibili papalini: preti, frati, monache, terz’ordini religiosi e fedeli, che in segreto piangevano sulla Patria strappata alla Chiesa da mani infedeli; essi erano i più, ma contavano di meno.

     C’era la classe dei nobili e dei ricchi, i quali, prepotenti contro il governo papale dal quale non avevano nulla da temere, ora tremavano, perché avevano tutto da perdere con la tirannide.

     E c’era un gran numero di esaltati, prepotenti e faziosi, i quali idolatravano il Conte, attribuendo a onore della Patria la potenza e i successi di lui.

     Un po’ diverso l’atteggiamento del Consiglio Comunale e di quelli che avevano responsabilità nel governo dello Stato. Avere un Signore in città, e per giunta invincibile capitano, anche se costava caro, non era poi gran male, perché il Comune, in caso di bisogno, non avrebbe dovuto arrabattarsi a ingaggiare compagnie di ventura, sempre dannose e malfide; alla sicurezza dello Stato avrebbe pensato il Conte, il quale ostentava rispetto per la libertà del Consiglio e lasciava ad esso la direzione civile delle cose. Ma il loro ottimismo finì quando videro che le guerre non finivano mai, le spese crescevano ogni giorno, e lamentele continue arrivavano dai Comuni dello Stato per le prepotenti requisizioni di derrate.

     Era frequente la richiesta di un soldato per famiglia a servizio dello Stato. Il Conte li trattava bene, ma erano braccia tolte al lavoro e al commercio, e le famiglie non sempre sopportavano questo reclutamento dei figli e spesso il lutto per la loro perdita.

     A rendere meno popolare lo Sforza, si aggiunse, nel Settembre 1435, l’aumento delle tasse. Il Conte ordinò al Comune di elevare il focatico: per i focolari maggiori 40 soldi; per i mediocri 30 soldi; per i piccoli 20 soldi. I Fermati specialmente quelli del contado, reclamarono e chiesero al conte una riduzione, ma ogni protesta fu vana.

     Un modo per fare quattrini usato dai venturieri (e lo Sforza era uno di essi) era avvicinarsi a qualche Comune e imporgli una taglia, che esso si affrettava a pagare, per ottenere che militari si allontanassero. Il 18 Gennaio 1436, il Conte Francesco ordinò che uno per famiglia, sia della città che del contado, si presentasse lui armato e provvisto di vettovaglie per quindici giorni. Radunò così un forte contingente di armati (il De Nicolò dice che solo da Petritoli ne accorsero cento), e si diresse verso Camerino. Lasciò una parte dell’esercito a occupare S. Ginesio e percorse con l’altra molti Comuni camerinesi, fino a Serravalle. Camerino non fu toccata, ma dovette pagare molti ducati. La spedizione durò dieci giorni ed era servita anche per tenere allenato l’esercito. Capiva che gli era necessario un esercito forte e sempre pronto, perché non era tanto difficile conquistare i Comuni marchigiani, quanto tenerli in soggezione; e sapeva che la sua signoria era mal tollerata dal Papa e dal Duca di Milano.

     Nel Settembre 1436, un certo Guerriero, fuoruscito di Ascoli, entrò in quella città, per sollevarla. Alessandro Sorza radunò a Carassai 3000 armati, per correre in Ascoli, ma giunse notizia che i rivoluzionari erano stati espulsi. Alessandro lasciò Carassai e condusse l’esercito fermano ad assalire Acquaviva, posseduta da Gioisia di Atri; però la rocca era ben difesa e i Fermani dovettero ritirarsi, rimandando l’impresa contro gli Acquaviva a tempo più propizio. Dopo quasi due anni, nel Luglio 1438, lo Sforza assalì il Duca di Atri e gli tolse non solo Acquaviva  che restituì ai Fermani, ma anche altre terre e perfino Teramo.

     Poiché ognuno dei grandi contendenti (Roma e Milano) aveva le sue gravissime preoccupazioni, a nessuno conveniva la lotta armata, e tantomeno conveniva allo Sforza, qualunque ne fosse stato l’esito. Nel 1438, per iniziativa del Duca Filippo Maria Visconti, lo Sforza fu eletto arbitro per concludere una pace. Il Conte convocò a Cremona, della quale era signore, i rappresentanti del Papa, di Firenze, di Venezia e di Milano e riuscì a far firmare la pace. In ricompensa chiese ed ottenne la mano di Bianca, figlia unica del Duca di Milano, allora sedicenne. Le nozze, per vari motivi, si celebrarono solo dopo tre anni: il 26 Ottobre 1441, nella città di Cremona, con la partecipazione di molti nobili Fermani ed Ascolani.

OPERE PUBBLICHE

LA GRANDE CARESTIA DEL 1440

     Lo Sforza approfittò di questa tregua, per migliorare la sua Capitale. Nel Maggio 1438, Alessandro ordinò al Comune che si demolisse la chiesa di S. Maria dell’Umiltà, e si togliessero le cassette di legno e le bancarelle dei commercianti, perché la Piazza S. Martino doveva essere ingrandita e abbellita. Il lavoro fu terminato la piazza completamente spianata l’11 Giugno 1442, quando per preparare la venuta della signora Bianca, fu restaurato anche il Castello del Girfalco1.

      Il Conte sapeva bene che non doveva fidare nella pace, perché aveva conquistato le Marche, ma non nel cuore dei Marchigiani. Ribellioni si manifestavano qua e là: Tolentino si ribellò nel 1438, ma si risottomise dopo pochi mesi; e in tutto il Camerinese l’ostilità verso di lui appariva sempre più spesso.

     Oltre che ad abbellire la sua Capitale, pensò anche a fortificarla meglio. Nel Maggio 1440, ordinò al Comune di reclutare un gran numero di operai che lavorarono fino a tutto Agosto, per costruire torrioni e migliorare le mura di cinta, da porta S. Giuliano al Convento di S. Agostino. Di questo grandioso lavoro resta solo qualche rudere.

     Al Comune non fu difficile trovare operai e farli lavorare fino ad Agosto, perché quell’anno i contadini non dovettero sudar troppo per la mietitura e la trebbiatura. Nel mese di Giugno una terribile tempesta, con le spaventose grandinate colpì tutto il Fermano, desolando le campagne. Tra i paesi più colpiti furono Montefortino, Petritoli e Carassai, secondo quanto scrive il De Nicolò, al quale questi paesi interessavano maggiormente. Grano, orzo, oliva furono completamente distrutti. Ogni grano di grandine (granelli) pesava più d’una libbra e sprofondava nel terreno più d’un palmo.

“Mihi Antonio” dice de Nicolò che era originario di Carassai dove aveva delle terre, provocò un danno, di parte sua, di 50 ducati.

     Nel Luglio di quell’anno cominciò la carestia: “La raccolta non ridava la semina”, di olive  “erant ruscatae” e cadevano “fracidatae et verminatae”.

     In Ottobre il Comune dovette preoccuparsi di scongiurare la fame per la città e per il contado. Furono scelti tre cittadini capaci: Cola Pasquali, Antonio Giorgi e Giovanni Vanni, per provvedere a un ammasso di grano che si radunò nella chiesa di S. Martino. Si diede loro l’autorizzazione di imporre taglie e prestazioni di grano ai cittadini e contadini abbienti e di importare frumenti dall’Albania, dalla Schiavonia e dalla Puglia. Una salma di grano venne a costare lire dieci  e quattro soldi; ma se non ci fosse preso questo provvedimento, sarebbe costata più di sei ducati1.

     Nella Quaresima del 1442, i lavori nella Piazza o erano terminati o volgevano alla fine, perché le circa quattromila persone che si radunavano nella piazza per ascoltare le prediche di Fra Giacomo da Monteprandone (S. Giacomo della Marca) non recavano inciampo.

     Il 1442 segna il principio della fine della dominazione sforzesca nelle Marche. Ci saranno ancora tre anni di guerra continua, durante i quali Francesco Sforza, validamente appoggiato dal fratello Alessandro, vince tutte le principali battaglie, ma non riesce a spegnere la rivolta dei Comuni marchigiani che lo costringono a correre ai ripari da un capo all’altro della regione.

     Nonostante che fosse il suo genero, il Duca di Milano voleva la rovina dello Sforza, sia perché col suo tradimento aveva fatto fallire i suoi piani, sia perché il Conte era troppo legato a Venezia, la quale, perdendo terreno in mare contro i Turchi, mirava sempre più a una espansione sul continente. Il 9 Giugno 1443, il Duca di Milano fornì a Nicolò Piccinino un formidabile esercito di ottomila cavalieri e quattromila fanti, per scardinare la potenza sforzesca. Il Piccinino occupate alcune località umbre, passò nel Camerinese, sempre ostile verso il Conte; occupò Camerino, Belforte, S. Ginesio; ma a Sarnano fu sconfitto e fatto prigioniero dallo Sforza, che lo lasciò libero, a patto che non osasse più combattere contro di lui. Il 22 Giugno 1442, la signora Bianca, da Jesi dove aveva soggiornato per un anno, si trasferì a Girfalco abbellito per essa, festeggiata dal popolo fermano.

     Ma anche a Fermo, dove gli Sforza si sentivano più sicuri, covava l’odio è la rivolta contro di essi. Il 13 Agosto furono presi e impiccati alcuni congiurati, che erano venuti da Accumuli, per organizzare una rivolta contro lo Sforza; con essi furono impiccati anche un frate Domenicano e una monaca che consigliavano la ribellione al Conte.

SOLLEVAZIONE A RIPATRANSONE

     Santoro Puci, un condottiero riparano noto per imprese gloriose e capo del partito che si era opposto alla direzione della città allo Sforza, attendeva l’occasione propizia per liberare la patria dai Fermani; essa si presentò nell’Agosto 14422, incontrato un graduato del presidio sforzesco che l’offese, tratta la spada l’uccise e chiamò i cittadini alle armi. In poche ore i Ripani cacciarono dalla città i soldati dello Sforza e i capi del partito che lo sosteneva. Giunta notizia a Fermo, il Conte diede ordine che si radunassero a S. Maria della Fede tutti i combattenti fermani disponibili. Si formò così un esercito di tremila fanti e ottomila cavalieri, che marciò immediatamente ad assediare Ripatransone3. Una parte dell’esercito si accampò sul colle destinato alle esecuzioni capitali (colle dei Cappuccini), l’altra parte presso la chiesa di S. Maria Maddalena. Riuscendo inutile ogni tentativo di conquistare la città, sia per la posizione di essa, sia per il valore dei suoi abitanti, lo Sforza ricorse al tradimento. Invitò il Comune a mandare un gruppo di cittadini di alto rango per trattare accordi. Arrivati questi nel campo, furono rinchiusi nella sacrestia di S. Maria Maddalena; poi fu avvisato del Comune di Ripa che il Conte avrebbe ridato gli ostaggi, tolto l’assedio e concesso generale perdono, solo se fosse accolto amichevolmente entro la città.

     Il lavorio degli amici del Conte, che a Ripa non mancavano e i lamenti delle famiglie degli ostaggi, che temevano dei loro cari in mano allo Sforza, convinsero  le autorità comunali a cedere. Furono imbandite mense per i soldati lungo le vie e furono aperte le porte della città.

     I soldati dello Sforza, o che avessero il consenso dei loro capitani, o che questi non avessero la possibilità di impedirlo, consumate le vivande, si diedero al saccheggio, commettendo atrocità e appiccando incendi.

     Prima di aprire le porte al nemico, le autorità ripane avevano ordinato che le donne restassero chiuse nelle chiese, le quali, come si sa, avevano diritto d’asilo, quindi vietate a gente armata; diritto quasi sempre rispettato dalle milizie cristiane. Ma si capisce che ogni regola può avere le sue eccezioni; e sembra che i panni ebbe, e dolorose4. Ma gli scrittori sono concordi nell’attribuire i delitti contro il sesso debole a venturieri spagnoli; e il De Nicolò si affretta a dirci che i soldati fermani si diedero da fare, per difendere le donne ripane dalla licenza della soldataglia.

     Tra le cose asportate dai Fermani sono contare, secondo il De Nicolò, la campana del palazzo comunale di Ripa; il quadro “Parto della B. Vergine” e una campana mediocre, tolte dalla chiesa di S. Agostino di Ripatransone, e sistemate nella chiesa omonima di Fermo; similmente molti arredi sacri della chiesa di S. Francesco è una piccola campana di S. Lucia vennero dal saccheggio di Ripa.

      Erano passati una quindicina di giorni, durante i quali il Conte aveva ritirato da Ripa l’esercito, lasciandovi un presidio di quattromila armati fermani; Santoro Puci, l’eroico condottiero riparano che nel frattempo era corso a chiedere aiuto al Piccinino, ritornò con una buona schiera di armati, entrò di notte in città, e in poche ore, il 4 Ottobre 1442, cacciò il presidio fermano, e cominciò la ricostruzione.

      Santoro poté lavorare alla ricostruzione della città per più di un anno con una certa sicurezza, perché per lo Sforza la posizione si aggravava. Nicolò Piccinino, con un esercito di 30.000 uomini reso possibile dall’accordo tra Eugenio IV e Alfonso d’Aragona Re di Napoli, riuscì a far ribellare al Conte gran parte dei Comuni Marchigiani; restavano a lui alcune fortezze come Ascoli, Civitella, Fermo, Recanati.

     I comuni marchigiani non furono mai facili per nessun tiranno, e non lo furono nemmeno per Francesco sforza. Dopo 10 anni di continue lotte, nell’agosto 1443, si trovava a ricominciare daccapo: lui, in attesa di aiuti, assediato a Fano dal re Alfonso; il fratello Alessandro, fortificato Fermo, passava le notti insonni sotto la tenda in piazza San Martino, per essere pronto, all’occorrenza, a mettersi a capo dei suoi soldati che affollavano la città, della quale poteva fidarsi poco. La fine degli Sforza sembrava imminente, e lo sarebbe stato, se le forze avversarie fossero state unite concordi, ma non lo erano.

   Il 17 settembre 1443, Re Alfonso, col pretesto di condurre il suo esercito a svernare in Abruzzo, tolse l’assedio a Fano. Francesco Sforza, arrivati aiuti da Firenze da Venezia, affrontò il Piccinino, il cui esercito era stato lasciato solo, e lo sconfisse a Monteluro (Pesaro), il 12 novembre 1443. 

     È chiaro che il Re Alfonso, ottenuto dal Papa il riconoscimento di Re di Napoli, non aveva voglia di combattere e procurarsi gravi perdite, per amore di Eugenio IV. Non sappiamo se ci furono accordi segreti tra il Re e lo Sforza, o se ci furono pressioni da parte di altri potenti; il Re che conduce a svernare l’esercito tre mesi prima dell’inverno, nel momento cruciale della guerra, ha tutta l’aria di un traditore; e mentre i suoi diecimila soldati avrebbero potuto avere un peso decisivo nella guerra, furono solo una comparsa.

SACCHEGGIO DI TORCHIARO E MOREGNANO

     La marcia per il rientro di queste truppe durò più di un mese, e anche Alfonso non volle o non osò5 toccare Fermo, le zone attraversate riportarono danni immani. Anton De Nicolò ci ha lasciato memoria del saccheggio di Torchiaro che aveva subito la stessa sventura una ventina d’anni prima, ma tanti altri luoghi marchigiani avranno subito la stessa sorte. Un gruppo di razziatori napoletani avevano portato via una quantità di di bestiame dal territorio di Petritoli. Un centinaio di armati Petritolesi li raggiungerò a Torchiaro, ne uccisero una ventina e ripresero il bestiame. Poi si vollero fermare un po’, per rinfrescarsi in una bettola. Sopraggiunsero circa trecento saccheggiatori spagnoli che fecero prigionieri una ottantina di petritolesi  e li tennero alcuni giorni, aspettando il riscatto. Nel frattempo saccheggiarono e devastarono Torchiaro e Moregnano. I cittadini di Petritoli, temendo che il loro castello potesse essere assalito, mentre gran parte dei suoi difensori erano prigionieri, fuggirono tutti nei paesi vicini e tornarono dopo passato il pericolo. Tra essi era Anton De Nicolò, allora Podestà di Petritoli, che ci racconta questi episodi. E il lettore concluderà con un sospiro: Che secolo beato il 400!

     La battaglia di Monteluro non fu risolutiva né per una parte, né per l’altra. A Fermo furono ordinati “focaracci” (falones) per celebrare la vittoria del Conte; vittoria che lo riportò nella sua capitale, per ricominciare la riconquista della Marca, seguito passo passo dall’esercito sconfitto del Piccinino, che stabilì il suo quartier generale a Montegranaro.

     La presenza del Piccinino incoraggiava la resistenza dei grossi Comuni, come S. Elpidio che gli permise, il 15 Dicembre la distruzione di Monturano; Monte S. Pietrangeli che, il 17 Dicembre, resistette vittoriosamente allo Sforza; Montegiorgio che il 3 Dicembre devastò il castello di Monte Verde. Ma il Conte era ancora invincibile. Mandò un esercito di diecimila uomini che, dopo aver dato guasto alle campagne, occupò Montegiorgio, il 13 Dicembre 1443 e, nello stesso giorno, Santa Vittoria, capitale del Presidato Farfense6.

 LA BATTAGLIA DI SANTA PRISCA

     Il 15 gennaio 1444, Bianca, moglie del Conte, partorì un figlio che fu battezzato con grande solennità e festa popolare, il 17 Marzo, col nome di Galeazzo Maria Sforza7.  Il lieto evento non interruppe l’attività militare dello Sforza.Con l’occupazione di S. Vittoria, solo Ripatransone restava libera a sud del Tenna dalla dominazione del Conte, e quella città era un potenziale pericolo per il futuro.

     Nel gennaio 1444, un forte esercito fermano si portò nel territorio di Ripatransone; diede il guasto alle campagne e si accampò sul Colle, oggi detto dei Cappuccini. Il condottiero riparano Santoro Puci non aspettò l’assalto dei nemici, confidando nel valore dei suoi soldati inferiori di numero al nemico. Animate le sue schiere con un forte discorso, le divise in due parti. Affidò il drappello più forte al genero Domenico Necchi col compito di portarsi, a tempo debito, sul Colle di Capo di Termine e attaccare di fronte il nemico; egli con l’altra schiera uscì dalla Porta di Cupra (Cupetta) e si nascose nella selva, in attesa di assalire il nemico alle spalle, nel corso della battaglia.

     Ma il suo piano ebbe diversa attuazione, poiché la schiera guidata dal genero sgominò il nemico prima del previsto. I Fermane, assaliti alla sprovvista, furono presi dal panico e si gettarono in fuga verso il mare, per la stretta valle della Cupetta; dove furono assaliti e sterminati dalla schiera di Santoro, uscita dagli agguati. Era il giorno di Santa Prisca, 18 Gennaio 14448.

     In questo fatto di guerra, militava nell’esercito fermano un giovane che, trovate due giovanette di Ripatransone nascoste e sole in una casa di campagna, le portò in salvo, difendendola dai fastidi dei militari e riconsegnandole alla loro famiglia. Fatto prigioniero e condannato a morte, fu difeso dalla famiglia delle due ragazze. Stanco della guerra, fuggì a Camerino, dove ascoltate le prediche di San Giacomo della Marca, si fece Religioso Francescano. Morì nel 1495 a Morrovalle. È il Beato Giorgio Albanese9.

FINE DELLA DOMINAZIONE SFORZESCA

     Lo Sforza sembrava ancora invincibile destinato a riconquistare la Marca. Il 18 Agosto 1444, un esercito guidato da Francesco Piccinino, figlio di Nicolò, assistito dal Card. Capranica Vescovo di Fermo, allora Legato del Papa nella Marche, fu sconfitto dal Conte presso Montolmo; il Piccinino fu fatto prigioniero; il Cardinale si salvò a stento, e il Papa fu costretto a un accordo. Ma il dominio di Francesco Sforza s’avviava al tramonto, perché erano troppe le difficoltà che si opponevano alla formazione di un principato di Fermo.

Prima difficoltà, l’odio di tutti i Comuni marchigiani contro gli Sforza, per le continue guerre e rapine; allo Sforza mancava assolutamente la solidarietà del popolo che non aveva saputo conquistarsi. C’era poi l’avversione di tutte le altre potenze italiane a un Principato di Fermo che avrebbe rotto l’equilibrio politico esistente nella Penisola. Fermo era stata sempre molto legata a Venezia, e lo Sforza si mostrava fedelissimo all’alleanza con quella Repubblica. Ciò avrebbe favorito la minaccia di espansione in terraferma da parte di Venezia che stava perdendo terreno nel Medio Oriente contro i Turchi.

     Il timore della potenza veneziana indusse i  tre grandi: Milano, Roma, Napoli a un accordo finalmente serio, per abbattere lo Sforza. Mentre il Conte era impegnato a nord  contro l’esercito del Piccinino a servizio del Duca, Sigismondo Malatesta di Rimini, preso a servizio da Eugenio IV, a capo di un esercito napoletano di 2000 cavalli e mille fanti, occupò in breve Ascoli, Offida, S. Vittoria e tutto il Presidato. Uno dietro l’altro i Comuni marchigiani si ribellavano e, il 24 Novembre 1445, fu la volta di Fermo. La città si sollevò al grido di: “Viva la Chiesa et la libertà”, e assediò Alessandro Sforza col suo presidio nel Girfalco. I soldati dello Sforza che fuggivano dai Comuni ribelli fuggivano verso Fermo, ma prima che potessero raggiungere la città, venivano disarmati dai Fermani e spogliati di tutto. L’assedio del Girifalco durò più di due mesi.

     Nel frattempo il Card. Domenico Capranica, Vicario del Papa nelle Marche e Vescovo di Fermo, che non era mai potuto venire nella sua Diocesi, il 5 Gennaio 1446, entrò in città, ma per prudenza, si fermò nel convento di S. Francesco, perché era pericoloso per lui abitare nel palazzo vescovile, troppo vicino al Girfalco assediato10. Era venuto per assistere e sostenere il suo popolo in rivolta, ma anche per impedire inutili stragi che si potevano prevedere in quella situazione. Ma stragi non ci furono, e non sappiamo quanta parte ebbe il Cardinale nello sbaglio che i  Fermani fecero, accettando la resa del Girifalco in quella forma.

     Gli assediati erano in condizioni disperate, per mancanza di approvvigionamenti. Il 6 Febbraio, Alessandro Sforza chiese all’autorità fermane di trattare la resa; e la fretta di liberarsi da quel malanno giocò ai Fermani un brutto scherzo. Mentre aspettando pochi giorni, avrebbero costretto lo Sforza a una resa incondizionata e ricavare grandi somme dal riscatto dei prigionieri (e non avrebbero rubato niente a nessuno, ma solo ripreso il proprio da quei briganti), accettarono le proposte di Alessandro. I Fermani si obbligarono a pagare 10.000 fiorini d’oro; e Alessandro Sforza col suo presidio, il 20 Febbraio 1446, sgombrò il Girfalco, armi e bagagli, e si avviò a raggiungere il Conte suo fratello a Pesaro.

     Così Francesco Sforza, dopo dodici anni di tirannide, cessò di firmare le sue carte: “Ex Girifalco nostro Firmiano, invito Petro et Paulo”.

     Il giorno stesso, il 20 febbraio 1446, si adunò il Consiglio Comunale, il quale decise di demolire il Girfalco che si trasformava sempre in sede di tiranni, e adoprare quel materiale edilizio per restaurare le mura della città, che servivano alla difesa di tutto il popolo. Per assistere a queste opere furono scelti sei uomini capaci, uno per contrada.

     Fu pure deciso di presentare in perpetuo dalle tasse Cecco Bianchi e la sua discendenza, per l’eroismo dimostrato nell’assedio del Girifalco.

     Domenico Capranica fu forse il più illustre dei Vescovi di Fermo. un uomo di cultura non comune11, di singolare spiritualità12, abilissimo diplomatico che riusciva a sistemare le questioni più scabrose con l’irresistibile fascino che spirava dalla sua persona. Amò Fermo, curò e migliorò l’Università e fondò a Roma il Collegio Capranica, dove agli studenti fermani erano riservate facilitazioni particolari: privilegio che anche oggi si conserva a favore degli studenti ecclesiastici di Fermo13.

  I Cardinali, alla morte di Callisto III, si erano accordati per eleggere Domenico Capranica, ma egli morì il 28 agosto 1458, e in suo luogo fu eletto Pio II (1458-1464, Enea Silvio Piccolomini, che era stato suo segretario, come ricorderete.

RESTAURAZIONE

     Fermo, dopo tanti anni di depauperamento, di distruzione e di sangue, aveva bisogno di tranquillità, per riorganizzare lo Stato. Nel Consiglio Generale del 28 Maggio 1446, si stabilì di invitare gli Ascolani a una pace perpetua, e si incaricò Fra Giacomo di Monteprandone (S. Giacomo della Marca) di preparare l’incontro tra le due città. Il 3 Giugno successivo Trecento Ascolani affollarono Piazza S. Martino e fraternizzarono con i Fermani per tre giorni.

     Ora che il Girifalco non era più zona riservata ai militari e l’accesso alla Cattedrale controllato da loro, il Vescovo Domenico Capranica pensò di facilitare la salita dalla piazza la Chiesa, sostituendo i sentieri che si arrampicavano su per il colle con scalette di pietra da costruire a proprie spese. Il De Nicolò dice che in Luglio fu cominciata la scala in pietra per unire la Piazza S. Martino con la Chiesa di Santa Maria. Da ciò gli storici fermani, incominciando dal Catalani si meravigliano di non trovare più traccia di questa scala. Forse essi pensavano una scala marmorea che, retto tramite, dalla piazza salisse al Girfalco. Io mi permetto di pensare che non è possibile che sia esistito un ingegnere capace di progettare una scalinata di qualche centinaio di metri, su per un’erta con la pendenza di più dell’80%. Secondo il mio modesto parere, la scala in questione è una delle vie selciate che anche oggi della piazza vanno al Girfalco. Anche un simile lavoro, pur di portata più modesta, meritava la citazione di Anton De Nicolò delle sue “Cronache della città di Fermo”.

NOTE

 1       ANTON DE NICOLO’ – Cronache.

 2       gli storici che trattano questo episodio non concordano nelle date; tutti concordano nell’anno

          1442.

           a)CRONACA RIMINESE: “ Al 29 Agosto 1442, fu fatta la tregua per otto mesi tra il Conte

           Francesco e Nicolò Piccinino, capitano di Santa Chiesa. Al 23 Settembre il Conte Francesco

           mise Ripatransone a saccomanno con unagrandissima crudeltà, e per questa ragione fu rotta

           la tregua”.

           b) GINO CAPPONI: “Ad annum 1442 die 21 Settem. Contes Franciscus de Cutignola oppi dum

           Ripae Transonis in Piceno sibi amicum predat et incendit”.

           c) FRANC: M: TANURSI – in Colucci A.P. t. XVIII p. 54 – l’assedio di Ripatransone il 18 Agosto

           1442 e durò un mese.

           d) ANTON DE NICOLO’ – pone al 20 Settembre la ribellione di Ripa e al 23 Settembre il

           saccheggio.

3        Questo numero di combattenti che può sembrare esagerato è riportato a quasi tutti gli storici

           che trattano questo episodio. Il principale di essi:

           ANTON DE NICOLO’ – Cronache della città di Fermo

           FRANCESCO ADAMI – De rebus in civitate Firmana gestis l. II p.98

           FRANCESCO M: TANURSI – Ivi

           LUDOVICO MURATORI – Rerum Iyal. Script. t. XVIII p. 200

4        TANURSI – in Colucci – A.P. t. XVIII         

5        (Fermo) una grande e ricca città era questa e la più forte di tutte le altre picene. Sorgeva su

           una rupe di tanta altezza da dove, come da eccelsa specola si mirava tutto in Piceno. Nella

           sommità di questa rupe si estendeva un sufficiente ripiano che cinto da muraglia rafforzata da

           parecchie torri, formava una rocca inespugnabile ecc. – Fazio – De rebus gest. Ab Alphonso I        

           Neap. Rege. l. XXXVIII p. 23.

6        DE NICOLO’ “….. in quo fuit maximum guastum olivarum et aliarum arborum fruttiferarum”.

           Vi fu un gran guasto di ulivi e di alberi fruttiferi.

7         ANTON DE NICOLO’ – Cronache – p. 163 – “Nicola Sabbioni, figlio di Angelo, il quale nei giochi

           equestri, che Francesco forza fece preparare quando la signora Bianca sua moglie partorire il 

           figlio sul Castello del Girone, giostrò  tanto strenuamente, che meritò gli fosse concessa

           perpetua facoltà di portare sopra l’armatura un leone portante l’anello della giostra. Lo     

           trasmise ai posteri con motto scritto in zona bianca”.

8        QUATTRINI – in Colucci  A.P. t. XVIIII p. 182 . Il Quattrini dice che i Fermani furono ingannati   

          da uno stratagemma di Santoro. Essi dal loro accampamento osservavano un grande  

          movimento di soldati entro la città e non si accorsero che quei soldati erano donne che

          simulavano manovre, armate di canne bastoni; mentre i soldati veri si erano portati di

          nascosto a poca distanza dall’accampamento, per un assalto improvviso. Dice pure di aver

          letto sulle vecchie mura di Ripa questo distico:”Festo die Priscae Ripanis bella removit Conflictu

          magno Sfortia turba ruit”.

9       P. U. PICCIAFOCO – S. Giacomo della Marca p.125 – Ed. Monteprandone Santuario di S.

         Giacomo.

10    Ricordo che il palazzo vescovile non stava più Girfalco, ma dove sta oggi; però era egualmente

         facile da lassù bombardarlo.

11    M. CATALANI – p. 253 (ed. 1783) testimonianza del Poggi: “Avendo più di 1500 volumi

          riguardanti il diritto pontificio il diritto civile, niente vi era in essi che egli non avesse esaminato

          diligentemente: è la stessa cosa si può dire dei libri di Agostino e Gerolamo. Conobbe tanta storia,

         quanta nessun altro; conosceva tutti poeti e filosofi. Nel suo tempo non ci fu nessun uomo onesto

         e dotto che non gli fosse amicissimo”.

12    S. ANTONINO DI FIRENZE – “Passò da questo mondo santamente, portando un aspro cilicio che 

         assiduamente portava sulla nuda carne. La sua morte causò a tutti quelli che le conoscevano

         grande tristezza e dolore, per le sue insegni qualità. Quest’uomo era veramente santo, amato

         da  tutti per la sua rettitudine, grande per sapienza e prudenza, dotto nel diritto, padre il riposo

         dei religiosi. Dava ai poveri con abbondanza. Sobrio; frequentemente celebrava con devozione 

         e non cessava mai di studiare….”

13    Fondò il collegio Capranica con particolari riguardanti agli studenti poveri di Fermo, difatti ne

         scrisse i regolamenti, ora perduti, intitolati: “Liber Constitutionum collegii pauperum scolarium

         sapientiae Firmanae editus per Revnum Dominicum de Capranica, Cars. Firmanum vulgariter

         nuncupatum etc.”

CAPITOLO X

IL PERICOLO TURCO

     mentre i piccoli Stati spagnoli di Leon e di Castiglia, con mirabile accordo, erano riusciti a liberare la Spagna dalla dominazione degli Arabi, il pericolo ottomano cresceva per l’Italia e per i Balcani. Sembra incredibile che di fronte a un pericolo così tremendo come il pericolo ottomano, le nazioni europee restassero indifferenti e divise da rivalità, senza saper trovare un accordo contro il pericolo comune.

     I Papi del tempo tentano ogni mezzo per ricucire in qualche maniera l’unità europea contro i musulmani, ma i loro sforzi restano vani. Niccolò V (1447-1455) cercò di ristabilire la concordia tra gli Stati europei, per tentare una crociata contro i Turchi. Fu coadiuvato da molti illustri ecclesiastici, come il Card. Bessarione, la cui missione riuscì valida nei paesi germanici, ma in Francia fu insultato dal re Luigi XI; Giovanni da Capistrano e Giacomo della Marca che ottennero dei risultati tra i popoli slavi; Simone da Camerino Agostiniano, nominato sopra, che riuscì a far firmare la pace di Lodi tra Milano e Venezia; il nostro Vescovo Domenico Capranica che convince ad aderire all’accordo Napoli e Firenze.

   Succedette a Niccolò V Callisto III (1455-1458), spagnolo che fece pubblico voto di spendere tutti i tesori della Chiesa per la crociata contro i Turchi, ma visse solo tre anni. Per tener viva nel popolo la preoccupazione del pericolo che correva la cristianità, ordinò che si suonassero le campane a mezzogiorno, oltre che all’Ave della sera e si recitasse l’Angelus, usanza che resta anche oggi. Ma molti lo derisero, perché essendo comparsa del 1456 La cometa di Hallei, si disse che il Papa aveva fatto suonare le campane per esorcizzare la cometa.

     Nonostante tutto, qualche successo isolato contro i Turchi si otteneva. Possiamo ricordare la liberazione di Belgrado assediata da Maometto II con 150.000 turchi, avvenuta per opera di Giovanni Corvino Uniade governatore di Ungheria, assistito dal francescano Giovanni da Capistrano. Il 22 Luglio 1456 Maometto II dovette ritirarsi gravemente ferito da una freccia. In ricordo della vittoria Callisto III istituì la festa della Trasfigurazione. Ma di questo e di altri isolati successi delle armi cristiane non vollero approfittare gli Stati europei in lotta tra di loro.

     Pio II (Enea Silvio Piccolomini) (1458-1464) seguitò la opera di Callisto III nel cercare l’unione tra gli Stati europei contro i Turchi. Risultato vano il Convegno di Mantova del 1459, convocato per convincere i governanti europei a unirsi contro il pericolo ottomano, Pio II decise di partire lui stesso per la crociata, a capo di una flotta pontificia affiancata dalla flotta veneziana, l’unica potenza che ascoltò la preghiera del Papa. Ma il 15 Agosto 1464, mentre Pio II vedeva arrivare nel porto di Ancona le navi veneziane, morì, e con lui anche la Crociata.

FERMO E PIO II

     I principi e le città italiane si comportavano come se il pericolo ottomano fosse per essi molto remoto, e si azzuffavano a difesa dei propri particolari e meschini interessi. Fermo e le città marchigiane, molto esposte al pericolo, risposero abbastanza bene all’invito dei Papi.

   Nel 1456, nell’esercito inviato da Callisto III per la liberazione di Costantinopoli militavano più di tremila Fermani. E quando Pio II radunò in Ancona l’armata pontificia e veneziana per la crociata, le città picene, e specialmente Fermo, risposero generosamente. Si legge nella storia di Ripatransone che quella città mandò al Papa in Ancona venti some di grano, e prosciutti per un valore di cinquanta ducati; e Fermo offrì per la crociata 3500 ducati d’oro, il mantenimento di una nave per sei mesi e buona quantità di cereali.

     In questa occasione non si parla di combattenti fermani che sicuramente non mancarono, ma non furono troppi, perché anche per Fermo, come per tutti gli altri staterelli italiani, non mancavano difficoltà interne, e pericoli è beghe con gli stati confinanti. Proprio in quegli anni le agitazioni nelle Marche erano cresciute. Nel 1460 il conte Giacomo Piccinino che si era inimicato Re Ferdinando partiva dalla Romagna per andare in aiuto a Giovanni d’Angiò che voleva conquistare il Regno di Napoli, contro il volere del Papa che aveva riconfermato il Regno a Ferdinando. Federico di Urbino e Alessandro Sforza ebbero l’ordine di combattere il Piccinino e ritardarne la marcia verso Napoli; e anche Fermo e  Ripatransone preparavano le loro forze per prevenire un eventuale attacco delle forze nemiche della S. Sede, o danni dalle truppe amiche1.

     Tutta la costa adriatica sembrava impazzita; pareva che il pericolo ottomano non esistesse per essa, mentre era la zona più esposta. Sigismondo Malatesta  junior occupava Fano, combattuto da Federico di Urbino; Ancona minacciava Jesi difesa dal Legato Pontificio; Ascoli combatteva per tener soggetta Castignano e riconquistare Controguerra occupata da Gioisia Acquaviva2.

     E proprio nell’estate del 1464, appena morto Pio II e fallita la crociata, Fermo occupava Monsampietrangeli e la dava alle fiamme. Ma il Papa Paolo II minacciò gravi castighi a Fermo la quale chiese perdono che le fu concesso per interposti buoni uffici di Ripatransone, a patto che Monsampietrangeli fosse ricostruita a spese dei Fermani, e fossero a quei cittadini restituiti tutti i beni perduti3.

     Gli avvenimenti di questa seconda metà del sec. XV sono così complicati, che è difficile seguirli e valutarli. Nelle interminabili lotte tra i vari Stati italiani furono coinvolti anche i Papi. Paolo II (1464-1471), il grande amatore delle scienze e delle arti, nonché predicatore di pace di concordia, fu costretto a prendere le armi per non perdere Rimini; il suo successore Sisto IV (1471-1484), coinvolto nella fallita congiura dei Pazzi costretto a dichiarare guerra ai Medici di Firenze.

     E intanto i Turchi occupavano l’Albania nel 1468; toglievano ai Veneziani, nel 1470,  il Negroponte; e nel 1480 Maometto II occupò Otranto, facendo strage di quella popolazione. Furono massacrati, insieme al vescovo e a duecento sacerdoti, novemila cittadini di ventiduemila che ne contava quella città4.

     Ormai per la Marca il pericolo ottomano era entrato in casa, poiché c’erano di quelli che, accecati da privati interessi dell’odio politico, favorivano il nemico. Il principale di essi era Boccolino Guzzone che si era impadronito di Osimo. Costui temendo la reazione del Papa, tentava di accordarsi con Maometto II, promettendogli, se fosse venuto in suo aiuto, il possesso della Marca, dalla quale sarebbe stato facile conseguire la conquista di tutta l’Italia.

     I Fermani ebbero la fortuna di scoprire la congiura, facendo prigioniera la nave che portava verso oriente il messaggero di Gozzolino e impadronendosi del testo dell’accordo. Il Papa Innocenzo VIII, con un breve del Novembre 1484, loda e ringrazia i Fermani.

GUERRA PER MONSAMPIETRANGELI

     Il 12 agosto 1484 morì Sisto IV e, come avveniva sempre durante la sede vacante, Fermo assalì Montesampietrangeli. Il Vicedelegato della Marca, deciso a impedire ogni costo la rovina di quel castello, si trasferì col suo esercito a Monte San Giusto e ordinò ad Ascoli e a Ripatransone di inviare soldati, oppure di attaccare il territorio fermano, per dividere le forze di questa città, e rendere a lui più facile la difesa di Montesampietrangeli.

     Quest’ordine era per Ascoli un invito a nozze. Le sue aspirazioni al mare erano sempre vive; questa era l’occasione buona per battere l’esercito fermano nell’interno e recuperare poi San Benedetto in Albula. Un forte esercito ascolano avanzò fino a Montegiorgio, dove nell’Agosto 1444, sbaragliò l’esercito fermano e lo costringe ad abbandonare l’impresa di Montesampietrangeli5.

     Dall’altra parte dell’esercito di Ripatransone, aiutato da quattrocento fanti ascolani, assalì Acquaviva e devastò i vigneti e gli agrumeti della costa.

     Montesampietrangeli fu salva, ma a rendere vane le  aspirazioni marittime di Ascoli intervenne il Papa. Eletto nello stesso Agosto 1484 Papa Innocenzo VIII, impose alle tre città di deporre le armi, sotto pena di gravi castighi6. L’ordine del Papa ottenne solo una stentata tregua di dieci mesi, e corse pure il pericolo di non raggiungere quel termine.

     Difatti: il 12 Febbraio 1485, il giorno delle Ceneri, il Vescovo di Fermo Giambattista Capranica fu ucciso dicono gettato da una finestra da alcuni cittadini fermani7. Per Ripatransone che faceva parte della Diocesi Fermana l’occasione era ottima per rompere la pace con Fermo. Si ingigantì lo scandalo e si proibì il traffico riparano con Fermo. Per Ascoli e per Ripatransone era questo un momento buono per attaccare Fermo, interdetta dal Papa. Il 3 Gennaio 1486, Ascolani e Ripani si accordarono per la guerra contro Fermo e ne concertarono i piani8.

LA BATTAGLIA DI VETRETO

     I primi di maggio 1486, l’esercito alleato di Ascoli e di Ripatransone avanzò verso Acquaviva e la cinse d’assedio. Fermo mandò in difesa di quel castello 13.000 uomini che posero l’accampamento sul Colle della Guardia. I 2 eserciti si disturbavano con scaramucce per diversi giorni, finché gli Ascolani avvisati che i Norcini si muovevano in aiuto dei Fermani, decisero di accelerare i tempi, provocando il nemico in campo aperto. Tolsero l’assedio di Acquaviva e schierarono l’esercito in battaglia sul Colle di Vetreto. Ai per mani non conveniva a combattere prima che arrivassero gli aiuti di Norcia, perché si sentivano meno forti del nemico, ma per non palesare i loro piani, fingere di accettare battaglia e in un breve scontro ebbero dei morti.

     La sera mandarono al campo nemico un trombetta per chiedere la sospensione delle armi allo scopo di seppellire i morti. La tregua fu concessa. Gli Ascolani condussero il trombetta nel loro accampamento e lo invitarono a bere e a far festa con loro, facendogli pensare con la loro allegria che aspettavano presto rinforzi. I Fermani caddero nell’inganno. Il trombetta, ritornato dai suoi, riferì quello che avveniva nel campo nemico; e l’esercito fermano, nel timore che potessero davvero arrivare rinforzi agli Ascolani, si decise di attaccare battaglia subito, senza aspettare gli aiuti di Norcia. Si combatté accanitamente per molte ore, finché l’esercito fermano fu rotto e costretto alla fuga, lasciando i bagagli nell’accampamento, in mano ai nemici9.

     Il Legato Pontificio cercò di concludere una tregua, chiesta da Fermo e il 25 giugno 1486 Ripatransone vi aderì, contro la volontà di Ascoli. Ripa faceva la sua politica: era alleata di Ascoli, ma non voleva correre il pericolo di essere asservita da Ascoli. San Benedetto in Albula, nell’interesse di Ripa, stava meglio in mano ai Fermani, che agli Ascolani; Fermo era stato bene che fosse sconfitta, ma non conveniva che fosse indebolita troppo. 

     Ascoli aderì all’invito del legato; e i soldati ascolani, guidati dal loro condottiero Capuano, scorsero il territorio fermano fin sotto le mura della città, recando guasti e caricandosi di preda10.

     Dietro rinnovate minacce del Papa, Ascoli, Ripatransone, Fermo, Montesampietrangeli, nel monastero di Fonte Avellana, furono costrette a firmare un trattato di pace dettato dallo stesso pontefice11.

NOTE

1       MANOSCRITTI ASCOLANI – “A. D. 1460 die ultima Martii  Comes Jacobus Piccininus venit de

         Romania cum suo exercitu et firmavit se prope Columnellam. Eum sequebatur Comes Urbini et

         Alexander Sfortia cum suis copiis”.

         “A.D. 1460 die 20 Juli Comes Jacobus Piccinini et Comes Julius de Camerino ad una parte,  et

         Comes Urbini et Alexander Sfortia ad alia cum suis exercitibus fecerunt maximum Proelium

         quod inceptum fuit meridie et duravit usque ad tres horas noctis, in quo mortui fuerunt multi

          omines et equi inc, inde, apud S. Fabianum.

2        MANOSCRITTI ASCOLANI – “1459, DIE 19 Decembris populus Asculanus recuperavit

           Controguerram, quam abstulerat D. Josias Aquaviva Domino Pwtro Aquilano, domno dicti  

           castelli”.

3     MANOSCRITTI ASCOLANI – “Anno 1464, die 16 Augusti, Firmani incendedunt Montem Sncti         

           Petri de Allio, quod postea refecerunt sui sumptibus, de mandato Pauli Pontificis”.

         (Il 16 agosto: proprio il giorno dopo la morte di Pio II; il che ci fa supporre che l’assalto a

           Montesampietrangeli era preparato da tempo, e si aspettava solo che il Papa partisse per la

           crociata per effettuarlo).

4         MANOSCRITTI ASCOLANI – “Claris Maumeti Teucri venit in Italiam et expugnavit et cepit

           Regni oppi dum quod dicitur Otranto, ubi necavit Episcopum civitatis et  ducentos sacerdotes

           et octomilia hominum”

5         MANOSCITTI ASCOLANI – Anno 1484 – “Eodem anno, die 12 Augusti mortus est Papa Xistus

           ad horam quartam noctis et per illos dies Firmani obsederunt Montem S. Patri de Angelis. Ad

           auxilium et subsidium ippius oppidi ex precetto D. Gubernatoris populus Asculanus ivit, rupit

           et fugavit Firmanos in territorio S. Mariae in Georgio, ubi fuere occisi multi Firmani de agro et

           de urbe; de Asculani vero pauci…”

6        COLUCCI – A.P. t. XVIII – app. n. LVI-LVII-LVIII

7        Si dice che il vescovo Giambattista Capranica fu preso in casa di una signora Fermana sua

          amante, fosse stato gettato dalla finestra dai fratelli di lei, sarebbe vano cercare i veri motivi di    

         questo delitto. Possiamo accettare la versione corrente, perché in quei tempi tutto era

         possibile.

8      TANURSI – in  Colucci t. XVIII p. 97 e segg.

9      TANURSI – in Colucci t. XVIII p. 97

10    MANOSCRITTI ASCOLANI – “5 Augusti 1486, populus Asculanus fecit maximam incursionem in

         agrum firmanum usque ad portam civitatis et fecit maximam predam. In qua fuit occisus

         Cicchinus Filère cum sex civibus ascolanis, cuis incursionis dux fuit Capuanus”.

11    COLUCCI – A.P. t. XVIII – app. dipl. n. LVIII

CAPITOLO XI

ATTIVITA’ ECONOMICA DI FERMO

NEI SECOLI XV E XVI

     Ho cercato nelle pagine precedenti di illustrare al lettore la potenza di Fermo e la sua privilegiata posizione nello Stato Pontificio. Fermo era una provincia della Chiesa; ma il “mero e misto impero”, cioè l’amministrazione della giustizia in cause civili e criminali, e la zecca o facoltà di batter moneta propria; riconosciutele da Papi e regnanti fin dal 1211, conferiscono a Fermo una quasi sovranità che forse nessuna città marchigiana ebbe mai1.

     Ora, prima di lasciare questo tormentato secolo XV, voglio presentare al lettore un quadro, necessariamente incompleto, delle attività economiche fermane di questo periodo. Ci orizzonteremo, elencando prima i Collegi delle Arti, costituiti nel Consiglio di Cernita del 14 Ottobre 1386. Essi sono:

1º  Giudici, procuratori, notai (erano circa 130);

2°  Medici, farmacisti, orefici, sellari (circa 50);

3°  Mercanti (circa 114);

4°  Beccai, casiolari (= droghieri), barbieri, falegnami, fabbri (circa 125):

5°  Calzolai, mugnai, fornaciari, osti, mulattieri (circa 166);

6°  Sartori, pellicciari, scalpellini, fabbricatori (circa 140).

     Nel sei Collegi delle Arti, codificati nel 1386, non vi figurano agricoltori e pescatori; segno che tali organizzazioni non esistevano.

AGRICOLTURA

     Ma all’agricoltura era ancora la principale ricchezza dello Stato Fermano. Dalle varie forme di conduzione agricola era prevalsa la mezzadria, come metodo più conveniente, sia per il proprietario, come per il coltivatore; poiché l’associazione del capitale col lavoro favoriva gli interessi dell’uno e dell’altro e presentava maggiore sicurezza e giustizia, sia nel rischio, che nel profitto.

     Il territorio fermano è particolarmente adatto allo sviluppo agricolo. Tutto il territorio è solcato da tre fiumi: il Tenna, l‘Ete e l’Aso che formano vaste pianure ricche di culture, e tra un fiume e l’altro si elevano colline di media altezza, assolate e fertilissime; solo una minima parte verso i Sibillini è montagnosa.

     La maggiore produzione agricola era sicuramente il grano che veniva esportato nell’interno dello Stato Pontificio e anche fuori, dopo che si era provveduto a rifornire i granai della Congregazione dell’Abbondanza. Era questa, una istituzione comunale, che, specialmente negli anni favorevoli, imponeva ai castelli una data quantità di frumento, che si immagazzinava per essere usato in tempo di carestia, e per venire incontro ai bisogni dei poveri.

     Buona era la produzione della frutta: pere, mele, pesche, susine, noci, ciliegie, sufficienti al fabbisogno interno dello Stato, e sulla fascia costiera, molto curata la produzione degli agrumi2.

     Non doveva essere molto abbondante la produzione del vino e dell’olio, perché gli Statuti comminano sanzioni contro gli esportatori di questi prodotti e ne favoriscono invece la importazione3.

     La causa principale di questa carenza è da ricercarsi nella cecità degli odi e delle feroci rappresaglie allora in uso, per cui era frequente la rovina delle vigne degli oliveti, come si legge in tanti documenti; nonostante che gli Statuti comminassero pene severissime per simili danni.

     Abbastanza fiorente l’allevamento del bestiame, soprattutto degli ovini e dei suini, poiché negli Statuti troviamo speciali attenzioni per la lana, per i formaggi e per le carni salate.

ARTIGIANATO

     Il grande numero di artigiani nella città di Fermo era insieme indice e causa di benessere. Settant’otto calzolai, sessanta falegnami, ventuno fabbri, quaranta mulattieri e altre numerose attività artigianali significavano che molte centinaia di famiglie vivevano bene del loro lavoro; e per i cittadini significava trovare facilmente il soddisfacimento dei propri bisogni. Un buon artigianato, specialmente in quei tempi (ma da rimpiangersi anche oggi), era la vera base del benessere cittadino.

     Le autorità comunali si preoccupavano di proteggere l’artigianato, difendendolo dalle eccessive imposte del Governo Regionale del Rettore. Per essere sempre a conoscenza delle disposizioni del Governo Centrale e regionale, gli Statuti imponevano la nomina di un rappresentante del Comune (sindicus= ambasciatore) presso la Curia del Rettore e presso la Curia Romana4.

     Il Consiglio Comunale si preoccupava di accrescere l’attività artigianali e il 19 Settembre 1448, il Comune apre a proprie spese una tintoria che nel 1454 si perfeziona con la venuta a Fermo di un tale Cola di Amatrice che incrementa e perfezione l’arte della tintoria della lana, favorito dal Comune con un bellissimo contratto, riportato dal Papalini del suo “Effemeridi della città di Fermo”5.

     Nel 1470 il Comune assegna 1600 ducati a un certo Giovanni Ferri di Ascoli che intende aprire una lavorazione della lana a Fermo, e il 28 Giugno 1471, il Consiglio Comunale elegge tre cittadini capaci, deputandoli a interessarsi dell’arte della lana6.

     Nel 1470 il Consiglio Comunale dà il permesso non solo, ma offre uno stipendio, e assegna una casa e decreta l’esenzione dalle gabelle a un filandaio di S. Severino che vuole stabilirsi a Fermo con la famiglia, per esercitarvi la lavorazione della seta7.

     Nel 1472 il Comune invitò a Fermo un artigiano lombardo, per impiantarvi una fabbrica di berretti8.

     Nel 1485 fa un contratto con Cristiano di Perugia che fonda a Fermo un grande filatoio di seta.

COMMERCIO

     La presenza di settantasette notai e centoquattordii mercanti ci dice quanto sviluppato fosse il commercio a Fermo nel sec. XV. Per il commercio al minuto che si volgeva nelle botteghe cittadine sono da notare le 23 botteghe dei beccai, di proprietà del Comune e da esso controllate, che si davano in appalto a privati cittadini.

    Il mercato del pesce che doveva essere molto abbondante, data l’estensione della costa dello Stato Fermano, era strettamente controllato dal Comune forse dato pure in appalto.

     Il commercio del sale era severamente riservato al monopolio di Stato. I contrabbandieri del sale erano condannati, senza processo, pagare  50 lire di multa e alla requisizione del sale e degli animali che lo trasportavano. Chi denunzia un contrabbandiere di sale, oltreché tutelato dal segreto, può partecipare alla divisione dei beni requisiti9. Le saline, tanto del Tennacola, come di Torre di Palme e di Grottammare erano molto attive, ma anche le necessità dello Stato erano tante.

   Le tredici botteghe dei droghieri venivano rifornite di spezie e di prodotti orientali dai navigli dello Stato i quali, pur messi in crisi dalle grandi navi di Venezia e di Ancona, svolgevano nell’Adriatico una nutrita attività commerciale. 

 LA FIERA DI FERMO

     Molta importanza si dava alle fiere periodiche che si tenevano, e alcune anche oggi si conservano, sia Fermo, che nei castelli dello Stato. Particolare attenzione si prestava ad alcune che si tenevano nelle località di confine, come: Sant’Angelo in Piano (Carassai), S. Angelo in Pontano, S. Claudio al Chienti che aveva sempre grande affluenza, per la sua posizione centrale nella regione. Erano fiere che duravano giorni; attiravano anche mercanti forestieri e vi si realizzavano affari rilevanti .

    Ma la più grande manifestazione della potenza commerciale di Fermo era la fiera che si volgeva nella città, dal 7 Agosto fino a metà Settembre. Era la fiera che interessava tutta la Marca e parte del vicino Regno di Napoli. Un segno della sua importanza è il fatto che, il 7 Agosto 1357, Papa Sisto IV, proibì agli Anconetani di bandire qualsiasi fiera, durante il tempo che si celebrava la fiera di Fermo10.

     Minuziose disposizioni regolavano il buon andamento della fiera11.

     “La feria predicta sia et essere debba franca ad omne persona che venire vorrà nella ditta feria, cioè che nullo cittadino over forestiero et contadino de qualunca donsitione  se sia, possa essere costritto da alcuno suo creditore per veruno debito contratto nante lo tempo de la dicta feria, né per rapresalia de Comune,  né de speziale persona che avesse contra niuno …..”.

     “Che si debia elegere quattro ….. (mediatori) over sensali li quali sieno literati et che sapia scrivere tucti li mercati che se facesse da ventitre in su”.

     Si dovevano pure eleggere due periti, che dovevano controllare se il denaro usato nella fiera era legale; così pure si eleggevano tre cittadini assistiti da un notaio, per dirimere le questioni che sorgessero nell’ambito della fiera.

     Dal libro VI degli Statuti, rubr. 85, possiamo conoscere le merci che alimentavano le fiere di quei tempi:

     “Zafferano; seta sottile Marchigiana; seta di Puglia, cera, zucchero a zolle e in polvere; speciarìa; pepe; miele; allume di Rocca; mandorle, pignoli, uva passa, panno colorato camertone e Eugubino, panni bisi, Stramegno, lana fina, lana grossa, panno di lino, guarnello, canavaccio, funi spaghi e stoppa, lino marchigiano, lino lombardo, panni veronesi, fiorentini e altri panni fini, merceria, stagno, ferro, piombo, acciaio, ferro lavorato, metallo lavorato, rame lavorato e non, pellicceria concia e non concia, pelle francese, pelli e lanute, corame grosso, corame sottile, concio, carta bambagina, carta pecorina, semente di lino, noci e altre biade, peli di cavallo, peli di coda di cavallo, fichi secchi, sego e sogna, pesce salato, carne salata e cascio, legname lavorato, vetro lavorato, cote di pietra, seta sottile di Romagna seta grossa di Romagna, vischio, riso, oro e argento lavorato, coralli, “pater nostri d’ambra”, coltri di seta e di panno ecc.

LA COMUNITA’ EBRAICA A FERMO

      Relativa a questa grande attività economica è la massiccia presenza degli Ebrei a Fermo. Fin dal secolo XII furono sempre numerosi e andarono sempre crescendo di numero fino al secolo XVI , raggiungendo le cinque o seicento unità. Verso la fine di questo secolo, non si hanno più notizie di essi a Fermo12. Forse durante l’episcopato di Pietro Bini acerrimo nemico degli Ebrei, questi se ne andarono, o furono mandati via13.

     Nel fermano gli Ebrei avevano un ambiente favorevole sotto ogni aspetto. Una città come Fermo, dove attivissimi erano il commercio, l’industria e l’artigianato, richiedeva l’impiego di grandi quantità di denaro liquido che solo gli Ebrei erano in grado di fornire; ed essi vi furono accolti con favore e trattate con un certo riguardo, anche se talvolta dovettero subire soprusi e saccheggi, come nel 1396, quando i fuorusciti ghibellini, occupata la città, saccheggiarono e devastarono tutte le case degli Ebrei14; e subire umiliazioni e discriminazioni, come dopo la predicazione dell’Agostiniano Simone da Camerino, quando il Consiglio Comunale approvò la decisione che ogni ebreo portasse sul vestito una coccarda circolare gialla, come segno di riconoscimento15. D’altra parte è ovvio che i saccheggiatori non si muovono contro una religione o una razza, ma contro chi ha quattrini, allora solo gli Ebrei ne avevano in abbondanza; e la discriminazione non era solo colpa dei Cristiani, ma dipendeva soprattutto dagli Ebrei stessi che si erano autodiscriminati, pretendendo di vivere tra le popolazioni cristiane, odiandole e sfruttandole; non amalgamandosi con nessun popolo; restando sempre i più superbi e tenaci razzisti di ogni tempo. È vero che la Chiesa pregava per la conversione dei “perfidi” Giudei (e il più delle volte l’attributo era appropriato), ma non li ha mai chiamati “cani”, epiteto usuale degli Ebrei contro i Cristiani. È vero che da parte di Concili e di papi ci furono disposizioni discriminatorie nei riguardi degli Ebrei, ma chi si desse la pena di esaminarle una, per una (sempre inquadrate nel tempo), le troverà ragionevoli. Molte di esse, come per esempio l’abitazione nei ghetti e l’obbligo di non uscire in pubblico durante la Settimana Santa, più che discriminatorie, erano disposizioni appropriate per proteggere la vita degli Ebrei, generalmente malvisti dal popolo.

     A Fermo un vero ghetto non è mai esistito, fino al sec. XVI. Solo nel 1556, il Card. Carafa di pessima memoria, nipote del Papa e governatore di Fermo, fece organizzare un ghetto per gli Ebrei di questa città, nella contrada S. Bartolomeo, che corrisponde pressappoco a quella zona di scomode viuzze a nord dell’attuale Palazzo di Giustizia, dove era situata la sinagoga. Fino a quel tempo gli Ebrei fermani potevano abitare dove volevano; ma di fatto quasi tutti erano sistemati in contrada S. Bartolomeo e a Campoleggio16.

     Erano anche autorizzati dal Consiglio Comunale esercitare i loro traffici in botteghe, nella via dei magazzini, tra S. Bartolomeo e piazza San Martino17.

IL MONTE DI PIETA’

     A Fermo gli ebrei erano favoriti dalle autorità e protetti dalle leggi comunali, perché i loro prestiti erano utili, sia ai bisogni del Comune, sia al sostegno di traffici; ma erano odiati dal popolo, per motivi di religione e di razza. Ma c’era anche un altro motivo di odio, il più importante, ed era l’usura.

     La principale attività degli Ebrei era prestare denaro a interesse. Il Concilio Lateranense IV del 1215 aveva stabilito che essi non potevano esigere interessi troppo elevati, ma spesso approfittando di necessità particolari e di periodi di emergenza pretendevano tassi enormi, fino al trenta e quaranta per cento. Finché erano le autorità o i grossi mercanti a contrarre il debito, le conseguenze non erano irreparabili; ma quando i debitori erano singole famiglie e per giunta non ricche, le conseguenze erano rovinose per esse, perché gli alti interessi del prestito contratto le faceva presto trovare di fronte a un debito che non erano in grado di pagare, e a un creditore ebreo inesorabile e spietato. E non sono fuori posto alcune risoluzioni pontificie che vietavano che un cristiano diventasse schiavo di Ebrei, perché essi non avrebbero esitato a prendere schiavo un debitore impossibilitato a pagare, purché non si trattasse di un correligionario. A tutto questo aggiungi la predicazione dei frati che definivano immorali e peccaminoso qualsiasi prestito a interesse.

     Contro la disumanità dell’usura ebraica sorsero nel secolo XV  “i Monti di Pietà”, geniale istituzione dei Frati Minori Francescani.

     Si ritiene comunemente che l’ideatore del Monte di Pietà sia stato il Beato Domenico da Teramo, in occasione di una predicazione quaresimale a Perugia, del 1460. Ma poiché un po’ prima altro frate, Beato Domenico da Leonessa, nella quaresima del 1558 istituiva in Ascoli il Monte di Pietà, penso che sia superfluo attribuire l’invenzione di questa grande istituzione a un singolo18. L’ideatore del Monte è l’Ordine Francescano che già nel 1458 dava ai suoi predicatori quaresimalisti l’invito a promuoverlo nella città assegnata alla loro missione.

     A Fermo il Monte di Pietà fu istituito undici anni più tardi, nella quaresima del 1469, dello stesso Beato Domenico da Leonessa19. Ma all’istituzione giuridica di quell’anno non ebbe poi applicazione pratica; difatti nove anni dopo, nel 1478, B. Marco da Montegallo, durante la predicazione quaresimale, pregò il Comune che finalmente si effettuasse la fondazione del Monte di Pietà, e in modo che poi non perisse. Egli stesso ritocco gli Statuti e presiedette le adunanze degli incaricati della direzione del Monte, e l’otto Aprile esso iniziò la sua attività20. Penso che i ritardi e le difficoltà che il Monte di Pietà incontrò a Fermo siano dipese principalmente da due motivi: la freddezza del Comune verso la nuova istituzione e l’ostilità dei frati verso di essa.

     Dobbiamo sempre tener presente che gli Ebrei a Fermo erano molto numerosi e potenti; tenevano in città una quindicina di banchi di prestito. Il Comune, che non riusciva mai a pareggiare i conti, aveva bisogno di prestiti ebraici, come ne avevano bisogno anche le attività cittadine. Il Comune non poteva urtare gli Ebrei, appoggiando il Monte di Pietà istituito proprio contro di essi; difatti è il Vescovo e il suo Vicario che approvano gli statuti del Monte voluto da Fra Domenico da Leonessa; il Comune è assente.

     Riguardo poi ai Frati, a Fermo erano potenti francescani, ma forse anche più potenti erano gli agostiniani e i domenicani, i quali non approvavano i Monti di pietà, perché per essi era contro la morale prestare a interesse, anche se esso si limitava, come nel caso, al due o tre per cento. E forse a causa di questo rigorismo morale, anche tra i francescani sorsero dissensi: i perugini volevano il prestito del Monte “cum merito”, cioè con piccolo interesse; i marchigiani con Fra Marco di Montegallo “sine merito”, cioè del tutto gratis.

     Nel 1468 Frate Marco viene a predicare a Fermo; sveglia le autorità comunali e le convince a interessarsi dei poveri, mettendo un po’ da parte gli interessi degli Ebrei; propone il suo statuto per il Monte, che non può urtare la sensibilità morale delle altre fraterie, poiché i prestiti del Monte sono “sine merito”; e riesce nel suo intento, aiutato dalla generosità di tanti cittadini fermani e dal Consiglio Comunale che, l’otto Aprile 1468, legalizza il Monte di Pietà 21.

     Ma qualche volta i Santi si ingannano, rimettendo tutto nelle mani della Provvidenza, la quale invece vuole la collaborazione fattiva dell’uomo; e anche il Monte di Pietà di Fermo, dopo una trentina di anni, nei quali alle esigue assegnazioni del Comune si erano aggiunte le generose donazioni dei cittadini che gli avevano permesso di prestare “sine merito”, sentì la necessità di cambiare metodo. Fu necessario allinearsi alla regola ormai universale, di ammettere per il Monte un minimo interesse per sostenere le spese di gestione che andavano crescendo. Nel giugno 1506 si riformarono gli statuti del Monte di Pietà e il 25 Agosto il Consiglio Comunale li approvò, destinando al Monte anche il ricavato delle multe 22.

     Dopo questa riforma degli statuti, il Monte di pietà fermano godette prosperità sempre crescente; tanto più che nel 1517 il Concilio Lateranense V fece cadere ogni prevenzione dichiarando il Monte di Pietà “leciti, pii e meritori”, e arricchendola di indulgenze; “lecito un piccolo interesse, per sostenere le spese”23.

NOTE

1      Bolla di Eugenio IV – da Statuta Firmanorum p. 3 “Comunitas Firmana et officiales Rectores

        dictae civitatis habeant et habere debeant merum et mistum imperium et liberam ppotestatem

        cognoscendi et punendi de quibuscunque excessibus et dilictis commissis et committendis in dicta  

        civitate, comitatu et districtu cuiscunque generisexcessus et delicta existant”.

        Rescritto di Ottone IV – Arch. St. Fermo perg. n. 188 – “Nos civibus civitatis Firmanae dilectis

        fidelibus nostris plenam licentiam dedimus et potestatem cudendi et faciendi denarios”.

2      Agrumeti tra Pedaso e San Benedetto ci sono stati fino a pochi anni fa. Ancora si può incontrare

        qualche recinto di pietrame che serviva per proteggere i limoni dai ladri e dal vento.

3      STATUTA FIRM. l. V – rubr. 27-29 – e rubr. 1-2-3

4      STATUTA FIRM. l. II – rubr. 62 pag. 49 (ed.1589)

5      LIBER ISTRUMENTORUM – vol. I Arch. St. – Fermo

6      PAPALINI – Effemeridi p. 93

7      PAPALINI – Opera cit. p. 55

8      PAPALINI – p. 80

9      STATUTA FIR. – l. V rubr. 72

10    PAPALINI – Effemeridi p. 66

11    ACTA DIVERSA – Arch. Com. Fermo – “Capituli de la feria de Fermo”.

12    MARIA TASSI PISANI – La comunità ebraica di Fermo fino al secolo XV tesi di laurea

         Anno Acc. 1968-69 -Urbino. È il miglior lavoro esistente sull’argomento

13    PAPALINI – Effemeridi della città di Fermo – p. 35

14    ANTON DE NICOLO’ – Cronache della città di Fermo.

15    ANTON DE NICOLO’  – “…1433 de mense Mai  venit Firmum quidam frate Eremitanus vocatus

          Frate Simone da Camerino, et predicavit quamplurimus vicibus …. e disse tra le altre cose che i

          Giudei si confondevano coi cristiani; e tanto disse che in 1 grande cernita fu stabilito che tutti i

          Giudei portassero un segno, come un 0 di colore giallo….”

16      ANTON DE NICOLO’ – Cronache etc. – “ricuperata, la città, (27 Maggio 1396), tutti i cavalieri

           incominciarono a occupare le case ….. A rubare e saccheggiare tutta la Giudea, cioè tutti gli

          Ebrei, circa cento case, tra le contrade di S. Bartolomeo e Campoleggio”.

17    STATUTA FIR. – l. I p. 289 – “Dietro la proposta del nobile Cavaliere di Ludovico degli  

         Uffreducci e dietro disposizione del signor Matteo di Luca, fu registrata la legge che gli Ebrei        

         Potessero esercitare il loro mestiere nelle botteghe sulla strada dei fondachi, dalla chiesa di S.

         Bartolomeo in qua verso la piazza San Martino”.

         La via dei fondachi corrisponde al Corso Cefalonia (allora non c’erano ancora i palazzi

         monumentali), e anche oggi è la via delle grandi botteghe.

18    G. FABIANI – Gli Ebrei e il Monte di Pietà in Ascoli.

19    MARINI – Rubriche e trasunti dei libri delle cernite t. II p. 292

         “Deinde die 23 Martii  (1469) habetur capitula Montis Pietatis condita ad persuasionen

        Venerabilis Fratris Dominici de Lionissa ordinis Minorum de Observantia in Ecclesia Cathedrali

        Episcopatus Firmi in Quadragesima proxime exacta,  predicatoris optimi, , revisa et approbata per

        Rvmus Petrum Paulum eius Vicarius”.

20   MARINI – ivi p. 195 e 227 – “23 Gennaio 1478: “Venerabilis Frater Marcus Ordinis Minorum,

        Predicator petit fieri Montem pietatis”.

        “27 Marzo: “…. Proposuit capitula Montis Pietatis aperiendi  in perpetuum ita ut conservaretur

         nec amplius periret”.

        “Deinde habetur adunantia sub 10 Martii pro ordinandis capitulis Montis Pietatis cum venerabili

        Fratre Marco predicatore Ordinis Minorum et Domino Ludovico de Euffredutiis, Domino Antonio   

        de Pedibus, Domino Andrea domini Petri, Pandulfo Rogeri, Parjacobo ser Joannis, Domino Piero

       Angeli, , Sntonio domini Angeli, Joanne Filippi”.

21  “Die octo Aprilis confirmantur capitula Montis Pietatis a Dominis Prioribus, regolatori bus et

        predictis civibus deputatis una cum Domino Venerabili Patre Frate Marco predicatore”.

22   MARINI – Opera citata – II p. 316.

        “Die 25 Augusti in Concilio approbantur capitula Montis Pietatis, delegati eisdem  capitibus

        solidorum de maleficiis et confirmatis deputatis”.

23   LEONE X – Costit. “inter moltiplices”

        “Declaramus et definimus Montis Pietatis per respublicas institutos et auctoritate Sedis

        Apostolicae hactenus approbatos etc. … neque nullo pacto improbari debere tale mutuum

        minime usurarium putari…”.

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APPENDICE

INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

(il numero indica la pagina)

 Abate di S, Vittoria, 44

Abate Farfense, 31,33

Abruzzo, 88

Accumoli, 87

Acquaviva, castello,  45,79,85,96,97

Adelaide, vedova di Lotario, 17

Adenulfo, vescovo di Fermo, 34

Adriano, papa, 7

Adriatico, 7,65

Africa, 8

Agello, castello (poi Ripatransone), 27

Aginulfo, re longobardo, 18

Agricoltori, 99

Agricoltura, 99

Aimone, padre di Gualterio, 15

Alatrino, cardinale legato pontificio, 36,39

Albania, 86,96

Alberghetti, signore di Fabriano, 59

Alberico, conte e vescovo di Fermo, 15,17,29

Alberto di Montecosaro, feudatrio, 28

Albertuccio, nipote di Clemente VI papa, 56

Albornoz, cardinale, 57,59,60,61,62,63,65

Aldobrandino, marchese, 39

Aldonesi, piccoli proprietari, 21,23

Alessandria, 28,29

Alessandro II, papa, 20

Alessandro II, vescovo di Fermo, 27

Alessandro III, papa, 28,29

Alessandro Sforza, fratello di Francesco, 83,85.86,88,91,95

Alessandro V, papa, 75

Alfonso, re di Aragona, 83,84,88

Alfonso, re di Napoli, 89

Alteta, 75

Alto Fermano, 40,44,52,74.

Amandola, 83

Amatrice, 100

Amico, vescovo,18

Anagna, 51

Anagni, 71

Ancona, 7,27,29,31,34,35.39,47,59,61,62.67,73,94,95

Anconetani,  67,101

Andrea Tomacelli, fratello di Bonifacio IX, 73

Angelo dei Pierleoni, vescovo di Fermo, 72

Annibaldo degli Annibaldeschi, 46

Anton de Nicolò, 66,67,58,75.79,80,85,86,88.89.92

Antonia de Bencionibus, moglie di Giovanni da Oleggio, 63

Antonio Aceti, gonfaloniere, 73,75

Antonio Aceti, gonfaloniere, 82

Antonio Acquaviva, condottiero, 73

Antonio de Vetulis, vescovo di Fermo, 71,72,73,74,

Antonio Giorgi, cittadino fermano, 86

Aquileia, 35

Aquisgrana, 34

Arabi, 8,94.

Aragona, 83,84,88.

Arnolfo di Carinzia, 12,13

Artigianato, 100

Ascherio, 16,17

Ascolani, 47,48.5685,92,96,07

Ascoli, 34,45,47,48,59,61,62,65,66,73,75.77,79,62,85,88,91,95,96,97,100,104

Aso,fiume, 15,99

Assisi, 76

Atri, 78,85

Attone, vescovo di Fermo, 23,24,26,27

Avignone, 51,67,71

Azzolino d’Este, marchese,36,39

Azzone VI d’Este,marche di Ancona, 39

Azzone VI, marchese di Este, 34

Azzone VII (Azzolino) d’Este, 35

Azzone VII d’Este, marchese di Ancona, 35

Azzone, vescovo di Fermo, 26

Badia di Farfa, 16,77

Balcani, 71,94

Baldo di Nicola da Firenze, podestà,24,31

Balignano di Falerone, 40

Balignano, 28

Balignano, vescovo di Fermo, 27,28

Basilea, 79

Basilicata, 20

Beato Domenico da Leonessa, 104

Beato Domenico da Teramo, 104

Beato Marco da Montegallo, 104

Beccai, 99

Belforte, 87

Belgrado, 94

Bellafiore, moglie di Ludovico Migliorati, 77

Belvisio, 60

Benedetto XII, papa, 54,55

Benedetto XIII, papa, 75

Benevento, 20

Berardo III, abate, 23

Berengaria, regina, moglie di Guglielmo di Brienne, 48

Berengario del Friuli, 12

Berengario II, 9

Berengrario, 17

Bernabò Visconti, duca di Milano, 65,82

Bertoldo, figlio del Duc di Spoleto, 35

Bessarione, cardinale, 94

Bianca, figlia del duca di Milano e moglie di Francesco Sforza, 85,87,89

Bianchi, 74

Biordo dei Micheletti da Perugia, condottiero, 73

Blasco Fernando di Belvisio, condottiero, 60

Boccolino Guzzone, 96

Boffo da Massa, 66,67.73

Boldrino di Panigale, condottiero, 73

Bologna, 63,79

Bolognesi, 44

Bonifacio IX, papa, 72,73,74

Bonifacio VIII, 51

Borgogna, 16,17

Braccio da Montone, condottiero, 76,77

Brescia, 77

Bretoni, 67

Brindisi, 43

Brunforte da Perugia, condottiero, 47

Cagli, 61,62

Calabria, 17,20

Callisto III, papa, 92,94,95

Calzolari, 99

Camerinesi, 16

Camerino, 45,51,52,55,59,60,61,62,67,73,76,83,85,87,90,102

Campoleggio, 103

Campone, abate di Farfa, 18

Capocci, Card, legato pontificio, 46

Capranica, cardinale di Fermo, 90

Capuano, condottiero ascolano, 97

Carafa, cardinale, 103

Carassai, 67,73,77,85,86

Carlo Magno, 7,8,17

Carlo Malatesta di Rimini, 74,75,76

Carlo Martello, 8

Carolingi, 8

Carosino, capitano di Ripatransone, 66

Carrara, 73,74,82

Casio, castello, 28

Casiolari, 99

Castel S. Angelo, 20

Castello del Girfalco, 48

Castello del Monte, in Ascoli, 66

Castello, 55

Castiglione, località, 45,46

Castignano, 95

Catalani, 71

Cattedrale di Fermo, 36,48,64,74

Cattedrale, 80

Causaria, abbazia presso Torre dei Passeri, 18

Cavalcata di Santa Maria, 64

Cecco Bianchi, fermano, 91

Celestino III, papa, 31,33

Cerqueto, 35

Cerreto, 75

Cesena, 67

Chienti, fiume, 35,45.52,62

Cicala Andrea, condottiero di truppe imperiali, 45

Cicconi di Carassai, 77

Cingoli, 53,55,59

Civitanova, 23,26,32,34,35,36,52

Civitate sul Fortore, 19

Civitella, 88

Clemente V, 51

Clemente VI, papa, 56

Clemente VII, papa, 71,72

Coccarda circolare gialla, 102

Codice dello Stato pontificio, 61

Codice Longobardo, 8,18,26

Codice Romano, 26

Cola di Amatrice, 100

Cola Pasquali, cittadino fermano, 86

Colle dei Cappuccini, in Ripatransone, 87,90

Colle della Guardia, 97

Colle di Capo di Termine, 90

Colle di Vetreto, 97

Colle S. Savino, 67

Collegi delle Arti, 99

Collegio Capranica di Roma, 92

Colonna Giovanni, cardinale legato pontificio, 37,45

Colonna, famiglia romana, 78

Comitato Camertino, 15

Comitato Fermano, 15

Commercio, 101

Como, 29

Compagnia degli Inglesi, compagnia di ventura, 66

Comuni Lombardi, 44

Comunità ebraica, 102

Concili, 103

Concilio di Basilea, 79

Concilio di Costanza, 76,77

Concilio di Lione, 45

Concilio di Pisa, 75

Concilio Lateranense IV, 103

Concilio Lateranense V, 105

Concilio Romano (VI), 21

Conclave, 78

Confraternita di Santa Maria, 55

Congiura dei Pazzi, 95

Congregazione dell’Abbondanza, 99

Consiglio comunale, 46,52.79,80,83,84,91,100,104,105

Consiglio di Cernita, 99

Consiglio di Stato, 62,63,64

Consiglio Generale, 41,92

Consiglio Speciale, 41

Consolino, coppiere dell’imperatore, 35

Conte di Carrara, 73,74,82

Conte di Fermo, 34,35

Conte Luzio da Bartolomeo di S. Severino, 67

Contea dei vescovi, 44

Contea di Fermo, 34,35,36,37,39,40

Controguerra, 95

Convegno di Mantova, 94

Convento di S. Agostino, 86

Convento di S. Francesco,  in Fermo, 91

Corinaldo, 61

Corradino, nipote di Manfredi, 46

Corrado II, 10,11

Cortenova, località, 44

Cossignano, 40,73

Costantinopoli, 8,20,95

Costanza, 76,77

Costanza, impretatrice, 31,32,43

Costituzioni Egidiane, 61

Crema, 29

Cremona, 85

Cristiani, 103

Cristiano di Magonza, cancelliere, 31

Cristiano di Perugia, 101

Cristiano Won Buk (Federico cancelliere), 29

Crociata. 43,94

Cupra Marittima, 12

Curia del Rettore, 100

Curia Generale, 60

Curia Romana, 36,100

Curia, 60

Cursor, balletto, porta ordini, 42

Dalmazia, 31,83

Dante Alighieri, 51

De Mirto Gregorio, podestà di Ripatransone, 66

Desiderio, abate di Montecassino, 20

Desiderio, re, 8

Diocleziano, 9

Doge di Venezia, 47

Domenico Capranica, cardinale e vescovo di Fermo, 77,78,79,91,92,94

Domenico Necchi, genero di Santoro Puci, 90

Duca di Atri, 85

Duca di Camerino, 73

Duca di Milano, 65,77,79,83,84,85,87

Duca di Spoleto, 12,13

Ducato di Camerino, 76

Ducato di Fermo, 9

Ducato di Spoleto, 7,9,15,37

Ducato Spoletino, 20,35

Duchi di Milano, 82

Ebrei, 80,102,103,104

Effemeridi della città di Fermo, 100

Egidio da Monte Urano, capitano di ventura, 68

Egitto, 43

Enea Silvio Piccolomini, segretario di Domenico Capranica, 79,92

Enrico III, imperatore, 19,20

Enrico IV, imperatore, 20,21

Enrico V, imperatore, 27

Enrico, figlio di Federico II, 43

Enzo, figlio di Federico II, 44,45,46

Eremitani di Sant’Agostino, 48

Errico VI, imperatore, 31

Esarcato di Ravenna, 7

Esino, fiume, 62

Ete, fiume, 99

Eugenio IV, papa, 78,83,84,88,89

Europa, 8,10,44,51

Everardo di Austop, 60

Ezzelino da Romano, signore di Verona, 44

Fabbrica di berretti, 101

Fabbricatori, 99

Fabriano, 59,61,62

Fagnano, 75

Falerona, moglie di Rabennone, 15

Falerone, 40,75,77

Fano, 28,54,61,62,77.88,95

Farfa, 16,18,61

Farfensi, 15,47,48

Farmacisti, 99

Federico Barbarossa, 28,31

Federico da Massa, 40

Federico di Urbino, 95

Federico II, 33,34,39

Federico II, figlio di Costanza imperatrice, 31,35,43,44,46

Federico, cancelliere (Cristiano Won Buk), 29

Fermani, 7,19,44,47,48,52,56,66,71,72,73,76,80,84,85,88,91,92,95,96,97,

Fermano, territorio, 15,17,68

Fermano, vescovo, 19

Fermo, 07,9,12,13,15,17,18,19,2021,23,24,26,27,28,29,31,32,33,34,36,3739,49,41,44,45,46,47,48,

Fermo, 52,53,55, 56,57,59,60,61,62,63,64,65,67,6871,72,73,75,76,77,79,80,83,87,88,89,90,91,92,

Fermo, 95,96,97,99,100,101,102,104,105

Fermo, fratello del Priore di S. Pietro (Vecchio), 54

Fiastra, 67

Fiera di Fermo, 101

Fieschi Sinibaldo, legato pontificio, 45

Filatoio di seta, 101

Fildesmido da Mogliano, vicario abbaziale, 40,45

Filippo II, vescovo di Fermo, 36,37,44

Filippo il Bello di Francia, 51

Filippo Maria Visconti, 82,85

Fiordaliso, 51

Firenze, 24,31,54,67,74,76,82,84,85,88,94,95

Firmiano, 91

Foglia, fiume, 62

Foligno, 59

Fonte Avellana, monastero, 97

Force, località, 45

Forcella, 35

Forlì, 57,59,60,63

Fornaciari, 99

Fossalta, località, 44,46

Fossombrone, 61,62

Fra Giacomo da Monteprandone (S. Giacomo della Marca), 86

Fracassetti, 56

Francavilla, 27,75

Francesco di Matelica, 67

Francesco I di Mogliano, vescovo di Fermo 53,54

Francesco II di Cingoli, vescovo di Fermo, 53

Francesco Piccinino, figlio di Nicolò, 90

Francesco Sforza, 82,83,85,87,88,89,90,91

Franchi, 8,40

Francia, 7,51,94

Frati Minori Francescani, 104

Fraticelli, setta, 55

Friuli, 12

Gaeta, 84

Gaidulfo, vescovo, 18

Galeazzo Maria Sforza, figlio di Francesco, 89

Galeotto Malatesta di Rimini, 56,57,60

Gallura, 45

Garigliano, 16

Garzoni, storico, 79

Geltrude, vedova di Guido di Spoleto, 13

Genova, 72,82,84

Genovesi, 84

Gentile da Mogliano, 56,57,59,60,63,82

Gentile Migliorati, fratello di Ludovico, 78

Gerardo, vescovo di Fermo, 46,52,56

Germania, 34,43

Gerusalemme, 43,48

Ghibellini, 31,43,45,46,47,51,52,53,59,61,73

Giacomo da Cingoli, vescovo di Fermo, 54,55

Giacomo della Marca, 94

Giacomo Piccinino, 95

Giacomo Ranieri di Norcia, vicario di Domenico Capranica, 78

Giacomo, figlio di Ludovico Migliorati, 77

Giambattista Capranica, vescovo di Fermo, 96

Gian Galeazzo Visconti, 82

Gilardino di Giovanni da S. Elpidio, 54

Gilberto, conte, padre di Balignano, 27

Gioisia Acquaviva da Atri, 78,85,95

 Giorgio Albanese, beato, 90

Giorgio da Como, architetto 48

Giorgio da Como, architetto, 29

Giorgio da Roma, 75

Giovannello, fratello di Bonifacio IX, 73

Giovanni Corvino Uniade, governatore dell’Ungheria, 94

Giovanni d’Angio, 95

Giovanni da Capistrano, 94

Giovanni di Penna S. Giovanni, 40

Giovanni Ferri di Ascoli, 100

Giovanni II, figlio di Alberico, 17

Giovanni III de Bertoldis, vescovo di Fermo, 77

Giovanni IV de Firmonibus, vescovo di Fermo, 77

Giovanni Paolo II, papa, 54

Giovanni Vanni, cittadino fermano, 86

Giovanni Visconti da Oleggio, 63,65

Giovanni X, papa, 16

Giovanni XXII, papa, 53,55

Giovanni XXIII, antipapa, 75,76,77

Girfalco, , 44

Girfalco, 60,67,73,74,76,78,80,86,87,91,92

Gisone, turore di Azzone VII d’Este, marche di Ancona, 35

Giubileo, 51,74

Giudei, 80,103

Giudice Generale della Marca, 63

Giudici, 99

Giusti di Filippo, massarius, 41

Golfarango (o Wolfango), vescovo di Fermo, 21

Gomesio, conte di Spanta, 65,66

Gonfaloniere della Chiesa, 83

Governo Centrale, 100

Governo pontificio, 47,73

Governo regionale, 100

Gozzolino, tiranno di Osimo, 56

Gregorio di Catino, 16

Gregorio IX, papa, 36,39,43,44

Gregorio Magno, papa, 23

Gregorio VII, papa, 20,21

Gregorio X, papa, 47,67,71.72

Gregorio XII, papa, 75,76

Grimaldo, vescovo di Fermo, 27

Grottammare, 63,101

Gualdo, 83

Gualterio, figlio di Aimone, 15

Guarnerio, marchese di Ancona, 29

Guarnerio, marchese figlio di Guarnerio,28

Guarnerio, marchese,27

Guelfi, 45,46,47,51,53,56,59,61,73

Guerriero, fuoruscito di Ascoli, 85

Guglielmo da Massa, 35,40

Guglielmo da Massa, figlio di Guglielmo, 56

Guglielmo da Massa, padre di Gerardo vescovo di Fermo, 46

Guglielmo da Massa, padre di Guglielmo, 56

Guglielmo di Brienne, re di Gerusalemme, 48

Guido da Landriano, podestà, 41

Guido di Spoleto, 13

Halley, cometa, 94

Ildebrando, duca di Spoleto, 15,20

Ilderico di Causaria, 18

Imperatore di Costantinopoli, 20

Imperatore Spoletino, 15

Imperatore Tedesco, 15

Ingealdo, abate, 15

Innocenzo II, papa, 27

Innocenzo III, papa, 33,34,43,44

Innocenzo VI, papa, 59

Innocenzo VII, papa, 74,75

Innocenzo VIII, papa, 96

Ismeduccio, signore di San Severino, 59

Italia Settentrionale, 7

Italia, 17,28,43,51.53,56,82,94,96

Jacopone da Todi, 74

Jesi, 36,59,61,62,87,95

Judex, paragonabili al nostro segretario comunale, 42

Ladislao, re di Napoli, 74

Lamberto, figlio di Guido di Spoleto, 12,13

Lazio, 7

Lega Fiorentina, 67,75

Legato della Marca, 90

Legato Pontificio di Ancona, 35,95,97

Legnano, 28

Leonardo de Fisiciis, vescovo di Fermo, 75

Leone di Arciprando, 18

Leone III, 7

Leone IX, papa, 19,20

Leonessa, 104

Liberto, vescovo di Fermo, 27

Lione, 45

Liutprando, re longobardo, 18

Lodi, 94

Lomo, signore di Jesi, 59

Longino di Ottone, 16

Longobardi, 7,12,23

Loro, 40,77

Lotario II di Sassonia, imperatore, 27

Lotario, imperatore, 12,15

Luca di Canale, 73

Luchina, moglie di Rinaldo da Monteverde, 67,68

Luchino, figlio di Rinaldo da Monteverde, 67,68

Ludovico di Antonio, podestà, 73

Ludovico il Bavaro, 52,53

Ludovico Migliorati, 76,77,78,79,82

Luigi il Pio, imperatore, 12

Luigi XI, re di Francia, 94

Lupo Ruggero, podestà di Fermo, ghibellino, 47

Lupo, duca di Fermo, 9

Macelli, 75

Macerata, 2326,32,34,35,36,37,45,51,52,59,60,62,73,83

Madonna della Misericordia, 74

Mainardi, signori, 40

Malatesta, signore di Rimini, 59,76

Manfredi, 46,47

Mantova, 94

Maometto II, 94,96

Marano, 35,63

Marca Anconetana, 34

Marca di Ancona, 34,35,37,45

Marca Fermana, 1619,20,34

Marca, 101

Marca, 17,27,29,31,33,34,35,51,52,59,60,61,62,6373,75,83,90.96

Marche, 18,29,46,47,48,51,60,61,62,63,66,67,74,82,83,84,86,95

Marchese di Ancona, 27,31,34,35

Marchese di Este (Azzone VI), 34

Marchigiani, 73,86

Marciari Nicola, vescovo di Fermo, 71

Marcoaldo di Anninuccia, 31

Marcoaldo di Anweller, 31

Marcoaldo, marchese, 32,33

Mare Adriatico, 47

Marino Marinelli da S. Vittoria in Matenano, 73,74

Marinuccio Mostacci da Offida, 78

Martello Marco, riformatore degli statuti di Fermo, 41

Martino V (Ottone Colonna), papa, 76,77,78

Massa, 35,40,46,56,59,66,67,73,75,77

Massarius = Sindicus, 42

Massignano, 40

Masso di Tommaso da Montolmo, podestà, 54

Matelica, 61,67

Mattei Matteo, cavaliere fermano, 55,56

Matteo da Fano, 54

Matteo II, abate farfense, 45

Mauro, presbitero fermano, 15

Medici, 99

Medio Oriente, 43,90

Mediterraneo, 83

Melfi, 20

Mercanti, 99

Mercenario da Monteverde, 52,53,54,56,59,66,82

Mercenario, figlio di Rinaldo da Monteverde, 68

Migliorati Ludovico, 74,75

Milano, 28,29,65,77,82,83,85,87,91,94

Modena, 39

Mogliano, 40,53,56,75,77,82

Molucci, signori di Macerata, 59

Monaldo di Penna S. Giovanni, 40

Mondavio, 61

Monsammartino, 47

Monsampietrangeli, 52,95,96,97

Monsampietro Morico, 75

Montappone, 75

Monte di Pietà, 103,104,105

Monte Fiore, 61

Monte Leone, 75

Monte Matenano, 15

Monte Milone (Pollenza), 83

Monte Rubbiano, 52,53

Monte S. Giusto, 73,96

Monte S. Maria in Georgio, 37

Monte Santo (oggi Potenza Picena), 27,36,37

Monte Soratte, 79

Monte Urano, 73,75,89

Monte Varmine, 55

Monte Varmine, 56

Monte Vidon Combatte, 75

Monte Vidon Corrado, 40,74,75

Montecassino, 20

Montecchio (oggi Treia), 46,76,83

Montecosaro, 28,35,76,

Montefalcone, 45

Montefalcone, 47,67

Montefeltro, 17,59,62

Montefortino, 86

Montegallo, 104

Montegiorgio, 36,40,67,73,75,89,96

Montegiorgio, 40

Montegranaro, 35,76,89

Monteleone, 15

Montelparo, 15

Montelupone, 36,37

Monteluro (Pesaro), 88,89

Monterinaldo, 15

Monterubbiano, 36,37,61

Montesampietrangeli, 48,75.89

Monteverde, 40,52,53,54,59,65,66,67,68,71,72,73,75,82,89

Montolmo, 35,36,37,54,55,75,83,90

Montottone, 35,52,72,73,75

Moregnano, 89

Morrovalle, 28,34,35,36,37,76

Mugnai, 99

Mulattieri, 99

Napoli, 74,75,84,88,89,91,94,95,101

Napoli, 74

Negroponte, 96

Niccolò Fortebraccio, capitano, 83

Niccolò V, antipapa (Pietro di Corbara)

Nicola De Merciariis, vescovo di Ripatransone, 66

Nicolò II, papa, 20

Nicolò Maurizi da Tolentino, condottiero, 83

Nicolò Piccinino, condottiero, 87

Nicolò V, papa, 94

Nolfo, signore di Montefeltro, 59

Norcia, 78,97

Norcini, 97

Normanni, 19,20,27

Notai, 99

Notaio dei danni, messo comunale, esattore di multe, 42

Numana, 61

Offida, 16,23,33.61,78,91

Offoni, signori, 40

Olderico, vescovo di Fermo, 19,21

Oleggio, 63

Onorio III, papa, 34,35,36,43,44

Onorio IV, papa, 46,48

Oratorio di Santa Maria della Carità, 55

Orciano, 61

Ordelaffi Francesco di Forlì, 63

Ordelaffi, signore di Forlì, 57,59,60

Ordine Francescano, 104

Ordini Maggiori, 71

Ordini Minori, 71

Orefici, 99

Oriente, 43

Ortezzano, 15,75

Ortezzano, 75

Osimo, 7,45,52,56,61,62,96

Ospedale di Fermo, 55

Ospedale di Santa Maria della Carità, 55

Osti, 99

Otranto, 96

Otto Mazarino Bonterzi da S. Vittoria in Matenano, 73

Ottone Colonna (papa Martino V), 76

Ottone I di Brunsvik, 17

Ottone II, figlio di Ottone I, 17

Ottone IV di Brunswik, imperatore, 34,44,45

Ottone, padre di Longino, 16

Paccaroni, famiglia fermana, 48

Palazzo di Giustizia, 103

Palazzo Municipale di Fermo, 48

Pandolfo Malatesta di Pesaro, padre di Taddea, 77

Pandolfo, legato pontificio, 35,36,39

Pangione, signore di Cingoli, 59

Paolo II, papa, 95

Parlamento Generale, 42,83

Parma, 44,46

Parto della B. Vergine, quadro, 88

Pasquale I, papa, 12

Passivo, vescovo di Fermo, 23

Patria, 84

Patriarca di Aquileia, 35

Paulo, 91

Pavia, 17,18,28

Pellicciari, 99

Pencirvalle di Oria, condottiero, 46

Penisola, 82,90

Penna San Giovanni, 40,45,47,61

Penne, località, 18

Pentapoli, 7

Perugia, 47,73,101,104

Pesaro, 61,62,77,91

Pescara, 7,12

Pescatori, 99

Petriolo, 40,76,77

Petritoli, 75

Petritoli, 85,86,89

Petro, 91

Petrocco da Massa Fermana, 59

Piagge, 61

Piazza S. Martino, 68,74,85,88,92,103

Piccinino, 91

Piceno, 12,15,16,45

Pieca, castello, 40

Pier Damiani,19

Pietro Bini, vescovo di Fermo, 102

Pietro di Corbara (Nicolò V antipapa), 53Pietro I, vescovo di Fermo, 21

Pietro IV, vescovo di Fermo, 34,35

Pietro, abate, 15

Pio II, papa, 92,94,95

Pipino, re, 7

Pirenei, 8

Pisa, 75

Podestà, giusperito normalmente forestiero, 42

Poggio S. Giuliano (poi Macerata), 26

Polverigi, 33

Pontida, 28

Porchia, 73

Porta di Cupra (Cupetta), 90

Porta S. Giuliano, 68,73,77,83,86

Porta San Pietro Vecchio, 54

Portieri, addetti alle porte del castello, 42

Potenza Picena, 32,35

Potenza,fiume, 34,39,44,45,47

Presbitero, vescovo di Fermo, 31

Presbitero, vescovodi Fermo, 33

Presidato Camerinese, 61

Presidato dell’Abbadia di Farfa, 61

Presidato di Camerino, 62

Presidato di S. Lorenzo in Campo, 61

Presidato di S. Lorenzo in Campo, 62

Presidato di S. Vittoria, 45,91

Presidato Farfense di S. Vittoria, 62

Presidato Farfense, 45,61,89

Presidato, , 51

Principato di Fermo, 90

Priori, uno per ogni contrada, 41

Procuratori, 99

Puglia, 19,20,86

Quercy, 7

Rabennone, conte di Fermo, 15

Rabennone, conte di Fermo, 9

Rainaldo di Monaldo, vescovo di Fermo, 35,36

Rainaldo, vescovo di Fermo, 36,39

Rangone Guglielmo da Modena, 39

Raniero Zeno, doge di Venezia, 47

Raterio, nipote di Re Ugo di Borgogna, 16

Ratfredo, abate di Farfa, 16

Ravenna, 7,78

Re d’Italia, 17

Re di Gallura, 45

Re di Germania, 43

Re di Napoli, 75

Re di Sicilia, 34

Re Ferdinando, 95

Recanati, 52,59,60,61,62.83,88

Reginaldo, console di Fermo, 24

Regno d’Italia, 7,12

Regno di Napoli, 84,95,101

Regno di Sicilia, 34,43,46

Regno Franco, 7

Regno Italico, 16

Regno Longobardo, 7

Regno, 61

Reliquia della Sacra Spina, 67

Repubblica di Firenze, 74

Repubblica di Venezia, 47

Rettore della Marca, 62,73,74,83

Rettore di Ancona, 61

Rettore Pontificio, 61

Rieti, 15

Rimini, 31,56,59,74,95,

Rimone, prete, 16

Rinaldo da Monteverde, 65,66,67,68,71,72

Rinaldo da Petriolo, 40

Rinaldo di Acquaviva. Condottiero, 45

Rinaldo di Loro, 40

Rinaldo di Monteverde, 40,73

Rinaldo di Urslingen, duca di Spoleto, 39,41,43

Ripa, 79

Ripani, 87,96

Ripatransone, 23,32,35,40,47,52,71,66,79,8387,88,90,95,96,07

Roberto da Castiglione, vicario imperiale, 45,46

Roberto di Ginevra, 71

Roberto Guiscardo, 20

Rodolfo da Camerino, 67

Rodolfo Varano da Camerino, 59,60,67,76

Rolando, legato pontificio, 36

Roma, 7,15,17,20,21,51,53,59,67,71,75,78,85,91,

Romagna, 51,59,95

Romani, 12

Ruggero, figlio di Gentile da Mogliano, 63

S. Abundi, curtis, 15

S. Agostino, chiesa di Ripatransone, 88

S. Agostino, chiesa, 48,67,80

S. Agostino, torre campanaria, 56

S. Angelo in Piano (Carassai), 101

S. Angelo in Pontano, 73,83,101

S. Angelo in Trifonso, chiesa, 79

S. Barnaba, 67

S. Bartolomeo, 67,68,103

S. Benedetto in Albula, 47,48,96,97

S. Caterina da Siena, 67,71

S. Caterina, chiesa, 48

S. Claudio al Chienti, 101

S. Domenico, chiesa, 48,80

S. Domenico, predicatore, 48

S. Elpidio Morico, 75

S. Elpidio, 34,35,36,37,52,55,66,67

S. Francesco, 54

S. Francesco, chiesa di Fermo, 48,80,88

S. Germano, località, 43

S. Giacomo della Marca, 86,90

S. Ginesio, 8,83,85

S. Giusto, 35,76

S. Lorenzo in Campo, 61,62

S. Lucia, chiesa di Fermo, 64

S. Lucia, chiesa di Fermo, 88

S. Marco alle Paludi, 47

S. Marco, pieve, (oggi Servigliano), 23

S. Maria dell’umiltà, chiesa di Fermo, 85

S. Maria della Fede, 87

S. Maria Maddalena, chiesa di Ripatransone 87

S. Maria, chiesa di Fermo, 92

S. Marina, monastero, 15

S. Martino, 76

S. Martino, chiesa di Fermo, 86

S. Paterniano, chiesa, 28

S. Pietro (Vecchio), chiesa di Fermo, 54

S. Pietro, 7

S. Pietro, monastero, 48

S. Severino, 57,59,61,67,76,100

S. Silvestro, monastero, 15

S. Vincenzo Ferreri, 71

S. Vittoria in Matenano, 16,23,44,45,57,51,59,61,62,67,72,73,89,90,91

S. Vittoria, 15

S.Ginesio, 40

Sabina, regione, 66

Sacro Romano Impero, 7,8,9,10,17,51

Salirone, 16,17

Salutati, segretario fiorentino, 67

Santa Maria, confraternita, 55

Santa Prisca, 89,90

Santa Sede, 7,19,31,32,37,46,47,51,52,53,59,60,63,67,95

Santoro Puci, condottiero riparano, 87,88,90

Saraceni, 15,16,44

Sardegna, 83

Sarnano, 40

Sarnano, 61,87

Sartori, 99

Sassonia, 27

Scalpellini, 99

Schiavonia, 86

Scisma d’Occidente, 71,74,76

Sculcula (oggi Porto d’Ascoli), 47,56

Sede Apostolica, 41

Sellari, 99

Senigallia, 61,62

Serravalle, 85

Servigliano, 23

Settimana Santa, 103

Shabat, pirata, 12

Sibillini, 99

Sicilia, 31,32,34,83

Siena, 67,71

Sigismondo di Lussemburgo, imperatore, 76

Sigismondo Malatesta di Rimini, 91.95

Simone da Camerino, frate agostiniano, 80,94,102

Sindicus = Massarius, 41

Sisto IV, papa, 95,101

Spagna, 8,94

Spanta, 65,66

Spoletani, 16

Spoletini, 19

Spoleto, 7,9,15,29,39,43

Stato della Chiesa, 82,83

Stato Fermano, 75,83,99

Stato Feudale Farfense, 16

Stato Pontificio, 59,72,82,83,99

Stato Spagnolo di Castglia, 94

Stato Spagnolo di Leon, 94

Statuti, 100

Sulmona, 74,75

Sultano d’Egitto, 43

Taddea, seconda moglie di Ludovico Migliorati, 77,78

Tancredi, 31

Tanursi, storico, 79

Tenna, fiume, 47,61,67,90,99,101

Teramo, 85,104

Terra Santa, 24,74

Tesoriere della Marca, 62

Thener, 61

Todi, 74

Tolentino, 61,83,86

Torchiaro, 75

Torchiaro, 89

Torre di Palme, 101

Torre Matteucci, 48

Torre S. Patrizio, 40,75

Toscana, 7,83,84

Trasfigurazione, festa, 94

Trasone, 18

Trattato di San Germano, 43

Treia, 45

Trento, 28

Tribunale Superiore della Regione, 62

Trombecta, banditore, 42

Tronto, fiume, 20,34,39,44,47

Truento, 12

Turchi, 55,71,87,90,94,96

Turcomanni, 8

Uberto, conte di Fermo, 21

Uberto, vescovo, 18

Uberto, vescovo, 19

Ugo di Monte Vidon Corrado, 40

Ugo II, vescovo di Fermo, 34,35,39

Ugo, abate, 15

Ugo, re di Borgogna, 16

Ugo, re di Borgogna, 16,17

Ugo, re di Borgogna, 17

Ulcandinus (Ugo Candido), 23

Umbria, 7

Ungheria, 94

Università di Fermo, 12,91

Urbano VI, papa, 71

Urbano, VI, papa, 72

Urbino, 61,62,95

Urbisaglia, 40

Val Tesino, 79

Valle del Garigliano, 16

Valle del Tenna, 47

Valle del Tronto, 47

Valle della Cupetta, 90

Valle Padana, 82

Vanni Andreoli di Fermo, 75

Varano Bernardo da Camerino,, 52

Veneto, 82

Venezia, 29,31,37,46,47,67,82,83,84,85,87,88,94

Veneziani, 96

Verona, 15,16,44

Vetreto, 97

Vicario del Papa nelle Marche, 91

Vicario di Cristo, 51

Vicario nella Marca, 83

Vicedelegato della Marca, 96

Villa Firmana, 53

Vipera Antonio, progettista della chiesa di San Francesco, 48

Visconti, 66,67,84

Vitelleschi vescovo di Macerata e Recanati, 83

Vittore IV, antipapa, 28

Wolfango (o Volfarango), vescovo di Fermo, 21

Zambocco di Napoli, capitano, 74

-oo0oo-

GIUSEPPE MICHETTI

ASPETTI MEDIEVALI DI FERMO

~dal dominio dei Franchi alla fine del medio evo~

volume secondo

FERMO – EDIZIONE LA RAPIDA – 1981

Ti voglio presentare questo secondo libro di storia fermana con qualche giudizio autorevole riguardante il primo: « Fermo nella letteratura latina”. Fra i tanti attestati di simpatia i più significativi sono i seguenti:

1° – « Si tratta in verità di una preziosa ricerca che al pregio di una documentazione minuziosa, unisce quello di una narrazione avvincente, impreziosita da intuizioni originali e da argute considerazioni “.

2° – « La tua è una ricerca sui documenti letterari, ampia e gioiosa, almeno per quanto riguarda l’epoca romana “.

3° – « La grande mole di notizie di fatti svoltisi nella terra che abitiamo, lo stile sobrio; le osservazioni acute rendono il libro non solo interessante, ma prezioso “.

Voglio anche fornirti una testimonianza negativa. Un amico studioso illustre, un giorno che stavo consultando un « tomo “ del Muratori, mi ha affrontato con brutto cipiglio e mi ha detto testualmente: « Ma lascia andare questi libri vecchi. Il tuo libro non mi piace affatto. La storia non è per te; cambia mestiere “.

Caro amico, sono troppo vecchio per cambiar mestiere. Però le tue parole non mi offendono, perché non ho mai preteso che i miei libri piacessero a tutti.

E tu, lettore? Leggi questo secondo libro di storia fermana poi aggiungerai il tuo parere e mi dirai se è proprio un libro inutile.

Intanto ti saluto

                                                                                                       D. Giuseppe Michetti

                                                                 Chi vive la storia deve sforzarsi

                                                         di far rivivere i sentimenti

                                                              e le passioni dei tempi andati.

                                                                                         (A. Gabelli)

                                                                                                                AL LETTORE

   Per un libro di storia come questo del Prof. D. Giuseppe Michetti di una introduzione non ci sarebbe bisogno.

    In esso niente parole grosse, fumose o superflue: tutto è vivo, schietto, parlato. Perché il linguaggio di Michetti rispecchia il suo carattere: semplice, lineare, tutte cose; egli racconta le vicende con discorso familiare, franco, pulito. Leggendo questo libro ci pare di essere usciti fuori dagli inquinamenti e ammorbamenti cittadini e di respirare quell’aria ossigenata, limpida, fresca della campagna e del poggio di Rocca Monte Varmine, ove Michetti vive e lavora.

   Infatti egli non è alle prime armi per quanto riguarda il suo interesse per la storia locale. Ha dato alle stampe, “In attesa che sia pubblicata la storia più voluminosa e particolareggiata”, un volumetto su S. VITTORIA IN MATENANO (tip. La Rapida di Fermo, 1969); una breve memoria su”ROCCA MONTE VARMINE (tip. La Rapida di Fermo, 1980) che però è una revisione del primo opuscolo pubblicato con lo pseudonimo “Sibillino” (edizioni Paoline – Pescara): “DAL FEUDALESIMO AL GOVERNO COMUNALE NEL PICENO” (tip. La Rapida di Fermo, 1973); “UGO di FARFA” La Destrucio” – traduzione e note – 1980).

   Il primo volume già pubblicato di questa storia di Fermo (G. Michetti – Fermo nella letteratura latina – La Rapida, 1980) reca la dedica: “A tutti i miei scolari mai dimenticati”, con la quale l’autore dichiara apertamente il suo intento.

   Con l’impegno responsabile e vivo senso delle difficoltà egli si appresta a contribuire ad aiutare il lettore a conoscere e a riflettere: a conoscere la storia quanto mai interessante di una antica importante città, quale è Fermo; a riflettere sulle vicende e sui fatti umani che sono sì quelli di ogni tempo, ma che assumono aspetti, modi, colori particolari in ogni epoca storica e che vanno valutati appunto in relazione  ad essa. Con logiche deduzioni e lepide notazioni Michetti “invera il certo”, secondo l’espressione vichiana, promuovendo quei valori che sono patrimonio della società e danno un senso alla vita. L’autore sfronda le intricate vicende, presentandoci nudi fatti, ma non tralascia i suoi bravi e brevi commenti, che sono poi anche quelli del lettore, ben sapendo col Manzoni, che la storia da sola senza immaginazione dice troppo poco, perciò occorre sollecitarla per coglierne i valori eterni e i richiami incisi nella nostra società.

   Il Michetti narra con vigile partecipazione le vicende della città nel periodo medievale, avvertendo che cosa ardua scrivere nella storia, per la quale non bastano affetto, cultura locale. Così ha intrapreso ricerche e indagini sul municipio romano, compulsando archivi e fonti letterarie; e in questo secondo volume rammenta e tiene sempre presente il principio di non scrivere nulla che non sia documentato.

   Ciò non vuol dire che non vi debbano essere altri studiosi che apportino contributi nuovi, più copiosi e larghi, perché la storia di Fermo nel Medioevo non è soltanto la storia di una città, ma ha richiami e implicanze molto più vaste del semplice ambito cittadino e della Marca Fermana, cosicché chi legge finisce per avere davanti a sé l’illuminante profilo della società italiana dei secoli tumultuosi che prepararono le trasformazioni dell’epoca moderna. Opportunamente il Michetti intitola il volume: “Aspetti medievali di Fermo”.

   La lettura di questo secondo lavoro ci rende impazienti e ci fa più pungente il desiderio di leggere il seguito del racconto chiaro, pacato e allusivo che concluderà l’operosa fatica di D. Giuseppe Michetti nell’itinerario storico della città di Fermo fino all’inizio del nostro secolo.

                                                                                                   Prof. Mario Retrosi

INDICE

CAPITOLO I

pag.      7           L’unità europea

“             8         Organizzazione politica di Fermo sotto i Carolingi

“             10         II feudalesimo

“             1o         Vita agricola nel sistema feudale

“             12         Lotario imperatore e l’università di Fermo

CAPITOLO II

“             15         I monaci farfensi nel fermano

“             16         La battaglia del Garigliano

“             17         Fermo sotto gli imperatori tedeschi

“             17         I Vescovi di Fermo nel secolo X

“             19         I normanni a Fermo

CAPITOLO III

“             23         I Vescovi di Fermo preparano i Comuni

“             24         II Comune

“             25         Indole del Comune Fermano

“             27         Difficoltà per Fermo nel sec. XII

“             28         Distruzione di Fermo

CAPITOLO IV

“             31         Fermo alla fine del sec. XII

“             32        Organizzazione politica del fermano nel sec. XIII

“             33         La contea del Vescovo di Fermo

“             34         Ugo II e Pietro IV

“             35         Rainaldo (1223-1227)

CAPITOLO V

“             39         Fermo e Federico II – Fermo capitale della Contea

“             39         Resistenza a Rinaldo di Urslingen Duca di Spoleto

“             41         Organizzazione  comunale

“             43         Federico II e la guerra del 1240

“             44         Fine della Contea dei Vescovi

“             46         Fermo e Re Manfredi

“             48        Sviluppo edilizio a Fermo nel secolo XIII

            CAPITOLO VI

 “         51     Fermo nella prima metà del sec. XIV

“          52     Mercenario da  Monteverde

“          54     Giacomo Vescovo e Principe di Fermo

“          55     Confraternita di S. Maria

“          56     Gentile da Mogliano

CAPITOLO VII

“           59      Fermo nella seconda metà del sec. XIV – Il Card. Albornoz

“           59      Prima missione del Card, nella Marca

“           61      Costituzioni Egidiane

“           63      Seconda missione del Card. Albornoz nelle Marche

“           63      Fermo dopo il Card. Albornoz     

“           65      Rinaldo da Monteverde

 CAPITOLO VIII

“         71      Fermo e lo scisma d’occidente dal 1380 al 1433

“         71      Antonio de Vetulis

“         74      Dal 1400 al 1417

“         76      Fermo e Martino V

“         79      Dopo Ludovico Migliorati

CAPITOLO IX

“        82       Francesco Sforza a Fermo – La Signoria

“        82       La signoria di Francesco Sforza

“        85       Opere pubbliche – La grande carestia del 1440

“        87       Sollevazione a Ripatransone

“        89       Saccheggio di Torchiaro e Moregnano

“        89       La battaglia di Santa Prisca

“        90       Fine della dominazione Sforzesca

“        92       Restaurazione

CAPITOLO X

“        94       II pericolo turco

“        95       Fermo e Pio II

“        96      Guerra per Monsapietrangeli

“         97      La battaglia di Vetreto

CAPITOLO XI

“         99      Attività economica di Fermo nei secoli XV e XVI

“          99     Agricoltura

“         100    Artigianato

“         101    Commercio

“         101    La fiera di Fermo

“         102    La comunità ebraica a Fermo

“         103    II Monte di Pietà

CAPITOLO I

I Longobardi nel Fermano si erano romanizzati più presto che in tante altre zone; la fusione tra l’elemento romano e il longobardo, dopo due secoli era completa, anche se fino al secolo XI molti signori ritenevano titolo onorifico dirsi «Longobardi“, come si può rilevare da alcuni documenti1. Da ciò possiamo argomentare che i Fermani sicuramente non festeggiarono la caduta del Regno Longobardo e l’avvento del Regno Franco.

      Difatti Fermo, Osimo, Ancona, anche per evitare la dominazione franca, si affrettarono a offrire al Papa il loro territorio. Mandarono ambasciatori ad Adriano, per giurare fedeltà al Vicario di S. Pietro, ed egli, in segno di accettazione, tagliò loro un ciuffo di capelli, secondo l’uso romano 2.

Alla caduta del Regno Longobardo, sarebbe dovuto andare in vigore il Patto di Quiercy del 754, col quale Re Pipino assicurava al Papa il possesso di tutta l’Italia Peninsulare3; ma esso non ebbe mai esecuzione, forse perché il cattolicissimo Carlo Magno era anche un grande politico e capiva che affidare al Papa un regno così grande significava vanificare in breve la sua conquista ed esporre l’Italia a grandi disordini, o al pericolo di invasioni esterne, per l’innata debolezza militare della S. Sede; e della plebiscitaria decisione delle città picene non si tenne conto.

Difatti, dopo pochi anni, nel 781, Carlo Magno credette bene dare all’Italia una diversa sistemazione: rinunciando al titolo di Re dei Longobardi, istituì il Regno d’Italia, investendone il figlio Pipino.

Questo regno comprendeva tutta l’Italia Settentrionale, la Toscana e il Ducato di Spoleto che sul versante Adriatico si estendeva fino al Pescara; restava al Papa il Lazio, una piccola parte dell’Umbria, l’Esarcato di Ravenna e le due Pentapoli4. Fermo seguitò ad essere considerata parte del Ducato di Spoleto e come tale fu trattata dai Duchi e dai Re carolingi.

Nel 799, si dimostrò quanto fosse errato il Patto di Quiercy, poiché Papa Leone III (795 -816) dovette fuggire in Francia, per una agitazione popolare provocata dai Signori laziali.

L’UNITA’ EUROPEA

     Verso la fine dell’anno 800, Carlo Magno riaccompagnò papa Leone III a Roma e, nella festa di Natale, fu consacrato da lui « Imperatore del Sacro Romano Impero “.

     In questo Impero “Sacro e Romano“, come il Papa era capo universale della Religione, così l’Imperatore sarebbe stato capo universale di tutte le nazioni cristiane, col compito di guidarle e di difendere il Papa e la Chiesa.

Bisogna valutare bene la portata di questo avvenimento, per poter comprendere nel loro giusto valore i fatti che la storia del Medioevo ci presenta.

     L’istituzione del Sacro Romano Impero non è un regalo che Leone III fa a Carlo Magno, per ringraziamento di averlo riaccompagnato a Roma e consolidato il suo seggio papale.

     Leone III è il genio politico che, insieme a Carlo Magno, dà inizio a una istituzione che dovrà essere la salvezza del mondo Romano – Cristiano,-allora in gravissimo pericolo.

     Il mondo Romano non poteva fare affidamento sugli Imperatori di Costantinopoli, imbelli, fautori di scismi, che odiavano i Romani e il Papa, e perdevano continuamente terreno di fronte agli Arabi e ai Turcomanni che premevano da Oriente. Soprattutto gli Arabi erano un pericolo mortale per la civiltà cristiana.

    Essi non erano come i popoli barbari del Nord, che venivano in cerca di terra e anche di civiltà; ma erano feroci invasori, potenti e organizzati, che si proponevano di annientare la civiltà cristiana e imporre la loro, essenzialmente diversa. La loro espansione sembrava inarrestabile.

     Già avevano occupato tutta l’Africa mediterranea e la Spagna fino ai Pirenei, a stento contenuti a prezzo di sanguinose battaglie da Carlo Martello prima, poi da Carlo Magno.

     Era in atto uno scontro mortale tra due grandi civiltà: la civiltà cristiana e quella islamica.

     Il Sacro Romano Impero aveva lo scopo di estendere il cristianesimo tra le popolazioni germaniche e slave; riunirle sotto una unica guida, l’Imperatore, per salvarle dal tremendo pericolo islamico.

     Il sacro Romano impero è il primo tentativo di Unità Europea: Unità che si ripete oggi, dopo più di un millennio, in condizioni similari, anche se i protagonisti non lo avvertono.

     Questa Europa unita, travagliata attraverso i secoli di mezzo da mille

discordie, ma costretta, nonostante tutto, a restare unita, per opera dei Romani pontefici, salvò la civiltà cristiana e la fece trionfare nel mondo.

     Sotto questa luce bisogna guardare il rito di Natale dell’800; e allora ci accorgeremo che molti Imperatori non compresero la loro missione europea, e ritennero il titolo come un ornamento personale, da sfruttare a proprio vantaggio; che le scomuniche di alcuni Papi contro imperatori regnanti hanno un valore diverso da quello attribuito loro da scrittori cosiddetti laici5.

ORGANIZZAZIONE POLITICA DI FERMO

SOTTO I CAROLINGI

     I Carolingi non portarono in Italia mutamenti sostanziali, che nel progresso civile e nell’arte di governare, i Franchi non erano molto superiori ai Longobardi.

     Carlo Magno, deposto il Re Desiderio, si proclamò Re dei Longobardi, finirono quindi Re Longobardi, ma restarono molti Duchi, che si erano amicati i Franchi; seguitarono i grossi signori terrieri longobardi e restò il Codice Longobardo, poiché Carlo Magno lasciava a ogni nazione conquistata le proprie leggi.

   Specialmente nel Ducato di Spoleto, se nell’organizzazione politica qualche cambiamento, esso fu insignificante.

   I “Comitatus” c’erano prima dei carolingi, e restarono anche per secoli; i Conti nelle “civitates”c’erano prima  e restarono, finché non cedettero il loro ufficio ai Podestà Comunali (per il fermano nei secoli XII e XIII).

     Alla caduta del Regno Longobardo, finì il Ducato di Fermo, e la città fu governata da un Conte, alle dipendenze del Duca di Spoleto.

     Nel 776, difatti era conte di Fermo un certo Lupo6.

     Nelle 778, c’era un Conte a Fermo che si chiamava Rabennone; e c’era un Conte a Spoleto7.

     Il fatto che perfino nella città del duca c’era un Conte dimostra che esso era un ufficio del Duca; un incaricato a governare e ad amministrare la giustizia in nome del sovrano.

     Anche il Conte di Fermo quindi era un funzionario che reggeva il territorio fermano temporaneamente, a disposizione del Duca Spoletino.

     E anche se non abbiamo documenti che ci parlino della organizzazione civica di quei tempi, possiamo essere certi che il Conte non era il padrone della città, non era un despota; ma accanto a lui c’erano altre autorità che collaboravano nel governo di essa.

      Autorità fosse anche eletti dal popolo, che curavano l’andamento civile; mentre al conte era riservata la responsabilità di controllare; l’amministrazione della giustizia; la polizia e le forze armate.

     Affermo questo, perché la sapiente organizzazione romana non poteva sparire con le invasioni barbariche; subirono mutamenti anche deterioramenti nei vari periodi, ma fu nella sostanza mantenuta: la civiltà prevale sempre sulla barbarie.

     Forse durante il secolo IX, si tentò di ricostruire il Ducato di Fermo.

     Ciro suggerisce un diploma di Berengario II8 come altri documenti ci fanno pensare a un Conte di Fermo, alla fine del secolo, con autorità pari a quella del Duca9.

   Nelle campagne, i signori longobardi seguitarono a vivere nei loro castelli e a coltivare le terre, per mezzo di affittuari e servi della gleba: metodo che poi si chiamò “feudale”, che non era stata una loro invenzione, ma istituito almeno cinque  secoli prima e codificato da Diocleziano.

     Questo metodo che oggi possiamo giudicare disumano, perché oppressivo e lesivo della dignità dell’uomo, non impediva che i signori longobardi si convertissero al Cattolicesimo e si sentissero buoni cristiani.

   Semmai qualche scrupolo venisse a turbare la loro coscienza, potevano sempre porci rimedio prima della morte, col destinare parte o tutta la loro possidenza a qualche monastero, o a qualche vescovado; i quali poi seguitavano a condurre l’agricoltura con lo stesso metodo, perché ancora non se ne era inventato un altro.

      Le nuove invenzioni, in certi campi, sono sempre molto difficili!

IL FEUDALESIMO

      Se volessimo tradurre la parola “Feudalesimo”   in una più comprensibile, dovremmo dire: “affittanza”; quindi “feudo” significa “affitto”; feudatario significa “fittavolo”.

     In quale senso?

     Con la istituzione del Sacro Romano Impero (Natale ‘800) si tentava l’organizzazione dell’Europa nell’unità; Unità religiosa che già esisteva, almeno di diritto, nel governo della Romano Pontefice; Unità politica, sul modello della prima rendendo tutti i potentati europei tributari di un solo capo: l’Imperatore. In altre parole: come il mondo religioso dipendeva da un solo capo, il Papa; così il mondo politico avrebbe dovuto essere diretto dal supremo governo dell’Imperatore.

     Questi, ricevendo il potere da Dio, avrebbe dovuto estendere la sua autorità su tutto, come padrone assoluto. Regni, Ducati, Marchesati, Badie, Vescovadi avrebbero dovuto considerarsi come dati in feudo = affitto dall’Imperatore, e i loro padroni considerati legittimi, solo se riconosciuti da lui.

     Questi grossi signori, che si chiamavano “Feudatari”, pagavano all’Imperatore l’affitto o tributo e disponevano del loro feudo liberamente, sempre alle dipendenze dell’Imperatore; e subaffittato ad altri signori più piccoli, che si chiamavano “Valvassori”,  o  “feudatari minori”, le varie parti del loro feudo.

     In teoria, si dava col Sacro Romano Impero una gerarchia al potere:

l’Imperatore, arbitro di tutto; dipendenti direttamente da lui i “Feudatari” (re, duchi, vescovi, abati); dipendenti da feudatari i “valvassori o feudatari minori”10.

Se nella realtà non sempre questa organizzazione raggiunse lo scopo voluto, fu perché all’Imperatore mancò la forza sufficiente per imporre la sua volontà.

     Le due difficoltà, che non furono mai risolte, riguardavano il Papa e i Vescovi; il Papa aveva un dominio temporale legittimo che non poteva essere controllato dall’Imperatore, per non rendere il Papa dipendente da lui; i Vescovi, capi religiosi, avevano anche un feudo, che li sottoponeva all’autorità imperiale; chi avrebbe dovuto sceglierli?

     Queste difficoltà causavano aspre contese che durarono secoli.

VITA AGRICOLA NEL SISTEMA FEUDALE

     Le relazioni reciproche Tra i detti signori erano regolate dal “Diploma Imperiale”, che rendeva il feudatario legittimo possessore del feudo, che poteva lasciare in eredità ai discendenti; o dal “Privilegium”, contratto col quale il feudatario rendeva il Valvassore legittimo possessore del piccolo feudo, a tempo indeterminato o a volontà del feudatario o, come qui da noi, per tre generazioni.

     Questo fino al 1037, quando l’editto di Corrado II, “DE BENEFICIIS” resi ereditari anche i feudi dei valvassori11.

     L’editto di Corrado non aveva valore nel Dominio Pontificio, nel quale l’Imperatore non era sovrano, e se seguitò a dare in feudo le terre per tre generazioni.

     Diplomi, privilegi, editti  riguardavano solo i feudatari e valvassori, quelli cioè che in qualche modo si potevano chiamare signori; ma per la massa dei nullatenenti e per i servi non c’erano diritti.

     La proprietà del feudatari e dei valvassori si estendeva a tutto quello che si trovava nell’ambito del territorio loro affidato: le terre, le selve, i corsi d’acqua ed eventualmente le acque marine; quindi il diritto di caccia, il diritto di pesca, le carbonaia, i mulini, i forni e ogni altra possibile fonte di risorse economiche appartenevano al signore; all’umile gente restava il lavoro12.

     Ma il lavoro libero era quasi inesistente.

     Tutto sia centrava nel castello del signore terriero, perché la fonte principale della ricchezza era l’agricoltura; e alle dipendenze del castello lavoravano i “Vassalli”, fossero essi servi della gleba, colonia affittuari o mezzadri, piccoli proprietari13.

     Sì, anche piccoli proprietari, perché non dobbiamo credere che la parola “Vassallo” significhi uno spiantato che, per campare, stia al servizio di un signore.

     “Vassallo” era uno che aveva obblighi servili verso un signore; e in questo senso, anche i Feudatari erano vassalli; vassalli del governante.

     Vassallo poteva essere un servo della gleba che lavorava la terra e custodiva il bestiame del padrone, alla completa dipendenza da lui; legato alla terra che lavorava, della quale seguiva le sorti, tanto che il valore di questa era misurato anche dalla capacità lavorativa dei servi 14.

     Vassallo poteva essere un colono che riceveva in affitto dal signore un piccolo appezzamento; un mezzadro, cui era affidata della terra che pagava con una parte del prodotto di questa.

     Essi potevano contare su condizioni pattuite, molte volte imposte dal padrone, il quale esigeva anche servizi extra in sovrappiù, sia dagli uomini che dalle donne, le quali eseguivano i vari lavori domestici nel castello.

     Vassallo poteva essere un piccolo proprietario che doveva signore l’”homagium” (servizio di uomo), o perché aveva comprato la terra con obblighi servili, o perché doveva pagare al signore la sicurezza che gli veniva vivendo nell’ambito del territorio feudale.

     I vassalli potevano liberarsi del vassallaggio, pagando un riscatto, ma ciò avveniva raramente, perché non sempre conveniva.

     Ovviamente non conveniva al vassallo proprietario, per motivi di sicurezza; non sempre conveniva agli altri, sia per mancanza di lavoro indipendente; sia perché raramente un vassallo riusciva col magro guadagno a mettere da parte la somma necessaria per il riscatto: somma che era sempre alta, perché il padrone era sempre contrario a concedere il riscatto15.

     Rari sono i casi di fuga, perché raramente si trovava chi volesse appoggiare la fuga di un vassallo, per non crearsi noie.

LOTARIO IMPERATORE

E L’UNIVERSITA’ DI FERMO

     Alla morte di Carlo Magno, prese l’impero il figlio Luigi il Pio, il quale nell’817, si associò al governo il figlio Lotario, destinandolo al regno d’Italia; e nell’823, il Papa Pasquale I lo consacrò Imperatore.

     Poco ci interessa qui se il Lotario si mostrò un po’ anticlericale; se, per finirla con i disturbi continui provocati dai Romani, si intromise negli affari del Papa e ne vigilò il governo non sempre efficiente; Fermo deve a lui riconoscenza, perché qui fondò la prima UNIVERSITA’, nell’829, stabilendovi uno dei nove studi del Regno Italico, al servizio di tutto il Ducato Spoletino16 .

     La scelta di Fermo dipese sicuramente dalla sua posizione preminente e centrale nel Ducato che si estendeva fino al Pescara, ma forse anche dal desiderio di cultura dei Fermani, che era testimoniato dalle scuole molto frequentate, istituite dal Vescovo Lupo, pochi anni prima17.

     Questa UNIVERSITA’ fermana, la prima istituita nel Piceno, giunse con alterne vicende alla rispettabilità di un migliaio di anni.

     Nell’833, sorsero gravi discordie tra Luigi il Pio e altri regnanti carolingi, che si trasformarono in un vera guerra civile, della quale approfittarono i predoni saraceni per scorrazzare impunemente per l’Italia.

     Anche nel Piceno provocarono danni immensi, depredando città e villaggi meno difesi e distruggendo Truento e  Cupra Marittima, verso l’840.

     Fermo non fu toccata, perché per il pirata Shabat sarebbe stato troppo difficile espugnarla, e anche senza la protezione dell’Imperatore, la città era in grado di difendersi da sé.

     Cominciò a crescere l’autorità del Conte, e ad allentarsi la dipendenza dal Duca di Spoleto.

     Nell’893, troviamo un Conte di Fermo che non sembra più un funzionario del Duca. Difatti la frase: “Temporibus Alberici Comitis Firmani, anno eius XVIII” ha tutta l’aria di citare, non un funzionario, ma un quasi sovrano che governa Fermo per 18 anni.

     D’altra parte Guido di Spoleto non ha tempo per pensare a Fermo, e ai saraceni, intento com’è a contendere il Regno d’Italia a Berengario del Friuli e a strappare al Papa il titolo di Imperatore (891).

     In appresso fu consacrato Imperatore anche suo figlio Lamberto, ancora bambino, finché  Guido muore, nell’894.

     Il Papa, stanco dei Duchi Spoletini che definisce “peggiori dei Longobardi”, elegge imperatore Arnolfo di Carinzia.

     La vedova di Guido, a Geltrude, col figlio Lamberto, lascia Spoleto e si rifugia Fermo, considerata la città più forte di tutto il Ducato, dove viene assediata da Arnolfo.

     Ma la Duchessa si ricorda di essere una longobarda e, con astuzia felina, riesce a trovare un traditore che propina al nuovo Imperatore una pozione venefica che lo paralizza; e l’esercito di Arnolfo si allontana da Fermo, portando l’Imperatore su una barella18.

NOTE

1   Ex Reg. Ep. – doc.1055 p.382 – “Rampa, quae Pulcina vocatur mulier longobarda ecc.

2   ANASTASIO BIBLIOTECARIO – Vita PP. Adriani – “Anno 773 excusso per Carolum Magnum  

      Longobardorum jugo, omne abitatores ducatus, Firmani, Auximani, Anconitani, ad Summum 

     Pontificem occurrentes, illius se ter beatitudini tradiderunt, prestitoque iuramento, in fide ac  

     Servitio B. Petri ac eius Vicari fideliter permansuros, more romano tonsurati sunt”. Nell’anno 773, 

     liberati per opera di Carlo Magno dal giogo longobardo, tutti gli abitanti nel Ducato di Fermo, di

     Osimo, si rivolsero al Papa, consegnandosi alla Sua Santità; giurando nelle sue mani di restare

     per sempre fedeli a San Pietro e al suo Vicario. Il Papa tagliò loro 1 ciuffo di capelli, 2º l’uso

     romano.

“Beato Petro eiusque omnibus vicarilis  possidendis”. Il Patto di Quiercy del 754 stabiliva la

      spartizione del regno longobardo, quando fosse conquistato, tra i Franchi e il Papa. I Franchi si

      sarebbero tenuti la Valle padana; al Papa sarebbe andato tutto il territorio sotto la linea 

      Monselice, Passo della Cisa, Luni. Compreso il Ducato di Spoleto e quello di Benevento. (V.

      Todisco – St. delle  Chie. V. III p 88).

4    Pentapoli Marittima: Rimini, pesano, Fano, Senigallia, Ancona.

       Pentapoli Annonaria: Urbino, Fossombrone, Cagli, Jesi, Gubbio.

5    Leggo in un libro moderno che vorrebbe insegnare la storia d’Italia ai giovani(lo dice nella

       presentazione) queste parole: “Fu di sorpresa, e senza nessun previo accordo, che costui (Leone

       III), alla fine della messa di Natale, gli si avvicinò e gli pose sulla testa la corona di imperatore.

       Secondo gli storici Franchi, Carlo se ne mostrò sgradevolmente stupito”Uno scrittore, capace di

      ridurre la cerimonia di Natale 800 a questa farsa, non so che cosa possa capire della storia

      medievale.

6   C. MARANESI – I Placiti del “Regnum Italie” – Roma, 1955 – “Dicembre 776: Lupus Comes de

      Firmo”.

7    GREGORIO DA CATINO – “Cronicon” …… datum iussum Spoleti in palatio nostro anno ducatus 

       nostri XIV mense Augusti in inditione X. SUB GUARINO COMITE genero nostro, ipse  Rabenno

       volontarie monacus effectus est”.

8    “……. in ambobus Ducatibus nostri Firmano ac Spoletino” (dal diploma di Adalberto e Berengario

       II al monastero di San Michele in Barrea).

9     LIBERI LERGITORIUS: hanno 904: “Temporibus Alberici Comitis Firmani, anno eius XIII”.

        Anno 911: “Temporibus Alberici Comitis Firmani, anno eius XVIII

10   In questo nel capitolo seguente, riporto alla lettera dei brani dal mio lavoro “Dal feudalesimo al 

        Governo Comunale nel Piceno”. (La Rapida Fermo 1973).

11   L’editto di Corrado II “De beneficiis – Anno 1037”

        “Ordiniamo pure che, se un valvassore dei maggiori o dei minori se ne va da questo mondo, il

         figlio suo abbia il feudo. Se poi non avrà figli, ma 1 nipote da figlio maschio, questi abbia il

         feudo, mantenendo l’uso dei valvassori maggiori di dare i cavalli e armi al proprio signore”.

12   “Similmente promettiamo che non ci sarà in Marano altro forno, fuorché quello del signore, nel

        quale promettiamo di cuocere il pane di tutto il castello, con proprie legna e pagare buon

        “fornatico”, in modo che il fornaio o la fornaia delle Vescovo faccia il fuoco con le nostre legna,

         non con le sue.

         Circa i forestieri che verranno qui ad abitare in un avranno padrone siano uomini del Vescovo

         e  servano a lui, secondo i patti con lui stabiliti”. (Catalani – De Eccl. etc. app XXXIX p. 347).

13   il piccolo affitto, pagato periodicamente in generi agricoli, e la mezzadria, cioè divisione

        proporzionale o a metà del prodotto dei campi è frequente nello Stato Farfense e nel

        Fermano.

14   (Colucci – A. P. XXIX app. CVII p. 200 – Ivi XXXI app. IV p. 8)

15   “Cola Palonis de Massa …… (libera) Benedictum Gulterutii ab omni nexu vassallaggi et singulis

         debitis servitiis …. pro eo quod dictus Benedictus restituit dicto Colae domun et omnes res 

        quas habuit in feudum …. et promisit sibi dare viginti florenos aureos pro liberatione. Ac etiam

        promisit dare septem salmas cum dimidio grani…..”.

        (Colucci – A. P. XXXI n. XXII p. 33).

        Cola Paloni di Massa (libera) Benedetto Gualterucci da ogni vincolo di vassallaggio e di ogni

        debito di servizi ……. Per il fatto che detto Benedetto ha restituito al detto Cola la casa, e tutto

        ciò che teneva in feudo ……. E ha promesso di dare 20 fiorini d’oro per la liberazione …… ha

        promesso anche di dare sette salme e mezzo di grano….”.

16   L. MURATORI – Rer.Ital. Script. – l I p. II pag. 151

        “Circa l’istruzione che quasi scomparsa dovunque per la pigrizia e la trascuratezza degli

         incaricati, stabiliamo che sia osservato quando noi disponiamo. Cioè, che quelli che per nostra

        disposizione sono stati mandati nei vari luoghi a esercitare l’arte dell’insegnamento, mettano il

        massimo impegno a che i loro scolari progrediscano e si approfondiscano nello studio, come  

        richiede la condizione attuale della cultura.

        Per comodità di tutti, abbiamo scelto delle particolari località per questo esercizio culturale,

        affinché la difficoltà di raggiungere luoghi distanti, e la mancanza di mezzi finanziari non

        costituisca una causa alla trascuratezza. Questi luoghi sono: Primo, in Pavia si radunino presso

        il Duncallo, da Milano, da Brescia etc. A Fermo si radunino dalle città spoletino etc.

17   CATALANI . De Eccl. Fir. Etc. Lupus p. 107

18   LIUTPRANDO – De Rebus Imper. Et REg. I cap. IX “…..il castello che si chiama Fermo di nome, ma lo è anche di fatto per la posizione, viene circondato e si preparano tutte le macchine da guerra per espugnarlo. Trovandosi la moglie di Guido stretta da ogni parte senza nessuna speranza di poter fuggire, incominciò con viperina astuzia a studiare il modo di uccidere il Re. Chiamato pertanto presso di sé un tale molto amico di Re Arnolfo, lo colmò di doni pregandolo di aiutarla. Ma, rispondendo quello che non avrebbe potuto farlo, prima di consegnare la città al suo signore, lo prega calorosamente, offrendogli subito molto oro e promettendogliene di più, che propini al Re suo signore una bevanda preparata da lei stessa: la quale non provocherebbe la morte, ma solo mitigherebbe l’odio. E per confermargli la verità della sua affermazione, alla presenza di lui, da a bere la pozione a un suo servo, che dopo un’ora, si allontanò sano…. Quello prese la bevanda mortale e la propinò al Re, il quale la bevve e fu preso da un sonno profondo, che non valse a svegliarlo, per tre giorni, lo strepito di tutto l’esercito. Si dice che, mentre i familiari lo sollecitavano con grida e con scosse, aprì gli occhi, ma non poté sentire né pronunciare bene una parola; sembrava che muggisse invece di parlare. La conseguenza di tutto questo fu che tutti furono costretti a non combattere, ma a fuggire”.

CAPITOLO II

I MONACI FARFENSI NEL FERMANO

     Proprio in questi anni, ultimi del sec. IX, avvenne un fatto di somma importanza per la storia Fermana.

     Mentre a Fermo l’Imperatore Spoletino e l’Imperatore Tedesco si combattevano accanitamente, come abbiamo visto, i Saraceni erano arrivati a depredare proprio alle porte del Ducato di Spoleto. Mi servo del racconto di Ugo Abate, che traduco in italiano1.

     “…. Sopraggiunsero i Saraceni …… che si sforzarono di occupare la Badia, circondandola da ogni parte, ma non ci riuscirono; poiché il venerabile Pietro, Abate di quel monastero, fidando nell’aiuto di Dio e sostenuto dal valore dei suoi soldati, ricacciandoli più volte la territorio del suo monastero, li faceva inseguire lungamente e uccidendone molti, per qualche tempo riusciva a ottenere un po’ di sicurezza.

     “Ma quei maledetti ritornavano continuamente. L’Abate Pietro, avendo resistito coi suoi monaci e coi suoi soldati per sette anni, sentendo di non poter resistere più a lungo, divisi i monaci e il tesoro in tre parti.

     Una ne mandò a Roma; una nella città di Rieti; la terza poi, presala con sé, la condusse nel Comitato Fermano, lasciando vuoto il monastero.

     “Ma  i Saraceni cominciarono a fare razzie anche in qualche zona del Comitato Fermano.

     “Perciò l’Abate Pietro, messo di nuovo in apprensione, adunò i suoi monaci e i suoi soldati e costruì un castello sul Monte Matenano, dove poi fu collocato il corpo di Santa Vittoria”.

   L’Abate Pietro si trasferì nel Comitato Fermano, perché qui i Farfensi avevano cospicui possessi; e il Conte di Fermo Alberico, che governava da pochi anni (si era nell’897),  sapeva mantenere una certa sicurezza.

     I possedimenti Farfensi nel Piceno erano cospicui e di antica data.

     Nel 787, il Duca di Spoleto Ildebrando aveva affidato alla Badia i beni confiscati al figlio del Conte di Fermo Rabennone e a sua moglie Falerona2, e altri vasti territori a Montelparo, Monteleone, Monterinaldo ecc.; Carlo Magno aveva confermato alla Badia il possesso di Ortezzano3; l’Abate Ingealdo, verso l’832, aveva   rivendicato la Badia il possesso della Curtis S. Abundi” e altre terre “in Comitatu  Camertino”4.

   In un Diploma dell’840 l’Imperatore Lotario aveva confermato alla Badia:

“In Comitatu Firmano, Monasterium S. Silvestri vel Sanctae Marinae cum omni integritate ….. et portum in Aso5, vel alias res quas Ildeprandus dare ei condonavit …… res Gualtierii fili Aimonis … res Rabennobis et uxoris eius; res Mauri presbiteri Firmanae civitatis”.

     Questi vasti territori, dei quali abbiamo riportato solo una parte, in seguito si accrebbero per le spontanee donazioni di signori, soprattutto per la donazione del signore longobardo di Offida Longino di Ottone, nel 938; e costituirono lo Stato Feudale Farfense, che durò ricco e potente fino al 1261, sommamente benemerito del progresso del Piceno.

LA BATTAGLIA DEL GARIGLIANO

     Nel 916, il Papa Giovanni X riuscì a mettere d’accordo alcuni principi italiani, tra i quali Randolfo di Benevento e il Duca di Spoleto e assalì le basi dei Saraceni nella Valle del Garigliano, sterminandoli fino all’ultimo combattente, come afferma Gregorio da Catino6.

   Anche il Papa partecipò alla battaglia, combattendo armato come un soldato qualunque.

   In questa battaglia non si fa menzione di combattenti fermani, ma è ovvio che molti di essi vi prendessero parte, poiché sicuramente si reclutano soldati da tutto il Ducato, se vi parteciparono Spoletani e Camerinesi.

     In questo periodo, dal 911 in poi, non ci sono documenti che ci dicano che governava Fermo e le relazioni tra questa città e Spoleto.

     Ugo dice: “Morto lui (Pietro) il predetto Rimone prese il Governo di quel luogo (Matenano). Ugo, Re di Borgogna, incominciò a governare sopra gli italiani, è venuto nella Marca Fermana7, cacciò dalla loro provincia i parenti di Rimone e anche lui insieme ad essi8.

     Non sappiamo il nome di questa potente famiglia che ha un figlio prete, Rimone: un buon prete che i monaci di Santa Vittoria e i soldati dell’Abate Pietro vogliono loro capo, per avere la protezione della famiglia di lui.

     Re Ugo, appena venuto nella Marca di Fermo (928) di caccia tutti dalla “loro provincia”.

     Da queste parole è lecito che la famiglia di Rimone si fosse impadronita della Marca Fermana e Re Ugo, ovviamente, non poteva tollerare la sua pericolosa potenza.

     Volendo riorganizzare il Regno Italico, che poi governò dal 926 al 944, Ugo aveva bisogno di sostituire i vecchi con nuovi funzionari, capaci e di provata fedeltà, specialmente nei punti principali del Regno, e molto si servì dei suoi parenti.

     Mise come vescovo di Verona il nipote di Raterio; stabilì Abate della Imperiale Badia di Farfa il nipote Ratfredo 9 , e affidò la Marca Fermana a un suo parente di nome Ascherio, come si può ricavare da un brano della “Destructio” dell’Abate Ugo.

     Egli dice:

      “Verso quel tempo (probabilmente 939) si accese una grande guerra tra Salirone e Ascherio, per contendersi la Marca Fermana.

     Prevalse Salirone che uccise Ascherio con molti dei suoi e si impadronì della Marca.

     Saputa la cosa Re Ugo si infuriò contro di lui e incominciò a perseguitarlo per l’uccisione di Ascherio che era suo stretto parente”.

FERMO SOTTO GLI IMPERATORI TEDESCHI

     Ottone I di Brunsvik, chiamato in aiuto da Adelaide vedova di Lotario, figlio del Re Ugo, venne, sposò Adelaide e fu incoronato a Pavia Re d’Italia, nel 951.

     Morto, nel 961, il principe Alberico che si era sempre rifiutato di ricevere Ottone, il figlio di lui Giovanni XII (955-965) lo invitò a Roma e lo incoronò Imperatore del Sacro Romano Impero, ufficio vacante da oltre quarant’anni; e come era nei patti, il 13 febbraio 962, col privilegio di Pavia, Ottone si obbligò a rendere al Papa i territori d’Italia destinati alla Chiesa da Carlo Magno10.

     È difficile giudicare l’operato di questo grande Imperatore.

     Qualcuno potrebbe mettere in dubbio la sua buona fede sul Privilegio di Pavia, perché subito dopo sorsero attriti gravissimi tra lui e il Papa, proprio perché il Privilegio non andava mai a effetti; anzi l’Imperatore gravava la mano sulla chiesa, giungendo a stabilire che l’elezione del Papa doveva avere la conferma imperiale.

     A qualcuno fa meraviglia questa ingerenza da parte di un Imperatore sinceramente cattolico, marito di una santa, la grande Adelaide che sapeva influire sul marito, come seppe poi guidare il figlio Ottone II.

     Ma siamo onesti! Come poteva questo Imperatore che, appena incoronato, dovette scappare da Roma per una rivolta popolare; che stava combattendo per riconquistare le terre della Chiesa contro Berengario annidato nel Montefeltro, affidare l’Italia dei Papi in balia di signori irrequieti, circondati, da un clero indisciplinato e corrotto. Perché tali erano allora le condizioni della Chiesa italiana.

     Da Ottone I cominciò l’ingerenza degli Imperatori tedeschi negli affari interni della chiesa che durò per quasi due secoli; ingerenza insopportabile, inammissibile; ma almeno bisogna salvare la retta intenzione di molti di essi, anche se il fine non giustifica i mezzi.

     A Fermo, durante l’impero degli Ottoni, non succede niente di particolare importanza.

     Nel 982, vi fa sosta Ottone II, che si recava a combattere in Calabria; questo soggiorno, che qualcuno riporta come onorifico per la città, era in effetti una calamità che si prolungò per secoli, rendendo le Marche, e soprattutto il Fermano, zona di transito di innumerevoli soldatesche e, in conseguenza, zona di disordini, di rapine e di lutti.

I VESCOVI DI FERMO NEL SECOLO X

     Poche notizie abbiamo della diocesi di Fermo, fino alla fine del secolo X.

     Di questo secolo conosciamo solo il nome di tre vescovi: Amico (940-960), Gaidulfo (960-977) e Uberto (996-1044), eletto negli ultimi anni del secolo.

     I vescovi fermani che conosciamo, secondo i documenti che ci restano, sono all’altezza del loro alto ufficio.

     Possiamo osservare che essi hanno una posizione preminente nel Piceno, poiché li vediamo intervenire spesso con autorità in affari di altre Diocesi.

     Il vescovo amico arbitra nei contrasti tra un certo Leone di Arciprando e l’Abate Campone della Badia di Farfa, per certi possedimenti nella Sabina; il Vescovo Gaidulfo più volte interviene, insieme al Conte di Fermo Lupo, nelle questioni tra Giovanni Vescovo di Penne e l’Abate Ilderico di Causaria (Abbazia presso Torre de’ Passeri).

     Anche la potenza economica dei vescovi fermani in questo periodo incomincia a crescere enormemente.

     Dobbiamo notare che anche la Chiesa, o meglio, gli uomini che la compongono, nei secoli X e XI, si adeguano ai tempi e poggiano la sicurezza e la libertà nella potenza economica e, per molte ragioni, non possiamo condannarli.

     I vescovi di Fermo erano già ben provvisti, per le donazioni di re longobardi, specialmente di Aginulfo e Liutprando. Ma nella seconda metà del Novecento le donazioni di terre e anche di interi villaggi abbondano, fino a costituire il più potente feudo di Piceno, al pari del potentissimo feudo Farfense.

     Le donazioni fatte alla Chiesa Fermana durante questo secolo sono tante, ma non credo opportuno menzionarle, poiché per il lettore sarebbe cosa inutile, essendo la maggior parte di quelle località non rintracciabile, perché i loro nomi sono cambiati.

     Nel 995, il giovane Trasone dona alla Chiesa Fermana una possidenza di quasi 500 ettari, vicino al mare, tra il Potenza e il Chienti. Il documento afferma che la donazione sarà irrevocabile, come vuole il Codice Longobardo11.

     Fino a tutto il secolo X e oltre, il Vescovo di Fermo (come tutti i vescovi delle Marche) non esercitò un vero governo civile; i poteri civili e militari erano in mano al Conte.

     Il Vescovo influiva molto sul governo comitale, per la sua autorità vescovile e per essere senza confronti più grosso feudatario del Comitato; ma la sua autorità era religiosa e morale, non politica.

     La sua autorità nel campo civile era quella di un grande feudatario con impegni particolari impostigli dalla sua condizione di Vescovo.

     Abbiamo visto come incominciarono a darsi a lui interi villaggi, popolati di povera gente che stentava la vita intorno alle Pievi; gente di nessuno, perché libera da obblighi servili verso altri signori.

     Questa gente aveva bisogno di aiuto, di guida, di difesa, di organizzazione; e il Vescovo feudatario, appunto perché vescovo, non poteva disinteressarsi di essa, come avrebbe potuto fare un signore qualsiasi: quella gente era “la plebe del Vescovo”, ed egli aveva il dovere morale di guidarla; e vedremo come i vescovi di Fermo seppero guidare le loro plebi fino alla libertà comunale.

     Questo interessamento del Vescovo comportava anche dirimere le questioni della gente nel suo feudo, senza intromettersi nel giudicare i delitti che spettavano al Conte, non avendo il vescovo “il mero e misto impero”12.

     Ma un chiarimento è necessario. Di chi era feudatario il vescovo di Fermo?

     La Marca Fermana, di diritto, era proprietà della Santa Sede, perché ancora in vigore il privilegio di Pavia, ma questo non ebbe mai esecuzione, anzi, da Ottone I in poi, gli Imperatori agirono come se l’autorità del Papa dipendesse dalla loro.

     Il Vescovo di Fermo quindi, di diritto era feudatario del Papa, di fatto però dipendeva dall’Imperatore, il quale aveva influenza decisiva anche sulla sua elezione.

     Provvidenzialmente i Vescovi di Fermo nel Novecento e del Mille furono tutti all’altezza del loro Ministero.

I NORMANNI A FERMO

     Nel 1049, finalmente la Chiesa, dopo tanta decadenza, ebbe un degno Papa, Leone IX, Alsaziano e il cugino dell’Imperatore Enrico III.

     Fu il primo dei Papi che, dietro i consigli di Ildebrando (poi Papa Gregorio VII), lavoro seriamente per la riforma della Chiesa, per la quale più volte viaggiò attraverso l’Europa.

     Per la storia nostra, mi sembra di poter affermare che Fermo avesse bisogno della riforma meno di altre diocesi.

     Certamente non possiamo affermare che Fermo fosse immune dai mali del tempo, dei quali tutti è sempre risentono; ma conoscendo i grandi vescovi di questo secolo: Uberto (996-1044), Fermano (1047-1057), Olderico (1057-1075), la loro attività pastorale, la fiducia popolare che godevano, attestata da innumerevoli donazioni; conoscendo infine la relazione amichevole del vescovo fermano col terribile riformista Pier Damiani, siamo autorizzati a credere che a Fermo le cose andavano meno peggio che in altre parti.

     Il pericolo maggiore per Roma, in quel tempo, erano i Normanni che dalla Puglia scorazzavano nelle regioni vicine, razziando e maltrattando ferocemente le popolazioni che facevano resistenza.

     Nel 1053, Leone IX, di ritorno da un viaggio in Germania, condusse con sé una schiera di soldati tedeschi, per rafforzare un esercito di Spoletini e Fermani, pronti per combattere contro i Normanni.

     Anche l’Imperatore Bizantino aveva promesso di inviare un esercito che però, come al solito, non arrivò mai. Il Papa stesso si mise a capo del suo esercito; ma presso Civitate sul Fortore, l’esercito fu sopraffatto dai Normanni e Leone IX preso prigioniero13.

     O che l’imperatore Enrico III, al quale spettava il dovere di difendere il territorio della Chiesa, si fidasse nel suo cugino Papa, che in gioventù era stato un buon capitano; o che il Papa preferisse non far troppo ingerire l’Imperatore negli interessi della Chiesa, Leone IX commise un errore che gli costò sette mesi di prigionia e la morte prematura a soli cinquanta anni; poiché, riportato in barella da Benevento a Roma, vi morì nel marzo 1054.

     Questo, come tanti altri fatti storici, dimostra che, mentre i comuni mortali è concesso di fare molti sbagli, un solo errore può abbattere i grandi.

     Per Fermo questa guerra fu rovinosa, poiché (fortunatamente per pochi anni) i Normanni dilagarono nella Marca Fermana e possiamo solo immaginare, giacché non abbiamo documenti, cosa poterono compiervi quei feroci conquistatori.

      Nel 1059, per interessamento di Ildebrando e di Desiderio, Abate di Montecassino, il Papa Nicolò II (1058-1061) e Roberto Guiscardo si incontrarono a Melfi, per un accordo.

     Col trattato di Melfi, i Normanni si ritirarono da tutte le terre della Chiesa, quindi anche della Marca Fermana e, in cambio, Roberto il Guiscardo veniva investito della Puglia, della Basilicata, della Calabria e giurava fedeltà al Papa, quale feudatario della Chiesa, che si impegnava a difendere.

   Il 22 aprile 1073, alla morte di Alessandro II, fu acclamato Papa, dal popolo romano, Ildebrando che si chiamò Gregorio VII14.

     Roberto di Guiscardo che, finché era stato impegnato a consolidare il suo dominio più che raddoppiato col trattato di Melfi, era stato utile la Chiesa in varie occasioni, cominciò a vagheggiare di nuovo la conquista della Marca Fermana, forse approfittando delle difficoltà che Enrico IV procurava al Papa.

   Ma Gregorio VII non tremò e scomunicò tanto Enrico IV, come anche i Normanni che minacciavano “Marchiam Firmanam et Ducatum Spoletinum”.

     Nel 1084, Gregorio è costretto a chiedere aiuto a Roberto il Guiscardo, allora impegnato contro l’Imperatore di Costantinopoli.

     Enrico IV, seguito da un antipapa, aveva occupato Roma e Gregorio si era chiuso in Castel Sant’Angelo.

   Guiscardo accorre con trentamila soldati normanni e saraceni, mette in fuga il re tedesco e libera il Papa.

  In questa impresa i normanni occuparono anche la marca Fermana; e il Guiscardo, che non si era mosso certo pero solo amore di Dio, volle ripagarsi del servizio reso; e Gregorio VII dovette accontentarsi di cedergli la parte della Marca a sud del Tronto. Quel fiume diventò il confine tra la Marca Fermana il territorio normanno, e anche oggi è il confine meridionale delle Marche   .

     Quanto abbia sofferto la città di Fermo in questa pur breve occupazione normanna non lo sappiamo, poiché sono rarissimi gli storici che si occupano delle sofferenze della povera gente, ma possiamo farcene  un’idea, conoscendo la ferocia di questo esercito di briganti che nella stessa Roma aveva perpetrato stragi crudeli.

     Era Vescovo di Fermo Golfarango, che forse qui si chiamava Wolfango, probabilmente venuto dal Nord, come ci suggerisce il nome. Vale la pena di fermarci un po’ su questo personaggio su alcuni fatti che sono in relazione con lui, perché ci aiuta a conoscere meglio la storia di questo periodo.

     Morto Olderico, verso la fine del 1074, Gregorio VII scrisse al Conte di Fermo Uberto, al clero e a tutti i fedeli che, benché gli fossero state riferite cose riprovevoli nei riguardi dei loro Arcidiacono, pure, conosciute false le accuse, a lui affidava l’amministrazione della Diocesi che, d’accordo col Re (Enrico IV), non si fosse trovata la persona degna dell’Episcopato.

     Intanto si impedisca la dispersione dei beni della diocesi, e “fate in modo di diportarvi come figli fedeli della Chiesa”.

     Questo, perché avveniva sempre che alla morte di un vescovo, clero e popolo saccheggiavano l’episcopio; il che succedeva non solo a Fermo, ma anche altrove15.

     Nei primi mesi del 1075, fu eletto vescovo Pietro I, che l’anno appresso scompare, ma non si sa se per morte, o per rinuncia volontaria, o per rinuncia imposta da Enrico IV.

     Io sospetto che quest’ultima ipotesi sia la più probabile perché a Enrico IV non poteva piacere la fedeltà dei vescovi fermani al Papa, né la loro intraprendenza politica; nel Giugno di quell’anno, loro stesso Pietro I aveva imbrigliato il potere degli Aldonesi, piccoli feudatari, obbligandoli a fare i conti col Comune di Civitanova, già formatosi sotto Olderico e in via di sviluppo16.

     Al principio del 1076, Enrico IV insedia un nuovo vescovo a Spoleto, e a Fermo manda Wolfango, senza sentire il Papa, il quale si lamenta col Re, perché ha osato dare le due diocesi a due sconosciuti, mentre egli non può consacrare se non persone ben conosciute provate. Ma per amore di pace, il Papa consacrò i due vescovi.

     Nel VI Concilio romano che si celebrò nel Febbraio 1079, troviamo Wolfango comunicato insieme ad altri vescovi17.

     Che era successo?

      Si era al colmo della lotta per le investiture, contro la simonia e per il celibato del clero; lotta che Gregorio VII sosteneva con successo da una trentina di anni, prima come segretario dei papi, poi come Papa, e che gli aveva attirato l’odio della gran parte del mondo cattolico.

     Questo piccolo gigante, cui era ignoto il senso della paura, alle minacce tedesche, al pericolo normanno, ai conciliaboli dei vescovi partigiani di Enrico IV che si ribellavano ed eleggevano antipapi, rispose col VI Concilio Romano, dove si scomunicò di nuovo il Re e tutti i vescovi ribelli e, tra questi, per la prima volta si trovò un Vescovo Fermano, Wolfango, il quale come gli altri doveva l’episcopato a Enrico IV.

     Ma per l’opera dei grandi vescovi precedenti, Fermo non era la sede adatta per un vescovo ribelle, e Wolfango o se ne andò, o più probabilmente si riconciliò col Papa dopo poco tempo18.

NOTE

1     UGO DI FARFA – “Destructio” – Traduzione e note di Fiuseppe Michetti (Fermo – La Rapida 

        1980).

2     COLUCCI – A. P. XXXI p.15

3     CHRONICON col. 469 – “Curtem S. Marinae in Ortatiano

4     COLUCCI – XXXI pp. 16-17

5     per attraversare il lasso non c’erano punti. Nei punti dove confluivano le vie di maggiore

       traffico, era organizzato il trasbordo per mezzo di zattere che si chiamavano “Portoria”, e il

       luogo si chiamava portus = dazio, gabella. Il trasbordo dei passeggeri e delle merci era fonte di

       grossi guadagni. Il “portus” di fortezza sano era in proprietà dei monaci di Santa Marina, cui

       monastero era poco lontano.

6     GREGORIO DA CATINO – Cronicon – in Muratori – Scrip. Rer, Ital. t. II – COLUCCI XXIX p. 20 –

      “Denique Joannes Ravennas tunc praesidebat Ecclesiae Romanae, qui consultu Randulfi

       Beneventanorum et Capuanorum principis legatos dixerit ad Imperatorem Costaninopolim, a

      quo acceptis non modicis copiis, simulque accersitis Spoletanis atque Camerinis, contra POenos

      satis studuit pugnam preparare. In quo bello visi sunt a religiosis fidelibus Petrus et Paulus

      Apostoli, quorum precibus cristiani victoriam obtinuerunt et Poenos viriliter effugaverunt”.

      Era a capo della Chiesa Romana Giovanni di Ravenna…..  reclutati spoletini e camerinesi preparò

       accuratamente la guerra contro gli Arabi.

7    E’ la prima volta che troviamo l’espressione: “Marca Fermana”.

8    ABATE UGO – Destructio – in Colucci t. XXIX p. 8.

9     DA CATINO – Chronicon – in Muratori A. I. T. t. II part. II.

10   Patto di Quercy del 754, riconfermato da Carlo Magno nel 774.

11   CATALANI – De Eccl. app n. II – riporto questa donazione per far notare che nei contratti si

        poteva usare il Codice Longobardo o quello Romano. Nel Fermano prelevare l’uso del primo.

12   Et si aliqua quaestio inter nomine praedicti castri oriebatur, ipse Episcopus faciebat

        determinare per iudicem suum” (Catalani – DE Eccl. etc. – App. n. 340).

        E  se sorgeva qualche questione tra gli uomini del detto castello, il Vescovo la faceva a

        dirimere dal suo giudice.

13   Di Leone IX e della guerra contro i Normanni parlano: Bruno di Segni, Anacleta Bollandiana t.      

       XXV; Chalanton – Histoire de la nomination normande en Italie (Parigi 1907).

14   Ildebrando, nato a Savona da umilissima famiglia, fu un monaco Benedettino, poi consigliere

        dei Papi per una ventina di anni. Piccolo di statura, di voce esile, dimostrò meravigliose qualità

        diplomatiche politiche che, insieme a una volontà ferrea, lo pongono tra i più grandi uomini  

        della storia.

15   CATALANI – De E. F. – app. n. XII

        Anche Leone IX, nel 1051, aveva scritto nello stesso modo al clero e al popolo Osimano.

16   Ex Reg. Episc. P. 116

17   “Excomunicati sunt in eadem Sinodo, sine spe recuperationis, Archiepiscopus Narbonensis,

        Tebaldus dictus Archiepiscopus Medionalensis, Sigifridus dictus Episcopus Boboniensis,

        Rolandus Trevisinus, item Episcopi Firmanus et Camerinensis; hique omnes cum seduacibus

        suis tam clericis, quam etiam laicis”.

18   CATALANI – Hist. Eccl. Firm. – Gulfarangus p. 124.

CAPITOLO III

FERMO E I COMUNI

I vescovi di Fermo preparano i Comuni

        L’organizzazione municipale romana, che era sopravvissuta nella “civitas”, era venuta meno nei villaggi e nelle città ridotte a misere borgate per le invasioni barbariche e divenuti, in qualche maniera, tributari dei feudatari, e condizionati dalla potenza dei signori terrieri.

     Alla fine del secolo XI e al principio del secolo XII, l’organizzazione municipale comincia a ricostituirsi nel Piceno, soprattutto per merito dei Vescovi di Fermo e degli Abati di Santa Vittoria.

     Abbiamo accennato ai patti sottoscritti dai signori Aldonesi, nel 1075 per incastellarsi a Civitanova, un Municipio risorto pochi anni prima con un certo autogoverno; difatti tra i firmatari c’è anche un “Massaro” = pubblico amministratore.

     L’attività politica dei vescovi fermani in questo periodo consisteva nel dare una organizzazione civica a questi villaggi, a queste libere plebi, mano mano, che l’ambiente ne presentava la possibilità .

     Così nel 1083, Ulcandinus = Ugo Candido diede organizzazione civica Ripatransone1; l’Abate Berardo III fortificò Offida “et civitatem fecit”, cioè diede organizzazione civica a Offida, nel 10992; nel 1108, il vescovo Attone dettò a diversi signori di campagna i patti per la formazione di un paese fortificato intorno alla pieve di San Marco che poi si chiamò Servigliano3: nello stesso anno, fece la medesima cosa con Macerata4. È chiaro che si tratta di iniziale organizzazione civica.

       Nella città di Fermo non possiamo fare lo stesso discorso che facciamo per gli altri Comuni del contado. Nella città l’organizzazione municipale, pur subendo mutamenti e deterioramenti, non era venuta meno con le invasioni barbariche. L’influente presenza del vescovo e il progressivo incivilimento degli invasori, particolarmente dei Longobardi, avevano mantenuto una organizzazione municipale sufficiente. Circa l’anno 600, in una lettera di Gregorio Magno al vescovo Passivo si parla di “Tributi Fiscali dovuti al Municipio”5. Certo non possiamo ancora parlare di libero Comune; la libertà arriverà dopo parecchi secoli.

     Per mancanza di documenti, non sappiamo i titoli dei reggitori della città di quei tempi. Sappiamo che fino a tutto il secolo XI Fermo fu governato da un Conte; ma questi sicuramente aveva avuto bisogno di collaboratori, per le molteplici e varie esigenze della vita cittadina. È ovvio quindi pensare a un gruppo di persone autorevoli, forse anche elette dal popolo, destinate alla guida civile del Municipio, sotto la vigilanza del Conte.

     Solo nel 1101, conosciamo il nome di un Console: il Console Reginaldo che accompagna in Terra Santa il Vescovo Attone6. Ma la piena autorità di questi Consoli e la relativa piena libertà del Comune di Fermo la troviamo solo nel 1189, quando la città si dà il primo Statuto e al posto del Conte, troviamo un Podestà eletto dal Comune: il Podestà Baldo di Nicola da Firenze.

     L’opera dei vescovi fu compresa e appoggiata pienamente dalla città di Fermo, perché capiva i vantaggi che le potevano derivare dall’organizzazione unitaria di un Feudo così vasto.

   Dopo avere sperimentato quasi inesistente la potenza militare del governo pontificio, in tempi che la forza valeva più del diritto; constatata vana la fiducia nella protezione dell’Imperatore; sofferta l’oppressione dei feroci Normanni, Fermo e il suo vescovo si persuasero che bisognava riorganizzarsi meglio, accrescere la solidarietà e la forza in questa zona, destinata a diventare il punto di scontro tra Tedeschi e Normanni.

     Ma per avere questa forza, questa solidarietà, non bastava il sistema feudale vigente.

     Questo è l’aspetto principale da tenere presente in questo argomento: il sistema feudale favoriva la divisione e l’urto tra i signori dei castelli feudali; e soprattutto favoriva l’indifferenza e il disinteresse della plebe inerme.

     Il Vescovo di Fermo capì che queste plebi che per lui erano state, in qualche modo, un peso, potevano diventare una potenza, qualora fossero costrette a governare se stesse.

     E i Vescovi (essi soli erano in grado di farlo) prepararono le popolazioni all’autogoverno e gradatamente le condussero al Governo Comunale.

     Questo genere di organizzazione però poteva generare un certo frazionamento, favorire un autonomismo esagerato e pericoloso; ed ecco la sapiente politica dei Vescovi: libertà nella solidarietà; Comuni liberi, ma solidali con la capitale Fermo.

     Questa solidarietà e sempre imposta nei contratti comunali: in principio solidarietà col vescovo; poi quando il Comune di Fermo aveva raggiunto una efficienza notevole, si imponeva solidarietà con quella città e speciali riguardi pei suoi cittadini7.

IL COMUNE

     L’istituzione del governo comunale non nasce da una decisione improvvisa e arbitraria di    una popolazione, ma è l’epilogo di una grande preparazione, di una lunga esperienza di autoamministrazione popolare.

     Questa autoamministrazione formatasi in ogni centro anche piccolo, per la necessità, che tutti gli uomini naturalmente sentono di un organismo che regoli le loro relazioni reciproche, diriga, in altre parole, la loro convivenza, fu esercitata da uomini scelti che si chiamarono “Boni Homines”.

     Essi avevano la poca autorità che  loro permetteva l’arbitrio del feudatario, o la prepotenza del signore terriero; autogoverno popolare quindi molto limitato e imperfetto.

     Con la istituzione del Comune questa autogoverno popolare si perfeziona sempre di più; e diventa completo, quando acquista anche il diritto di amministrare la giustizia.

     L’istituzione del Comune quindi non è l’inizio dell’autogoverno popolare, ma la perfezione di esso; e per conseguenza, è l’inizio della libertà responsabile di una popolazione.

     Poiché siamo abituati a dare alla parola “rivoluzione”un significato violento, faremmo meglio a chiamare la lotta per il governo comunale: “evoluzione”; una lenta, ma non violenta evoluzione di più secoli, che porta al libero Comune.

     Ciò non toglie che essa sia una rivoluzione nelle conseguenze, poiché conduce a una radicale trasformazione dell’assetto sociale.

     Le “plebes”, composti di gente libera ma povera; di artieri, di piccoli commercianti anche di professionisti riscoprono l’organizzazione romana dei “Collegia” = corporazione, e sperimenta la grande convenienza della solidarietà.

      Queste plebi crescono, si organizzano e reagiscono contro l’oppressione del nobile signore di campagna che, nel sistema feudale, controllava tutte le fonti della ricchezza, essendo la terra base principale dell’economia.

     Anche una maggiore comprensione popolare della giustizia e della libertà spinse le plebi verso il governo comunale, poiché fece loro sentire la necessità di rompere quella rete di diritti e di privilegi signorili che condizionavano lo sviluppo della stessa vita civile.

     Non era più sopportabile che i pedaggi, per esempio, pagati dai commercianti sulle strade e sui ponti, e la percentuale che la povera gente pagava per servirsi dei mulini e dei forni, tutti in proprietà del signore, andassero completamente a profitto di lui che non si curava affatto delle necessità della plebe, la quale abitava in raggruppamenti di tuguri, tra vie impraticabili per fango e immondizie.

     Questi capi eletti dal popolo difesero la libertà di ogni cittadino, abolendo la servitù della gleba e la prestazione gratuita di servizi obbligati; amministrarono la giustizia secondo le leggi comunali, uguali per tutti; provvidero al bene sociale, organizzarono la vita cittadina con maggiori comodità e più decoro.

     Non si deve però credere che con l’istituzione del Comune sparissero immediatamente gli inconvenienti del feudalesimo; anche il Comune è una istituzione umana e, se è umana, non sicuramente perfetta.

INDOLE DEL COMUNE FERMANO

     Nel fermano, i Comuni nascono con pacifici contratti tra il Vescovo e i rappresentanti delle popolazioni; nessuno colla lotta violenta. E questo perché il Comune era voluto dalla Chiesa, favorendo esso lo sviluppo sociale delle plebei le quali, divenute consapevoli della loro dignità e responsabili di se stesse, avrebbero costituito una forza capace di far fronte, sia allo strapotere dell’Imperatore tedesco, sia all’irrequietezza dei Normanni e di altri potenti signori.

     Nella istituzione dei Comuni la Marca Fermana non fu seconda a nessuno nel tempo. I Comuni Fermani ripeterono molti aspetti del Municipio romano, e molti ne suggerirono all’organizzazione del Municipio moderno.

     Per dimostrare le mie affermazioni, sottopongo all’esame del lettore il contratto che riguarda il Comune di Macerata, poiché gli altri che conosciamo sono redatti pressappoco nello stesso modo.

     Nel 1116, il vescovo Azzone concede il governo comunale a poggio San Giuliano, uno dei castelli che formò poi la città di Macerata, dando tutte le concessioni e i privilegi accordati a Civitanova dal Vescovo Olderico (1057-1074), una cinquantina d’anni prima. La motivazione è motivata:  “ut omnes nostare Ecclesiae minores sudditi juste sibi quaesita possideant” = affinché i nostri sudditi minori posseggano con sicurezza quanto giustamente reclamato”.

     E premette: “da oggi in poi, vi staremo vicini, vi difenderemo, lavoreremo con voi e ci interesseremo di tutti i bisogni del vostro castello.

     Mai valendoci del Codice Longobardo o di quello Romano, vi molesteremo per i mercati e negozi che si terranno nel vostro castello; per essi, non siete tenuti né a tasse, né a dazi.

     Non terremo tribunali per gli abitanti del vostro castello, se non per i quattro delitti che ci riserviamo: insurrezione, omicidio, furto e adulterio incestuoso; e se questi diritti avverranno entro le vostre mura, chiederemo il consenso dei vostri Consoli.

     Non esigeremo il vettovagliamento (forum), se non in caso di visita dell’Imperatore.

     Poiché anche voi avete promesso di stare con noi, di agire d’accordo con noi e di opporvi contro tutti, in fedeltà verso la Chiesa Fermana.

      E se il castello verrà distrutto, lo ricostruirete con noi fino a tre volte.

      Inoltre difendete le cose della nostra Chiesa entro i confini del vostro territorio.

      Potete vendere, con votare, donare le cose vostre, purché non ci inviate le terre situate entro i vostri confini a Conti, a Capitani, o ad altra chiesa (diocesi)8.

      Da questo documento appare chiaramente che gli abitanti di San Giuliano chiesero l’autogoverno comunale; il Vescovo concesse la libertà più ampia; concesse anche l’amministrazione autonoma della giustizia; imponendo però al nuovo Comune la solidarietà con la Chiesa Fermana e la proibizione di vendere terre a estranei.

     Mi pare di poter affermare che il Vescovo Attone, nel suo lungo Pontificato, abbia mirato principalmente a dare una organizzazione unitaria al suo immenso feudo, con lo scopo non confessato di costituire un potente principato fermano, capace di far valere il suo peso nelle interminabili lotte tra il Papato e le potenze avversarie.

     La sua politica fu seguita dai suoi successori Grimaldo, Alessandro II e ancor più da Liberto (1128-1145) che appena eletto costituì il Comune di Monte Santo (Potenza P.); da Presbitero (1184-1202) che il lavoro per consolidare i comuni; fino ad Adenulfo (1205-1213) il primo Vescovo-Conte di Fermo, investito della Contea “per vexillum”, da Papa Innocenzo III.

DIFFICOLTA’ PER FERMO NEL SEC. XII

     Allo stato delle cose, religiosamente positivo, politicamente efficiente nel Fermano, non faceva riscontro una condizione altrettanto positiva per la Chiesa Romana.

     Mentre il vescovo Liberto (1128-1145) aveva bisogno di pace, per organizzare i Comuni Fermani, a Papa Innocenzo II (1130-1143) fu contrapposto l’antipapa Anacleto, sostenuto principalmente da Ruggeri di Sicilia.

     Per difendere l’antipapa, i Normanni occuparono Roma e la Marca Fermana.

     Non sappiamo quale resistenza poteva opporre il Vescovo Liberto coi suoi Comuni, ma la disparità di forze a suo scapito era enorme; e solo con l’intervento dell’Imperatore Lotario II di Sassonia i Normanni furono ricacciati nei loro confini, nel 1137.

     Nella Pasqua di quell’anno, Lotario II passò le feste a Fermo e ricevette la Comunione dalle mani del Vescovo.

     L’ultimo atto del Vescovo Liberto fu l’incastellamento dei signori Gualtieri a San Benedetto in Albula, nel 1145.

     Gli succedette immediatamente, nello stesso anno, il vescovo Balignano (1145-1167, Arcidiacono della Chiesa Fermana.

     Veniva da una nobilissima famiglia comitale, poiché  figlio del conte Giberto.

     Per la sua elezione, i suoi fratelli degli donarono il castello di Francavilla, con tutti i suoi abitanti e le sue pertinenze9.

     Seguito la politica dei suoi predecessori, organizzando sempre meglio e accrescendo il numero dei Comuni Fermani.

     Ricostituire fortificò il castello di Morrovalle, la qual cosa lo portò alla guerra col Marchese di Ancona, un personaggio nuovo nella nostra storia.

     Era successo che, nel 1112, contro l’aperta opposizione del Papa Pasquale II, Enrico V aveva affidato la Marca al Marchese Guarniero, allo scopo di farne una provincia dell’Impero, mentre essa era di diritto pontificio.

     Questo marchese non sembra un arrabbiato antipapalino, perché con una scrittura dello stesso 1112, il vescovo Attone gli diede in enfiteusi per tre generazioni il castello di Agello (Ripatransone); in quel documento il Vescovo loda la bontà di lui e si dice grato di tanti benefici del Marchese verso la Chiesa Fermana10.

     Il Marchese ebbe discordie con il Vescovo Balignano fu il figlio, che si chiamava Guarniero come il Padre. Il fatto è questo.

     Balignano, ricco e potente come vescovo, appoggiato dai suoi vecchi fratelli, vuole fare del villaggio di Morrovalle un grosso castello fortificato, che diede in feudo ad Alberto di Montecosaro, che nominò suo Visconte

     Il Marchese di Ancona Guarnerio non vedeva certo di buon occhio la potenza del vescovo fermano, e tantomeno che si fortificasse verso i suoi confini e, circa il 1153, assalì il territorio fermano.

     L’esercito di Balignano respinge sul principio le forze del Marchese; avanzò anche sul territorio di lui distruggendo il castello di Casio, ma poi dovette ritirarsi e cedette Morrovalle.

     Il tempo era a sfavore del vescovo, poiché Federico Barbarossa era in aspettativa della corona imperiale, che ottenne nel 1155; e Balignano ottenne giustizia solo dopo undici anni. Nel 1164, nel tribunale costituito a Fano presso la chiesa di San Paterniano, presieduto dal vescovo di Trento, Vicario dell’Imperatore, si stabilì che Morrovalle doveva essere restituita al vescovo di Fermo11.

     Forse questa rivincita costò molto cara moralmente al Vescovo Balignano; poiché, esaminando la successione cronologica dei fatti, mi son convinto che fu per ottenerla, che nel conciliabolo di Pavia del 1160, insieme ad altri, anche Balignano firmò a favore dell’antipapa Vittore IV, ivi proclamato.

DISTRUZIONE DI FERMO

     Forse nessun Imperatore si accanì tanto contro gli Italiani e contro il Papa, e forse nessuno raccolse in Italia tante umiliazioni, quante Federico Barbarossa.

     Ogni volta che scendeva nella Penisola, portava il terrore; ma sempre doveva affrettarsi a ripartire a causa di pestilenze, regolarmente inseguito da ribelli italiani che decimavano quella parte del suo esercito risparmiata dalla peste.

     Eppure i Comuni italiani non erano contro l’Imperatore.

     Essi riconoscevano la sua autorità, ma non sopportavano l’oppressione e lo sfruttamento del feudatari che egli difendeva: volevano la libertà.

     E siccome avevano trovato un grande Papa. Alessandro III (1150-1181) che favoriva i loro ideali, non sopportavano che l’imperatore volesse imporre i suoi antipapi, fecero di Alessandro III la loro bandiera; in suo onore fondarono una città, Alessandria; e da quella città iniziò il declino di Barbarossa.

     Tutte le crudeltà dell’Imperatore non valsero a fiaccare i Comuni italiani: nel 1162, distrusse Milano, ma dopo cinque anni i Comuni longobardi concordi l’avevano ricostruita più forte e giurarono a Pontida di difendere la loro libertà, uniti nel nome di Alessandro III.

     Il Barbarossa ridiscese in Italia dopo poco tempo, ma a Legnano, il 29 Maggio 1176, subì una sconfitta che fiaccò per sempre la sua prepotenza.

     Chiese la pace del Papa, con l’intento di separarlo dai Comuni lombardi, ma Alessandro rispose: “Che preferiva essere segato in due dai nemici, piuttosto che fare la pace senza i Comuni”; e questi dall’altra parte: “preferiamo la guerra nell’unità della Chiesa, piuttosto che la pace con la divisione da essa”. Fu durante questi tentativi allo scopo di fiaccare la resistenza del Papa che il cancelliere dei Federico, Cristiano Won Buk, detto “il Cancelliere Cristiano”, rivolse le sue forze contro la Marca Fermana, il territorio della Chiesa più ricco più organizzato.

     Non sappiamo dei danni subiti dai vari Comuni Fermani, perché mancano documenti, ma certo il Cancelliere non ebbe nella Marca la mano tanto leggera, poiché era recente lo smacco subito in Ancona, che non era riuscito a sottomettere; e ricordava sicuramente che i Comuni Fermani, pochi anni prima, concordi col loro Vescovo avevano rintuzzato tanto bene le la prepotenza del Marchese di Ancona Guerniero.

     A Fermo poi, loro capitale, era riservata la sorte di Milano, di Crema e di Spoleto.

     Occupata dalle truppe del Cancelliere, il 21 settembre 1176, saccheggiata e data alle fiamme.

      Nell’incendio perirono, insieme a tanti cittadini, i migliori edifici, compresi la Cattedrale coi suoi tesori e l’archivio; l’episcopio attiguo alla Cattedrale; il vicino palazzo dei Priori12.

      Era vescovo di Fermo Alberico, del quale non conosciamo la fine che deve cadere in quello stesso anno, poiché al convegno di Venezia del 1177, nel quale si firmò la pace tra il Papa, i Comuni e l’Imperatore, insieme ad altri vescovi del Piceno, non figura Alberico.

     Mentre ci sono documenti sulla distruzione di Fermo, nessuno ci parla della sua ricostruzione che sicuramente cominciò subito, dietro la guida dei suoi Consoli.

     Nell’agosto del 1177, da Venezia, Alessandro III scrisse ai vescovi della Marca, e al Comune di Fermo che si interessassero delle chiese della città, imponendo a chi ne fosse detentore la restituzione dei libri e delle suppellettili da esse asportati.

      Esorta i chierici e fedeli ad essere generosi nell’aiutare i canonici nella ricostruzione della cattedrale, al fine di scontare i loro peccati13.

     Nella cattedrale di risorse, ma fu completata solo nel 1227, dell’architetto Giorgio da Como14.

NOTE

1   CATALANI – De Eccl. Firm. – App. n. XV p. 128 “…. in ipso monte qui vocatur Agello qui edificata

      est ipsa civitate quan fecit Ulcandinus….”

2   GIORGI E BALZANI – Reg. Farf. Vol. V – p. 389

3   CATALANI – app. n. XX

4   CATALANI – app. n.XIX

5   CATALANI – De Eccl. Firm. Etc. – Passivus p. 100

6   CATALANI  – Ivi – Actius p. 130

7   Tipico in questo senso è l’accordo del Vescovo Presbitero con la comunità di Monte Santo(leggi

      Potenza Picena). (Catalani – app. n. XXXVIII).

      “Item nostrae civitati Firmanae promisistis hostem seu exercitum et parlamentum cum requisiti

      fueritis a consulibus rectoribus et potestate ….. Item nostrae civitati  promisisyis suis inimicis

      vivam guerram facere et amicis suis vivam pacem tenere …. Item promisistis quod quicunque

       civium Firmanae civitatis intra Monte Santo causas abuerit sicut personas vestras eum tractare

       debetis, et personas et res civium in tota fortia vestra salvare et defendere promisistis”.

       Avete promesso alla nostra città di Fermo accordo e aiuto militare quando ne sarete richiesti dai

      Rettori e dal Podestà …. Che qualunque cittadino fermano avesse interessi a Monte Santo sarà da

      voi trattato come vostro cittadino ecc. …..

8   CATALANI – Ivi app. XXII

9   CATALANI – De Eccl. Firm. – Balignano p. 189

      Forse i fratelli diedero al vescovo Balignano il castello di Francavilla come sua parte di eredità;

      perché, diventato Vescovo, non faceva più parte della famiglia.

10 CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XXII

11 CATALANI – ivi – app. n. XXVIII e XXIX

12 ANTON DE NICOLO’ – Cronache Fer, – “In festo Beati Mathei mense Septembri, civitas Fermana

      fuit invasa, occupata et destructa ab archiepiscopo Maguntiae, dicto alias Cancellario Cristiano”

13 CATALANI – app. n. XXXII

14 CATALANI – De Eccl, etc. – Diatribe p. 37.

CAPITOLO IV


FERMO ALLA FINE DEl SEC. XII

     Costretto dalla pace di Venezia, Federico Barbarossa più comprensivo verso i comuni italiani. Un “Privilegio” del Cancelliere Cristiano di Magonza, nel 1177, l’anno successivo alla distruzione, ridà a Fermo i beni la libertà che godeva prima della eversione1.

     Fermo seppe approfittarne, e riacquistato un po’ la calma, nel 1189 promulgò il suo primo “Statuto” ed elesse il suo primo “Podestà” nella persona di Baldo di Nicola, da Firenze.

     Nel 1190, muri Federico e l’anno appresso fu consacrato imperatore da Celestino III il figlio Errico VI, al quale non andava troppo a genio la floridezza dei comuni marchigiani; ed anche Fermo ricadde sotto il controllo dei funzionari imperiali.

   Enrico VI, impegnato nella conquista della Sicilia tenuta da Tancredi, ritenne che il marchese d’Ancona fosse troppo arrendevole verso la Chiesa e non desse sufficienti garanzie per il sicuro possesso della Marca, e lo sostituì con Marcoaldo di Anweller, che poi i Fermani per disprezzo chiamarono “Marcoaldo di Anninuccia”2.

     Fu un Marchese feroce contro i Comuni, contro i Vescovi, contro i monasteri e le chiese, tanto da acquistarsi una buona collezione di scomuniche da parte del Papa.

     Particolare impegno unisce nel perseguitare il Vescovo di Fermo, vedendo in lui il principale ostacolo; tanto che il Vescovo Presbitero, non potendone più e non trovando nessun luogo della Marca sicuro per lui chiese al Papa di trasferirsi in Dalmazia. Ma Celestino III gli raccomanda di essere forte e di restare al suo posto, perché attendeva il prossimo arrivo dei rappresentanti dell’Imperatore per trattare certi accordi, avrebbe trattato anche il suo caso3. Se accordi con l’Imperatore ci furono, non lo so; però l’anno appresso il 28 settembre 1197, Enrico VI morì ancora giovanissimo, e nel Dicembre dello stesso anno, Celestino III ordinò al vescovo di Fermo e all’Abate Farfense che raccogliessero dalla città e dai castelli della Marca fino a Rimini, il giuramento “che non obbediranno ai tedeschi (Teutonicis), ma resteranno fedeli alla Santa Sede4”.

     La morte inaspettata dell’Imperatore aveva prodotto un po’ di incertezza tra i Ghibellini della Marca e Celestino III ne approfittò per preparare la riscossa contro Marcoaldo.

     Il Marchese era ancora forte, ma la sua posizione non si presentava più sicura come prima, di fronte a un futuro politico incerto, in una regione che lo odiava e senza l’appoggio del suo imperiale protettore.

     Inoltre, pochi mesi dopo, anche l’imperatrice Costanza morì, lasciando un figlio di tre anni, Federico II.

     Per la morte di Costanza, Marcoaldo dovette recarsi in Sicilia, della quale circostanza approfittarono i Comuni Marchigiani, per prepararsi contro di lui.

      L’urto più feroce dei ghibellini lo sostenne Ripatransone.

      In assenza del Marchese la città si era fortificata di mura, senza il permesso di lui che, tornato dalla Sicilia, volle punirla.

     Assalita da un forte esercito di ghibellini guidati dal marchese, dopo un lungo assedio sostenuto era ovviamente, Ripatransone fu presa e incendiata, nell’Agosto 1198, ma da quella città cominciò la fine di Marcoaldo.

     L’esempio di Ripatransone fu seguito dalle altre città marchigiane, e Marcoaldo dovette fuggire in Sicilia, dove morì poco dopo5.

     Nel 1198, con la fine di Marcoaldo, incomincia per Fermo una nuova epoca di sviluppo, di crescente potenza, e anche di dure lotte.

ORGANIZZAZION POLITICA DEL FERMANO NEL SEC XIII

     Non è una cosa troppo semplice capire la complicata organizzazione politica del Fermano, nel secolo XIII.

     Fermo era un libero Comune, organizzato ben governato dai suoi Priori, dal suo Podestà in una regione spettante di diritto la S. Sede, ma di fatto contesa aspramente tra il Papa e l’Imperatore.

     Nel periodo di prevalenza imperiale, i Priori erano controllati e il Podestà imposto dai messi imperiali; in periodi di prevalenza papale, le autorità erano elettive e godevano di una maggiore libertà d’azione, senza timore di interventi armati, che non erano nello stile e nelle possibilità del governo pontificio.

     Ciò non toglie che l’autorità pontificia fosse molto sentita, poiché, come appare da tanti documenti, il Papa si limitava ad esortare, a raccomandare, ma tutti sapevano che, pur non avendo un forte esercito, aveva un’arma morale capace alla occorrenza di annientare perfino la potenza imperiale.

     Benché i feudatari, i grossi terrieri, cercassero ancora di resistere al Comune, pure cominciavano a piegarsi, costretti dal timore dell’isolamento materiale e morale che li minacciava.

     Il più grande feudatario del fermano era il Vescovo; ma il Comune di Fermo non faceva parte del suo feudo e non c’era nessuna interdipendenza politica tra le due autorità.

     Il vescovo non interferiva nel governo comunale, benché la sua autorità pesasse molto, sia perché Vescovo, sia perché potente signore.

     Tra il Vescovo e il Comune c’era stata sempre intesa e collaborazione, poiché l’uno e l’altro capivano che in questo poggiava la loro sicurezza.

     La collaborazione positiva col Comune di Fermo incoraggiava il Vescovo a estendere accordi similari con altre popolazioni del suo feudo, e così erano sorti Comune di Civitanova, di Macerata, di Potenza Picena, e altri erano in preparazione.

     Non si deve quindi confondere il Comune di Fermo, col feudo del Vescovo di Fermo; erano due cose ben distinte.

     Il Comune governava la popolazione nell’ambito del suo territorio; il Vescovo governava il suo feudo che comprendeva un territorio molto più vasto; con città e villaggi che, anche diventati liberi Comuni, restavano legati a lui e gli giuravano fedeltà come a Caposignore.

     Possiamo quindi comprendere come la potenza del Vescovo fosse maggiore di quella del Comune, il quale però, lo ripetiamo, non dipendeva politicamente da lui.

     Questa libera ma insostituibile alleanza tra il Comune di Fermo il suo Vescovo, nel 1199, alla fine del governo di Marcoaldo, quando i Comuni del Fermano riacquistarono la piena libertà, prese un nuovo indirizzo: i vescovi tentarono una maggiore unità tra i Comuni della loro Diocesi.

      Il loro ideale sarebbe stato trasformare l’immenso feudo in un  principato ecclesiastico con capitale Fermo, ma nel secolo XII non era stato possibile, perché i vari Comuni erano troppo gelosi della loro recente autonomia: Fermo non si sarebbe rassegnata a difendere politicamente dal suo Vescovo; e i Comuni della Diocesi non avrebbero sopportato il predominio di Fermo: i tempi non erano ancora maturi, ma si era su questa via.

     E abbiamo visto come il Vescovo Presbitero, nel 1199, impose al Comune di Potenza, in cambio di tanti privilegi, l’alleanza con la città di Fermo e riguardi particolari per i suoi cittadini6.

LA CONTEA DEL VESCOVO DI FERMO

     Innocenzo III (1198-1216), uno dei più grandi papi della storia, fu anche uno di quelli che più si occuparono delle Marche.

      Nel programma di riordino dello Stato della Chiesa, questa regione richiedeva una particolare attenzione, perché da essa, a lungo dominata dai tedeschi, erano venute tante preoccupazioni alla S. Sede.

       Innocenzo III, come si impegnò a sfrattare dalla Sicilia i feudatari tedeschi, per conservare intatto il regno al suo pupillo Federico II, affidatogli dall’imperatrice Costanza, così si preoccupò di richiamare i Comuni Piceni alla concordia e alla collaborazione, sotto l’autorità della S. Sede, per assicurare la loro futura libertà.

     Niente scissioni, ma concordia e collaborazione, per il bene di tutti.

     Appena eletto Papa, revocò la bolla di Celestino III che istituiva, nel 1192, una quasi Diocesi in Offida e sottraeva quella città al controllo dell’Abate Farfense7; e nel 1203, i Comuni Piceni furono convocati a Polverigi; per giurare perpetua concordia reciproca.

     A parte il feudo Farfense che aveva dimostrato fedeltà alla S. Sede, come a suo tempo l’aveva professata verso l’Imperatore, la zona che nella Marca presentava maggiore affidamento per il futuro era il feudo del Vescovo di Fermo, con i suoi Comuni ben organizzati e vitali.

      Bisognava incrementare l’efficienza di questo immenso territorio che si estendeva dal Potenza al Tronto.

     Nel 1205, fu eletto vescovo di Fermo l’energico Adenulfo, e Innocenzo III lo nominò conte del suo feudo, investendolo  “per vexillum”, come si diceva allora: il primo  Vescovo-Conte di Fermo, con tanto di insegne comitali.

     Col feudo Farfense e colla Contea del Vescovo, la Marca Fermana si poteva considerare abbastanza al sicuro dal Potenza al Tronto.

     Per dare sicurezza alla rimanente regione più a nord, che veniva comunemente chiamata Marca Anconetana, Innocenzo III credette utile affidarla in feudo, nel 1208 al Marchese di Este Azzone VI, nominandolo Marchese di Ancona, con l’incarico di conservarla alla chiesa, difendendola da ogni pericolo di invasione8.

     Intento di Innocenzo, ribadito dai suoi successori, era che la concorde collaborazione tra il Vescovo Conte di Fermo e il Marchese di Ancona desse pace e sicurezza alla regione che era stata sempre al centro di tutte le discordie, sia per la sua ricchezza, sia soprattutto per la sua posizione strategica, costituendo la via naturale tra il Nord e il Regno di Sicilia.

     Ma la concordia in quei tempi era difficilissima.

     Ottone IV di Brunswik, scelto e incoronato  Imperatore, nel 1209, da Innocenzo III, perché è di antica famiglia guelfa, l’anno seguente si mise contro il Papa e progettò l’occupazione del Regno di Sicilia, guadagnandosi la scomunica.

     Anche il Marchese Azzone VI passò all’imperatore, dal quale accettò l’investitura di tutta la Marca di Ancona, intendendosi per la prima volta con questa espressione tutta la Marca, fino all’Ascoli.

     Incominciò allora l’ostilità tra il marchese di Ancona e i vescovi di Fermo che durò una quindicina di anni, degradando qualche volta in scontri armati.

UGO II E PIETRO IV

     Nel gennaio del 1214, morto Adenulfo,  fu eletto vescovo di Fermo Ugo II, al quale Innocenzo III rinnovò l’investitura comitale e i privilegi del suo predecessore9.

      Nell’Agosto di quell’anno, si formò intorno al vescovo una lega di grossi Comuni Fermani, decisi a difendere la loro indipendenza dal Marchese di Ancona.

     Giurarono alleanza fra loro e fedeltà al Vescovo il Comune di Macerata, di Morrovalle, di Civitanova, di S. Elpidio e altri Comuni e signori della Contea.

    Per il momento le pretese del marchese furono arginate, sia per la vivace resistenza dei Comuni, sia perché, nel 1215, le cose cambiarono.

     Innocenzo III fece accompagnare in Germania il giovane Re di Sicilia dal Marchese di Este, e ad Aquisgrana Federico II fu proclamato re di quella nazione.

     Per una decina di anni, Federico II dimostrò ossequio alla gratitudine al suo Papa, e poi al suo maestro Onorio III, eletto nel 1216.

     Morto Ugo II, venne eletto Vescovo di Fermo Pietro IV (1216-1223).

     Il nuovo Papa di rinnovò l’investitura di Conte di Fermo, con tutti i privilegi concessi ai suoi predecessori; ma le difficoltà col Marchese di Ancona, Azzone VII (Azzolino) d’Este, si aggravarono.

     In un diploma del 1219, Onorio III, riconfermò al Vescovo Conte il possesso dei comuni di S. Elpidio, di Civitanova, Montecosaro, Morrovalle, Macerata, Montolmo, S. Giusto, Cerqueto, Montegranaro, Montottone, Ripatransone, Marano e Forcella, e scrisse ai Comuni, ai Conti e baroni della Contea che facessero il loro dovere verso il Vescovo Conte, perché il Papa non era disposto a sopportare la loro avversione e il loro disfattismo né riguardi del Vescovo10.

     Difatti questi signori cercavano di creare difficoltà al Vescovo Conte, incitati sia dal Marchese di Ancona, sia da Consolino coppiere dell’Imperatore e da Bertoldo, figlio del Duca di Spoleto, ai quali si aggiungeva Guglielmo da Massa e altri signori della Marca.

     Dietro le lamentele dei Vescovi, nel 1223, Federico II scrisse loro e a tutti gli abitanti nel Ducato Spoletino e della Marca d’Ancona che egli Imperatore (era stato coronato nel 1220) sconfessava l’operato dei sudditi Consolino e Bertoldo e dichiarava decaduti  tutti gli incarichi conferiti da loro in suo nome.

     Tutti invece debbono riconoscersi vassalli del Romano Pontefice e ubbidire a lui solo11.

     Ma la lettera dell’Imperatore non poteva reintegrare la Contea del Vescovo che aveva subito danni e perdite irreparabili, anche perché contro di essa stava il Legato Pontificio di Ancona.

     Nel 1221 Gisone, tutore procuratore del giovane Marchese di Ancona, Azzone VII  d’Este, per dare un aspetto giuridico alle usurpazioni operate nella Contea, fece nominare arbitri della questione col Vescovo, il Patriarca di Aquileia e Pandolfo, Legato Pontificio.

      I due illustri personaggi sentenziarono che le cose restassero come stavano, per tre anni, passati i quali, il Vescovo avrebbe potuto far valere in giudizio le sue ragioni.

     Noi diremmo: per ora quel che è stato, è stato; appresso si vedrà.

     Ma quel che era stato era tutto a danno del Vescovo, che perdeva, con Montolmo e Macerata, tutta la parte della Contea sopra il Chienti, eccettuata Potenza Picena12.

RAINALDO (1223-1227)

     Nel 1223 morì  Pietro IV, e Onorio III nominò vescovo di Fermoil “nobilem et provi dum et honestum” Rainaldo di Monaldo, e scrisse al clero ed al popolo della città e della Diocesi, ordinando che il Vescovo fosse accolto festosamente (ilariter) e gli fossero riconosciuti tutti i diritti accordati dai Romani Pontefici.

     Il Papa approva fin da ora tutti i provvedimenti che il Vescovo prenderà contro i ribelli13.

     Rainaldo, sostenuto dal Papa, incominciò subito a lottare per la reintegrazione il riordino della contea; ed essendo il principale avversario di essa il Legato Pontificio Pandolfo, Onorio III gli scrive il 24 Marzo 1224, ordinandogli che sia restituita al Vescovo tutta la Contea e tutti gli antichi diritti14.

     Il 20 agosto 1224, il Comune di Fermo, S. Elpidio, Civitanova, Monte Santo, Morrovalle, Montelupone, Macerata, Montolmo, Monte Giorgio, Monterubbiano, nella Cattedrale di Fermo, giurarono fedeltà al Vescovo e collaborazione reciproca, per difendere la loro libertà e i diritti della Chiesa Fermana15.

       Ma il Marchese Azzolino non si rassegnava a sopportare il Vescovo Conte e ordinò spedizioni punitive a Montelupone, a Macerata, a Montolmo e occupò Montegiorgio, recando gravi danni alla Contea.

       Il Vescovo Rainaldo ricorsi al Papa (1225), fornendogli anche la documentazione sulla legittimità del possesso del Vescovo su quei Comuni16.

       Il 3 Novembre 1226, Onorio III , comanda al Marchese di riparare i danni recati alla Contea del Vescovo, rimproverandolo per la sua ribellione agli ordini del Romano Pontefice, e lo minaccia: “Non devi credere che siamo disposti a sopportare le tue prepotenze verso le chiese, perché essi toccano da vicino la nostra persona”17.

     Ma l’anno seguente, con la morte di Onorio III, le cose cambiarono.

     Il successore Gregorio IX, o perché vedeva impossibile un accordo tra Azzolino d’Este e il Vescovo, o perché la potenza del Vescovo Conte faceva ombra alla Curia Romana, chiamò alla sua presenza il Vescovo e il Marchese e stabilì: Monterubbiano, S. Elpidio, Civitanova, Montelupone, Morrovalle, Macerata, Montolmo e Montegiorgio, pur restando proprietà della chiesa di Fermo, passassero sotto l’amministrazione del Legato Pontificio Rolando.

     Il Vescovo si sottomise al volere del Papa, a condizione che questa decisione fosse provvisoria e non recasse pregiudizio, né al diritto di proprietà, né all’attuale economia della sua Chiesa18.

     Spezzata così la Contea, i Vescovi di Fermo dovettero subire il prepotere dei Legati e dei Rettori Pontifici.

      Morto Rainaldo, nel 1227, dopo quasi due anni di amministrazione del Legato Pontificio Alatrino, nel 1229, Gregorio IX trasferì il vescovo Filippo II dalla Sede di Jesi a quella di Fermo, nominandolo Conte con tutti i diritti 19.

“In Dei nomine Amen. Ad honorem et bonum statum Sanctae Firmanae Ecclesiae et librtatis firmanae et Comitatus defendensun, nos Firmani cives et nomine Comitatus, scilicet S. Elpidi, Civitatis Novae, Montis Sancti, Murri, Montis Luponis, Maceratae, Montis Ulmi, Montis S. Mariae, Montis Rubiani simul promittimus jurisdictionem Ecclesiae Firmanae …… defendere et mantenere in suo bono statu pro posse etc. (ex Reg. Episc. P. 123 – Catalani app. n. LI).

“Affine di conservare l’onore e la proprietà della Santa Chiesa Fermana, e la libertà di Fermo e della contea, noi cittadini per mani e gli uomini della contea cioè: di S. Elpidio, Civitanova, Montesanto (Potenza Picena), Morrovalle, Monte Lupone, Macerata, Montolmo (Corridonia), Monte S. Maria (Montegiorgio), Monte Rubbiano, promettiamo di difendere unite, mantenere nell’attuale buona condizione la sovranità della Chiesa Fermana, ecc.”

     ma nel 1231, il escovo dovette vendere (è l’espressione del documento, che però doveva significare qualcosa di più) al Rettore dei beni ecclesiastici del Ducato di Spoleto e della Marca Anconetana i frutti della Contea di due anni, per duemila lire; il documento dice: “per pagare i debiti della Chiesa Fermana20”; e nel 1233, dovette vendere al Rettore della Marca di Ancona, card. Giovanni Colonna le rendite della Contea di tre anni, per quattromila lire21; e con lui svanì la Contea dei Vescovi di Fermo.

     Il Vescovo Conte Filippo II, nell’occupazione di Fermo da parte dell’esercito imperiale, nel 1242, dovette fuggire a Venezia, dove per qualche anno visse di elemosina22.

     D’altra parte la Contea di Fermo aveva terminato la sua missione: aveva consolidato i Comuni Piceni e aveva insegnato loro a difendere la propria libertà, in collaborazione tra di essi e con la Chiesa.

     Il suo compito era finito, ora che il Legato Pontificio della Marca era in grado di imporre l’autorità della S. Sede nella Regione; e si stava profilando uno Stato Pontificio più forte e unitario.

NOTE

1    M. DE MINICIS – Annotazioni alle Cronache Fermane.

       “Copia privilegi Christiani Arch. Magun, confirmantis omnia civitatis Firmanae bona, jura,

       rationes, justitias, terras agros,  vineas ac remittentis eandem civitatem et nomine in eadem

       libertatem, quam ante civitatis destructionem habuerunt, et relevantis eos seu ean intra

      proximos quinque annosa b omni exactione vel dativa quovis modo a quoquam hominum

      exacta”. Dat a. D. 1177, apud Assisium etc. (Ripreso dal belga Michele Hubart).

2    CATALANI – De Eccl. etc. – app. XXXV – Il documento riporta certi accordi tra Guttebaldo e il

       Vescovo Presbitero.

3    CATALANI – Ivi – app. n. XXXVI

4     CATALANI – Ivi – app. n. XXXVII

5     TANURSI – Memorie storiche di Ripatransone – in Colucci – A. P. t XVII

6     CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XXXVIII

7     La bolla di Celestino III si conserva nell’archivio della collegiata di Offida. Appena eletto, nel

        1198, Innocenzo III conferma all’Abate di Farfa: “Item Monasterium  S.tae Mariae in Offida cum

        eodem castro, cellis et aliis pertinentiis sui set cum ecclesiis”. (Ex arch. Rot. Archininnas Rom.).

8     CATALANI – Ivi – Petrus IV – p. 167

9     CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XLIV

10   CATALANI – Ivi – Petrus p. 162

11   CATALANI- Ivi – app. n. XLVIII

12   CATALANI – Ivi  app. n. XLVII

13   CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XLIX

14  CATALANI –  Ivi  app. n- L

15   CATALANI – – app. n. LI – il Comune di Ripatransone si rifiutò di pagare i tributi al vescovo. Nel

        1225, Rainaldo spedì 1 gruppo di armati contro quel Comune, che allora era in guerra con

        Offida.

16    CATALANI – Ivi app. n. XXIII

17    CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. LV

18   CATALANI – Ivi app. n. LVIII

19   CATALANI – Ivi app. n. LIX

20   CATALANI – Ivi app.  n. LIX

21   CATALANI – Ivi app. n. LX

22   CATALANI – Ivi app. n. LXIV

CAPITOLO V

FERMO E FEDERICO II

Fermo capitale della Contea

     Nel 1212, Azzone  VI d’Este. Marchese di Ancona, investito da Ottone IV di tutta la Marca, trovò un ostacolo insormontabile nella Contea di Fermo.

     Si tentò allora di dividere Fermo dal suo Vescovo e, a questo scopo l’Imperatore largheggiò di privilegi verso la città: concesse il mero e misto impero; la zecca e il possesso esclusivo del litorale, da Potenza al Tronto.

     Non so come il Comune di Fermo accolse i privilegi e se essi conseguirono l’effetto sperato; intanto essi c’erano, anche se probabilmente il possesso del litorale restò sulla carta per una ventina di anni, perché avrebbe messo il Comune contro il Vescovo Conte, tanto più che, nel 1214, il Marchese Aldobrandino nominò signore di Fermo Guglielmo Rangone di Modena; questo provvedimento sicuramente raffreddò il Comune che non tollerava signori e riaccese lo spirito di libertà nei Comuni della Contea che si strinsero, nell’Agosto di quello anno, intorno al Vescovo Ugo II, giurando di difendere uniti la loro libertà1.

     Se nel 1221, quando l’invadenza del marchese Azzolino d’Este fu favorita dal Legato Pontificio Pandolfo, Fermo fu dominata per breve tempo dal Marchese.

     Ma nel 1224, il Vescovo Rainaldo incominciò a battersi per la reintegrazione della Contea, e Fermo aderì al suo Vescovo Conte e gli prestò, per una decina di anni, la più fedele collaborazione2.

     Nel 1229 per la prima volta, il Comune di Fermo intraprese un’azione politica e diplomatica su vasta scala, e in nome proprio.

       La prepotenza di Azzolino favorita dal legato pontificio e la rettoria della Diocesi Fermana affidata al Card. Alatrino per due anni (1227-1228) avevano indebolito il potere politico del Vescovo Conte, ma avevano accresciuto l’intraprendenza del Comune di Fermo e la sua intenzione di raccogliere l’eredità politica.

     Fermo aveva lavorato e combattuto in collaborazione e sotto la guida del suo Vescovo, ora che questa guida minacciava di venir meno, il Comune si sentiva la forza di seguitare in proprio la politica del Vescovo Conte.

RESISTENZA A RINALDO DI URSLINGEN

              DUCA DI SPOLETO

     nel 1228, Federico Secondo, partendo per l’oriente, aveva lasciato suo luogotenente Rinaldo, duca di Spoleto, il quale si insediò in Ancona E incominciò l’invasione della marca, contro le proteste di Gregorio IX.

     L’ostacolo principale per Rinaldo era costituito da Fermo e dai Comuni della sua Contea.

     Il duca cercò di isolare Fermo, concedendo privilegi a vari comuni e conseguì qualche risultato con S. Ginesio, cui concesse il castello di Pieca; con Ripatransone, alla quale offrì  il permesso di demolire e incastellare Massignano e Cossignano3; e tentò anche l’occupazione di Montegiorgio.

     Il Comune di Fermo pensò di accrescere la resistenza, invitando all’alleanza i signori che ancora dominavano nell’Alto Fermano.

     Questa zona che va dalla linea Monteverde-Mogliano-Petriolo fino ai monti, era posseduta da numerosi signori, quasi tutti parenti tra di loro, che i più tra gli storici dicono discendenti dai Mainardi o dagli Offoni e di provenienza Franchi4.

     Per essi in questa zona tardarono molto le autonomie comunali, se si fa eccezione per Sarnano, S. Ginesio e parzialmente Urbisaglia, che dovettero combattere duramente.

     Essi erano: Fildesmido da Mogliano, Guglielmo e Federico da Massa, Rinaldo da Petriolo, Giovanni e Monaldo di Penna San Giovanni, Rinaldo di Loro, Balignano di Falerone, Rinaldo da Monteverde, Ugo da Monte Vidon Corrado e altri, i quali opprimevano i loro vassalli e in quell’epoca che i comuni del fermano godevano già della più completa autonomia, mantennero rigorosamente il più arretrato sistema Feudale5.

     Appresso vedremo che da questi signori, inseriti si nella vita Fermana vennero quasi tutti i tiranni di quella città.

     Tutti questi signori risposero, nel 1229, all’invito delle Comune di Fermo e accettarono l’alleanza, perché era per loro molto conveniente in quelle pericolose circostanze; ma imposero delle condizioni che Fermo, in tempo diverso, non avrebbe mai accettato, perché lesive dei principi che regolavano le libertà comunali.

       Ma il pericolo che incombeva era grande, e bisognava accordare qualche cosa questi signori che disponevano di ricchezze e di forza militare non indifferenti.

    L’accordo tra il Comune di Fermo e questi signori “Contadini” ha una grande importanza, per la migliore comprensione della storia del tempo6.

     Particolare attenzione meritano alcuni articoli del documento.

     Articolo n. 2: il Comune di Fermo si obbliga a non ricevere in avvenire ivassalli fuggiti dalle terre di quei signori, specialmente da Torre San Patrizio7.

     Questo, perché la fuga dei vassalli dai campi, nei luoghi dove ancora non esistevano le libertà comunali, era diventato un fenomeno impressionante.

     Fuggivano in cerca di libertà e si rifugiavano nei Comuni, dove venivano protetti, sia per accrescere il numero dei cittadini efficienti, sia perché il Comune non tollerava la servitù della gleba.

     Articolo n. 3: il Comune di Fermo si obbliga a costringere i Comuni della sua Contea, a restituire vassalli di quei signori, qualora vi si rifugiassero8.

       Questo articolo suppone una autorità di Fermo sui Comuni della Contea,

       Inoltre ci fa vedere che lo scopo principale dell’accordo, per quei signori, era impedire in ogni maniera la fuga dei loro vassalli; evidentemente questa fuga era il pericolo più grande che incombeva su di essi.

     Articolo. 14: siano salvi i diritti e gli ordini della Sede Apostolica; ma una parte deve aiutare l’altra, se attaccata da una signoria più forte. Si allude al Duca Rinaldo.

     Articolo n. 18 : se il territorio di Fermo sarà attaccato inaspettatamente di qua dal Chienti, noi ”Contadini” correremo in aiuto al cenno del Podestà di Fermo9.

     L’accordo fu firmato nel Consiglio Generale del Comune di Fermo, l’ultima domenica di Settembre del 1229, dal “Sindicus” = incaricato speciale del Comune per questo accordo; avanti al “Potestas” di Fermo: Guido da Landriano: al “Judex” del Comune: Villano;  al “Miles Potestatis”: Antonio; al “Massarius” del Comune: Filippo Giusti.

ORGANIZZAZIONE COMUNALE

     In mancanza di altre testimonianze valide e per non azzardare di scrivere cose non corrispondente a verità, mi appoggio al suddetto documento, per dire qualcosa dell’organizzazione del Comune Fermano di quel tempo.

     Gli “Statuta Firmanorum” che conosciamo sono gli statuti riformati dal fermano Marco Martello, nel 1506. Il complesso delle disposizioni legali saranno state per la gran parte le stesse; però l’organizzazione comunale, con l’andar del tempo, avrà sicuramente subito modifiche e perfezionamenti suggeriti dall’esperienza.

     Dal documento trattato sopra risulta che il Consiglio Generale era composto da 208 consiglieri scelti dal popolo. Erano rappresentate nel Consiglio tutte le classi sociali con esemplare democraticità e senza privilegi; semmai i commercianti e gli artigiani, organizzati in forti associazioni e guidate dai loro “capitani”, facevano sentire maggiormente il loro peso.

     Il Consiglio Generale eleggeva tra i suoi componenti il Consiglio SPECIALE, o consiglio di Cernita, o delle proposte. Era un consiglio di non più di 150 consiglieri, cittadini di condizione popolare, non nobile; dell’età di non meno di 25 anni; con reddito di almeno 50 lire. Aveva l’incarico di preparare gli argomenti da discutere, quando “sono campanae et voce praeconis” si adornava il Consiglio Generale. In esso ogni consigliere poteva prendere la parola, ma dopo aver giurato di parlare senza secondi fini.

     Il Consiglio Generale eleggeva tra i suoi componenti le autorità comunali, che ordinariamente restavano in carica per 6 mesi e vigilavano sulla esecuzione delle delibere del Consiglio. Essi erano:

“Sei PRIORI”, uno per ognuna delle 6 contrade che componevano la città. A capo dei priori un “MASSARIUS = Massaro”, che più tardi si chiamò indifferentemente anche “Sindicus”10.

     Il “Massarius” impersonava il Comune in tutti gli atti ufficiali e, per sei mesi, era il responsabile di tutto l’andamento del Comune; quindi era suo ufficio vigilare sull’operato anche del Podestà e di tutti gli impiegati comunali.

     Il Consiglio Generale eleggeva anche gli impiegati comunali:

1°- “IL PODESTA’ era sempre un  egiurisperito forastiero, che restava in carica  

        ordinariamente per sei mesi. Aveva alle sue dipendenze alcuni “milites” che lo 

        accompagnavano sempre e lo assistevano nell’espletamento delle sue 

        mansioni.

        Il Podestà doveva sedere in tribunale e in giorni determinati: vigilare sull’ordine pubblico; controllare, custodire provvedere all’armamento del Comune e interessarsi della sua efficienza militare. Responsabilità gravi che gli venivano retribuite abbastanza bene, ma che doveva esercitare con grande attenzione, perché al termine dell’ufficio doveva venire “sindacato”, cioè sottoposto al giudizio di una severa giuria scelta dal Consiglio.

        Qualche scrittore parla di podestà che imponevano la loro signoria e diventavano dittatori. Ma no; nelle Marche non conosciamo nessun Podestà dittatore11.

Il podestà era un semplice impiegato comunale; impiegato speciale che impersonava la “POTESTAS” giuridica e militare conferitagli dal popolo; ma era strettamente controllato dall’autorità comunali. E i sei mesi che esercitava il suo ufficio non erano sufficienti per prepararsi una signoria. 

        2°-  Il “JUDEX”, equivale pressappoco al nostro segretario comunale. Doveva essere cittadino fermano; assistere per la parte giuridica il consiglio; presenziare alle sedute consiliari e rediger nei verbali; ordinare la riscossione delle molte delle gabelle; sedere al tribunale per le cause minori e in assenza del podestà. Come lui, alla fine del mandato che poteva durare a tempo indeterminato, veniva “sindacato”.

3°-  Il “NOTAIO DEI DANNI”: era un messo comunale incaricato di notificare 

        riscuotere le multe, dietro ordine del Judex.

4°- Il “CURSOR = valletto”o porta ordini.

5°-   Il “TROMBECTA” o banditore che notificava a voce e a suon di tromba la

        convocazione del consiglio, comunicazione del Comune, e altre notizie utili alla popolazione.

6°-  I “PORTIERI”, che venivano cambiati di frequente per il delicatissimo ufficio di aprire e chiudere le porte della città. Il loro lavoro era sospeso nei periodi di emergenza, quando le forze armate vigilavano le mura della città di giorno e di notte.

     In casi particolari, quando si doveva prendere decisioni di singolare gravità il

Consiglio chiedeva che si adunasse il “PARLAMENTO GENERALE” al quale poteva partecipare un membro di ogni famiglia, con facoltà di intervenire nel dibattito.

FEDERICO II E LA GUERRA DEL 1240

     Di Federico II si è scritto tanto e ogni scrittore l’ha giudicato secondo il proprio punto di vista: grande Imperatore per gli scrittori laici; ateo e perfido per gli scrittori ecclesiastici.

Io preferisco attenermi ai fatti.

     Quando morì la madre, Imperatrice Costanza, Federico aveva circa tre anni e, siccome il Regno di Sicilia era feudo della Chiesa, il piccolo Re passò sotto la tutela del Papa che ripose in lui molte speranze. Innocenzo III liberò il Regno di Sicilia da tanti feudatari tedeschi e cercò di mantenere integro e ordinato il regno del suo pupillo, che cresceva alla scuola del futuro Papa Onorio III.

     Nel 1215, Innocenzo III lo fece eleggere Re di Germania, per aprirgli la strada a un futuro titolo di Imperatore. Di tutte queste premure paterne del Papa, Federico si mostrò grato. In una lettera gli scriveva: “tra le tue braccia fui gettato fin dalla nascita …. Protettore e benefattore nostro, Pontefice venerando, dei cui benefici siamo stati nutriti, protetti al pari e innalzati….”.

     La sua condotta cambiò quando fu Papa Onorio III, che era stato suo educatore. Volendo Federico la dignità imperiale, il Papa gli fece giurare due cose: rinunziare al Regno di Sicilia in favore del figlio Enrico, ritenendo solo il titolo di Re di Germania; e guidare la Crociata per la liberazione di Terra Santa: due richieste ragionevolissime, poiché essendo il Re di Sicilia feudatario della Chiesa, non poteva essere eletto Imperatore; capeggiare poi la Crociata era un dovere per l’Imperatore capo dell’Europa cristiana.

       Federico II fece eleggere il figlio Enrico Re di Germania, dicendo poi che era avvenuto a sua insaputa; e Onorio III per amor di pace e sempre sperando che le cose migliorassero, lo consacrò Imperatore, nel 1220. In seguito sopportò pazientemente che l’Imperatore facesse fallire più volte la Crociata, con gravi perdite per tanti Stati europei che mandavano verso Oriente truppe, in attesa che l’Imperatore ne prendesse la guida.

       L’8 settembre 1227, erano raccolti a Brindisi circa 80.000 crociati di ogni nazione europea: erano scelti combattenti della nobiltà svedese, polacca, tedesca, francese, spagnola. Arrivò l’Imperatore e l’esercito crociato si mise in mare; ma dopo pochi giorni, Federico tornò indietro, dicendosi malato. Gregorio IX non sopportò la perfida condotta dell’Imperatore e lo scomunicò.

     L’anno appresso partì da solo per il Medio Oriente, dove concluse un trattato col sultano d’Egitto che allora dominava anche su Gerusalemme e tornò in Italia nel 1229.

     Per calmare le acque pericolosamente agitate da Rinaldo di Urslingen, Duca di Spoleto e dai signori ghibellini, firmò col Papa Gregorio IX il Trattato di S. Germano, nell’agosto del 1230. Ma la pace non venne, perché nell’Imperatore e nei ghibellini non c’era volontà di pace.

      Federico II fu uno degli Imperatori che non compresero i doveri del loro ufficio. Mentre allora il pericolo tremendo per l’Europa erano i Saraceni. Federico II trova il suo principale nemico nel Papa; immette nel suo esercito circa diecimila saraceni, e con essi causa devastazioni nel territorio della Chiesa, non risparmiando chiese e monasteri.

     Scriveva che odiava i papi, perché “essi hanno avuto sete del nostro sangue fin dalla nostra fanciullezza  ….. essi introdussero nel nostro regno l’Imperatore Ottone, per privarci dell’onore, del regno e della vita ”12.

     giustifica il suo odio con un sacco di bugie, in contraddizione con quanto scriveva a suo tempo a Papa Innocenzo III, nella lettera ricordata sopra, nella quale diceva che dal Papa aveva ricevuto ogni bene.

     Come nel Papa, così vide nei Comuni il principale pericolo per l’autorità imperiale come la intendeva lui. In teoria, era padrone assoluto in Europa; ma siccome nessuno governa meno di un governante assoluto, i ghibellini seppero far sentire il loro peso e, spinto da alcuni signori italiani, specialmente da Ezzelino da Romano, signore di Verona, combatté e vinse i Comuni Lombardi a Cortenova, nel 1237, ma da quella vittoria cominciò la sua fine.

     I comuni italiani, vinti non si arresero, ma continuarono a lottare tra mille difficoltà, per un decennio ancora; fino a che Federico II, dopo la disfatta del suo esercito di ghibellini e saraceni presso Parma, nel 1248; dopo la battaglia di Fossalta del 1249, dove i Bolognesi fecero prigioniero il figlio Enzo, morì a 56 anni, nel 1250.

FINE DELLA CONTEA DEI VESCOVI

     Per il Comune di Fermo gli avvenimenti furono duri, ma meno cruenti. Dietro l’ordine di Onorio III prima, e poi di Gregorio IX, che i comuni Piceni si fortificassero, i Fermani nel 1236, terminarono la costruzione del castello del Girfalco e appoggiarono analoghe operazioni nei Comuni vicini.

     Il Vescovo Conte Filippo Secondo, sentendosi impotente a organizzare una resistenza valida nella sua Contea, rinunziò ad essa. In un documento del 1238, Filippo II si dice grato al Comune di Fermo, per la sincera collaborazione prestatagli sempre; loda il Comune per la sua intelligente ed efficiente organizzazione e cede al Comune tutto il territorio di proprietà della Chiesa Fermana, dal Potenza al Tronto, con l’incarico di dienderla da ogni pericolo di invasione.13

        Le forze del Comune di Fermo, cui erano alleate le armi dei Signori “Contadini” dell’Alto Fermano; affiancate dall’esercito dell’Abate di S. Vittoria, erano all’altezza del loro compito. Queste ingenti forze però mancavano di una direttiva unica e soprattutto di coesione morale, per cui, pur combattendo per il medesimo scopo davano la principale attenzione ai loro particolari interessi. Però questo avveniva non solo nella parte guelfa, ma anche in campo ghibellino; perché quella, in effetti, era una guerra civile tra guelfi e ghibellini italiani, le cui forze si equivalevano. Chi faceva pendere la bilancia dalla parte dei ghibellini erano i 14.000 tedeschi e saraceni che l’Imperatore teneva al suo servizio.

     Nel 1239, Enzo, figlio naturale di Federico II e Re di Gallura, invase la marca Anconetana, invano difesa dal Rettore Pontificio Giov. Colonna.

     Dopo i primi rapidi successi che lo portò alla conquista di Osimo di Macerata, trovò una ostinata resistenza dei guelfi a Treia. Prevedendo le gravi difficoltà che avrebbe incontrato nel Fermano, pensò di aggirare l’ostacolo, e mandò una forte schiera di tedeschi e saraceni, al comando di Rinaldo di Acquaviva ad assalire il Presidiato Farfense. Rinaldo marciò direttamente al cuore del Presidiato, assalendo la fortezza di Force, dove si erano concentrate le milizie di Matteo II, guidate dal Vicario Abaziale Fildesmido da Mogliano. Per l’inferiorità delle forze abbaziali, Force cadde presto e gli imperiali dilagarono per il Presidiato, occupando Montefalcone e S. Vittoria, nel 1240.14

     L’occupazione del Piceno fu dura per gli imperiali che dovettero sostenere una battaglia per ogni Comune, e fu quasi completa nel 1242. In quest’anno, per conquistare Ascoli, città notoriamente imprendibile, fu spedito con un esercito Andrea Cicala che vi entrò a tradimento e la devastò, compiendo saccheggi ed eccidi feroci.15

     Nello stesso anno 1242, Fermo si decise a scendere a patti con il Vicario imperiale Roberto da Castiglione, che risiedeva a Macerata. L’accordo conveniva ad ambedue; al Comune di Fermo, per evitare ulteriore spargimento di sangue, la possibile occupazione violenta e conseguenti disastri da parte delle truppe imperiali; e a Castiglione conveniva eliminare pacificamente e al più presto la potenza Fermana, perché i Guelfi non disarmavano affatto, anzi era chiara la loro volontà di rivincita.

        Per il Comune di Fermo non fu difficile dimostrare al Vicario imperiale che la città era stata sempre imparziale tra guelfi e ghibellini; che non aveva più niente da spartire col vescovo Conte, il quale aveva rinunziato tutto al Comune ed era fuggito a Venezia; che ora Fermo era per l’Imperatore, e si sarebbe potuto legarla per sempre a lui, accordandole patti favorevoli. E in questi patti favorevoli furono compresi i privilegi accordati da Ottone IV, nel 1212: il mero e misto impero; la zecca; il possesso della zona costiera dal Potenza al Tronto.

     L’azione diplomatica, sempre molto valida Fermo, l’aveva salvata dalle stragi subite dalle altre città e le aveva conservato l’autonomia di governo, magari controllata dai messi imperiali.

     Con la caduta di Ascoli e Fermo, i ghibellini avevano occupato quasi tutte le città marchigiane; ma il Legato Pontificio Sinibaldo Fieschi, attestato col suo esercito a Penna San Giovanni e sostenuto da alcuni Comuni del Presidiato di S. Vittoria e di Camerino, stava in attesa che la scomunica del Concilio di Lione del 1246, che aveva deposto Federico II da Imperatore, producesse il suo effetto. Dovette aspettare quasi tre anni.

FERMO E RE MANFREDI

       Eempre il Comune di Fermo praticò l’astuta politica del tornaconto, la migliore politica, che lo salvò da tanti disastri. Abbiamo visto come seppe evitare le stragi della guerra del 1240, accordandosi col conte Roberto da Castiglione e sottomettendosi all’Imperatore; ma “non marciò con lui fino in fondo”. Constatata la disfatta dell’esercito imperiale presso Parma, nel 1247, la prigionia di Enzo a Fossalta, nel 1248, capì che per i Castiglione per Federico II rimanevano poche speranze, e nel 1249, chiese accordi al Legato Pontificio Card. Capocci e ritornò alla S. Sede, dietro conferma però dei privilegi dei quali godeva.

     Morto nel 1250 Federico II, seguitarono gli scontri armati tra Guelfi e Ghibellini. Il legato pontificio Annibaldo degli Annibaldeschi credette di poterli sopire, chiamando i contendenti all’accordo di Montecchio (Treia) del 1256; ma, proprio in quell’anno, Manfredi che reggeva il Regno di Sicilia per il nipote Corradino, spedì nelle Marche un esercito guidato da Pencirvalle di Oria, a sostegno dei Ghibellini. Anche allora il Comune di Fermo seppe evitare il peggio. Mandò ambasciatori a Manfredi, nel 1258, sottomettendosi volontariamente, e ottenendo la conferma dei suoi privilegi. La posizione di Fermo era difficile, ma l’astuta politica del suo Consiglio Comunale, equidistante dai due partiti di lotta, le permise di mantenere l’autonomia, della quale approfittò per incrementare i suoi traffici col Regno di Sicilia e con Venezia, con la quale firmò un’alleanza nel 1260.

     Il lettore non capirà come questa politica autonoma il Comune di Fermo possa accordarsi con la sottomissione al re Manfredi. Ma io lo invito a riflettere che i due partiti di lotta, i Ghibellini sostenuti da Manfredi e i Guelfi sostenuti dal Papa, erano troppo forti, per permettere che una parte prevalesse sull’altra definitivamente; quindi la preoccupazione la tensione da una parte e dall’altra era incessante. In effetti, la sottomissione al re Manfredi era solo il giuramento che Fermo non lo avrebbe infastidito e avrebbe pagato le tasse al regno di Sicilia; ma della politica interna del Comune di Fermo, della sua economia dei suoi accordi commerciali, Manfredi non aveva tempo di interessarsi. È vero che la politica regia, come quella imperiale, era contraria alle libertà comunali, ma bisognava usare prudenza, specialmente con una città potente come Fermo; bastava non averla nemica belligerante.

     La fedeltà di Fermo al re Manfredi era anche assicurata dal suo Vescovo Gerardo che, anche da Vescovo, non sapeva dimenticare di essere figlio del feroce ghibellino Guglielmo da Massa, e si adeguava a lui nella politica e nei costumi. Parteggiava apertamente per Manfredi e, per favorirne la parte, era prodigo di quattrini e di cavalli16 per cui ebbe i richiami e minacce dal Papa Onorio IV che ordinò pure una inchiesta sulla sua condotta morale notoriamente pessima; ma seppe sempre mantenersi a galla, bilanciando gli scandali favoriti nei conventi femminili, con i benefici elargiti in abbondanza alle potenti fraterie della sua Diocesi17.

     Il Comune di Fermo, o perché controllato dai ghibellini, o piuttosto perché sapeva sempre avvantaggiarsi nelle occasioni favorevoli, caldeggiò l’adesione di altri Comuni al partito di Manfredi, mirando sempre al proprio tornaconto; capiva infatti che quei Comuni, diventati manfrediani, sarebbero rimasti legati al carro fermano, anche quando Manfredi fosse tramontato. E nel 1257, col permesso di lui, Fermo occupò penna S. Giovanni, Monsammartino e fortificò Montefalcone che già aveva tolto ai fan pensi, e le tenne per sempre. Convinse S. Vittoria ad allearsi con essa, accettando il regio podestà; alleanza che durò solo quattro mesi18; non riuscì a spuntarla con Ripatransone che proprio in quella circostanza si staccò da Fermo definitivamente19.

       In questa seconda metà del secolo XIII, l’attività diplomatica, ma anche quella bellica del Comune di Fermo fu molto intensa. Il possesso del litorale dal Potenza al Tronto, rinnovatole da Manfredi accese le discordie con Ascoli che desiderava incrementare i suoi traffici sul mare. Nel 1256, preceduti presso il Re dalla diplomazia Fermana, gli Ascolani tentarono con le armi la conquista di S. Benedetto in Albula, per avere un porto degno di tale nome, poiché era poco agibile il porto di Sculcula (oggi Porto d’Ascoli), che già possedevano; ma furono sconfitti dai Fermani, nella Valle del Tronto.

     Erano continui le agitazioni tra Guelfi e Ghibellini nelle Marche, e Fermo necessariamente vi si trovava sempre implicata, non tanto per i contrasti di partiti, quanto per la gelosia che la sua massiccia potenza destava nelle città vicine. Nel 1260, forze guelfe guidate da Brunoforte di Perugia battagliavano qua e là contro i Manfredi a, e Fermo subì una momentanea sconfitta presso S. Marco alle Paludi. In quella battaglia parteciparono contro Fermo anche gli ascolani.

     Nel 1266, appena caduto re Manfredi, Fermo ritornò alla S. Sede. Però Guelfi e Ghibellini, tenuti a freno sotto la forte podesteria del futuro Doge di Venezia, Raniero Zeno, si risvegliarono con la elezione a podestà del ghibellino Ruggero Lupo e, venuti a battaglia nella valle del Tenna, il 4 ottobre 1270, i Ghibellini ebbero la peggio e il Podestà restò ucciso. Ma se il trionfo della parte guelfa ridiede sicurezza di libertà, non finirono le difficoltà per Fermo.

     La Repubblica di Venezia considerava di sua pertinenza il Mare Adriatico, e condizionava in vari modi il traffico delle altre città rivierasche. La prima a ribellarsi a questo stato di cose fu Ancona, la quale, sostenuta dal Papa Gregorio X, nel 1275, intraprese la lotta per la libertà dei mari, che durò vari anni. Fermo, tradizionalmente amica di Venezia, con la quale lo scambio commerciale era attivissimo, considerando che il porto di Ancona e anche più a nord e avrebbero potuto danneggiare il traffico nei suoi molti ma piccoli porti, credette più conveniente schierarsi con Venezia. Questa mossa la mise in contrasto col Governo Pontificio che, da allora e per vari decenni, la concederò come ribelle.

     Di conseguenza si fecero più arditi contro di essa i Comuni rivali. Nel 1276, Fermo saccheggiò e fece massacro a Monsampietramgeli, difesa da Ascoli. L’11 Novembre 1280, gli Ascolani tentarono la conquista di S. Benedetto, ma subirono una sconfitta che fu definitiva, perché l’intervento del Papa Onorio IV costringe i belligeranti a deporre le armi20.

SVILUPPO EDILIZIO A FERMO NEL SECOLO XIII

     In questo secolo XIII, secolo di agitazioni per le Marche e di lotte sanguinose, Fermo seppe consolidare la sua potenza politica ed economica, e seppe riparare i danni della distruzione del 1176, che sembravano irreparabili. In questo secolo si costruirono molti tra i migliori monumenti, dei quali va orgogliosa.

     Nel 1226, fu costruita la chiesa di S. Caterina. Nel 1227, fu riedificata la Cattedrale, su disegno di Giorgio da Como. Nel 1233, fu posta la prima pietra per la costruzione della chiesa di S. Domenico, costruita a spese della regina Berengaria, moglie di Guglielmo di Brienne, re di Gerusalemme, sul suolo donato dalla famiglia Paccaroni la quale aveva ospitato, una quindicina d’anni prima, S. Domenico che predicò a Fermo per due mesi.    

     Anche l’attuale Palazzo Municipale fu incominciato a costruire nel secolo XIII, poi fu rimaneggiato e terminato nel 1525.

     Nel 1236, fu terminata la costruzione del castello delle Girfalco, demolito poi dai Fermani nel 1446.

     Nel 1240, iniziò la costruzione del tempio di S. Francesco, su disegno dell’ascolano Antonio Vipera.

     Nel 1250, fu costruito il tempio di S. Agostino e il grandioso convento degli Eremitani di S. Agostino.

     Nel 1251, i Farfensi ingrandirono il monastero annesso alla chiesa di S. Pietro.

     E’ pure del secolo XIII la Torre Matteucci.

     In questo secolo di odio e di sangue, gli Ordini Religiosi che, appena sorti fondarono i loro studentati a Fermo, diedero nuovo impulso alla pratica della vita cristiana con la loro predicazione e il loro esempio; e alla cultura, con le loro scuole dirette da uomini di grande dottrina.

NOTE

1     CATALANI – De Eccl. etc. appendice doc. n. XLV Reg. p. 230

2     CATALANI – Ivi – app.  dipl. n. LI – Reg. Ep. P. 173

3     COLUCCI – A. P. XVIII app. doc. n. IX p. XIV – “…. Con l’autorità imperiale affidataci, concediamo

        che i castelli di Massignano, Marano, S. Andrea e Penna siano di pertinenza di Ripatransone.

        E se il Comune di Ripatransone vorrà, diamo le facoltà di demolire i detti castelli…..”

4     FABIA DOMITILLA ALLEVI – Mainardi e Offidani (tesi di laurea).

5     Sono molti gli scritti che trattano la storia particolare dei paesi e dei signori di questa vasta

       zona, ma non ho trovato uno scritto che metta in sufficiente evidenza la arretratezza politica di

      questo territorio e di questi signori. Nessuno mette in sufficiente luce il contrasto tra questa

      arretratezza, e il meraviglioso sviluppo delle libertà comunali della Contea dei Vescovi di Fermo.

       E non so se sia effetto della mia ignoranza il fatto che, fuori del Catalani, non ho trovato nessuno

       scrittore che prende in considerazione questa Contea; mentre essa. Per un trentennio  

       suscitatrice e difesa della libertà e del progresso delle Marche.

6      GIACINTO PAGNANI – Patti tra il Comune di Fermo e i nobili del contado nel 1229 – L’autore

        riporta per intero il testo dei “patti”. Tratto dall’Arch. Comunale di Fermo – Pergamena 1708.

7      “Item promittit et convenit Comune Firmi non recipere de cetero nomine qui sunt eorum

         vassalli vel alios de ipso rum segnoria et deterritoriis  de comitatu Firmano et undecunque sint

         de territoriis eorum et specialiter de Turri S. Patritii”.

8      “Item promittit dictum Comune Firmi quod si aliqua Comunitas Comitatus Firmi, vide licet Ripa

         Transonis, Mons Rubeanus, Mons S. Mariae in Georgio, Castrum S. Elpidi, Castrum Montis

         Granari,  Mons Ulmi, Macerata, Murrum, Mons Luponis, Mons Sancti,  Civitanova vel aliud

         castrum de Comitatu Firmano de cetero reciperet aliquem nomine vel nomine vel vassallum vel

         alique de sua segnoria de eorum terris aliquarum vel alici predictorum domino rum. Comune

         Firmi ipsam Communantiam requirat prius ut dictum nomine cun quis rebus restituita domina

         domino repetenti”.

         Se qualche Comune del Comitato Fermano in avvenire accoglierà qualche uomo o vassallo o

        qualcuno della loro signoria, fuggiti dal territorio di detti signori, il Comune di Fermo richiederà

        alla detta comunità che restituisca l’uomo e le sue cose al signore che le reclama.

9      L’impegno dei signori “Contadini” è parziale, limitato al di qua del Chienti, dove anche essi

        avevano interessi da difendere. Il territorio di Fermo arriva fino a Potenza; ma per quella parte

        essi non si obbligano.

10   Il “Sindicus” che troviamo in molti documenti, e anche in quello esaminato sopra, ha significato    

        diverso dal “Massarius”. Non era il capo del Comune, ma una persona scelta dal Consiglio solo  

        per un incarico particolare: non era un ufficio, ma un incarico transitorio, che qualche volta era

        svolto dallo stesso Massaro.

11   GIOACCHINO VOLPE – Medio Evo – Ed. Sansoni –p. 276 “Al posto dei Consoli ecco appare un

        funzionario unico, uomo di guerra e di leggi, rivestito da principio di autorità quasi dittatoria …

        Il Podestà più libero da aderenze locali …. Meglio può nell’amministrazione della giustizia; della

        finanza pubblica del patrimonio comunale…”(Tutte queste amministrazioni il podestà non le ha

        avute mai; almeno nel libero Comune Marchigiano) .

12   “…. Cum a pupillari etate nostra nostrum  sanguinem sitierint…. qui Othonem imperatorem

        introduxerunt in regnum nostrum, ut non honore regno et vita privarent”.

13   CATALANI – De Eccl. – app. LXIII. Documento ha il significato di incastellamento.

14  “Dominus Rainaldus de Acquaviva cum sua gente venit ad castrum Furcis et intravit et cepit

        castrum, in quo erat tunc dictus Abbas qui recessit de ipso castro plorando….”

       Dictus Abbas venit ad castrum Montis de Nove et coadunatis ho minibus ipsius vicinantiae et

       contradae,  predicabit ibi et monuit ut starent fideles in serrvitute Romanae Ecclesiae, et si non

      possent aliud, non paterentur destructionem et fecerent  quam meliu possent, et recessit tunc de

      contrada.Quia gens illa erat ex comunicata et Abbas timebat, aufugit et exivit de dicta terra….”.

      “Nuntiua Imperatoris venit cum Saraceni set militi bus multis ad castrum Furcis et tunxc Avìbbas   

       Matteus erat in ipso castro Furcis, et cum  nollet facere mandata ipso rum, recessit de ipso castro

       et homines ipsius castri Furcis fecerunt mandata (giurarono fedeltà) ipsius Domini Rainaldi, quia

      non poterant aliuds. Et eadem die ivit ipse Dominus Rainaldus versus castrum Montis Falconis ad

      ecclesiamo S. Januarii et ibi recepit nomine Montis Falconis ad mandata,”

      (Società Romana di storia patria – v. XI pp. 327-332-237)

       Rinaldo da Acquaviva venne coi suoi soldati a Force e vi entrò. L’Abate (Matteo II) fuggì nel

       castello di Monte di Nove, radunati gli uomini della contrada, parlò loro e li esortò a restare

       fedeli alla Chiesa Romana, se non potessero far altro cercassero di impedire le distruzioni; e si

       ritirò nel  territorio. Il Nunzio dell’imperatore venne con molti soldati e Saraceni al Castello di

       Force e allora  l’abate Matteo era nel castello; ma non volendo sottostare ai loro ordini, si ritirò

       da castello, mentre gli uomini di Force si sottomisero a Rinaldo, non potendo fare altrimenti. Lo

       stesso giorno Rinaldo si diresse verso Monte Falcone e presso la chiesa di San Gennaro ricevette

       la sottomissione degli uomini di Monte Falcone

15  TEODORI – Ascoli Piceno. P. 12. – “ Le truppe imperiali posero l’assedio Ascoli, nel 1242, ma

       considerando che le fortificazioni della città avrebbero imposto un lungo e difficile assedio,

       entarono uno stratagemma. Chiesero che il loro condottiero potesse ossequiare le autorità

       cittadine, dato che le truppe erano colà di passaggio. Gli Ascolani aprirono una porta sul ponte

       della Torricella, dalla quale entrò il capitano e una piccola schiera. La mattina seguente, si

       trovarono tutte le porte della città aperte, la città invasa e saccheggiata”.

       Il ponte,  la porta e la prima via interna si chiamarono: “Tornasacco”.

16  CATALANI – De Eccl. etc.  append n. LXX

17  CATALANI – Ivi – pp. 182-183 (Gerardo)

18  COLUCCI – A. P. t XXIX n. LVI e LVII p. 102-105

19  COLUCCI – A. P. t XVIII – app. n. XIV

20 FRACASSETTI – Notizie Storiche ecc. pp. 25-26

CAPITOLO VI

FERMO NELLA PRIMA META’ DEL SEC. XIV

     Il Giubileo del 1300, indetto da Bonifacio VIII (1294-1303), durante il quale Roma accolse i 200.000 pellegrini, tra i quali Dante Alighieri, avrebbe dovuto segnare l’inizio di una rinascita non solo religiosa, ma anche politica dell’Europa, che allora contava circa 50 milioni di abitanti.

     Invece segnò l’inizio di un secolo che vide aggravarsi l’aspetto negativo del secolo precedente.

     L’Unità Europea, a stento tenuta in piedi dai Papi, crolla politicamente in questo secolo e il Sacro Romano Impero perde il suo significato.

     Il Poeta “vede in Anagna entrar lo Fiordaliso – e nel Vicario suo Cristo esser capto”; con Filippo il Bello di Francia incomincia il trionfo dell’anticlericalismo e l’oppressione della Chiesa, la quale non ha più la forza di imporre il suo arbitrato nelle discordie delle nazioni europee che si fanno sempre più aspre.

     Ho detto che l’anticlericalismo trionfò con Filippo il Bello, ma quella fu la conclusione conseguente dell’anticlericalismo dei signori italiani, soprattutto romani: difetto di antica data, per cui i papi già una trentina di volte avevano dovuto lasciare Roma; e il Papa fuori di Roma, sua sede naturale, perdeva gran parte della sua efficienza.

     Nel 1305, per i maneggi di Filippo il Bello, fu eletto Papa il francese Clemente V, che non venne mai a Roma, ma invitò i cardinali a recarsi in Francia e, nel 1307, stabilì la sede in Avignone, dove essa rimase per circa settant’anni.

     La permanenza dei Papi in Avignone fu disastrosa per la Chiesa, per l’Europa, per l’Italia.

     Nelle Marche, la lontananza dei Papi causò l’indebolimento del guelfismo, la crisi delle libertà comunali e il pullulare delle piccole signorie, che tolsero pace e libertà alla maggior parte dei comuni Piceni.

     La prevalenza dei Ghibellini però non provocò la disfatta totale del guelfismo.

     Alcuni comuni, anche i potenti come Camerino e S, Vittoria con gran parte dei loro Presidiati, non perdettero la fiducia nella S. Sede e affrontarono con ammirevole coraggio la grave situazione, difendendo strenuamente la propria libertà.

     I Rettori Pontifici della Marca, quasi tutti francesi, con la loro politica dura e poco oculata e con insopportabile esosità, aggravarono la situazione.

     E inominciarono le ribellioni contro il Rettore, il quale rispondeva, inviando armati e multe salate: così avvenne per Fano, nel 1314; così per Macerata, nel 13151.

     Fermo, già compromessa nella stima della S. Sede, per la sua politica indipendente, di fronte a tante forze della Romagna e della Marca ribelli alla Chiesa, seguì anche questa volta la politica che credette favorevole ai suoi interessi: nel 1316 si unì a Recanati, sua alleata, e a Osimo ghibellina contro il Rettore della Marca.

     Ci furono scontri armati tra Guelfi e Ghibellini; ci furono tentativi di accordi tra il Rettore e i ribelli; ci furono minacce e castighi da parte della S. Sede, per ridurre i ribelli all’obbedienza.

     Nel 1319, Recanati fu privata del titolo di città e della sede vescovile, e si arrivò alla battaglia di Osimo del 1323, che avrebbe dovuto essere risolutiva.

     L’esercito guelfo, guidato da Bernardo Varano di Camerino, fu sopraffatto dall’esercito ghibellino, capitanato da Guido di Montefeltro e da Mercenario da Monteverde, che sfogò la sua rabbia in vari Comuni guelfi.

     Il Papa Giovanni XXII finalmente si decise a usare l’unica arma che avrebbe potuto sottomettere i Fermani.

     Il 10 Maggio del 1325 minacciò di privarla della sede arcivescovile del titolo, come aveva fatto con Recanati e con Osimo, e toglierle ogni giurisdizione sui suoi castelli.

     Fermo tremò, perché sapeva quando era difficile mantenere soggetti i suoi castelli.

     La Contea che aveva ereditata dai suoi Vescovi aveva cominciato a sfaldarsi. Macerata era diventato una rivale pericolosa, che minacciava il dominio fermano sui castelli di là del Chienti; Civitanova, S. Elpidio, Ripatransone non tolleravano più la sudditanza Fermo; e lo stesso pericolo correva con Monterubbiano, con Montottone, con Monsampietrangeli; questa ultima ceduta contro sua volontà al Comune di Fermo dal vescovo Gerardo.

     Il 26 Marzo 1326, si riunì il Consiglio Comunale che decise di venire ad accordi con la S. Sede.

     Ma improvvisamente piombarono a Fermo e Ghibellini osimani che uccisero i promotori degli accordi, incendiarono il palazzo priorale e saccheggiarono la città.

     Fu in questa occasione che il ghibellini osimani e fermani occuparono e menarono strage nella guelfa S. Elpidio a Mare.    

     Forse questa città aveva avuto parte nel persuadere Fermo a riconciliarsi con la S. Sede.

MERCENARIO DA MONTEVERDE

     Mercenario, signore di Monteverde, della famiglia dei Brunforte di Massa, della quale facevano parte, o lo erano imparentati, i “signori Contadini” dell’Alto Fermano, ghibellini ricchi e potenti, fu il primo di essi a impadronirsi di Fermo.

     Valoroso capitano, guidò i ghibellini fermano i nella battaglia di Osimo del 1323, nel saccheggio di S. Elpidio nel 1326, e costringere il Comune di Fermo ad aderire allo scomunicato Ludovico il Bavaro.

     Il suo dispotismo fu per Fermo molto funesto.

    La Chiesa Fermana stava attraversando uno dei periodi più neri della sua storia.       

     Sede vacante dal 1314 al 1317, aveva subito il malgoverno e le dilapidazione dei Canonici che non avevano saputo accordarsi sulla elezione di un vescovo.

     I sei anni di episcopato dell’ottimo Francesco I di Mogliano (1318-1324) non furono sufficienti a riparare quei danni, e già alla sua morte si apriva un nuovo più funesto interregno.

     Persistendo Fermo, dominata dai ghibellini di Mercenario, nella ribellione la S. Sede, Giovanni XXII la privò della sede vescovile e del titolo di città.

     Questo dovette avvenire alla fine del 1326, ma non si conosce il documento pontificio relativo.    

     In un documento del 1328 il Papa chiama Fermo: “villa Fermana”2.

      Mercenario e ghibellini per mani non ci piegarono, fidando nella potenza di Ludovico il Bavaro che, alla fine del 1327, scese in Italia per essere incoronato a Roma dai signori laici. In quella occasione (Gennaio 1328), fu eletto pure l’antipapa Niccolò V, il francescano Pietro di Corbara; e anche Fermo ebbe il suo di vescovo: certo Vitale, francescano.

   Nel seguente agosto 1328, Giovanni XXII protestò che solo lui aveva l’autorità di nominare il vescovo: “Per la morte del vescovo Francesco di buona memoria, la chiesa di Fermo è vacante e nessuno fuori di noi ha il diritto di provvederla”; e nominò amministratore della Diocesi Fermana il Vescovo di Firenze, Francesco II di Cingoli, con tutte le prerogative di Vescovo, anche se non doveva risiedere a Fermo.3

     La fortuna degli antivescovi nelle città marchigiane durò poco, poiché, ritirandosi dall’Italia Lodovico il Bavaro, Fermo e le altre città si ribellarono e cacciarono i vescovi eletti dall’antipapa.

   Il declino di Ludovico il Bavaro segnò anche l’indebolimento dei Ghibellini, il Fermo chiese al Papa l’assoluzione dalle censure. 

   Per Mercenario e i suoi ghibellini fu un momento pericoloso, ma egli non intendeva perdere la città e subire la rivalsa dei Guelfi .

     Nel 1331, avendo sufficienti forze economiche e militari, si proclamò signore di Fermo, dichiarando nello stesso tempo di voler aderire alla S. Sede.

     Il rettore della Marca e due incaricati del Papa vennero a Fermo, nel 1332, e sulla piazza, con grande solennità, la città fu riammessa i Sacramenti e le furono restituiti gli antichi privilegi4.

      Tra i castelli che non sopportavano il predominio fermano c’era Monterubbiano, la quale forse in quegli anni sventurati si era dimostrata un po’ troppo ostile verso Fermo.

      Mercenario, o per castigarla e ridurla all’obbedienza o perché la floridezza di quel castello faceva ombra a Fermo o perché aveva bisogno di denaro, nel 1334 l’assalì e la saccheggiò ferocemente.

     “La domenica 20 febbraio 1340, durante il pontificato di Benedetto XII, Mercenario da Monteverde aveva dominato per 10 anni come tiranno è padrone della città di Fermo, e aveva commesso molte ingiustizie, adulteri e scelleratezze.

     Finalmente, come piacque all’Altissimo che è giusto giudice mentre il tiranno cavalcava un po’ distaccato dai sette cavalieri di scorta fuori Porta San Pietro Vecchio5, uscirono dal monastero di San Pietro Gilardino di Giovanni da Sant’Elpidio e Fermo fratello del Priore di San Pietro, presente anche Matteo da Fano con altri tre o quattro cavalieri e con due servitori si gettarono su di lui e lo uccisero.

     Fu sepolto dai frati di San Francesco, senza la presenza o pianto di nessuno. Tuttavia nella città vi fu grande agitazione …. “6.

     Il martedì seguente, tutto il popolo fermano si radunò armato avanti il palazzo del popolo. Erano radunati più di diecimila uomini che gridavano: “Pace, pace, pace: morte a chi tenta di farsi tiranno: si caccino dalla città tutti i “Contadini”. E avvenne che, alla presenza dello stesso popolo, fu eletto Podestà del popolo fermano Masso del signor Tommaso da Montolmo e furono eletti i Priori del Comune.7

GIACOMO VESCOVO E PRINCIPE DI FERMO

     Dalla morte di Francesco I, nel 1324, Fermo non aveva più il Vescovo, poiché Francesco II di Cingoli era Vescovo di Firenze e teneva a Fermo solo l’amministrazione della Diocesi.

     Giovanni XXII, che aveva riservato a sé la designazione dei vescovi delle sedi vacanti, togliendo ai Canonici la facoltà di sceglierli, agì in conformità anche nei riguardi di Fermo e, l’11 Marzo 1334, nominò vescovo il domenicano Giacomo di Cingoli (1334-1342).8

     Si chiamò “Vescovo e Principe di Fermo”, e con questo titolo furono chiamati tutti i suoi successori, fino ai giorni nostri.

“Principe”! Qualche lettore sarà pronto a condannare il vescovo Giacomo come un ambizioso, perché questo titolo lo metteva, lui padre dei poveri nella classe dei potenti.

     Ma io gli ricordo che i personaggi devono essere giudicati nel loro tempo; e i tempi del vescovo Giacomo non erano quelli del Papa Giovanni Paolo II.

     Vuole essere chiamato”Principe”, forse perché lui, umile frate, aveva bisogno di un titolo nobiliare, per imporre la sua autorità in una città nobilissima, dominata dal “nobile contadino” Mercenario da Monteverde.

     Il titolo di Principe doveva essere anche un sostegno morale alla povertà nella quale era caduta la Diocesi Fermana.

     Dell’antica ricchezza erano rimaste delle briciole, insufficienti per un personaggio con gli impegni del Vescovo.

     Giacomo si adoperò attivamente per recuperare alla sua Diocesi tanti beni dispersi o usurpati in quegli anni di disordini e di malgoverno.

     Nel 1336, si rivolge al Papa Benedetto XII, chiedendo che Montolmo fosse chiamata a una riparazione, per aver distrutto il castello di Cerqueto, proprietà della Diocesi; S. Elpidio,  per la distruzione di Castello pure della Diocesi; Macerata, per usurpazione di beni diocesani9.

     Forse nel chiedere e nell’esigere qualche volta esagerò, tanto che fu accusato presso il Papa di molestare e di vessare indebitamente i fedeli10.

     Un’altra colpa si attribuisce al Vescovo Giacomo: l’aver favorito, insieme al Vescovo di Camerino, la setta dei ”Fraticelli”, condannati già da Giovanni XXII per l’esagerato rigore nell’interpretazione della povertà francescana e per altri pericolosi errori11.

     Ma queste sono inezie di fronte ai meriti di questo grande Vescovo.

     Tra essi uno dei più grandi e l’aver favorito la costruzione del primo Ospedale di Fermo.

CONFRATERNITA DI S MARIA

     In quei tempi di odi, di vendette feroci e di sangue, fioriva la carità, la virtù cristiana, che raggiungeva spesso l’eroismo, non solo in azioni di singoli, ma anche in  istituzioni sociali, allora difatti sorgevano Ordini Religiosi che esegevano dai loro seguaci che si dessero schiavi, se necessario, per liberare qualche cristiano schiavo dei Turchi.

     Ma questa era la carità eroica, che non poteva ovviamente essere universale; mentre universale era la pietà verso i diseredati e i bisognosi di assistenza.

     A Fermo era fiorente la Confraternita di S. Maria della Carità, alla quale erano iscritti artigiani, cavalieri e nobili dame, cristiani di fede sentita, persuasi che “la carità copre la moltitudine dei peccati”.

     Sua missione era assistere i malati e i vecchi abbandonati, raccogliere provvedere di un tetto i trovatelli e i vagabondi.    

     Ma la loro opera non aveva una organizzazione sufficiente: disponevano solo di pochi locali e della buona volontà di famiglie private.

     Nel 1341, chiesero al Vescovo Principe Giacomo l’autorizzazione per costruire l’Oratorio e l’Ospedale di S. Maria della carità. In questa costruzione si accentrarono le opere assistenziali della città e del suo territorio.

     L’Ospedale si arricchì di offerte e di lasciti di tutta la Diocesi Fermana, tanto da diventare una potenza economica molto rilevante12.

  Nel 1417, Matteo Mattei, Cavaliere fermano, lasciò con testamento all’Ospedale la grande tenuta di Monte Varmine di cui era signore .

     Del castello di Monte Varmine abbiamo le prime notizie storiche nel 1060, quando passò in proprietà del Vescovo di Fermo13

      Verso la fine delle ‘200 fu posseduto da Guglielmino da Massa, figlio di Guglielmo e fratello del vescovo Gerardo.

     Poi passò in proprietà di altri signori di Massa che, nel 1340, lo incastellarono a Fermo; e fece parte di quel Comune fino al secolo XVIII.

     Alla morte di Matteo Mattei, nel 1431, il brefotrofio ebbe una amministrazione propria e con altri beni gli fu assegnato anche il territorio di Monte Varmine, come nei desideri del testatore.

     Dopo l’unità d’Italia, passate le opere assistenziali all’amministrazione laica, quella del brefotrofio decadde progressivamente, fino alla quasi totale estinzione dei giorni nostri.

GENTILE DA MOGLIANO

     La libertà del Comune di Fermo durò solo otto anni, poiché nel 1348 si impadronì della città Gentile da Mogliano, anche lui dei “signori Contadini” detti sopra.

     Valoroso capitano che aveva militato nell’esercito di Mercenario, era stato chiamato a Fermo per guidare le forze armate del Comune e provvedere alla sicurezza del territorio.

     Incontrò gravissime difficoltà durante la signoria e finì male, come il suo parente predecessore, e come tutti i tiranni di Fermo che lo seguirono.

     Proprio nel 1348, Fermo, come in tutta Italia, infierì una terribile pestilenza che falciò i tre quinti della popolazione14, e per tutto l’anno seguente si scatteranno continui terremoti; qualcuno tanto violento da provocare il suono spontaneo delle campane, per l’oscillazione dei campanili.15

     Il 1 Maggio 1348, gli Ascolani, cacciarono Albertuccio, nipote di Clemente VI e chiamarono come signore della loro città Galeotto Malatesta di Rimini, sedicente guelfo, che si incaponì nel proposito di fiaccare la potenza fermana.

     È interessante osservare come questi feroci signori si azzuffassero accanitamente, incuranti della peste e dei terremoti, come se si sentissero immunizzarti contro questi mali.

   Gli Ascolani, calpestando i diritti di Fermo, negli ultimi tre anni, avevano costruito due torri e sette baluardi presso il mare di Sculcula (Porto d’Ascoli).

     Il 29 Aprile 1348, Gentile assalì quelle fortificazioni e costrinse gli Ascolani a demolirle; consentendo, secondo quanto afferma il Fracassetti, che ne restassi in piedi solo una 16.

     I combattenti Fermani se ne riportarono a casa alcune pietre come trofeo, alcune di esse si possono osservare murate in un costolone  della torre campanaria di S. Agostino.

     Nel 1351, Gentile corse in aiuto dei signori Gozzolino, tiranni di Osimo, i quali erano stati cacciati dalla città; Gentile rioccupò Osimo, ma dovette ritirarsi, perché Galeotto chiamato in aiuto dei Guelfi ebbe il sopravvento.

     Un’altra sconfitta Gentile subì dal Malatesta presso S. Severino, e fu inseguito e assediato Fermo, nel 1353.

     Gli Ordelaffi signori di Forlì, imparentati con Gentile, corsero in suo aiuto, costringendo il Malatesta a togliere l’assedio.

     Gentile restò signore di Fermo fino al 1355, quando il Cardinale Albornoz impresse una svolta alla storia marchigiana.

NOTE

1      COLUCCI – A. P. t XXIX doc. XC – p. 157-158.

2       “Sane quia nos villiam Firmanam olim civitatem , suis demeritis exigentibus, per processus

           nostros solemniter habitos dudum sede episcopali et titulo privomimus civitatis…. Ecclesia

           Firmana olim Catedrali…” (Catalani De Eccl. etc. – append. N. LXXX p. 373).

           Poiché da poco con solenne decisione abbiamo privato la

3        “….. administratorem  Episcopatus et Ecclesiae Firmanae olim Catedralis, cum omnibus

           juribus et pertinentiis suis eo modo quo per Episcopos Firmanos, pro tempore teneri

          consueverunt et regi, administrationem in spiritualibus et temporalibus, gereret, non obstante 

          Sedis Episcopalis privatione”. Catalani – De Eccl. app. n. LXXX.

         …… Amministratore della Chiesa Fermana 1 tempo cattedrale …. Con tutti i diritti e gli attributi, 

         e nella maniera con la quale era tenuta dai vescovi di Fermo; la amministri nelle cose spirituali

         e temporali, nonostante la privazione della sede episcopale.

4      CATALANI – Ivi Franciscus . p. 206

5      Il monastero di S. Pietro Vecchio stava dove è ora la casa delle Benedettine. Era dei Canonici      

         Regolari.

6       ANTON DE NICOLO’ – Cronache.

          “MCCCXL, tempore Benedicti pp. XII, die dominico, XX mensis Februari. Mercenarius de Monte

  Viridi regnaverat tirannus et dominus in civitate Firmi per novem annos, et multas industrias,

  adulteria et scelera in civitate  commiserate t committi fecerat; et demum, ut Deo placuit 

  Altissimo qui est iustus judex, dum ipse tirannus equitaret spatiatum, una cum septem

  equitibus extra portam S. Petri Veteris, exiverunt de monasterio S. Petri Girardinus domini

  Joannis de S. Lupidio et Firmus frater Prioris D. Petri, et interfuit Matteus de Fano cum tribus

  vel quator equitibus et cum  duo bus vel tribus famulis, et supervenerunt in eum et eum

  occiderunt; et sepetus fuit a fratribus S. Francisci, nemine ipsum plorante neque existente,

  tamen fuit in civitate Firmi  magnus rumor—“

7         “Tertia vero die Martis, ibi ante palatium populi, , totus populus Firmanus conventus est

            armatus; ubi fuit multitudo populi ultra decem milia virorum vociferantium ed dicendum

           “pax, pax, pax” et moriantur omnes volentes esse tiranni, et quod expellantur de civitate

           omnes “Contadini”; et ita factum est et coram ipso populo electus fuit in Potestatem populi

            Firmani Massius domini Tomae de Monte Ulmi et fuerunt electi Priores populi etc…”.

8        CATALANI –De Eccl n etc. – Jacobus p. 207

9        CATALANI – app. n. LXXII

10      CATALANI – Jacobus – p. 212

11      CATALANI – Ivi – (..qui eisdem favorem ex causam quadam pietatis praestarunt)

12      Una pergamena dell’Archivio del Brefotrofio di Fermo è riportato un privilegio del Papa, che

           permette alla confraternita di S. Maria di poter esportare i prodotti delle sue terre dove vuole,

           purché non vadano in mano agli infedeli.

13      CATALANI – De Eccl. etc. – Quadalricu p. 119

           G. Michetti – Rocca Monte Varmine – (La Rapida – Fermo 1980).

14      PLATINA – Vita di Clemente VI –“…vix quisque decimus ex millesimo homine superfuerit”.

15      TANURSI in Colucci t XVIII p. 31.

16       ANTON DE NICOLO’ – Cronache – “MCCCXLVIII …. magnificus vir Gentilis de Moliano

            honorabilis gubernator boni status Communis et eius districtus … ivit hostiliter cum copia et

            cum toto populo firmano in obsidione contra Esculanos super edificia Portus prope … quae

            Esculani construerunt in tribus anni set quibquis mensibus, quae edificia habebant duas

            turres maximas et septem turriones in quibus erant  septuaginta merli…”

            Nel 1348 il magnifico Signore Gentile da Mogliano, onorevole curatore dell’incolumità del

           Comune di Fermo e del suo distretto…. Andò in guerra con un forte schiera del popolo

           fermano, per assalire gli Sscolani nelle costruzione del Porto (presso Sculcula) che gli Ascolani

           avevano costruito in tre anni e cinque mesi. Questi edifici consistevano in due grandissime

           torri e sette torrioni, provviste di settantacinque merli.

CAPITOLO VII

FERMO NELLA PRIMA META’ DEL SEC. XIV

     Alla metà del secolo XIV, tutti sentivano che la mancanza di un forte potere centrale era causa di confusione politica, di disordini e di agitazioni insopportabili.1   

      Il Rettore Pontificio della Marca, Vicario del Papa nella regione, era spesso impotente contro i prepotenti signori locali. Conseguenza di questa debolezza era il decadimento delle libertà comunali e il sorgere di tante signorie, alcune delle quali favorite dalle popolazioni locali che preferivano rinunziare del tutto o in parte alla libertà, in cambio di un governo forte, che garantisce ordine e tranquillità.

     I principali signori che dominavano nella Romagna e nella Marca erano: gli Ordelaffi a Forlì; i Malatesta a Rimini; Nolfo di Montefeltro; Lomo di Jesi; gli Alberghetti di Fabriano; Rodolfo Varano di Camerino; Mercenario da Monteverde e poi Gentile da Mogliano, signore di Fermo; Petrocco da Massa Fermana e tanti altri minori.2

     Molti di essi trovavano vantaggioso ostentare fedeltà alla Chiesa e perfino proclamarsi Guelfi; per cui, lettore, puoi capire quale peso si può dare ai vocaboli: “Guelfo e Ghibellino”, correnti politiche di quei tempi; e in genere a quelle di tutti i tempi. Restavano però tanti comuni fedelissimi e gelosi della loro libertà, i quali non conobbero mai nessuna signoria. Cito S. Vittoria in Matenano, dove le leggi comunali proibivano il solo pronunciare la parola “Guelfo o Ghibellino”3; Ripatransone che seppe sempre a reagire a ogni pericolo di dominazione signorile. Restavano pure in quel periodo fedeli alla S. Sede e pagavano a duro prezzo la loro fedeltà Ancona, Ascoli, Camerino con i suoi signori Varano; S. Severino col suo signore Ismeduccio; Macerata con i signori Molucci; Cingoli col suo signore Pangione, e la fedelissima Recanati4. In queste condizioni politiche si trovava la Marca, quando Innocenzo VI, proponendosi di tornare a Roma, mandò nel 1353, il Card. Egidio Albornoz a riordinare lo Stato Pontificio.

PRIMA MISSIONE DEL CARDINALE NELLA MARCA

      Al suo avvicinarsi, quasi tutti i signori marchigiani si affrettarono a dichiararsi al suo servizio; e anche Gentile da Mogliano si recò a incontrare il cardinale a Foligno, nel 1354, e fece atto di sottomissione, per cui fu nominato dall’Albornoz Gonfaloniere di S. Chiesa. Essi erano persuasi che si trattasse di uno dei soliti Legati Pontifici della Marca, i quali in definitiva lasciavano il mondo come lo avevano trovato; ma quando capirono che il Cardinale aveva propositi seri e che intendeva comandare lui solo in nome della Chiesa, si unirono per combatterlo. Gli Ordelaffi di Forlì si allearono con i loro avversari Malatesta di Rimini, e convinsero il loro parente Gentile da Mogliano a ritirare l’obbedienza giurata al Cardinale.

      L’Albornoz era venuto in Italia con un forte esercito di bretoni e inglesi, capitanati da Blasco Fernando di Belvisio, suo nipote. Nel gennaio 1355, si insediò in Ancona e, abilissimo stratega, concentrò il forte del suo esercito a Recanati, località ideale, sia perché poteva ospitare molti soldati per la scarsità di abitanti (ricorda la peste dei sei anni prima) e la ricchezza delle campagne; sia perché in ottima posizione strategica al centro della Marca, divideva le forze dei signori alleati: quelli del Nord  guidati da Galeotto Malatesta; quelle del sud , da Gentile da Mogliano.

     La riconquista della marca avvenne in pochi mesi. Il 29 Aprile 1355, a Paterno presso Polverigi, l’esercito del Cardinale guidato dal nipote Blasco di Belvisio e da Rodolfo Varano di Camerino, si scontrò con l’esercito dei collegati e lo sbaragliò facendo prigioniero anche il suo capitano Galeotto Malatesta. L’onore di farlo prigioniero toccò al tedesco Everardo di Austop che ebbe perciò un ricompensa di 200 fiorini5.

     Subito dopo, il Cardinale inviò il nipote Blasco ad assediare Gentile che si era chiuso sul Girfalco. Dodici giorni durò l’assedio, poi Gentile si arrese, tra manifestazioni festose del popolo fermano. Il Cardinale gli fece grazia della vita, purché uscisse dalle terre della Chiesa, ed egli si rifugiò presso gli Ordelffi di Forlì suoi parenti.

   Nel Giugno 1355, la riconquista armata delle Marche era completa. Col parlamento tenuto a Fermo il 24 di quel mese il Cardinale dava inizio allla riconquista morale, alla pacificazione, con atti di clemenza verso i ribelli e raccogliendo giuramenti di fedeltà alla S Sede.

     Nominò Rettore della Marca il nipote Blasco di Belvisio; trasportò la Curia di Macerata a Fermo, e ne spiegò al Papa il motivo: “Ivi (a Macerata) risiedette quasi continuamente la Curia Generale della regione ed è un luogo molto adatto per la Curia e per i giuristi che vi si debbono recare; ma non è gran tempo  che la città di Fermo fu riportata all’obbedienza della Chiesa. Per meglio trarre i cittadini di quella città all’obbedienza e alla riverenza verso la Chiesa, vi fu trasportata la Curia Generale, dove al presente si trova, di che non sono affatto contenti i cittadini Maceratesi e mi sollecitano spesso perché io riporti la Curia presso di loro. E’ certo che starebbe meglio là, che a Fermo, per la maggiore facilità di accesso e centralità di tutta la regione. Non ho voluto cambiare niente, perché per mani sono neofiti” (cioè di fresco convertiti…..).

   Il Cardinale, pur avendo visto il popolo festante per la liberazione dalla tirannia, non si fidava troppo di Fermo; la definiva “labilis ut anguilla, volubilis ut rota”, alludendo alla mutevolezza della sua astuta politica utilitaria.

     Ammirava Fermo e il suo territorio, per la posizione strategica e per la sua ricchezza in agricoltura e nel commercio: “Poi viene la città di Fermo che la aeconda chiave della Marca e ragguardevole città, dove è un girone che è stimato la più bella fortezza della regione e che è custodito da un gran numero di soldati e da un capitano. E faccia attenzione il mio Signore, che il capitano sia fidato e fedele, come richiede il luogo, poiché quella città fu retta per lungo tempo da tiranni ed è ghibellina per la maggior parte. Benché nel governo non si debba troppo peso alle parole Guelfo o  Ghibellino, pure riguardo allo Stato della Chiesa, sono stimati e sono realmente più fedeli i  Guelfi, che i Ghibellini….”.

       “Questa città possiede il litorale riceve grossi introiti. Questa città ha un bel Contado, con molti bei castelli…”6.

     Anticipando le riforme che sarebbero state poi codificate nelle sue “Constituziones “ , il 22 Settembre 1355 ordinò che tutti i castelli fermani inviassero rappresentanti (sindici) per prestare giuramento di fedeltà avanti a lui, e di sudditanza alla città di Fermo 7.

Thener Documenta….. domini pontificii etc.. l. I descrutiones p. 343

“Queste sono le città e castelli che appartennero sempre al Presidato della Badia di Farfa: città di Fermo, città di Ascoli, Offida, Ripatransone, Monte Rubbiano, Monte Fiore, Penna San Giovanni ecc. (Dal Tenna al Tennacola, fino ai confini del Regno)”.

“Queste sono le città e castelli che appartennero sempre al Presidato Camerinese: città di Camerino, città di Ancona, di Osimo, di Numana, di Recanati, S. Severino, Matelica, Fabriano, Tolentino, Sarnano ecc.”

“Queste sono le città e castelli che appartennero sempre al Presidato di S. Lorenzo in Campo: città di Jesi, di Senigallia, di Fano, di Pesaro, di Fossombrone, di Urbino, di Cagli, Corinaldo, Mondavio, Orciano, Piagge ecc.”

Prima del Card. Albornoz, i Giudici dei Presidati portavano a termine le cause civili e criminali con la stessa autorità del Rettore di Ancona.

COSTITUZIONI EGIDIANE

      Le “Costituzioni Egidiane” sono il primo Codice dello Stato Pontificio. Per le Marche fu promulgato alla presenza di rappresentanti di tutta la Regione, a Fano, il 1° Maggio 1357. L’organizzazione egidiana delle Marche rimase in vigore fino alla legislazione napoleonica e, in parte, fino ai giorni nostri.

     Era necessario dare alla Marca un ordinamento politico e giurisdizionale più organico e unitario, per impedire l’isolamento dei piccoli Comuni, facile preda di tiranni. Il Rettore Pontificio della Marca veniva a trovarsi isolato, senza la possibilità di dominare e governare una regione bollente per passioni politiche, frazionata in una infinità di Comuni gelosi della propria indipendenza, con una amministrazione della giustizia insufficiente e per conseguenza, poco efficiente.

     Le Marche, fino ad allora, erano divisi in tre grandi circoscrizioni giurisdizionali che si chiamavano Presidati8; il Presidato Farfense con sede a S. Vittoria in Matenano, dove il Preside aveva il suo tribunale di appello per i Comuni del territorio Fermano e Ascolano, che comprendeva pressappoco il territorio dell’attuale provincia ascolana, con le città di Fermo, Ascoli, Offida, Ripatransone: il Presidato di Camerino, con sede in quella città che era la seconda delle Marche per le grandezza, che comprendeva il territorio tra il Chienti, l’Esino, dal qualedipendevano anche le città di Recanati, Osimo, Ancona e Fabriano: il Presidato diSan Lorenzo in Campo (Pesaro), che comprendeva il territorio dall’Esino al Foglia, con le città di Jesi, Senigallia, Fano, Pesaro, Fossombrone, Urbino.

     Il Preside, o Giudice del Presidato, aveva piena autorità giuridica nella sua circoscrizione; a lui andavano in appello le cause discusse nei tribunali dei podestà comunali, e definiva ogni controversia legale, con la stessa autorità del rettore9.

A differenza di questi, non sembra però che il preside avesse alcuna autorità in campo politico o militare.

      Le costituzioni e siriane cambiavano completamente questo ordinamento regionale.

     Benché allora fosse Fermo la città principali della Marca, il Cardinale scelse Ancona come sede di un governo regionale; composto da un Rettore, nominato direttamente dal Pontefice; un Tesoriere, pure nominato dal Pontefice con l’incarico di riscuotere le imposte; un Maresciallo e quattro Giudici, che formavano il Tribunale Superiore per la Regione10.

     A questo governo regionale e facevano capo gli “Stati”, o “province”. Essi erano: Ascoli, Fermo, Macerata, Recanati, Ancona,Jesi, Cagli, Pesaro, Urbino, Montefeltro11. Rimanevano poi i tre Presidati, ma ridimensionati nella loro ampiezza territoriale: Presidato Farfense di S. Vittoria, Presidato di Camerino e quello di San Lorenzo in Campo12.

     Ad ognuna di queste città facevano capo un numero più o meno grande di Comuni minori, che subivano l’influenza di esse. Il Cardinale stringe maggiormente vincoli tra questi Comuni e le loro città, esigendo che essi prestassero giuramento di fedeltà e pagassero un tributo a quelle, come a capitali13.

      Con questa organizzazione non ci abolivano i Comuni minori, ma si mettevano sotto il controllo della Città capoluogo di Stato. In essa infatti esisteva, oltre Consiglio Comunale che governava la città, un CONSIGLIO DI STATO che vigilava sui Comuni del contado. Il Consiglio di Stato a Fermo era composto, più o meno, da una decina di consiglieri, scelti dalla Città e dal Contado. Essi sorvegliavano l’amministrazione dei Comuni del contado; nominavano in quelli i Podestà; curavano la relazione tra i Comuni e la Capitale; determinavano i contributi e i servizi civili e militari dovuti da ogni Comune alla Città14.

     Per i Presidati la cosa era diversa. Facevano capo ai Presidatiati i Comuni che non erano inclusi negli Stati, ma dipendevano direttamente dalla S. Sede. Nel Presidato non c’era il Consiglio di Stato. Il Presidato era retto da un giudice che riceveva a nome della S. Sede il giuramento di fedeltà dai Comuni dipendenti e a lui andavano in appello le cause discusse nei tribunali dei comuni. Il Preside non si intrometteva nel governo dei Comuni, i quali erano amministrati dai loro Consigli Comunali e giudicati dai loro Podestà liberamente eletti15. La differenza era questa: mentre nei Presidati i Comuni avevano piena libertà, negli Stati la libertà comunale era limitata dal Consiglio di Stato. Da ciò si spiegano anche i continui contrasti tra Fermo e i maggiori comuni del suo contado.

SECONDA MISSIONE DEL CARD. ALBORNOZ NELLE MARCHE

     Dei signori che avevano dominato sul territorio della Chiesa restavano ancora in piedi Francesco Ordelaffi di Forlì e Giovanni Visconti da Oleggio, signore di Bologna. Costituivano due pericoli da eliminare, sia perché usurpatori di possessi della S. Sede, sia perché rianimando il partito ghibellino, potevano sovvertire il lavoro organizzativo costruito con tanta fatica nella Marca. Difatti l’azione demolitrice di questi signori era cominciata. Gentile da Mogliano, protetto dai parenti Ordelaffi si era accordato con il Conte Lando la cui compagnia stanziava nel Fermano. Ma Gentile cadde di nuovo nelle mani del Cardinale e il Giudice Generale della Marca, con sentenza del 12 Gennaio 1359, lo condannò a morte, insieme al figlio Ruggero e ad altri complici16.

     Battuti gli Ordelaffi e restituita Forlì alla chiesa, il 12 luglio 1359, il Cardinale si preparava a combattere contro i Visconti per riconquistare Bologna; ma Giovanni da Oleggio, signore di quella città, inimicatosi col suo signore Bernabò Visconti, offrì la città all’Albornoz. Questi prese possesso di Bologna e, in ricompensa, con accordi stipulati il 1 Marzo 1360, concesse a Giovanni da Oleggio il Vicariato a vita della città e territorio di Fermo e, l’anno appresso, il Rettorato della Marca d’Ancona; a sua moglie Antonia de Bancionibus il possesso a vita di Marano e Grottammare17.

     Giovanni da Oleggio, benché avesse fama di avere esercitato la signoria di Bologna con tirannia e crudeltà, a Fermo fu un ottimo governatore, mite e benefico coi sudditi; operoso per la città che abbellì di nuovi edifici e cinse di nuove mura. Ma per spiegare questo cambiamento, bisogna ricordare che il Cardinale stava quasi sempre a poca distanza e, in quei tempi, forse all’opposto dei tempi nostri, i buoni cani mordevano solo col permesso dei loro padroni. Governò Fermo per 6 anni e morì l’8 Ottobre 1366. Nella Cattedrale si può ammirare il bel sarcofago fattogli costruire dalla moglie Antonia Bencioni.

     I fastidi che non aveva dato al Comune di Fermo il Governatore li diede, dopo la morte di lui, la vedova Antonia, con continui pretese di denaro; richieste molte volte appoggiate anche da Cardinale, al quale i soldi di Fermo non costavano niente. Ma il Comune non sempre era disposto a pagare; e allora avvenivano screzi fra Comune e il Cardinale, il quale sapeva che con Fermo non bisognava mai tirar troppo la corda18.

FERMO DOPO IL CARD. ALBORNOZ

     Nella seconda metà del secolo XIX, Fermo era la città più grande di tutta la Marca, e la seconda dello Stato Pontificio. Ma quando diciamo città, non dobbiamo intendere, per quei tempi, il centro cittadino isolato, ma considerato unitamente al suo contado: Fermo era una  “Città-Stato”, i sessanta castelli attribuitigli dalle Costituzione egiziane erano considerati quasi sobborghi della città e i loro abitanti cittadini fermani19. Il fatto poi che ogni castello fosse libero Comune non recava pregiudizio alla loro unità con la Città-Stato. A Fermo, mentre un Consiglio comunale governava la capitale, un “Consiglio di Stato”, composto di consiglieri della città e del contado nominava nei vari castelli i Podestà i quali, collaborando con le autorità locali scelte dal popolo, rispondevano della sicurezza della fedeltà di essi verso la città madre.

       I castelli giuravano fedeltà al Comune di Fermo, pagavano adesso un tributo annuo come a capitale ed erano tenuti a mandare una rappresentanza alla cavalcata di Santa Maria(15 Agosto), portanto un “palio”, segno di sudditanza. La cavalcata partiva dalla chiesa di Santa Lucia e si svolgeva fino alla Cattedrale, attraverso vie e piazze fangose d’inverno e polverose d’estate; fiancheggiate da modesti palazzi di ricchi e da molti tuguri e case di terra dei poveri. Era l’annuale ostentazione della potenza fermana; di questa città che avrebbe potuto essere, oltre che ricca, anche felice, se avesse saputo trovare il modo di salvaguardare sempre la propria libertà, senza bisogno di estenuarsi nel dover sopprimere periodicamente i suoi tiranni.

     Però Fermo era veramente potente. Questa città-Stato contava diecimila fuochi, cioè diecimila famiglie che pagavano il focatico (allora come sempre contavano solo i ricchi e quelli che potevano pagare le tasse). Diecimila fuochi equivaleva a circa quarantamila persone; consideriamone il doppio non paganti, e arriviamo a circa centoventimila anime. Una popolazione così numerosa permetteva al Comune di Fermo di approntare, in caso di necessità, eserciti poderosi con poca spesa. Un ordine del Consiglio di Stato imponeva ai singoli castelli  un certo numero di fanti e di guastatori equipaggiati assistiti a spese loro; mentre restava al Comune della Capitale il peso sempre rilevante di ingaggiare qualche compagnia di ventura (gli specialisti della guerra), e di ripagare le possibili perdite di cavalli ai signori “Contadini”.

     Delle continue guerre dei Fermani che la storia ci documenta solo in qualche raro caso era guerra di popolo, poiché il popolo del Fermano era un popolo di pacifici lavoratori e commercianti; la quasi totalità di esse furono volute da tiranni irrequieti, i quali dicevano di agire in nome e a vantaggio del popolo fermano, mentre il popolo non c’entrava affatto. Al popolo interessava solo la pace, senza della quale si vanificavano i frutti della loro attività.

     L’agricoltura, la ricchezza maggiore del Fermano, era seriamente compromessa dalle azioni belliche. Pensate al passaggio, e qualche volta al soggiorno di una o più compagnie di venturieri nel territorio. Erano cinque, seicento e a volte migliaia di cavalli che si sfamavano, calpestando senza freno e divorando foraggere e campi di grano, togliendo gli agricoltori la speranza del raccolto e la possibilità di nutrire il proprio bestiame. E io mi sono domandato spesso, con tutta quella moltitudine di cavalli, che cosa restava per i buoi e per le pecore.

     E anche per gli uomini; poiché quelle migliaia di soldati, i quali avevano intrapreso quel mestiere brigantesco per tentare di far fortuna e di arricchirsi col bottino, presentandosi l’occasione, estorcevano quanto potevano, non contentandosi dello stipendio elargito dai loro capitani, il più delle volte impossibilitati a mantenere la disciplina. Qualche cosa si poteva a stento salvare, fungendo con le bestie e con quel poco che si poteva trasportare in luoghi meno insicuri. Ma il lavoro languiva con la prospettiva di un lungo travaglio per riparare i gravi danni dei campi e dei casolari, e dei due mali che di solito seguivano ogni esercito: la fame e la peste.

     Con la guerra languiva il commercio. Le strade esposte al ladroneggio dei venturieri e alle insidie dei fuorusciti non erano sicure per il trasporto di frumenti, delle lane, della canapa, merci che abbondavano nel contado fermano, ma dovevano raggiungere il Porto per diventare retributive. Alla metà del secolo XIV, il porto di Fermo era ancora molto attivo, benché incominciasse a sentire la crisi che si profilava per i porti minori, causa le modifiche che si stavano introducendo nella costruzione delle navi. La numerosa flottiglia Fermana incominciava a non poter più competere commercialmente con le grandi navi moderne di Venezia e di Ancona, non più a chiglia piatta ma ad angolo, le quali, oltre ad essere più sicure per la maggior immersione, permettevano il raddoppio del carico. Esse non entravano nel porto fermano a causa del basso fondale; e se anche qualcuno aveva la compiacenza di trasbordare merci nelle navi fermane lontano dalla costa, preferivano sempre, per risparmio di tempo, filare direttamente sui porti maggiori. Ma la flotta fermana era sempre valida per il commercio sull’Adriatico: esportava nei porti adriatici prodotti fermani, rilevava dai grandi porti le merci orientali e le commerciava nei porti minori. Si restringeva un po’ il campo d’azione, ma restava sempre forte di lavoro e di ricchezza per lo Stato. Ha ragione il cardinale Albornoz e diceva: “Fermo possiede la costa adriatica, dalla quale riceve grandi introiti”.

RINALDO DA MONTEVERDE

     Il Card. Albornoz e morì ad Orvieto, nell’agosto 1367.

Per sua grandiosa realizzazione politica avrebbe avuto ancora bisogno di lui, perché l’organizzazione dello Stato Pontificio così laboriosamente costruita avrebbe dovuto consolidarsi sotto la sua guida, per aver garanzia di durata.

     Aveva affidato Fermo a Giovanni Visconti da Oleggio, e Ascoli a suo nipote Gomesio conte di Spanta, i quali per un po’ di tempo mantennero ordine nei due Stati, come lo permettevano quei tempi feroci, ma pace e sicurezza non ci furono nemmeno in questo periodo.

     Il Duca di Milano, Bernabò Visconti, incitava i Ghibellini marchigiani, offrendo il suo appoggio; i fuoriusciti e i soldati di ventura, privi di lavoro e di stipendio, si univano in gruppi e si davano al brigantaggio; gli ufficiali di Curia e gli impiegati dello Stato si erano resi insopportabili, per la loro esosità20. Il signore di Ascoli, Conte Gomesio, seppe liberare il suo Stato da una compagnie di ventura, detta “Compagnia degli Inglesi” spedendola a combattere in Sabina contro altri venturieri; ma ormai era invalso l’uso tra i signori e tra i regnanti di affittare queste compagnie di miserabili, che oggi chiameremmo briganti e di legalizzarne le rapine e le atrocità, perché fatte in nome loro che si dicevano signori. E per più di due secoli le Marche furono sottoposte a questo flagello, perché data la posizione la fertilità della Regione, qui si dirigevano, o di passaggio, o di fazione, o per svernare.

     Firenze, dominata da una oligarchia di nobili, si alleò con i Visconti e, nel 1375, costituì una lega ghibellina, alla quale man mano aderivano i signori marchigiani.

     A Fermo il malcontento popolare che era stato esasperato dalla carestia che si era aggiunta agli altri mali nell’annata 137421, sfociò in una ribellione popolare che causò la morte del Podestà Gregorio De Mirto da Ripatransone e la cacciata del vescovo Nicola De Merciariis . Il disordine e la confusione portarono la signoria di Rinaldo da Monteverde, nipote del Mercenario, di funesta memoria. Nel Febbraio 1376, anche Ascoli si ribellò al Conte Gomesio che si chiuse sul Castello del Monte22.

     Con un forte esercito di Fermani, Rinaldo occupò Ascoli, ”per salvarla dalla rovina”, dice Anton de Nicolò, ma in realtà per appoggiare i ghibellini ascolani contro il Conte Gomesio che si difendeva molto bene chiuso sulla fortezza; e questa situazione durò dieci mesi.

     Ma c’era per i ghibellini un altro pericolo: Ripatransone, sempre guelfa e alleata di Ascoli, avrebbe potuto tentare di portare aiuto al Conte Gomesio. Rinaldo la prevenne, spedendo contro di essa una schiera di Fermani, nel Maggio 1376; però la fortezza del luogo, il valore dei cittadini guidati dal loro capitano Carosino, costrinse i Fermani a togliere l’assedio; e se ne andarono, recando, secondo la bestiale usanza di allora, gran guasto alle campagne; bruciando case, tagliando viti e devastando seminati23.

     Questo impegnare le forze fermano in più imprese contemporanee forse non andava a genio a molti Fermani, specialmente ai signori “Contadini”; lo possiamo arguire da una frase delle “Cronache”. Il 4 giugno 1376, tenendo ancora un forte contingente fermano in Ascoli, Rinaldo assalì la guelfa S. Elpidio; Anton De Nicolò dice: “con pochi Fermani e Contadini che lo seguivano malvolentieri”. L’assalto durò solo cinque giorni.

     Di nuovo Fermani e Contadini, tra i quali Ludovico da Mogliano e Boffo da Massa, furono chiamati all’esercito contro Ripa, sotto la guida del capitano fermano Tommaso Iacobucci ( indignus et malus homo). Si trovarono sotto Ripatransone il 13 Settembre 1376; ma tra i capitani dell’esercito fermano successero baruffe, e il giorno stesso l’esercito tornò a Fermo, dove Rinaldo fece decapitare sulla piazza diversi onorati cittadini.

     Finalmente, il 17 Gennaio 1377, Gregorio XI (1370-1378, l’ultimo Papa francese, vinto dalle preghiere di Santa Caterina da Siena, tornò a Roma. Le sue preoccupazioni erano innumerevoli, poiché quasi tutto lo Stato era in rivolta; sulla collaborazione dei Cardinali poteva far poco affidamento; gli ufficiali dello Stato erano corrotti e infedeli.

     Cercò di rianimare la fiducia nelle zone restate sempre fedeli come Santa Vittoria e Camerino, promettendo ricompense e “soldati, ora che il Rettore ne ha tanti”24; ma ahimè, erano soldati di ventura bretoni, i quali, appena un mese dopo il suo ritorno a Roma, gli combinarono la “strage di Cesena” che valse ad accrescere la rabbia ghibellina, a raffreddare i Guelfi e ad aggravare le angustie del Papa che ne morì il 27 Marzo dell’anno dopo.

    La Lega fiorentina si mostrava sempre più irriducibile contro la S. Sede; però fortunatamente tra i Ghibellini non c’era un ideale comune. Le mire personali rendevano precario il loro accordo: Firenze aderiva ai Visconti sapendo che presto avrebbero dovuto combatterli; e i signori delle Marche partecipavano alla Lega fiorentina, ma non avevano nessuna intenzione di farsi dominare da Firenze. E anche tra i signori marchigiani un accordo sincero era impossibile; prova ne sia il fatto che il segretario fiorentino Salutati deve intervenire per mettere d’accordo Rinaldo da Monteverde e il suo lontano parente Boffo da Massa che reclamava il possesso di Carassai; e ambedue facevano parte della Lega25.

     Gregorio XI, stando ancora in Avignone, aveva scritto gli Anconetani che trovassero il modo di combattere contro i Fermani e ridurli all’obbedienza. Ci furono scontri di poca importanza, perché Ancona doveva badare che non intervenisse Venezia, alleata di Fermo. Ma l’11 giugno 1377, giorno di San Barnaba, dice De Nicolò, un esercito di Bretoni, guidato da Rodolfo Varano, occupò S. Elpidio; vinse l’esercito fermano presso il Tenna e si spinge fino al Colle di S. Savino, facendo più di trecento prigionieri fermani. Nel successivo 8 Settembre, “Natività della Vergine”, Rinaldo, appoggiato da seicento lancieri del Conte Luzio (compagnia di ventura), da Bartolomeo di San Severino e da Francesco di Matelica, rioccupò S. Elpidio abbandonandola al saccheggio e incendiandone una metà. Nel bottino fu compresa la preziosa Reliquia della Sacra Spina che fu portata a Fermo e sistemata nel tempio di Sant’Agostino. Poi cacciò da Montegiorgio il Varano e lo inseguì fin nella valle del Fiastra, dove, intervenuti in massa i combattenti di San Ginesio, Rinaldo riportò una terribile sconfitta che accelerò la sua fine.

     Il 24 agosto 1378 (S. Bartolomeo), mentre Rinaldo risiedeva Montegiorgio, i Fermani, aiutati dai comuni di Ancona, Recanati e da Rodolfo di Camerino, espugnarono il Girfalco, permettendo però che la moglie Luchina e figli Mercenario e Luchino che vi si erano rinchiusi si riunissero a lui. Ma, non rassegnandosi a perdere il dominio di Fermo, poco dopo, Rinaldo riordinò il suo esercito rafforzandolo con mercenari, nell’intento di rioccupare la città. I Fermani lo cacciarono da Montegiorgio e lo inseguirono fino a Montefalcone, dove lo assediarono per vari mesi. Sabato 2 Giugno, 1380, il capitano di ventura Egidio da Monte Urano lo tradì per mille ducati e aprì il castello ai Fermani. Rinaldo ed i suoi caddero prigionieri e furono condotti a Fermo. Il giorno di San Bartolomeo fu in seguito dichiarata “festa comunale”26.

     Anton De Nicolò ci ha lasciato una dettagliata descrizione della tragica fine di Rinaldo, della moglie Luchina e dei figli Mercenario e Luchino: “furono presi e condotti a Fermo. Entrarono per porta San Giuliano, ciascuno su un asino, cavalcando alla rovescia, con gran festa del popolo. Furono condotti in piazza avanti ai Priori di Fermo; e cosa da notare, gli abitanti di ogni contrada, specialmente i giovani, fecero abiti nuovi, ogni contrada col proprio colore; e mentre i vari gruppi erano in piazza San Martino festanti intorno ai loro capi, Rinaldo, Mercenario e Luchino suoi figli, nella detta piazza al cospetto di tutti furono decapitati”27.

     Fu messa in piazza San Martino una lapide che recava scolpita la testa di Rinaldo, con scritta: “Tiranno fu pessimo et crudele”.

     Rinaldo fu il terzo di Contadini eliminati in un secolo dai Fermani, per liberarsi dalla loro tirannide: ma non finì con lui questa e genìa di prepotenti.

I CASTELLI

che componevano lo Stato di Fermo, riportati negli Statuti Comunali, erano una ottantina. Qui ne ometto alcuni che non esistono più: o sono difficilmente individuabili.

   Sono distinti in:

    Maggiori

Grottammare – Petritoli – Servigliano – Falerone – Montefiore – Sant’Angelo in Pontano – Loro – Mogliano – Monte S. Pietrangeli.

     Mediocri

San Benedetto in Albula – Massimiano – Campofilone – Altidona – Lapedona -Monte Giberto – Rapagnano – Torre di Palme – Belmonte – Montefalcone – Smerillo -Torre S. Patrizio – Gualdo – Montottone – Marano -Porto (S. Giorgio.)

     Minori

Moregnano – Moresco – Torchiaro – Ponzano – M. Vidon Combatte – Collina –

M. S. Pietro Morico – Ortezzano – M. Leone – Grottazzolina – Acquaviva – S. Andrea – Petriolo – Monte Urano – Francavilla – Magliano – Cerreto – M. Vidon Corrado – Massa – M. Verde – Pedaso – Boccabianca – Castelletta di Petriolo – Mercato – Castrum Guardiae – Partino – Monte Varmine – M. Rinaldo – Alteta – Gabbiano – C. S. Mariae Matris Domini (oggi S. Marco di Ponzano) – Montappone – Poggio fuori Grottazzolina – Chiaromonte – Castello sotto S. Elpidio (oggi Casette) – Bucchiano.

     Cura particolare avevano i Fermani per i Comuni marittimi. Gli abitanti di San Benedetto sono dispensati dalle tasse, ma in cambio devono provvedere alla guardia del castello diurna e notturna e fortificare gli steccati verso il mare. (l. II p.69).

     Guardie per vigilare i porti: dieci a Torre di palme; sei a Boccabianca; dieci a Marano; dieci a Grottammare; quattro a San Benedetto (l II p.57).

NOTE

1       THENER – Documenta Domini Temporalis etc. p. 113 “…..si dictus rector sit bene fortis et  

         habeat ad sufficientiam de stipendiariis, dictaMarchia erit semper in obedientiam … et credit

         quod sufficerent CCCC vel D equites……

         ….. Se il diritto rettore sarà ben forte e avrà mercenari a sufficienza, la marca sarà sempre in

         obbedienza per questo sarebbero sufficienti quattrocento  o cinquecento cavalieri.….

2       COMPAGNONI – Regia Picena . I v. pag. 214 (Macerata MDCLXI).

3       LIBER STATUTORUM (di S. Vittoria). Ecco la rubrica I, del libro III p. 101: “Nessuno osi o

         presuma nominare o acclamare nel nostro paese o nel suo territorio, per la protezione di

        esso…. qualche signore, o Comune, o alcun partito guelfo o ghibellino, pena 200 denari di

        multa”. E questo avveniva anche in altri Comuni.

4      THENER – Documenta Domini Temp. etc.  – vol. II p. 110 –Ismeduccio di San Severino era stato

        focoso ghibellino, ma in questo periodo (circa il 1340) era ardente sostenitore dei diritti del

        Papa.

5     F. FILIPPINI – Il Card. Albornoz . Bologna 1933 c, IV p, 86. Dall’Arch. Vat. Introiti ed esiti- “Die VI

        Junii solutum fuit Everardo Austorp pro captura D. Galeotti de Malatesti in conflictu belli

        Paterni facto die 29 Aprilis ….. pro dicta captione, CC flor

6     THENER – Documenta etc. – v.II Descriptiones p. 356

7      SERAFINO PRETE – Documenti Albornoziani . pp. 16-17-18.

8      THENER – Documenta etc. Descr. March. – v. I p. 343

9      “Ab antiquo est constitutun”, dice il Albornoz, “che il Giudice del Presidato giudichi e porti a

         termine le cause civili e criminali con la stessa autorità del Rettore Generale della Marca. Ma

         siccome è più conveniente secondo il diritto che le cause maggiori siano discusse in un

         tribunale dove ci sia un maggior numero di periti, stabiliamo che le cause riguardanti i diritti e

         il territorio delle varie città; le cause riguardanti rivendicazioni contro la Sede Apostolica e il

         Rettore; le cause tra il fisco e privati, non vengano giudicate dal preside, ma dal Rettore e dai

         suoi giudici”.

10    F. FILIPPINI – Il Cardinale ecc. c. VI p. 142 (Bologna 1933).

11    FRANC. BONASERA – Il  Card. Albornoz nel VI centenario delle Cost. p. 9.

12    POMPEO COMPAGNONI – Regia Picena p. 222.

13    SERAFINO PRETE – Documenti Albornoziani – p. 16 – dalla pergamena 998 dell’archivio di

         Fermo.

14    ANONIMO FERMANO – p. 252, incluso nelle Cronache Fermane del Montani.

15    COLUCCI – A. P. t. XXXI p. 8 e seg. Sono molti i documenti che possono confermare quanto

         esposto. Non mi dilungo a riportarli. Invito piuttosto il lettore ad ammirare il genio

         organizzativo politico del Card. Albornoz e il suo spirito democratico, tanto più mirabile,

         perché attuali, dopo seicento anni.

16    Vedi SERAFINO PRETE – Documenti Albornoziani – doc. IX p. 18.

17    G. DE MINICIS – Di Giovanni Visconti da Oleggio Signore di Fermo(Roma 1840).

18    S. PRETE – ivi doc. XIII – XIV p.20

19   Gli Statuti Comunali alla rubrica 49 pag. 28, dice cittadini Fermani tutti quelli che prestano

         servizio per la città, o lo hanno prestato per cinque anni, o sono iscritti tra i paganti il focatico.

20    Riccardo di Saliceto, in una lettera, diceva al Papa: “(gli Italiani) Mai si allontanarono dalla

         Chiesa e dalla Santità Vostra, ne intendono allontanarsi, ma dai vostri diabolici  ministri…..”.

21    ANTON DE NICOLO’, nella sua cronaca, dice che una salma di grano costava 19 fiorini; una di

         orzo 6 ducati, una di spelta 5.

22    MURATORI – Rer. ital.: “Anno 1376, Asculum oppidum, die ultima mensis Februari defecit

         Ecclesia ubi erat Gomesius de Boniza nepos Card. Egidi; aufugit in arcem ubi se defendit per

         decem menses etc.” (Tanursi in Colucci t. XVIII pp. 41-42).

23     DE NICOLO? – Cronache Fermane

24    COLUCCI – A. P. t. XXIX . doc. VIII p. 202

25    POLINI – Storia di Carassai – p. 75 “Domino Boffo Amice carissime. Lamentatur Dominus

         Rainaldus quod tu contra Statum suum aliquod comitatinos, nobilesque firmanos sub pretestu

         nostri subsidii niteris concitare.Quod si verum foret, foret tua nobilitas multipliciter

         reprehendenda. Scis enim Dominum Rainaldum esse de nostris principalibus colligatis,contra

         quem attentari,  contra unitatem est Ligae etc,

         Amico carissimo. Il signor Rinaldo si lamenta che tu sobilli alcuni nobili di campagna e di città

         contro il suo governo, vantandoti del nostro appoggio. Se ciò fosse vero, la tua nobiltà sarebbe

         molto ripresibile; poiché sai che il signor Rinaldo è uno dei nostri principali collegati. Attentare

         contro di lui attentare contro l’unità della Lega.

26    STATUTI – p. 5 – “Cum populus civitatis Firmanae fuit in die Beati Bartolomei Apostoli

         tirannica rabie liberatus, et ut dona quae capiuntur a Deo intercedentibus meritis Sanctorum

         eiusdem non tradantur oblivioni, statuimus et ordinamus quod singulis annis in perpetuo in

         conservationem memoriae prelibatae,  in die festi et vigilia S. Bartolomei Ap.  de mense

         Augusti, fieri debeat  aliquof festum singulare ad honorem et reverentiam S. Bartolomei

         predicti, secundum deliberationem et voluntatem DD. Priorum populi et Confaloneri iustitiae,    

         qui pro tempore erunt, una cum regolatoribus dictae civitatis; et quod circa festum et

         solemnitatem fiendam in dicto festo possint dicti Domini espendere de pecunia et havere dicti

         Communis usque ad viginticinque libras denariorum absque alia deliberatione Cernitae vel

         Concili specialis, vel generalis”.

27    “Eodem Anno et die II mensis Junii, supradictus dominus Rainaldus cum omnibus

          Supranominatis fuerunt deducti ad civitatem Firmi ad portam Sancti Juliani,

          Quilibet fuit portatus in uno asino cum ore retro, cum corona spinea in capite et fuerunt ducti

          coram dominis Prioribus Firmi per se, iuvenes et etiam alii, fecerunt vestimenta nova, qualibet

          contrada de uno eodomque colore  per se, et aliae per se et sic de singulis,; et illico,  dum

          omnes brigatae essent in platea S. Martini et tripudiarent cum dominis predictis, dominus

          Rainaldus et dominus Mercenarius et Luchinus fuerunt decapitati”. (A. De Nicolò – Cronache p.7.

CAPITOLO VIII

FERMO E LO SCISMA D’OCCIDENTE

DAL 1380 AL 1433

     quando i germani si sollevavano contro qualche tiranno, gridavano “Viva la chiesa e lu popolu liberu”; e anche quando eliminarono Rinaldo da Monteverde, cercarono la libertà nella sottomissione alla Chiesa; ma questa era gravemente malata e non poteva garantire a Fermo quella libertà che nemmeno essa godeva.

     L’8 aprile 1378 era stato eletto Papa Urbano VI (1378-1389), un Papa di vita irreprensibile, ma eccessivamente severo e rigoroso, tanto che più volte Caterina da Siena è costretta a raccomandargli di usare mansuetudine e di non farsi trasportare dall’ira1.

     I Cardinali francesi, il 20 Settembre successivo, si adunarono in Anagni ed elessero Roberto di Ginevra, col nome di Clemente VII, dichiarando irrregolare l’elezione di Urbano VI, avvenuta anche col loro voto pochi mesi prima. Clemente VII si stabilì in Avignone; Urbano VI restò a Roma, e il mondo cattolico si divise; una parte per Avignone, una per Roma, e ne nacque una incredibile confusione, nella quale non ci si raccapezzavano più nemmeno i Santi; vediamo infatti Caterina da Siena, domenicana, sostenere Urbano VI; invece San Vincenzo Ferreri, pure domenicano, parteggiare per l’antipapa.

     Fu forse il più grave disastro mai sopportato la Chiesa2; e uno dei più gravi pericoli che incombé sull’Europa, poiché i Turchi avanzavano nei Balcani, minacciando di ingoiare la civiltà europea.

ANTONIO DE VETULIS

     La Marca fu una delle zone che più ebbero a soffrire in conseguenza dello scisma. A Fermo il primo ad esserne travolto fu il suo Vescovo Antonio de Vetulis (1375-1385), viterbese, uomo di grande intelligenza di profonda cultura giuridica. Fu nominato Vescovo di Fermo da Gregorio XI, nel 1375, in sostituzione del vescovo Nicola Marciari trasferito in altra sede. Forse il Papa fu costretto a quella sostituzione, poiché, benché il Catalani non faccia cenno dei motivi che lo provocarono, Anton de Nicolò dice che il popolo fermano, nel 1375, “rebellavit contra pastorem Ecclesiae”. Sapendo dal Catalani che il vescovo Nicola, dopo essere stato trasferito in varie sedi, finì vescovo titolare, possiamo arguirne che era un vescovo difficile, e accettare la notizia della rivolta popolare. Data la disperazione nella quale in quell’anno 1375, si trovava il popolo fermano, per la carestia cominciata l’anno prima, bastava poco per suscitare una rivolta.

     Sia per questo stato di agitazione, sia perché Antonio de Vetulis quando fu nominato vescovo, benché fosse dottore in legge, aveva solo gli Ordini Minori e si richiedeva un po’ di tempo per ricevere i Maggiori e la consacrazione episcopale, solo nel 1377, partì per la sua diocesi Fermana. In una lettera di quell’anno, Gregorio XI raccomanda al Comune di Santa Vittoria di aiutare il Vescovo con tutti i mezzi ed assisterlo nel recupero di beni diocesani perduti3. Ma qualche mese prima, Rinaldo da Monteverde si era impadronito di Fermo, e il vescovo Antonio dové tornare indietro per rifugiarsi a Roma, dove poté partecipare alla elezione di Urbano VI, l’8 aprile 1378. Eletto nel settembre successivo l’antipapa Clemente VII, forse dietro preghiera di amici francesi, sottoscrisse un livello, nel quale si sosteneva l’invalidità dell’elezione di Urbano VI; ma seguitò a mostrare devozione verso quest’ultimo per parecchi anni.

     Ci possiamo domandare: era persuaso Antonio de Vetulis che la elezione di Urbano VI era invalida?. Conoscendo il suo ingegno e la sua sapienza giuridica, dovremmo rispondere negativamente; ma forse l’argomento era tanto arruffato, da confondere non solo i santi, ma anche i giuristi. Non possiamo però seguire il Catalani quando afferma che il De Vetulis macchiò la sua condotta “turpissimo scelere”. Qui non si tratta di scelleraggine, ma di condotta intelligente e astutissima: quell’astuzia che il vescovo Antonio possedeva in sommo grado, che gli viene attribuita a lode anche nella iscrizione sepolcrale: ”astutus in omni” occupava nella chiesa un alto grado e l’altissima dignità di vescovo di Fermo, la più importante sede vescovile dello Stato Pontificio; non se la sentiva di mettere in pericolo la sua posizione, schierandosi per una delle parti in conflitto, e scelse la poco dignitosa condotta del doppio gioco. Non si poteva sapere quale fine avrebbe fatto Urbano VI, poco amato per la durezza del suo carattere; come non si poteva prevedere la sorte dell’antipapa Clemente VII, seguito forse dai più. Il De Vetulis credette opportuno affidarsi alla propria astuzia e mantenere il piede su due staffe. Andò ad ossequiare l’antipapa in Avignone; partecipò al convegno di Salmatica favorevole a Clemente VII e seguitò ad essere umile servitore di Urbano VI. Astuta condotta politica, con la quale tenta di non farsi travolgere dagli eventi, ma che non intacca affatto la sua fede il suo zelo per la Chiesa e per la sua Diocesi, perché non si trattava di eresia.

     Nel 1385 il suo gioco finì. Chiamato a Genova, dove si trovava temporaneamente il Papa insieme ad alcuni Cardinali tenuti sotto particolare vigilanza (poiché non erano astuti come lui), il Vescovo fermano, sospettando qualche pericolo, fuggì e ritornò a Montottone, sua abituale residenza. Urbano VI ordinò al Comune di Fermo di occupare Montottone, per togliere al Vescovo la possibilità di andare girando liberamente. I Fermani assalirono Montottone, ma furono respinti; tentarono un nuovo assalto, e il castello preferì scendere a patti; però il Vescovo non si trovò in paese, poiché Montottone che gli era affezionato, aveva protetto la sua fuga per destinazione ignota4.

     Al suo posto, Papa Urbano nominò Vescovo Angelo dei Pierleoni (1385-1390) di nobile famiglia romana, che tenne la Diocesi per circa cinque anni.

     Nel 1389, morto Urbano VI, fu eletto Bonifacio IX (1389-1404). L’anno seguente, alla morte di Angelo Pierleoni, a richiesta dei Fermani, Bonifacio IX volle che Antonio De Vetulis riprendesse la Diocesi fermana (1390-1405). In questo 2º periodo di episcopato il De Vetulis fu veramente insigne. Godette della piena fiducia di Bonifacio IX che se ne servì per numerose importanti incarichi, tanto che si può dire Antonio il più grande collaboratore di questo Papa.

     Fermo deve riconoscenza al Vescovo De Vetulis per la sua guida sapiente e per il Palazzo Vescovile, costruito da lui a proprie spese, su un’aria pure acquisita con denaro proprio, nel 13915. Morì nel 1405, un anno dopo Bonifacio IX.

     Soppresso Rinaldo da Monteverde, Fermo riacquistò la libertà, ma non poté goderla, perché quel periodo non permetteva la tranquillità.

     Nell’agosto 1382, scoppiò una peste che durò tre mesi e falciò nella città circa tremila persone. Nel 1383, l’esercito fermano dovette ricacciare il Duca di Camerino da Sant’Angelo in Pontano. Nel 1385, per ordine del Papa, dové marciare contro Montottone per imprigionare il proprio Vescovo; sbarazzare Montegiorgio dagli avanzi dell’esercito di Rinaldo e mandarvi per podestà Ludovico di Antonio, e ristabilire il governo fermano su altri castelli sottratti allo Stato. Nel 1387, il 4 Settembre, fu ucciso a Carassai Boffo da Massa, e quel Comune insieme a Cossignano e Porchia, che costituivano il suo dominio, tornarono a Fermo6.

     Nello stesso anno, Boldrino da Panigale, mandato nella Marca dal Governo Pontificio in aiuto ai Guelfi con 150 cavalli, per sostenere il suo esercito, razziò la zona tra Monte Urano e Fermo 200 bovini e 600 ovini.

     Nel 1390, Bonifacio IX rimandò a Fermo il Vescovo Antonio di Vetulis molto amato dai Fermani e nominò Rettore della Marca il proprio fratello Andrea Tomacelli, con soddisfazione dei Fermani e in genere di tutti i Marchigiani. I ghibellini intensificarono la loro azione di rivolta e, nel 1392, riescono a formare una lega delle principali città marchigiane: Ancona, Macerata, Fermo, Ascoli e altre; assoldano Biordo dei Micheletti da Perugia e, nel 1393, sconfiggono il Rettore e lo fanno prigioniero. A Fermo, capo della rivolta era Antonio Aceti, Gonfaloniere del Comune, che chiamò Luca di Canale e Conte di Carrara a sostegno del suo partito.

     Bonifacio IX chiamò a guidare l’esercito della Chiesa Antonio Acquaviva, sotto del quale militavano Marino Marinelli e Otto Mazarino Bonterzi, ambedue di S. Vittoria. Il Papa scrisse a questo Comune di accogliere e assistere il fratello Giovannello che stava per arrivare con cinquecento cavalli7. Otto Mazarino Bonterzi riuscì a occupare Fermo e porre l’assedio al Girfalco, mentre per il valore soprattutto della cavalleria di Marino Marinelli, l’esercito dei collegati, guidati da Biordo dei Micheletti, venne disperso a Monte San Giusto e il Rettore liberato. Intanto i Ghibellini fermani si erano risollevati e agitavano la città. Marino Marinelli riuscì a entrare di soppiatto nel Girfalco; rioccupò la città e costrinse Antonio Aceti a cedere il posto al Rettore e a lasciare Fermo. Il Rettore Andrea Tomacelli entrò a Fermo per Porta San Giuliano, festeggiato dal popolo, nel 1397.

     Il Girifalco fu affidato alla custodia del nobile capitano Zambocco  di Napoli. Le conseguenze della guerra si sentirono a lungo per i saccheggi di venturieri, per l’aumentata miseria dei poveri, per le malattie che seguivano sempre le guerre.

     Nel 1398, il Conte di Carrara saccheggiò alcuni paesi dell’Alto Fermano, tra i quali il Monte Vidon Corrado, liberata poi da Marino Marinelli che lo mise in fuga8.

     Nell’estate del 1399, comparve qualche caso di peste. Alcuni pellegrini che tornavano da Terra Santa dissero che il più efficace rimedio contro la peste era la costruzione di una chiesa in onore della Madonna della Misericordia. L’ultimo venerdì di Ottobre 1399, (era il 31 Ottobre, “quarta hora noctis”) si cominciò a costruire la chiesetta della Misericordia; in capo alla piazza San Martino9, e il giorno dopo, sabato 1° Novembre (alle 23 del giorno), fu consacrata con grande solennità; vi fu celebrata pure una Messa Novella10.

     L’anno seguente, la peste infierì più violenta e causò in città la morte di duemila  persone e nel contado più di quattromila.

     In quell’anno cominciarono pure nella nostra regione le processione dei “Bianchi”. A centinaia uomini e donne vestiti di bianco per le gravano da una chiesa all’altra e da un paese all’altro, pregando e cantando l’inno di Jacopone da Todi: “Stabat Mater”11. Non mancavano scene di incredibile fanatismo, da parte di gruppi di penitenti guidati da esaltati e da imbroglioni.

     Molti di questi pellegrinaggi avevano per meta la Cattedrale di Fermo, poiché ricorrendo l’anno del Giubileo, il capitano del Girfalco Zambocco ottenne da Bonifacio IX una bolla, per la quale le indulgenze del Giubileo si potevano lucrare anche nella Chiesa Cattedrale12.

DAL 1400 AL 1417

   Per evitare grande confusione nella mente del lettore, è necessario semplificare la narrazione di questo periodo agitatissimo, attenendosi a fatti principali, necessari per capire la storia fermana.

  Dalla confusione in campo religioso cercavano di trarre vantaggio in campo politico quasi tutti i governanti italiani. Ladislao, Re di Napoli, sostenendo il legittimo Papa, allargava il suo dominio sulle terre della Chiesa; altrettanto tentava di fare la Repubblica di Firenze, che aveva guadagnato l’adesione di molti signori dell’Umbria e delle Marche; e appoggiava l’antipapa. Anche Carlo Malatesta di Rimini, che era forse il più sincero sostenitore del Papa legittimo, aveva i suoi motivi politici per farlo, poiché la potenza della scismatica Firenze era un grave pericolo per il suo piccolo Stato.

     Fermo sopportò tutte le conseguenze disastrose dello Scisma. Nel 1404, fu eletto Papa Innocenzo VII, di Sulmona, che nominò governatore di Fermo e Rettore della Marca il nipote Ludovico Migliorati. Morto il vescovo Antonio De Vetulis nel 1405, il Migliorati ottenne dal Papa che fosse trasferito alla Diocesi di Fermo il Vescovo di Ascoli a Leonardo De Fisicis, pure di Sulmona, che gli storici dicono ubriacone e vizioso13

     A questa sventura si aggiunse, nel 1406, la morte di Innocenzo VII e l’elezione di Gregorio XII, (1406-1416) veneziano, che forse con poca oculatezza politica, volle togliere al Migliorati e la rettoria della Marca e il governo di Fermo. Ludovico Migliorati non si piegò e, pur perdendo la rettoria della Marca, restò signore di Fermo, cercando di mantenere buone relazioni col Re di Napoli.   

   Sentendosi in pericolo perché in disgrazia del Papa, divenne sospettoso e a volte crudele. Nel 1407, in una riunione del consiglio comunale, volendo il Migliorati imporre la sua volontà, si alzò Antonio Aceti14 che lo apostrofò: “in buon hora, lassate fare a li Priori, e se non volete, rimandateli a casa”. Il Migliorati, conoscendo bene il personaggio e vedendo in lui un pericolo per la propria signoria, il giorno dopo, fece prendere e decapitare l’Aceti con alcuni familiari ed amici.

     Nel 1409, si adunò un Concilio a Pisa che, il 26 Giugno di quell’anno, dichiarò deposti i due Papi, Benedetto XIII e Gregorio XII, proclamando solo Papa legittimo Alessandro V, eletto dal Concilio. Il risultato fu che, invece di due Papi se ne ebbero tre, peggiorando la confusione. Ludovico Migliorati, credendolo ormai il partito più sicuro, seguì le parti di Alessandro V, poi del successore Giovanni XXIII, antipapi sostenuti dalla Lega fiorentina, i quali gli confermarono la signoria di Fermo e il rettorato della Marca. Anche la Diocesi Fermana fu per vari anni in sua balìa, poiché osteggiò accanitamente i vescovi nominati da Gregorio XII e costrinse i vari antivescovi che si susseguirono a sottostare al suo arbitrio.

     Ludovico Migliorati fu il più fortunato tra i tiranni di Fermo, poiché, dopo aver tenuto più a lungo di tutti la signoria della città (33 anni), riuscì a morire nel proprio letto; ma nessuno collazionò più umiliazioni di lui, poiché in campo militare fu un imbelle.

     Il 23 Ottobre 1413, Carlo Malatesta si mosse contro Fermo. Da Montolmo assalì Francavilla, espugnando la “con una bombarda grossa che scagliava pietre pesanti più di 100 libbre”15, e in tre giorni, occupò Alteta, Cerreto, Montegiorgio, Falerone, Monte Vidon Corrado, Montappone, Massa, Mogliano.

     Nella notte tra il 26 e 27 Novembre tentò a sorpresa alla occupazione della città. Secondato dal traditore Vanni Andreoli di Fermo, ruppe il muro sotto i Macelli, ma accorsi al rumore i cittadini preferì ritirarsi e seguitare l’occupazione del contado.

     Dal 10 al 26 Dicembre, occupò Monteverde, Rapagnano, Torre San Patrizio, Monte San Pietrangeli, Monturano.

     Il 31 Marzo 1415, seguitò la conquista lo Stato Fermano, occupando Monte Leone, Monsampietro Morico, Montottone, S. Elpidio M. M. Vidon Combatte e Ortezzano. Più sfortunata fu Torchiaro che, mentre trattava la pace, fu occupata a

tradimento da un certo Giorgio da Roma che la saccheggiò e la diede alle fiamme. Gli abitanti di Petritoli, spaventati, abbandonarono tutti il paese. Tra i fuggiaschi c’era anche, colla sua famiglia, Anton de Nicolò, allora Podestà di Petritoli, che ci racconta questi avvenimenti16. Ma nemmeno lui, tanto ossequioso verso il Migliorati e verso Giovanni XXIII, ci riporta alcuna azione bellica di quel signore per contrastare l’occupazione del suo dominio. Forse sapeva che i Fermani non erano con lui, e non si sentiva sicuro fuori del Girfalco.

     Chi invece si mosse contro il Malatesta Rodolfo Varano, che temeva per il suo Ducato di Camerino. Però fu battuto presso San Severino il 21 Maggio 1415, e il Malatesta occupò Montecchio (Treia), Morrovalle, Montecosaro, San Giusto, Montegranaro e Petriolo. Ormai al Migliorati restava solo Fermo e qualche altro castello verso il mare.

      Ma il 1415 fu anche l’anno decisivo per la fine dello scisma. L’imperatore, che allora era a Sigismondo di Lussemburgo, spinto da tanti dottori che gli attribuivano il diritto e il dovere di rimediare ai mali della Chiesa, si accordò con l’antipapa Giovanni XXIII che dei tre era il più seguito, e ottenne da lui la bolla di convocazione di un Concilio che si aprì a Costanza nel Novembre 1414. Giovanni XXIII fu presente fin dalle prime adunanze, ma vedendo di non poterle guidare a modo e a favore suo, nel marzo 1415, di nascosto fuggì. Il Concilio stava già per sciogliersi, quando con intelligenza e magnanimità, proprio nel momento più opportuno, intervenne Gregorio XII. I due antipapi avevano perso ogni credito presso il Concilio per la loro condotta faziosa ed egoistica. Il 4 Luglio 1415, Carlo Malatesta, plenipotenziario di Papa Gregorio si presentò a Costanza con una bolla del Papa che convocava il Concilio, rendendolo così legittimo, e offriva la propria abdicazione.

     Si perse ancora molto tempo nella discussione se si dovesse leggere prima un nuovo Papa, o forse fare prima alcune riforme e, finalmente l’11 Novembre 1417, giorno di S. Martino, fu eletto Papa Ottone Colonna, (non era ancora Diacono), che prese il nome di Martino V; così finì lo scisma d’Occidente che era arrivato 39 anni.

     Carlo Malatesta pagò cara la sua fedeltà Papa Gregorio XII e i suoi servizi alla Chiesa. Firenze e i suoi alleati si videro in pericolo, sia per l’ingloriosa fine del loro antipapa, sia per la potenza del Malatesta che minacciava di accrescersi per il nuovo corso che stavano prendendo gli avvenimenti. Il 13 luglio 1416, Firenze mandò contro il Malatesta, Braccio da Montone che, presso Assisi, lo sconfisse e lo fece prigioniero.

     I castelli fermani che odiavano il Malatesta, sia per spirito di indipendenza, sia perché avevano dovuto troppo soffrire per la rapacità e la crudeltà del suo esercito, approfittarono della sua disavventura, per ritornare tutti alla obbedienza di Fermo.

FERMO E MARTINO V

    Lo Scisma non era stato una eresia, poiché non erano state mai in gioco le verità della Fede, se non in qualche testa di dottore; la cristianità era solo disorientata, e anche Fermo lo era, circa la legittima gerarchia ecclesiastica. Ma non per questo furono minori le difficoltà incontrate da Papa Martino V, che seppe affrontarle con abilità singolare. Possiamo un po’ misurare il suo tatto politico nella sistemazione del Fermano. Qui trattò gli individui senza tener conto dei quale parte avessero seguito durante lo scisma; d’altra parte non sappiamo nemmeno quale parte avesse seguito lui.

    Mostrò benevolenza verso il Migliorati e lo riconfermò nel governo di Fermo. In fondo, questo astuto volpone non era peggiore, né più pericoloso di tanti altri; non valeva la pena di farselo nemico, esautorandolo.

     A Fermo, dal 1412 c’erano due vescovi: Giovanni III De Bertoldis romagnolo, eletto dal legittimo Papa Gregorio XII, e Giovanni IV De Firmonibus, fermano, che era stato trasferito dalla diocesi di Ascoli a Fermo dall’antipapa Giovanni XXIII, dietro preghiera di Ludovico Migliorati. Ambedue erano uomini di grandi qualità; ambedue avevano partecipato al Concilio di Costanza; ma Giovanni IV si era distinto nel sostenere l’antipapa. Bisognava toglierne uno; Martino V, il 15 Dicembre 1417, trasferì a Fano Giovanni III e confermò a Fermo Giovanni IV.

     Tra Ludovico Migliorati e Giovanni IV De Firmonibus seguitò la consueta concordia, ma per il signor Ludovico quello non fu un quinquennio felice. Nell’Ottobre 1416, gli morì la moglie Bellafiore e nel Maggio successivo sposò Taddea, figlia di Pandolfo Malatesta di Pesaro. Nel 1418, Braccio da Montone si mosse contro Fermo e, saccheggiata la Badia di Fiastra, occupò Petriolo, Mogliano, Massa, Loro e Falerone. Il Migliorati, scarso di forze armate, dovette ricomprare la tranquillità con lo sborso di forti somme. Nel 1420, corso in aiuto del suocero che combatteva a Brescia contro il Duca di Milano, cadde prigioniero del Duca: non era mai stato valoroso combattente.

   Erano molti a Fermo i nemici del Migliorati, i quali non andava a genio la troppa amicizia tra lui e il Vescovo. Nel Luglio 1419, un certo Cicconi di Carassai, cittadino fermano, appese fuori Porta San Giuliano  uno scritto, dove si diceva che il Vescovo stava preparando una congiura contro il Migliorati. Questi, fattolo ricercare lo consegnò al Vescovo, perché lo giudicasse. Ciccone confessò di aver agito per inimicare il Vescovo con Ludovico, e fu condannato al carcere perpetuo.

    Del Migliorati conosciamo quattro figli avuti dalla prima moglie, tra i quali Giacomo, avviato fin da bambino alla vita ecclesiastica. Morto il Vescovo Giovanni IV De Firmonibus, il 1 febbraio 1420, il Migliorati pregò Martino V che al figlio Giacomo fosse affidata l’amministrazione a vita della diocesi Fermana. Il Papa (non cerchiamo per quali motivi), il 20 Ottobre 1421, concesse quanto Ludovico chiedeva17. Martino V non intendeva però nominare Giacomo Migliorati Vescovo di Fermo; difatti due anni dopo elesse Cardinale e vescovo di Fermo Domenico Capranica, un nobile chierico romano, di virtù e capacità singolari, che allora aveva ventidue anni; ma non volle rendere ufficiale questa nomina, continuando a servirsi di lui in varie delicate missioni che il giovane Cardinale espletò con singolare perizia.

     Intanto nel 1426, la signora Taddea partorì un figlio e, l’8 Giugno dell’anno appresso morì di peste bubbonica (sotto il braccio sinistro; ci visse tre giorni).

     Il 28 Giugno 1428, morì il Ludovico Migliorati, ma la sua morte fu tenuta segreta fino al 12 Luglio, per dar tempo al figlio Firmano, che stava presso il Duca di Milano, di venire in segreto a Fermo, per prendere possesso del Girfalco. Chi dirigeva tutto era Gentile, fratello di Ludovico.

     I Fermani, quando conobbero la morte del tiranno, assediarono il Girifalco e chiesero al Papa il permesso di distruggerlo, perché era per essi causa continua di oppressione. Martino V pregò il Comune di pazientare qualche giorno, poi avrebbe provveduto lui. L’assedio del Girifalco durò vari mesi, durante i quali si permise solo alle due figlie del Migliorati di uscire per andare spose, una a Ravenna, l’altra in Atri, sposa di Gioisia  Acquaviva.

     Il 13 Ottobre 1428, due albanesi uscirono di nascosto da Girifalco e riferirono ai Priori che Marinuccio Mostacci, offidano agli stipendi del Comune, introduceva nel castello, per un passaggio segreto, armi e vettovaglie. Fu giudicato e fatto impiccare.

     Ma finalmente, per impedire l’inutile strage della famiglia Migliorati, intervenne Martino V, e a quella gente fu permesso di emigrare altrove. Tra essi c’era anche Giacomo amministratore della Diocesi che aveva sempre dimorato nel Girfalco col padre. Così la Diocesi Fermana fu libera per il legittimo titolare Domenico Capranica.

     Fu uno dei più illustri personaggi che portarono il titolo di Vescovo di Fermo; ma come altri suoi predecessori, resse la Diocesi da lontano, per mezzo dei suoi vicari; venne a Fermo solo nel 1446.

      Martino V lo aveva nominato Cardinale e Vescovo di Fermo, ma non aveva reso ufficiale la sua nomina; se la era riservata “in pectore”, come si dice oggi. Dopo la cacciata dei Migliorati, non potendo recarsi a Fermo a causa dei suoi impegni diplomatici, aveva preso possesso della Diocesi per mezzo di un suo vicario, Giacomo Ranieri di Norcia. Morto Martino V, nel Febbraio 1431, il Capranica andò a Roma, ma non fu ammesso al Conclave per l’elezione di Eugenio IV, perché tra i Cardinali era sorta disparità di pareri circa la legittimità della nomina a Cardinale; per alcuni essa era legittima; per altri invece non era valida, perché non era stata completata con l’imposizione del berretto cardinalizio. L’esclusione del Capranica da Conclave suscitò anche qualche polemica circa la validità della elezione di Eugenio IV

     Il Capranica seguitò la sua missione, come se nulla fosse stato, aspettando che le cose si appianassero da loro e la sua nomina a Cardinale fosse col tempo ratificata dal nuovo Papa. Ma ci furono degli invidiosi che cercarono la sua rovina. Male lingue fecero credere a Eugenio IV che il Capranica impugnava la validità dell’elezione del Papa e cospirava con i Colonna contro di lui.

     Nel novembre 1432, il Papa non solo non convalidò al Capranica il titolo di Cardinale, ma gli tolse ogni incarico onorifico e il vescovado di Fermo; ordinò la confisca dei suoi beni e mandò delle guardie per arrestarlo. Il Cardinale, dopo essersi nascosto per due mesi in un romitorio del monte Soratte, si rifugiò presso il Duca di Milano e, nel 1433, seguito dal suo segretario Enea Silvio Piccolomini, un futuro Papa, si recò al Concilio di Basilea, dove espose il suo caso, senza animosità e con tanta umiltà, che il Concilio lo scagionò di tutte le accuse. Dietro la decisione del Concilio, Eugenio IV lo confermò Cardinale e vescovo di Fermo, nel febbraio 1434.

     Di questo secondo periodo di episcopato dovremmo trattare in seguito; ora torniamo al 1430, un anno notevole nella storia fermana.

DOPO LUDOVICO MIGLIORATI

     Dopo trent’anni di governo dittatoriale e poco efficiente, il Consiglio Comunale, che aveva dovuto subire le prepotenze del Migliorati, si trovò di fronte al non facile compito di riorganizzare il libero governo nella Città e nello Stato, per cui era necessaria la forza, ma anche molta prudenza.

     Tra Fermo e Ripatransone non c’era stata mai vera concordia; c’erano stati spesso dissensi e scontri armati. Non era facile tra esse la convivenza, perché Ripatransone si sentiva coartata dalla potenza fermana che dominava su tutta la costa e sul castello di Acquaviva; Fermo vedeva malsicuro il possesso della zona, per la vicinanza di quella forte città alleata di Ascoli.

     In Valtesino, sui confini tra Ripa e Acquaviva, esisteva la chiesa di S. Angelo in Trifonso, che aveva fatto parte del monastero farfense di S. Angelo in Val Tesino. Presso quella chiesa, come avveniva intorno a ogni monastero, accorrevano commercianti da ogni parte, per la fiera dell’8 Maggio che durava parecchi giorni. Il luogo era causa di contese e di zuffe tra fermani e ripani che ne rivendicavano il possesso, non per la Chiesa in sé, ma per i traffici che vi si praticavano e che procuravano rilevanti entrate al Comune che vi riscuoteva i dazi e pedaggi. Ogni anno si ripetevano disordini e scaramucce tra soldati fermani e ripani che presidiavano la fiera.

     Sia il Tanursi, che il Garzoni18, fanno scoppiare una feroce battaglia tra fermani e ripani durante la fiera del 1429; secondo me, è preferibile seguire Anton De Nicolò, scrittore contemporaneo; anche il Garzoni è contemporaneo, ma stava a Bologna. Il De Nicolò non riporta nessuna battaglia, ma dice che il Consiglio Fermano mandò, l’8 Maggio 1430, il “miles Potestatis” a Sant’Angelo con uomini, per sorvegliare la fiera; con l’ordine che, se i ripani li avessero respinti, essi se ne sarebbero dovuti andare, dopo aver fatto stendere un verbale da un notaio. Difatti così avvenne; i soldati ripani respinsero i fermani, che si ritirarono. Ma dopo tre giorni, i Fermani occuparono indisturbati la fiera con quattromila soldati19.

     In quell’anno stanziò a Fermo una carovana di cinquanta zingari che il Nicolò dice: “mala gente, ladri, trafficanti di cavalli”. Anche oggi gli zingari sono quelli di una volta e anche oggi sono in certi luoghi trafficanti di equini. Ma bisogna capire l’espressione dello scrittore, perché il possesso e il traffico dei cavalli era allora sottoposto a rigorose limitazioni legali, dato il largo bisogno di quegli animali per la guerra20. Il traffico degli zingari consisteva come del resto anche oggi, nel comprare o raccogliere per pochi soldi cavalli malandati, che essi curavano pazientemente e, con appropriati esercizi, rimettevano in sesto e rivendevano con qualche profitto a chi ne avesse bisogno per lavoro di poco impegno.

    Nel 1430, i Fermani si accorsero che la loro città, ricca e potente, adorna di splendidi monumenti come Girifalco, la Cattedrale, S. Agostino, S. Francesco, S. Domenico e altri minori, non era bella né pulita; e non poteva esserlo, a causa delle vie fangose o polverose orlate in molte zone di violacciocche e di ciuffi di falasco. Nelle vie secondarie poi non era raro il caso di osservare, vicino all’uscio di casa, la fossa per gettare i rifiuti e la spazzatura. Nell’Ottobre 1430 fu incominciata la seccatura delle vie. Non so se ci fu in proposito una delibera del Consiglio Comunale, ma il fatto che il selciato veniva eseguito dai privati, ognuno avanti la propria casa fino a metà della via; che il selciato cominciò prima vicino a S. Agostino, poi vicino a S. Francesco, ci fa pensare che non fosse estraneo all’opera l’incitamento dei frati.

     Nel 1433, un frate Agostiniano, fra Simone da Camerino, predicando a Fermo, lanciò l’idea che sarebbe stato bene che i Giudei si riconoscessero in pubblico con un distintivo visibile. E poiché le trovate dei frati venivano spesso accolte dai Consigli Comunali, quello di Fermo stabilì che i numerosi Ebrei della città portassero sul vestito una specie di coccarda che li distinguesse.

     Degli Ebrei, della loro attività e perché riscuotesse tanta avversione popolare, parleremo a suo tempo. Ora, per la migliore comprensione del periodo che stiamo trattando, è necessario esporre con la maggiore brevità e chiarezza possibile che cosa era la Signoria e la sua portata politica.

NOTE

 1      Dalle lettere di Caterina: Giustizia senza misericordia piuttosto sarebbe ingiustizia che  

          giustizi …. Babbo mio dolce, fate le cose vostre con modo e con benevolenza e cuore tranquillo. 

          Mitigate un poco, per l’amore del Crocifisso, quelli momenti subitanee che la natura vi porge.

2       Dico “disastro”, non “pericolo”, perché sono credente. Per i credenti la Chiesa non corre mai

          pericolo.

3       COLUCCI – A.P. XXIX – n. CIX p. 203

4       L’assalto di Fermo contro Mondottone probabilmente fu una finzione. I Fermani si fecero  

          respingere al prmo assalto per dar tempo al loro Vescovo, che amavano, di fuggire.

5       “Antonius Episcopus Firmi cum in nostra civitate Firmana domun episcopalem in qua apte

          commorari posset non haberet, de bpnis sibi a Deo collatis … de novo acquisito, episcopale

          palatium pro sua et  successorum abitatione contrui fecit”. (dalla lettera del Papa Bonifacio –

          Catalani – De Eccl. p. 227).

6       Questa data, 4 Settembre, è in contraddizione con quella riportata da Anton de Nicolò dice

         Boffo morto a Monterubbiano, il 30 Luglio; ma mi sembra più sicura, perché desunta dalla

         iscrizione apposta al sepolcro di Beaufort, che si trovava nella distrutta chiesa di S.  Eusebio in

        Carassai.

7      COLUCCI – A. P. XXIX p. 219.

8       ANTON DE NICOLO’ – “Gli abitanti di questa terra mandarono con segretezza a domandare

         aiuto a Marino Marinelli da S. Vittoria, il quale avendo sotto di sé gran numero di soldati col

        suo valore accostandosi con detti soldati riacquistò col cacciare i nemici la Terra e la restituì ai

        Fermani.

9      ANTON DE NICOLO’ – “Locus dictae ecclesiae fuit in capite Plateas S. Martini”.

10   La chiesetta della misericordia fu fatta demolire da Oliverotto Eufreducci per far luogo al

        palazzo del governo, oggi palazzo Apostolico. Costruita, secondo la testimonianza di Anton de

        Nicolò, in 19 ore. Difatti la quarta hora noctis, quando fu cominciata la costruzione,

        corrispondeva alle 10 di sera. Poiché l’inizio del giorno allora si considerava alle sei di sera. Fu

        terminata alle ventitré del giorno successivo che corrisponde alle 5 pomeridiane. In alcuni

        paesi delle Marche e della regione ci sono ancora vecchi orologi da torre che hanno il quadrante

        di sei ore.

11   Il fenomeno dei “Bianchi” non era solo fermano, ma diffuso in tutta Italia, secondo la

         testimonianza del Muratori:

         Rer. It. Script. T. XVII pag. 1171.

         MANOSCRITTI ASCOLANI: “Nell’anno del signore 1400 sorse 1 grandissima manifestazione di

        devozione e pratiche religiose in Italia. Tutti, uomini e donne andavano pellegrinando vestiti di

        bianco, e perdonavano le offese ai propri nemici e si perdonavano a vicenda”.

        ANTON DE NICOLO’ – Cronache pag. 6  – “Nel 1399 nel mese di giugno incominciò 1 certa moda:

        cioè che tutti si vestissero di bianco …. E facevano adunate di popolo e andavano con croce

        visitando chiese, cantando e ripetendo “Misericordia e pace”.

        LUCA COSTANTINI – Aggiunte alle Cronache: “Nel 1399 si formarono delle confraternite di

        devoti che vestendo cappe bianche e cappucci andavano in processione da una città all’altra,

        cantando l’inno: “Stabat Mater dolorosa”.

12   ANTON DE NICOLO’ . Cronache – “Nobilis vir Zamboccus de Neapoli capitaneus in Girone, fecit

         venire bullas Domini Papae etc.”.

13   MURATORI – t III p. 2 col. 834 – “Iste, Camerarius (Leonardo) ita exosus Curiae factus est

        avaritia, ebrietate et alis vitiis notatus, ut famam Innocentii praeteriram detraxerit….”

14   Antonio Aceti, allontanato da Fermo dal Rettore Andrea Tomacelli che gli aveva concesso la

        signoria di Montegranaro, allora era tornato a far parte del Consiglio, essendo cittadino

        fermano.

15   ANTON DE NICOLO’ – Cronache

16   Una seconda volta Anton de Nicolò è podestà di Petritoli e deve fuggire, come vedremo,

        nell’Ottobre 1443.

17   “MCDXXI die lunae, Mensis Octobris fuerunt lectae bullae dei privilegia fili Domini nostri qui

         erat episcopus civitatis Firmi et dicta die cepit possessionem episcopatus”.

18   Le memorie storiche di Ripatransone, sia del Tanursi, sia del Garzoni sono riportate da Colucci-

        A. P. t XVIII.

19   Il Tanursi appoggiato dal Colucci dice falsa la versione del De Nicola, perché farebbe intervenire

        l’esercito fermano il 10 Maggio, a fiera finita. Ma essi dimenticano che la fiera durava non meno

        di una settimana.

20   COLUCCI – A. P. t. XXIX n. XXXI p. 56.

CAPITOLO IX

FRANCESCO SFORZA A FERMO

LA SIGNORIA

     In questo argomento non ho bisogno di dilungarmi troppo, perché dalle pagine precedenti il lettore ha capito che cosa era la signoria: dispotico governo di un signore. Ha capito che nelle Marche le signorie mettevano in crisi l’autorità dello Stato Pontificio, ed erano sommamente dannose all’economia e alla libertà dei Comuni.

     L’origine della Signoria poteva avere varie cause: o era imposta dall’ambizione di qualche nobile che non ci contentava di essere ricco, ma voleva anche dominare; o qualche ufficiale dello stato che aveva avuto il governo di una città se ne faceva padrone, come nel caso di Ludovico Migliorati a Fermo; o qualche venturiero, avendo a disposizione forze sufficienti, imponeva il suo dominio colla forza, come a Fermo Mercenario da Monteverde, Gentile da Mogliano e Francesco Sforza; e in Ascoli Conte di Carrara.

     Nelle pagine precedenti abbiamo scartato la possibilità che un podestà potesse imporre la sua signoria.

     Interessante notare che ordinariamente la Signoria non esclude il governo Comunale, ma lo controlla e lo pone al suo servizio. Il podestà seguita ad amministrare la giustizia e a vigilare sull’ordine pubblico; il Sindaco e Priori  seguitano nel loro ufficio; guidano la città, riscuotono le tasse e pagano i pesanti tributi al signore, il quale ha a sua disposizione l’esercito, quindi ha la forza sufficiente per imporre la sua volontà e imprimere alle cose la direzione da lui voluta. E abbiamo visto sopra come finì male Antonio Aceti che aveva osato reclamare avanti al Migliorati i diritti dei Priori.

     Con la signoria il Comune perdeva il suo significato e diventava servo del potente signore che lo dominava.

     LA SIGNORIA DI FRANCESCO SFORZA

      I Duchi di Milano non avevano mai nascosto le loro mire espansionistiche ed egemoniche sulla Penisola.Bernabò Visconti era sempre sobillato e incoraggiato i ghibellini romagnoli e marchigiani, cercando di accrescere la sua influenza in questa zona, per incunearsi tra Venezia e lo Stato Pontificio.

     Il figlio, Gian Galeazzo portò il Ducato alla massima sua potenza, dominando su tutta la Valle Padana e su gran parte del Veneto.

     Filippo Maria Visconti tentò il colpo grosso: estendere la sua egemonia su tutta l’Italia. Credette fosse giunto il momento buono poiché Venezia era preoccupata per il pericolo turco; lo Stato della Chiesa era travagliato dalle piccole signorie; Firenze in crisi; Genova tremante per la potenza francese da una parte, e dall’altra per Alfonso, re d’Aragona, che già aveva la supremazia sul Mediterraneo, possedendo la Sicilia e la Sardegna, e minacciando la conquista della Corsica e del Regno di Napoli.

     Nel 1433, spedì i due capitani Nicolò Fortebraccio e Francesco Sforza a occupare lo Stato della Chiesa. Il primo occupò in breve tutta la Toscana; Francesco Sforza si diverse occupare la Marca.

     Da Jesi lanciò un proclama, invitando i Comuni marchigiani a ribellarsi al Papa e accettare la propria signoria che sarebbe stata per loro vantaggiosa, perché avrebbero trovato in lui sicurezza, non oppressione; egli avrebbe accettato la loro sottomissione, solo dietro accordi e trattati. Occupata pacificamente Macerata, dovete usare la forza con Montolmo che gli aveva chiuso le porte in faccia e, il 12 Dicembre 1433, quel Comune fu occupato e saccheggiato ferocemente; il che convince molti altri Comuni a sottomettersi volontariamente.

     Fermo, militarmente impreparata, senza poter sperare aiuti da nessuno, perché lo Stato pontificio in sfascio e l’alleata Venezia tremante per la minaccia turca, il 13 Dicembre 1433, mandò ambasciatori a Montolmo, per trattare la sottomissione al Conte. Gli ambasciatori fermani proposero un accordo che includeva il rispetto delle libertà comunali e la salvaguardia dell’integrità territoriale dello Stato Fermano; il Conte accettò le proposte fermane e aggiunse le proprie. Il Consiglio Comunale si riunì il 18 Dicembre, ed esaminate le condizioni imposte dallo Sforza, gli mandò la risposta affermativa. Il Conte mandò subito a Fermo il fratello Alessandro per prenderne possesso e fare i preparativi per il suo prossimo ingresso in quello che aveva già designata capitale del suo dominio.

     Il 3 gennaio 1434, una interminabile processione accolse il Conte Sforza a Porta S. Giuliano, cantando le Litanie dei Santi (cum Litaniis), perché era necessario che anche essi prendessero parte a quella pagliacciata. La presa di possesso del Girfalco fu riservata per il giorno dopo, 4 gennaio 1434.  

     La sottomissione di Fermo, città più prestigiosa delle Marche e sicuramente una delle più forti, produsse uno sbigottimento generale: Montecchio (Treia), Monte Milone (Pollenza) e S. Ginesio tentano di ribellarsi ai signori di Camerino; il Vescovo di Macerata e Recanati, Vitelleschi, allora Rettore della Marca, si imbarca per la Dalmazia; Camerino, tentando di evitare attacchi, si affretta a restituire  S. Angelo e Gualdo allo Stato Fermano, il 6 gennaio 1434. La maggior parte dei Comuni Fermani e Ascolani si sottomisero volontariamente, per evitare mali maggiori. Anche l’irriducibile Ripatransone aprì spontaneamente le porte al signore di Fermo, dopo una tempestosa seduta del Parlamento Generale.

     Nello stesso 1434, Alessandro Sforza occupò Amandola, ma dovette abbandonarla subito, per non cadere prigioniero di Nicolò Maurizi di Tolentino che corse a riconquistarla.

     Nel Marzo di quello stesso anno, Eugenio IV, per distaccarlo dal Duca di Milano, nominò lo Sforza Vicario nella Marca e Gonfaloniere di Santa Chiesa. La mossa politica del Papa riuscì, ma lo Sforza incominciò a lavorare per crearsi un principato proprio, indipendentemente dal Duca e dal Papa.

     Il Visconti, mentre aveva mandato i suoi capitani a occupare la Toscana e le Marche, si era alleato con Genova, alla quale aveva offerto soldati e armi contro Alfonso di Aragona. In una battaglia navale presso Gaeta, i Genovesi ebbero il sopravvento, facendo perfino prigioniero l’Aragonese, nell’agosto 1435.

     Eugenio IV, dopo la sconfitta di Re Alfonso, nel timore che il Duca di Milano potesse impadronirsi del Regno di Napoli, concluse contro di lui una lega con Firenze e Venezia e convince il Conte ad aderirvi.

     Il 23 agosto 1435, il banditore del Comune (trombecta) ordinò ai cittadini fermani che si facessero “focaracci” (falones), per festeggiare l’accordo raggiunto.

     Quei focaracci avevano lo scopo di consolidare la fiducia dei Fermani verso il Conte; far loro sentire che non erano più soli a seguirlo, ma erano alleate con lui altre potenze. Ma chi può dire che c’era nell’animo dei Fermani?

     Certamente non tutti la pensavano allo stesso modo. C’erano gli irriducibili papalini: preti, frati, monache, terz’ordini religiosi e fedeli, che in segreto piangevano sulla Patria strappata alla Chiesa da mani infedeli; essi erano i più, ma contavano di meno.

     C’era la classe dei nobili e dei ricchi, i quali, prepotenti contro il governo papale dal quale non avevano nulla da temere, ora tremavano, perché avevano tutto da perdere con la tirannide.

     E c’era un gran numero di esaltati, prepotenti e faziosi, i quali idolatravano il Conte, attribuendo a onore della Patria la potenza e i successi di lui.

     Un po’ diverso l’atteggiamento del Consiglio Comunale e di quelli che avevano responsabilità nel governo dello Stato. Avere un Signore in città, e per giunta invincibile capitano, anche se costava caro, non era poi gran male, perché il Comune, in caso di bisogno, non avrebbe dovuto arrabattarsi a ingaggiare compagnie di ventura, sempre dannose e malfide; alla sicurezza dello Stato avrebbe pensato il Conte, il quale ostentava rispetto per la libertà del Consiglio e lasciava ad esso la direzione civile delle cose. Ma il loro ottimismo finì quando videro che le guerre non finivano mai, le spese crescevano ogni giorno, e lamentele continue arrivavano dai Comuni dello Stato per le prepotenti requisizioni di derrate.

     Era frequente la richiesta di un soldato per famiglia a servizio dello Stato. Il Conte li trattava bene, ma erano braccia tolte al lavoro e al commercio, e le famiglie non sempre sopportavano questo reclutamento dei figli e spesso il lutto per la loro perdita.

     A rendere meno popolare lo Sforza, si aggiunse, nel Settembre 1435, l’aumento delle tasse. Il Conte ordinò al Comune di elevare il focatico: per i focolari maggiori 40 soldi; per i mediocri 30 soldi; per i piccoli 20 soldi. I Fermati specialmente quelli del contado, reclamarono e chiesero al conte una riduzione, ma ogni protesta fu vana.

     Un modo per fare quattrini usato dai venturieri (e lo Sforza era uno di essi) era avvicinarsi a qualche Comune e imporgli una taglia, che esso si affrettava a pagare, per ottenere che militari si allontanassero. Il 18 Gennaio 1436, il Conte Francesco ordinò che uno per famiglia, sia della città che del contado, si presentasse lui armato e provvisto di vettovaglie per quindici giorni. Radunò così un forte contingente di armati (il De Nicolò dice che solo da Petritoli ne accorsero cento), e si diresse verso Camerino. Lasciò una parte dell’esercito a occupare S. Ginesio e percorse con l’altra molti Comuni camerinesi, fino a Serravalle. Camerino non fu toccata, ma dovette pagare molti ducati. La spedizione durò dieci giorni ed era servita anche per tenere allenato l’esercito. Capiva che gli era necessario un esercito forte e sempre pronto, perché non era tanto difficile conquistare i Comuni marchigiani, quanto tenerli in soggezione; e sapeva che la sua signoria era mal tollerata dal Papa e dal Duca di Milano.

     Nel Settembre 1436, un certo Guerriero, fuoruscito di Ascoli, entrò in quella città, per sollevarla. Alessandro Sorza radunò a Carassai 3000 armati, per correre in Ascoli, ma giunse notizia che i rivoluzionari erano stati espulsi. Alessandro lasciò Carassai e condusse l’esercito fermano ad assalire Acquaviva, posseduta da Gioisia di Atri; però la rocca era ben difesa e i Fermani dovettero ritirarsi, rimandando l’impresa contro gli Acquaviva a tempo più propizio. Dopo quasi due anni, nel Luglio 1438, lo Sforza assalì il Duca di Atri e gli tolse non solo Acquaviva  che restituì ai Fermani, ma anche altre terre e perfino Teramo.

     Poiché ognuno dei grandi contendenti (Roma e Milano) aveva le sue gravissime preoccupazioni, a nessuno conveniva la lotta armata, e tantomeno conveniva allo Sforza, qualunque ne fosse stato l’esito. Nel 1438, per iniziativa del Duca Filippo Maria Visconti, lo Sforza fu eletto arbitro per concludere una pace. Il Conte convocò a Cremona, della quale era signore, i rappresentanti del Papa, di Firenze, di Venezia e di Milano e riuscì a far firmare la pace. In ricompensa chiese ed ottenne la mano di Bianca, figlia unica del Duca di Milano, allora sedicenne. Le nozze, per vari motivi, si celebrarono solo dopo tre anni: il 26 Ottobre 1441, nella città di Cremona, con la partecipazione di molti nobili Fermani ed Ascolani.

OPERE PUBBLICHE

LA GRANDE CARESTIA DEL 1440

     Lo Sforza approfittò di questa tregua, per migliorare la sua Capitale. Nel Maggio 1438, Alessandro ordinò al Comune che si demolisse la chiesa di S. Maria dell’Umiltà, e si togliessero le cassette di legno e le bancarelle dei commercianti, perché la Piazza S. Martino doveva essere ingrandita e abbellita. Il lavoro fu terminato la piazza completamente spianata l’11 Giugno 1442, quando per preparare la venuta della signora Bianca, fu restaurato anche il Castello del Girfalco1.

      Il Conte sapeva bene che non doveva fidare nella pace, perché aveva conquistato le Marche, ma non nel cuore dei Marchigiani. Ribellioni si manifestavano qua e là: Tolentino si ribellò nel 1438, ma si risottomise dopo pochi mesi; e in tutto il Camerinese l’ostilità verso di lui appariva sempre più spesso.

     Oltre che ad abbellire la sua Capitale, pensò anche a fortificarla meglio. Nel Maggio 1440, ordinò al Comune di reclutare un gran numero di operai che lavorarono fino a tutto Agosto, per costruire torrioni e migliorare le mura di cinta, da porta S. Giuliano al Convento di S. Agostino. Di questo grandioso lavoro resta solo qualche rudere.

     Al Comune non fu difficile trovare operai e farli lavorare fino ad Agosto, perché quell’anno i contadini non dovettero sudar troppo per la mietitura e la trebbiatura. Nel mese di Giugno una terribile tempesta, con le spaventose grandinate colpì tutto il Fermano, desolando le campagne. Tra i paesi più colpiti furono Montefortino, Petritoli e Carassai, secondo quanto scrive il De Nicolò, al quale questi paesi interessavano maggiormente. Grano, orzo, oliva furono completamente distrutti. Ogni grano di grandine (granelli) pesava più d’una libbra e sprofondava nel terreno più d’un palmo.

“Mihi Antonio” dice de Nicolò che era originario di Carassai dove aveva delle terre, provocò un danno, di parte sua, di 50 ducati.

     Nel Luglio di quell’anno cominciò la carestia: “La raccolta non ridava la semina”, di olive  “erant ruscatae” e cadevano “fracidatae et verminatae”.

     In Ottobre il Comune dovette preoccuparsi di scongiurare la fame per la città e per il contado. Furono scelti tre cittadini capaci: Cola Pasquali, Antonio Giorgi e Giovanni Vanni, per provvedere a un ammasso di grano che si radunò nella chiesa di S. Martino. Si diede loro l’autorizzazione di imporre taglie e prestazioni di grano ai cittadini e contadini abbienti e di importare frumenti dall’Albania, dalla Schiavonia e dalla Puglia. Una salma di grano venne a costare lire dieci  e quattro soldi; ma se non ci fosse preso questo provvedimento, sarebbe costata più di sei ducati1.

     Nella Quaresima del 1442, i lavori nella Piazza o erano terminati o volgevano alla fine, perché le circa quattromila persone che si radunavano nella piazza per ascoltare le prediche di Fra Giacomo da Monteprandone (S. Giacomo della Marca) non recavano inciampo.

     Il 1442 segna il principio della fine della dominazione sforzesca nelle Marche. Ci saranno ancora tre anni di guerra continua, durante i quali Francesco Sforza, validamente appoggiato dal fratello Alessandro, vince tutte le principali battaglie, ma non riesce a spegnere la rivolta dei Comuni marchigiani che lo costringono a correre ai ripari da un capo all’altro della regione.

     Nonostante che fosse il suo genero, il Duca di Milano voleva la rovina dello Sforza, sia perché col suo tradimento aveva fatto fallire i suoi piani, sia perché il Conte era troppo legato a Venezia, la quale, perdendo terreno in mare contro i Turchi, mirava sempre più a una espansione sul continente. Il 9 Giugno 1443, il Duca di Milano fornì a Nicolò Piccinino un formidabile esercito di ottomila cavalieri e quattromila fanti, per scardinare la potenza sforzesca. Il Piccinino occupate alcune località umbre, passò nel Camerinese, sempre ostile verso il Conte; occupò Camerino, Belforte, S. Ginesio; ma a Sarnano fu sconfitto e fatto prigioniero dallo Sforza, che lo lasciò libero, a patto che non osasse più combattere contro di lui. Il 22 Giugno 1442, la signora Bianca, da Jesi dove aveva soggiornato per un anno, si trasferì a Girfalco abbellito per essa, festeggiata dal popolo fermano.

     Ma anche a Fermo, dove gli Sforza si sentivano più sicuri, covava l’odio è la rivolta contro di essi. Il 13 Agosto furono presi e impiccati alcuni congiurati, che erano venuti da Accumuli, per organizzare una rivolta contro lo Sforza; con essi furono impiccati anche un frate Domenicano e una monaca che consigliavano la ribellione al Conte.

SOLLEVAZIONE A RIPATRANSONE

     Santoro Puci, un condottiero riparano noto per imprese gloriose e capo del partito che si era opposto alla direzione della città allo Sforza, attendeva l’occasione propizia per liberare la patria dai Fermani; essa si presentò nell’Agosto 14422, incontrato un graduato del presidio sforzesco che l’offese, tratta la spada l’uccise e chiamò i cittadini alle armi. In poche ore i Ripani cacciarono dalla città i soldati dello Sforza e i capi del partito che lo sosteneva. Giunta notizia a Fermo, il Conte diede ordine che si radunassero a S. Maria della Fede tutti i combattenti fermani disponibili. Si formò così un esercito di tremila fanti e ottomila cavalieri, che marciò immediatamente ad assediare Ripatransone3. Una parte dell’esercito si accampò sul colle destinato alle esecuzioni capitali (colle dei Cappuccini), l’altra parte presso la chiesa di S. Maria Maddalena. Riuscendo inutile ogni tentativo di conquistare la città, sia per la posizione di essa, sia per il valore dei suoi abitanti, lo Sforza ricorse al tradimento. Invitò il Comune a mandare un gruppo di cittadini di alto rango per trattare accordi. Arrivati questi nel campo, furono rinchiusi nella sacrestia di S. Maria Maddalena; poi fu avvisato del Comune di Ripa che il Conte avrebbe ridato gli ostaggi, tolto l’assedio e concesso generale perdono, solo se fosse accolto amichevolmente entro la città.

     Il lavorio degli amici del Conte, che a Ripa non mancavano e i lamenti delle famiglie degli ostaggi, che temevano dei loro cari in mano allo Sforza, convinsero  le autorità comunali a cedere. Furono imbandite mense per i soldati lungo le vie e furono aperte le porte della città.

     I soldati dello Sforza, o che avessero il consenso dei loro capitani, o che questi non avessero la possibilità di impedirlo, consumate le vivande, si diedero al saccheggio, commettendo atrocità e appiccando incendi.

     Prima di aprire le porte al nemico, le autorità ripane avevano ordinato che le donne restassero chiuse nelle chiese, le quali, come si sa, avevano diritto d’asilo, quindi vietate a gente armata; diritto quasi sempre rispettato dalle milizie cristiane. Ma si capisce che ogni regola può avere le sue eccezioni; e sembra che i panni ebbe, e dolorose4. Ma gli scrittori sono concordi nell’attribuire i delitti contro il sesso debole a venturieri spagnoli; e il De Nicolò si affretta a dirci che i soldati fermani si diedero da fare, per difendere le donne ripane dalla licenza della soldataglia.

     Tra le cose asportate dai Fermani sono contare, secondo il De Nicolò, la campana del palazzo comunale di Ripa; il quadro “Parto della B. Vergine” e una campana mediocre, tolte dalla chiesa di S. Agostino di Ripatransone, e sistemate nella chiesa omonima di Fermo; similmente molti arredi sacri della chiesa di S. Francesco è una piccola campana di S. Lucia vennero dal saccheggio di Ripa.

      Erano passati una quindicina di giorni, durante i quali il Conte aveva ritirato da Ripa l’esercito, lasciandovi un presidio di quattromila armati fermani; Santoro Puci, l’eroico condottiero riparano che nel frattempo era corso a chiedere aiuto al Piccinino, ritornò con una buona schiera di armati, entrò di notte in città, e in poche ore, il 4 Ottobre 1442, cacciò il presidio fermano, e cominciò la ricostruzione.

      Santoro poté lavorare alla ricostruzione della città per più di un anno con una certa sicurezza, perché per lo Sforza la posizione si aggravava. Nicolò Piccinino, con un esercito di 30.000 uomini reso possibile dall’accordo tra Eugenio IV e Alfonso d’Aragona Re di Napoli, riuscì a far ribellare al Conte gran parte dei Comuni Marchigiani; restavano a lui alcune fortezze come Ascoli, Civitella, Fermo, Recanati.

     I comuni marchigiani non furono mai facili per nessun tiranno, e non lo furono nemmeno per Francesco sforza. Dopo 10 anni di continue lotte, nell’agosto 1443, si trovava a ricominciare daccapo: lui, in attesa di aiuti, assediato a Fano dal re Alfonso; il fratello Alessandro, fortificato Fermo, passava le notti insonni sotto la tenda in piazza San Martino, per essere pronto, all’occorrenza, a mettersi a capo dei suoi soldati che affollavano la città, della quale poteva fidarsi poco. La fine degli Sforza sembrava imminente, e lo sarebbe stato, se le forze avversarie fossero state unite concordi, ma non lo erano.

   Il 17 settembre 1443, Re Alfonso, col pretesto di condurre il suo esercito a svernare in Abruzzo, tolse l’assedio a Fano. Francesco Sforza, arrivati aiuti da Firenze da Venezia, affrontò il Piccinino, il cui esercito era stato lasciato solo, e lo sconfisse a Monteluro (Pesaro), il 12 novembre 1443. 

     È chiaro che il Re Alfonso, ottenuto dal Papa il riconoscimento di Re di Napoli, non aveva voglia di combattere e procurarsi gravi perdite, per amore di Eugenio IV. Non sappiamo se ci furono accordi segreti tra il Re e lo Sforza, o se ci furono pressioni da parte di altri potenti; il Re che conduce a svernare l’esercito tre mesi prima dell’inverno, nel momento cruciale della guerra, ha tutta l’aria di un traditore; e mentre i suoi diecimila soldati avrebbero potuto avere un peso decisivo nella guerra, furono solo una comparsa.

SACCHEGGIO DI TORCHIARO E MOREGNANO

     La marcia per il rientro di queste truppe durò più di un mese, e anche Alfonso non volle o non osò5 toccare Fermo, le zone attraversate riportarono danni immani. Anton De Nicolò ci ha lasciato memoria del saccheggio di Torchiaro che aveva subito la stessa sventura una ventina d’anni prima, ma tanti altri luoghi marchigiani avranno subito la stessa sorte. Un gruppo di razziatori napoletani avevano portato via una quantità di di bestiame dal territorio di Petritoli. Un centinaio di armati Petritolesi li raggiungerò a Torchiaro, ne uccisero una ventina e ripresero il bestiame. Poi si vollero fermare un po’, per rinfrescarsi in una bettola. Sopraggiunsero circa trecento saccheggiatori spagnoli che fecero prigionieri una ottantina di petritolesi  e li tennero alcuni giorni, aspettando il riscatto. Nel frattempo saccheggiarono e devastarono Torchiaro e Moregnano. I cittadini di Petritoli, temendo che il loro castello potesse essere assalito, mentre gran parte dei suoi difensori erano prigionieri, fuggirono tutti nei paesi vicini e tornarono dopo passato il pericolo. Tra essi era Anton De Nicolò, allora Podestà di Petritoli, che ci racconta questi episodi. E il lettore concluderà con un sospiro: Che secolo beato il 400!

     La battaglia di Monteluro non fu risolutiva né per una parte, né per l’altra. A Fermo furono ordinati “focaracci” (falones) per celebrare la vittoria del Conte; vittoria che lo riportò nella sua capitale, per ricominciare la riconquista della Marca, seguito passo passo dall’esercito sconfitto del Piccinino, che stabilì il suo quartier generale a Montegranaro.

     La presenza del Piccinino incoraggiava la resistenza dei grossi Comuni, come S. Elpidio che gli permise, il 15 Dicembre la distruzione di Monturano; Monte S. Pietrangeli che, il 17 Dicembre, resistette vittoriosamente allo Sforza; Montegiorgio che il 3 Dicembre devastò il castello di Monte Verde. Ma il Conte era ancora invincibile. Mandò un esercito di diecimila uomini che, dopo aver dato guasto alle campagne, occupò Montegiorgio, il 13 Dicembre 1443 e, nello stesso giorno, Santa Vittoria, capitale del Presidato Farfense6.

 LA BATTAGLIA DI SANTA PRISCA

     Il 15 gennaio 1444, Bianca, moglie del Conte, partorì un figlio che fu battezzato con grande solennità e festa popolare, il 17 Marzo, col nome di Galeazzo Maria Sforza7.  Il lieto evento non interruppe l’attività militare dello Sforza.Con l’occupazione di S. Vittoria, solo Ripatransone restava libera a sud del Tenna dalla dominazione del Conte, e quella città era un potenziale pericolo per il futuro.

     Nel gennaio 1444, un forte esercito fermano si portò nel territorio di Ripatransone; diede il guasto alle campagne e si accampò sul Colle, oggi detto dei Cappuccini. Il condottiero riparano Santoro Puci non aspettò l’assalto dei nemici, confidando nel valore dei suoi soldati inferiori di numero al nemico. Animate le sue schiere con un forte discorso, le divise in due parti. Affidò il drappello più forte al genero Domenico Necchi col compito di portarsi, a tempo debito, sul Colle di Capo di Termine e attaccare di fronte il nemico; egli con l’altra schiera uscì dalla Porta di Cupra (Cupetta) e si nascose nella selva, in attesa di assalire il nemico alle spalle, nel corso della battaglia.

     Ma il suo piano ebbe diversa attuazione, poiché la schiera guidata dal genero sgominò il nemico prima del previsto. I Fermane, assaliti alla sprovvista, furono presi dal panico e si gettarono in fuga verso il mare, per la stretta valle della Cupetta; dove furono assaliti e sterminati dalla schiera di Santoro, uscita dagli agguati. Era il giorno di Santa Prisca, 18 Gennaio 14448.

     In questo fatto di guerra, militava nell’esercito fermano un giovane che, trovate due giovanette di Ripatransone nascoste e sole in una casa di campagna, le portò in salvo, difendendola dai fastidi dei militari e riconsegnandole alla loro famiglia. Fatto prigioniero e condannato a morte, fu difeso dalla famiglia delle due ragazze. Stanco della guerra, fuggì a Camerino, dove ascoltate le prediche di San Giacomo della Marca, si fece Religioso Francescano. Morì nel 1495 a Morrovalle. È il Beato Giorgio Albanese9.

FINE DELLA DOMINAZIONE SFORZESCA

     Lo Sforza sembrava ancora invincibile destinato a riconquistare la Marca. Il 18 Agosto 1444, un esercito guidato da Francesco Piccinino, figlio di Nicolò, assistito dal Card. Capranica Vescovo di Fermo, allora Legato del Papa nella Marche, fu sconfitto dal Conte presso Montolmo; il Piccinino fu fatto prigioniero; il Cardinale si salvò a stento, e il Papa fu costretto a un accordo. Ma il dominio di Francesco Sforza s’avviava al tramonto, perché erano troppe le difficoltà che si opponevano alla formazione di un principato di Fermo.

Prima difficoltà, l’odio di tutti i Comuni marchigiani contro gli Sforza, per le continue guerre e rapine; allo Sforza mancava assolutamente la solidarietà del popolo che non aveva saputo conquistarsi. C’era poi l’avversione di tutte le altre potenze italiane a un Principato di Fermo che avrebbe rotto l’equilibrio politico esistente nella Penisola. Fermo era stata sempre molto legata a Venezia, e lo Sforza si mostrava fedelissimo all’alleanza con quella Repubblica. Ciò avrebbe favorito la minaccia di espansione in terraferma da parte di Venezia che stava perdendo terreno nel Medio Oriente contro i Turchi.

     Il timore della potenza veneziana indusse i  tre grandi: Milano, Roma, Napoli a un accordo finalmente serio, per abbattere lo Sforza. Mentre il Conte era impegnato a nord  contro l’esercito del Piccinino a servizio del Duca, Sigismondo Malatesta di Rimini, preso a servizio da Eugenio IV, a capo di un esercito napoletano di 2000 cavalli e mille fanti, occupò in breve Ascoli, Offida, S. Vittoria e tutto il Presidato. Uno dietro l’altro i Comuni marchigiani si ribellavano e, il 24 Novembre 1445, fu la volta di Fermo. La città si sollevò al grido di: “Viva la Chiesa et la libertà”, e assediò Alessandro Sforza col suo presidio nel Girfalco. I soldati dello Sforza che fuggivano dai Comuni ribelli fuggivano verso Fermo, ma prima che potessero raggiungere la città, venivano disarmati dai Fermani e spogliati di tutto. L’assedio del Girifalco durò più di due mesi.

     Nel frattempo il Card. Domenico Capranica, Vicario del Papa nelle Marche e Vescovo di Fermo, che non era mai potuto venire nella sua Diocesi, il 5 Gennaio 1446, entrò in città, ma per prudenza, si fermò nel convento di S. Francesco, perché era pericoloso per lui abitare nel palazzo vescovile, troppo vicino al Girfalco assediato10. Era venuto per assistere e sostenere il suo popolo in rivolta, ma anche per impedire inutili stragi che si potevano prevedere in quella situazione. Ma stragi non ci furono, e non sappiamo quanta parte ebbe il Cardinale nello sbaglio che i  Fermani fecero, accettando la resa del Girifalco in quella forma.

     Gli assediati erano in condizioni disperate, per mancanza di approvvigionamenti. Il 6 Febbraio, Alessandro Sforza chiese all’autorità fermane di trattare la resa; e la fretta di liberarsi da quel malanno giocò ai Fermani un brutto scherzo. Mentre aspettando pochi giorni, avrebbero costretto lo Sforza a una resa incondizionata e ricavare grandi somme dal riscatto dei prigionieri (e non avrebbero rubato niente a nessuno, ma solo ripreso il proprio da quei briganti), accettarono le proposte di Alessandro. I Fermani si obbligarono a pagare 10.000 fiorini d’oro; e Alessandro Sforza col suo presidio, il 20 Febbraio 1446, sgombrò il Girfalco, armi e bagagli, e si avviò a raggiungere il Conte suo fratello a Pesaro.

     Così Francesco Sforza, dopo dodici anni di tirannide, cessò di firmare le sue carte: “Ex Girifalco nostro Firmiano, invito Petro et Paulo”.

     Il giorno stesso, il 20 febbraio 1446, si adunò il Consiglio Comunale, il quale decise di demolire il Girfalco che si trasformava sempre in sede di tiranni, e adoprare quel materiale edilizio per restaurare le mura della città, che servivano alla difesa di tutto il popolo. Per assistere a queste opere furono scelti sei uomini capaci, uno per contrada.

     Fu pure deciso di presentare in perpetuo dalle tasse Cecco Bianchi e la sua discendenza, per l’eroismo dimostrato nell’assedio del Girifalco.

     Domenico Capranica fu forse il più illustre dei Vescovi di Fermo. un uomo di cultura non comune11, di singolare spiritualità12, abilissimo diplomatico che riusciva a sistemare le questioni più scabrose con l’irresistibile fascino che spirava dalla sua persona. Amò Fermo, curò e migliorò l’Università e fondò a Roma il Collegio Capranica, dove agli studenti fermani erano riservate facilitazioni particolari: privilegio che anche oggi si conserva a favore degli studenti ecclesiastici di Fermo13.

  I Cardinali, alla morte di Callisto III, si erano accordati per eleggere Domenico Capranica, ma egli morì il 28 agosto 1458, e in suo luogo fu eletto Pio II (1458-1464, Enea Silvio Piccolomini, che era stato suo segretario, come ricorderete.

RESTAURAZIONE

     Fermo, dopo tanti anni di depauperamento, di distruzione e di sangue, aveva bisogno di tranquillità, per riorganizzare lo Stato. Nel Consiglio Generale del 28 Maggio 1446, si stabilì di invitare gli Ascolani a una pace perpetua, e si incaricò Fra Giacomo di Monteprandone (S. Giacomo della Marca) di preparare l’incontro tra le due città. Il 3 Giugno successivo Trecento Ascolani affollarono Piazza S. Martino e fraternizzarono con i Fermani per tre giorni.

     Ora che il Girifalco non era più zona riservata ai militari e l’accesso alla Cattedrale controllato da loro, il Vescovo Domenico Capranica pensò di facilitare la salita dalla piazza la Chiesa, sostituendo i sentieri che si arrampicavano su per il colle con scalette di pietra da costruire a proprie spese. Il De Nicolò dice che in Luglio fu cominciata la scala in pietra per unire la Piazza S. Martino con la Chiesa di Santa Maria. Da ciò gli storici fermani, incominciando dal Catalani si meravigliano di non trovare più traccia di questa scala. Forse essi pensavano una scala marmorea che, retto tramite, dalla piazza salisse al Girfalco. Io mi permetto di pensare che non è possibile che sia esistito un ingegnere capace di progettare una scalinata di qualche centinaio di metri, su per un’erta con la pendenza di più dell’80%. Secondo il mio modesto parere, la scala in questione è una delle vie selciate che anche oggi della piazza vanno al Girfalco. Anche un simile lavoro, pur di portata più modesta, meritava la citazione di Anton De Nicolò delle sue “Cronache della città di Fermo”.

NOTE

 1       ANTON DE NICOLO’ – Cronache.

 2       gli storici che trattano questo episodio non concordano nelle date; tutti concordano nell’anno

          1442.

           a)CRONACA RIMINESE: “ Al 29 Agosto 1442, fu fatta la tregua per otto mesi tra il Conte

           Francesco e Nicolò Piccinino, capitano di Santa Chiesa. Al 23 Settembre il Conte Francesco

           mise Ripatransone a saccomanno con unagrandissima crudeltà, e per questa ragione fu rotta

           la tregua”.

           b) GINO CAPPONI: “Ad annum 1442 die 21 Settem. Contes Franciscus de Cutignola oppi dum

           Ripae Transonis in Piceno sibi amicum predat et incendit”.

           c) FRANC: M: TANURSI – in Colucci A.P. t. XVIII p. 54 – l’assedio di Ripatransone il 18 Agosto

           1442 e durò un mese.

           d) ANTON DE NICOLO’ – pone al 20 Settembre la ribellione di Ripa e al 23 Settembre il

           saccheggio.

3        Questo numero di combattenti che può sembrare esagerato è riportato a quasi tutti gli storici

           che trattano questo episodio. Il principale di essi:

           ANTON DE NICOLO’ – Cronache della città di Fermo

           FRANCESCO ADAMI – De rebus in civitate Firmana gestis l. II p.98

           FRANCESCO M: TANURSI – Ivi

           LUDOVICO MURATORI – Rerum Iyal. Script. t. XVIII p. 200

4        TANURSI – in Colucci – A.P. t. XVIII         

5        (Fermo) una grande e ricca città era questa e la più forte di tutte le altre picene. Sorgeva su

           una rupe di tanta altezza da dove, come da eccelsa specola si mirava tutto in Piceno. Nella

           sommità di questa rupe si estendeva un sufficiente ripiano che cinto da muraglia rafforzata da

           parecchie torri, formava una rocca inespugnabile ecc. – Fazio – De rebus gest. Ab Alphonso I        

           Neap. Rege. l. XXXVIII p. 23.

6        DE NICOLO’ “….. in quo fuit maximum guastum olivarum et aliarum arborum fruttiferarum”.

           Vi fu un gran guasto di ulivi e di alberi fruttiferi.

7         ANTON DE NICOLO’ – Cronache – p. 163 – “Nicola Sabbioni, figlio di Angelo, il quale nei giochi

           equestri, che Francesco forza fece preparare quando la signora Bianca sua moglie partorire il 

           figlio sul Castello del Girone, giostrò  tanto strenuamente, che meritò gli fosse concessa

           perpetua facoltà di portare sopra l’armatura un leone portante l’anello della giostra. Lo     

           trasmise ai posteri con motto scritto in zona bianca”.

8        QUATTRINI – in Colucci  A.P. t. XVIIII p. 182 . Il Quattrini dice che i Fermani furono ingannati   

          da uno stratagemma di Santoro. Essi dal loro accampamento osservavano un grande  

          movimento di soldati entro la città e non si accorsero che quei soldati erano donne che

          simulavano manovre, armate di canne bastoni; mentre i soldati veri si erano portati di

          nascosto a poca distanza dall’accampamento, per un assalto improvviso. Dice pure di aver

          letto sulle vecchie mura di Ripa questo distico:”Festo die Priscae Ripanis bella removit Conflictu

          magno Sfortia turba ruit”.

9       P. U. PICCIAFOCO – S. Giacomo della Marca p.125 – Ed. Monteprandone Santuario di S.

         Giacomo.

10    Ricordo che il palazzo vescovile non stava più Girfalco, ma dove sta oggi; però era egualmente

         facile da lassù bombardarlo.

11    M. CATALANI – p. 253 (ed. 1783) testimonianza del Poggi: “Avendo più di 1500 volumi

          riguardanti il diritto pontificio il diritto civile, niente vi era in essi che egli non avesse esaminato

          diligentemente: è la stessa cosa si può dire dei libri di Agostino e Gerolamo. Conobbe tanta storia,

         quanta nessun altro; conosceva tutti poeti e filosofi. Nel suo tempo non ci fu nessun uomo onesto

         e dotto che non gli fosse amicissimo”.

12    S. ANTONINO DI FIRENZE – “Passò da questo mondo santamente, portando un aspro cilicio che 

         assiduamente portava sulla nuda carne. La sua morte causò a tutti quelli che le conoscevano

         grande tristezza e dolore, per le sue insegni qualità. Quest’uomo era veramente santo, amato

         da  tutti per la sua rettitudine, grande per sapienza e prudenza, dotto nel diritto, padre il riposo

         dei religiosi. Dava ai poveri con abbondanza. Sobrio; frequentemente celebrava con devozione 

         e non cessava mai di studiare….”

13    Fondò il collegio Capranica con particolari riguardanti agli studenti poveri di Fermo, difatti ne

         scrisse i regolamenti, ora perduti, intitolati: “Liber Constitutionum collegii pauperum scolarium

         sapientiae Firmanae editus per Revnum Dominicum de Capranica, Cars. Firmanum vulgariter

         nuncupatum etc.”

CAPITOLO X

IL PERICOLO TURCO

     mentre i piccoli Stati spagnoli di Leon e di Castiglia, con mirabile accordo, erano riusciti a liberare la Spagna dalla dominazione degli Arabi, il pericolo ottomano cresceva per l’Italia e per i Balcani. Sembra incredibile che di fronte a un pericolo così tremendo come il pericolo ottomano, le nazioni europee restassero indifferenti e divise da rivalità, senza saper trovare un accordo contro il pericolo comune.

     I Papi del tempo tentano ogni mezzo per ricucire in qualche maniera l’unità europea contro i musulmani, ma i loro sforzi restano vani. Niccolò V (1447-1455) cercò di ristabilire la concordia tra gli Stati europei, per tentare una crociata contro i Turchi. Fu coadiuvato da molti illustri ecclesiastici, come il Card. Bessarione, la cui missione riuscì valida nei paesi germanici, ma in Francia fu insultato dal re Luigi XI; Giovanni da Capistrano e Giacomo della Marca che ottennero dei risultati tra i popoli slavi; Simone da Camerino Agostiniano, nominato sopra, che riuscì a far firmare la pace di Lodi tra Milano e Venezia; il nostro Vescovo Domenico Capranica che convince ad aderire all’accordo Napoli e Firenze.

   Succedette a Niccolò V Callisto III (1455-1458), spagnolo che fece pubblico voto di spendere tutti i tesori della Chiesa per la crociata contro i Turchi, ma visse solo tre anni. Per tener viva nel popolo la preoccupazione del pericolo che correva la cristianità, ordinò che si suonassero le campane a mezzogiorno, oltre che all’Ave della sera e si recitasse l’Angelus, usanza che resta anche oggi. Ma molti lo derisero, perché essendo comparsa del 1456 La cometa di Hallei, si disse che il Papa aveva fatto suonare le campane per esorcizzare la cometa.

     Nonostante tutto, qualche successo isolato contro i Turchi si otteneva. Possiamo ricordare la liberazione di Belgrado assediata da Maometto II con 150.000 turchi, avvenuta per opera di Giovanni Corvino Uniade governatore di Ungheria, assistito dal francescano Giovanni da Capistrano. Il 22 Luglio 1456 Maometto II dovette ritirarsi gravemente ferito da una freccia. In ricordo della vittoria Callisto III istituì la festa della Trasfigurazione. Ma di questo e di altri isolati successi delle armi cristiane non vollero approfittare gli Stati europei in lotta tra di loro.

     Pio II (Enea Silvio Piccolomini) (1458-1464) seguitò la opera di Callisto III nel cercare l’unione tra gli Stati europei contro i Turchi. Risultato vano il Convegno di Mantova del 1459, convocato per convincere i governanti europei a unirsi contro il pericolo ottomano, Pio II decise di partire lui stesso per la crociata, a capo di una flotta pontificia affiancata dalla flotta veneziana, l’unica potenza che ascoltò la preghiera del Papa. Ma il 15 Agosto 1464, mentre Pio II vedeva arrivare nel porto di Ancona le navi veneziane, morì, e con lui anche la Crociata.

FERMO E PIO II

     I principi e le città italiane si comportavano come se il pericolo ottomano fosse per essi molto remoto, e si azzuffavano a difesa dei propri particolari e meschini interessi. Fermo e le città marchigiane, molto esposte al pericolo, risposero abbastanza bene all’invito dei Papi.

   Nel 1456, nell’esercito inviato da Callisto III per la liberazione di Costantinopoli militavano più di tremila Fermani. E quando Pio II radunò in Ancona l’armata pontificia e veneziana per la crociata, le città picene, e specialmente Fermo, risposero generosamente. Si legge nella storia di Ripatransone che quella città mandò al Papa in Ancona venti some di grano, e prosciutti per un valore di cinquanta ducati; e Fermo offrì per la crociata 3500 ducati d’oro, il mantenimento di una nave per sei mesi e buona quantità di cereali.

     In questa occasione non si parla di combattenti fermani che sicuramente non mancarono, ma non furono troppi, perché anche per Fermo, come per tutti gli altri staterelli italiani, non mancavano difficoltà interne, e pericoli è beghe con gli stati confinanti. Proprio in quegli anni le agitazioni nelle Marche erano cresciute. Nel 1460 il conte Giacomo Piccinino che si era inimicato Re Ferdinando partiva dalla Romagna per andare in aiuto a Giovanni d’Angiò che voleva conquistare il Regno di Napoli, contro il volere del Papa che aveva riconfermato il Regno a Ferdinando. Federico di Urbino e Alessandro Sforza ebbero l’ordine di combattere il Piccinino e ritardarne la marcia verso Napoli; e anche Fermo e  Ripatransone preparavano le loro forze per prevenire un eventuale attacco delle forze nemiche della S. Sede, o danni dalle truppe amiche1.

     Tutta la costa adriatica sembrava impazzita; pareva che il pericolo ottomano non esistesse per essa, mentre era la zona più esposta. Sigismondo Malatesta  junior occupava Fano, combattuto da Federico di Urbino; Ancona minacciava Jesi difesa dal Legato Pontificio; Ascoli combatteva per tener soggetta Castignano e riconquistare Controguerra occupata da Gioisia Acquaviva2.

     E proprio nell’estate del 1464, appena morto Pio II e fallita la crociata, Fermo occupava Monsampietrangeli e la dava alle fiamme. Ma il Papa Paolo II minacciò gravi castighi a Fermo la quale chiese perdono che le fu concesso per interposti buoni uffici di Ripatransone, a patto che Monsampietrangeli fosse ricostruita a spese dei Fermani, e fossero a quei cittadini restituiti tutti i beni perduti3.

     Gli avvenimenti di questa seconda metà del sec. XV sono così complicati, che è difficile seguirli e valutarli. Nelle interminabili lotte tra i vari Stati italiani furono coinvolti anche i Papi. Paolo II (1464-1471), il grande amatore delle scienze e delle arti, nonché predicatore di pace di concordia, fu costretto a prendere le armi per non perdere Rimini; il suo successore Sisto IV (1471-1484), coinvolto nella fallita congiura dei Pazzi costretto a dichiarare guerra ai Medici di Firenze.

     E intanto i Turchi occupavano l’Albania nel 1468; toglievano ai Veneziani, nel 1470,  il Negroponte; e nel 1480 Maometto II occupò Otranto, facendo strage di quella popolazione. Furono massacrati, insieme al vescovo e a duecento sacerdoti, novemila cittadini di ventiduemila che ne contava quella città4.

     Ormai per la Marca il pericolo ottomano era entrato in casa, poiché c’erano di quelli che, accecati da privati interessi dell’odio politico, favorivano il nemico. Il principale di essi era Boccolino Guzzone che si era impadronito di Osimo. Costui temendo la reazione del Papa, tentava di accordarsi con Maometto II, promettendogli, se fosse venuto in suo aiuto, il possesso della Marca, dalla quale sarebbe stato facile conseguire la conquista di tutta l’Italia.

     I Fermani ebbero la fortuna di scoprire la congiura, facendo prigioniera la nave che portava verso oriente il messaggero di Gozzolino e impadronendosi del testo dell’accordo. Il Papa Innocenzo VIII, con un breve del Novembre 1484, loda e ringrazia i Fermani.

GUERRA PER MONSAMPIETRANGELI

     Il 12 agosto 1484 morì Sisto IV e, come avveniva sempre durante la sede vacante, Fermo assalì Montesampietrangeli. Il Vicedelegato della Marca, deciso a impedire ogni costo la rovina di quel castello, si trasferì col suo esercito a Monte San Giusto e ordinò ad Ascoli e a Ripatransone di inviare soldati, oppure di attaccare il territorio fermano, per dividere le forze di questa città, e rendere a lui più facile la difesa di Montesampietrangeli.

     Quest’ordine era per Ascoli un invito a nozze. Le sue aspirazioni al mare erano sempre vive; questa era l’occasione buona per battere l’esercito fermano nell’interno e recuperare poi San Benedetto in Albula. Un forte esercito ascolano avanzò fino a Montegiorgio, dove nell’Agosto 1444, sbaragliò l’esercito fermano e lo costringe ad abbandonare l’impresa di Montesampietrangeli5.

     Dall’altra parte dell’esercito di Ripatransone, aiutato da quattrocento fanti ascolani, assalì Acquaviva e devastò i vigneti e gli agrumeti della costa.

     Montesampietrangeli fu salva, ma a rendere vane le  aspirazioni marittime di Ascoli intervenne il Papa. Eletto nello stesso Agosto 1484 Papa Innocenzo VIII, impose alle tre città di deporre le armi, sotto pena di gravi castighi6. L’ordine del Papa ottenne solo una stentata tregua di dieci mesi, e corse pure il pericolo di non raggiungere quel termine.

     Difatti: il 12 Febbraio 1485, il giorno delle Ceneri, il Vescovo di Fermo Giambattista Capranica fu ucciso dicono gettato da una finestra da alcuni cittadini fermani7. Per Ripatransone che faceva parte della Diocesi Fermana l’occasione era ottima per rompere la pace con Fermo. Si ingigantì lo scandalo e si proibì il traffico riparano con Fermo. Per Ascoli e per Ripatransone era questo un momento buono per attaccare Fermo, interdetta dal Papa. Il 3 Gennaio 1486, Ascolani e Ripani si accordarono per la guerra contro Fermo e ne concertarono i piani8.

LA BATTAGLIA DI VETRETO

     I primi di maggio 1486, l’esercito alleato di Ascoli e di Ripatransone avanzò verso Acquaviva e la cinse d’assedio. Fermo mandò in difesa di quel castello 13.000 uomini che posero l’accampamento sul Colle della Guardia. I 2 eserciti si disturbavano con scaramucce per diversi giorni, finché gli Ascolani avvisati che i Norcini si muovevano in aiuto dei Fermani, decisero di accelerare i tempi, provocando il nemico in campo aperto. Tolsero l’assedio di Acquaviva e schierarono l’esercito in battaglia sul Colle di Vetreto. Ai per mani non conveniva a combattere prima che arrivassero gli aiuti di Norcia, perché si sentivano meno forti del nemico, ma per non palesare i loro piani, fingere di accettare battaglia e in un breve scontro ebbero dei morti.

     La sera mandarono al campo nemico un trombetta per chiedere la sospensione delle armi allo scopo di seppellire i morti. La tregua fu concessa. Gli Ascolani condussero il trombetta nel loro accampamento e lo invitarono a bere e a far festa con loro, facendogli pensare con la loro allegria che aspettavano presto rinforzi. I Fermani caddero nell’inganno. Il trombetta, ritornato dai suoi, riferì quello che avveniva nel campo nemico; e l’esercito fermano, nel timore che potessero davvero arrivare rinforzi agli Ascolani, si decise di attaccare battaglia subito, senza aspettare gli aiuti di Norcia. Si combatté accanitamente per molte ore, finché l’esercito fermano fu rotto e costretto alla fuga, lasciando i bagagli nell’accampamento, in mano ai nemici9.

     Il Legato Pontificio cercò di concludere una tregua, chiesta da Fermo e il 25 giugno 1486 Ripatransone vi aderì, contro la volontà di Ascoli. Ripa faceva la sua politica: era alleata di Ascoli, ma non voleva correre il pericolo di essere asservita da Ascoli. San Benedetto in Albula, nell’interesse di Ripa, stava meglio in mano ai Fermani, che agli Ascolani; Fermo era stato bene che fosse sconfitta, ma non conveniva che fosse indebolita troppo. 

     Ascoli aderì all’invito del legato; e i soldati ascolani, guidati dal loro condottiero Capuano, scorsero il territorio fermano fin sotto le mura della città, recando guasti e caricandosi di preda10.

     Dietro rinnovate minacce del Papa, Ascoli, Ripatransone, Fermo, Montesampietrangeli, nel monastero di Fonte Avellana, furono costrette a firmare un trattato di pace dettato dallo stesso pontefice11.

NOTE

1       MANOSCRITTI ASCOLANI – “A. D. 1460 die ultima Martii  Comes Jacobus Piccininus venit de

         Romania cum suo exercitu et firmavit se prope Columnellam. Eum sequebatur Comes Urbini et

         Alexander Sfortia cum suis copiis”.

         “A.D. 1460 die 20 Juli Comes Jacobus Piccinini et Comes Julius de Camerino ad una parte,  et

         Comes Urbini et Alexander Sfortia ad alia cum suis exercitibus fecerunt maximum Proelium

         quod inceptum fuit meridie et duravit usque ad tres horas noctis, in quo mortui fuerunt multi

          omines et equi inc, inde, apud S. Fabianum.

2        MANOSCRITTI ASCOLANI – “1459, DIE 19 Decembris populus Asculanus recuperavit

           Controguerram, quam abstulerat D. Josias Aquaviva Domino Pwtro Aquilano, domno dicti  

           castelli”.

3     MANOSCRITTI ASCOLANI – “Anno 1464, die 16 Augusti, Firmani incendedunt Montem Sncti         

           Petri de Allio, quod postea refecerunt sui sumptibus, de mandato Pauli Pontificis”.

         (Il 16 agosto: proprio il giorno dopo la morte di Pio II; il che ci fa supporre che l’assalto a

           Montesampietrangeli era preparato da tempo, e si aspettava solo che il Papa partisse per la

           crociata per effettuarlo).

4         MANOSCRITTI ASCOLANI – “Claris Maumeti Teucri venit in Italiam et expugnavit et cepit

           Regni oppi dum quod dicitur Otranto, ubi necavit Episcopum civitatis et  ducentos sacerdotes

           et octomilia hominum”

5         MANOSCITTI ASCOLANI – Anno 1484 – “Eodem anno, die 12 Augusti mortus est Papa Xistus

           ad horam quartam noctis et per illos dies Firmani obsederunt Montem S. Patri de Angelis. Ad

           auxilium et subsidium ippius oppidi ex precetto D. Gubernatoris populus Asculanus ivit, rupit

           et fugavit Firmanos in territorio S. Mariae in Georgio, ubi fuere occisi multi Firmani de agro et

           de urbe; de Asculani vero pauci…”

6        COLUCCI – A.P. t. XVIII – app. n. LVI-LVII-LVIII

7        Si dice che il vescovo Giambattista Capranica fu preso in casa di una signora Fermana sua

          amante, fosse stato gettato dalla finestra dai fratelli di lei, sarebbe vano cercare i veri motivi di    

         questo delitto. Possiamo accettare la versione corrente, perché in quei tempi tutto era

         possibile.

8      TANURSI – in  Colucci t. XVIII p. 97 e segg.

9      TANURSI – in Colucci t. XVIII p. 97

10    MANOSCRITTI ASCOLANI – “5 Augusti 1486, populus Asculanus fecit maximam incursionem in

         agrum firmanum usque ad portam civitatis et fecit maximam predam. In qua fuit occisus

         Cicchinus Filère cum sex civibus ascolanis, cuis incursionis dux fuit Capuanus”.

11    COLUCCI – A.P. t. XVIII – app. dipl. n. LVIII

CAPITOLO XI

ATTIVITA’ ECONOMICA DI FERMO

NEI SECOLI XV E XVI

     Ho cercato nelle pagine precedenti di illustrare al lettore la potenza di Fermo e la sua privilegiata posizione nello Stato Pontificio. Fermo era una provincia della Chiesa; ma il “mero e misto impero”, cioè l’amministrazione della giustizia in cause civili e criminali, e la zecca o facoltà di batter moneta propria; riconosciutele da Papi e regnanti fin dal 1211, conferiscono a Fermo una quasi sovranità che forse nessuna città marchigiana ebbe mai1.

     Ora, prima di lasciare questo tormentato secolo XV, voglio presentare al lettore un quadro, necessariamente incompleto, delle attività economiche fermane di questo periodo. Ci orizzonteremo, elencando prima i Collegi delle Arti, costituiti nel Consiglio di Cernita del 14 Ottobre 1386. Essi sono:

1º  Giudici, procuratori, notai (erano circa 130);

2°  Medici, farmacisti, orefici, sellari (circa 50);

3°  Mercanti (circa 114);

4°  Beccai, casiolari (= droghieri), barbieri, falegnami, fabbri (circa 125):

5°  Calzolai, mugnai, fornaciari, osti, mulattieri (circa 166);

6°  Sartori, pellicciari, scalpellini, fabbricatori (circa 140).

     Nel sei Collegi delle Arti, codificati nel 1386, non vi figurano agricoltori e pescatori; segno che tali organizzazioni non esistevano.

AGRICOLTURA

     Ma all’agricoltura era ancora la principale ricchezza dello Stato Fermano. Dalle varie forme di conduzione agricola era prevalsa la mezzadria, come metodo più conveniente, sia per il proprietario, come per il coltivatore; poiché l’associazione del capitale col lavoro favoriva gli interessi dell’uno e dell’altro e presentava maggiore sicurezza e giustizia, sia nel rischio, che nel profitto.

     Il territorio fermano è particolarmente adatto allo sviluppo agricolo. Tutto il territorio è solcato da tre fiumi: il Tenna, l‘Ete e l’Aso che formano vaste pianure ricche di culture, e tra un fiume e l’altro si elevano colline di media altezza, assolate e fertilissime; solo una minima parte verso i Sibillini è montagnosa.

     La maggiore produzione agricola era sicuramente il grano che veniva esportato nell’interno dello Stato Pontificio e anche fuori, dopo che si era provveduto a rifornire i granai della Congregazione dell’Abbondanza. Era questa, una istituzione comunale, che, specialmente negli anni favorevoli, imponeva ai castelli una data quantità di frumento, che si immagazzinava per essere usato in tempo di carestia, e per venire incontro ai bisogni dei poveri.

     Buona era la produzione della frutta: pere, mele, pesche, susine, noci, ciliegie, sufficienti al fabbisogno interno dello Stato, e sulla fascia costiera, molto curata la produzione degli agrumi2.

     Non doveva essere molto abbondante la produzione del vino e dell’olio, perché gli Statuti comminano sanzioni contro gli esportatori di questi prodotti e ne favoriscono invece la importazione3.

     La causa principale di questa carenza è da ricercarsi nella cecità degli odi e delle feroci rappresaglie allora in uso, per cui era frequente la rovina delle vigne degli oliveti, come si legge in tanti documenti; nonostante che gli Statuti comminassero pene severissime per simili danni.

     Abbastanza fiorente l’allevamento del bestiame, soprattutto degli ovini e dei suini, poiché negli Statuti troviamo speciali attenzioni per la lana, per i formaggi e per le carni salate.

ARTIGIANATO

     Il grande numero di artigiani nella città di Fermo era insieme indice e causa di benessere. Settant’otto calzolai, sessanta falegnami, ventuno fabbri, quaranta mulattieri e altre numerose attività artigianali significavano che molte centinaia di famiglie vivevano bene del loro lavoro; e per i cittadini significava trovare facilmente il soddisfacimento dei propri bisogni. Un buon artigianato, specialmente in quei tempi (ma da rimpiangersi anche oggi), era la vera base del benessere cittadino.

     Le autorità comunali si preoccupavano di proteggere l’artigianato, difendendolo dalle eccessive imposte del Governo Regionale del Rettore. Per essere sempre a conoscenza delle disposizioni del Governo Centrale e regionale, gli Statuti imponevano la nomina di un rappresentante del Comune (sindicus= ambasciatore) presso la Curia del Rettore e presso la Curia Romana4.

     Il Consiglio Comunale si preoccupava di accrescere l’attività artigianali e il 19 Settembre 1448, il Comune apre a proprie spese una tintoria che nel 1454 si perfeziona con la venuta a Fermo di un tale Cola di Amatrice che incrementa e perfezione l’arte della tintoria della lana, favorito dal Comune con un bellissimo contratto, riportato dal Papalini del suo “Effemeridi della città di Fermo”5.

     Nel 1470 il Comune assegna 1600 ducati a un certo Giovanni Ferri di Ascoli che intende aprire una lavorazione della lana a Fermo, e il 28 Giugno 1471, il Consiglio Comunale elegge tre cittadini capaci, deputandoli a interessarsi dell’arte della lana6.

     Nel 1470 il Consiglio Comunale dà il permesso non solo, ma offre uno stipendio, e assegna una casa e decreta l’esenzione dalle gabelle a un filandaio di S. Severino che vuole stabilirsi a Fermo con la famiglia, per esercitarvi la lavorazione della seta7.

     Nel 1472 il Comune invitò a Fermo un artigiano lombardo, per impiantarvi una fabbrica di berretti8.

     Nel 1485 fa un contratto con Cristiano di Perugia che fonda a Fermo un grande filatoio di seta.

COMMERCIO

     La presenza di settantasette notai e centoquattordii mercanti ci dice quanto sviluppato fosse il commercio a Fermo nel sec. XV. Per il commercio al minuto che si volgeva nelle botteghe cittadine sono da notare le 23 botteghe dei beccai, di proprietà del Comune e da esso controllate, che si davano in appalto a privati cittadini.

    Il mercato del pesce che doveva essere molto abbondante, data l’estensione della costa dello Stato Fermano, era strettamente controllato dal Comune forse dato pure in appalto.

     Il commercio del sale era severamente riservato al monopolio di Stato. I contrabbandieri del sale erano condannati, senza processo, pagare  50 lire di multa e alla requisizione del sale e degli animali che lo trasportavano. Chi denunzia un contrabbandiere di sale, oltreché tutelato dal segreto, può partecipare alla divisione dei beni requisiti9. Le saline, tanto del Tennacola, come di Torre di Palme e di Grottammare erano molto attive, ma anche le necessità dello Stato erano tante.

   Le tredici botteghe dei droghieri venivano rifornite di spezie e di prodotti orientali dai navigli dello Stato i quali, pur messi in crisi dalle grandi navi di Venezia e di Ancona, svolgevano nell’Adriatico una nutrita attività commerciale. 

 LA FIERA DI FERMO

     Molta importanza si dava alle fiere periodiche che si tenevano, e alcune anche oggi si conservano, sia Fermo, che nei castelli dello Stato. Particolare attenzione si prestava ad alcune che si tenevano nelle località di confine, come: Sant’Angelo in Piano (Carassai), S. Angelo in Pontano, S. Claudio al Chienti che aveva sempre grande affluenza, per la sua posizione centrale nella regione. Erano fiere che duravano giorni; attiravano anche mercanti forestieri e vi si realizzavano affari rilevanti .

    Ma la più grande manifestazione della potenza commerciale di Fermo era la fiera che si volgeva nella città, dal 7 Agosto fino a metà Settembre. Era la fiera che interessava tutta la Marca e parte del vicino Regno di Napoli. Un segno della sua importanza è il fatto che, il 7 Agosto 1357, Papa Sisto IV, proibì agli Anconetani di bandire qualsiasi fiera, durante il tempo che si celebrava la fiera di Fermo10.

     Minuziose disposizioni regolavano il buon andamento della fiera11.

     “La feria predicta sia et essere debba franca ad omne persona che venire vorrà nella ditta feria, cioè che nullo cittadino over forestiero et contadino de qualunca donsitione  se sia, possa essere costritto da alcuno suo creditore per veruno debito contratto nante lo tempo de la dicta feria, né per rapresalia de Comune,  né de speziale persona che avesse contra niuno …..”.

     “Che si debia elegere quattro ….. (mediatori) over sensali li quali sieno literati et che sapia scrivere tucti li mercati che se facesse da ventitre in su”.

     Si dovevano pure eleggere due periti, che dovevano controllare se il denaro usato nella fiera era legale; così pure si eleggevano tre cittadini assistiti da un notaio, per dirimere le questioni che sorgessero nell’ambito della fiera.

     Dal libro VI degli Statuti, rubr. 85, possiamo conoscere le merci che alimentavano le fiere di quei tempi:

     “Zafferano; seta sottile Marchigiana; seta di Puglia, cera, zucchero a zolle e in polvere; speciarìa; pepe; miele; allume di Rocca; mandorle, pignoli, uva passa, panno colorato camertone e Eugubino, panni bisi, Stramegno, lana fina, lana grossa, panno di lino, guarnello, canavaccio, funi spaghi e stoppa, lino marchigiano, lino lombardo, panni veronesi, fiorentini e altri panni fini, merceria, stagno, ferro, piombo, acciaio, ferro lavorato, metallo lavorato, rame lavorato e non, pellicceria concia e non concia, pelle francese, pelli e lanute, corame grosso, corame sottile, concio, carta bambagina, carta pecorina, semente di lino, noci e altre biade, peli di cavallo, peli di coda di cavallo, fichi secchi, sego e sogna, pesce salato, carne salata e cascio, legname lavorato, vetro lavorato, cote di pietra, seta sottile di Romagna seta grossa di Romagna, vischio, riso, oro e argento lavorato, coralli, “pater nostri d’ambra”, coltri di seta e di panno ecc.

LA COMUNITA’ EBRAICA A FERMO

      Relativa a questa grande attività economica è la massiccia presenza degli Ebrei a Fermo. Fin dal secolo XII furono sempre numerosi e andarono sempre crescendo di numero fino al secolo XVI , raggiungendo le cinque o seicento unità. Verso la fine di questo secolo, non si hanno più notizie di essi a Fermo12. Forse durante l’episcopato di Pietro Bini acerrimo nemico degli Ebrei, questi se ne andarono, o furono mandati via13.

     Nel fermano gli Ebrei avevano un ambiente favorevole sotto ogni aspetto. Una città come Fermo, dove attivissimi erano il commercio, l’industria e l’artigianato, richiedeva l’impiego di grandi quantità di denaro liquido che solo gli Ebrei erano in grado di fornire; ed essi vi furono accolti con favore e trattate con un certo riguardo, anche se talvolta dovettero subire soprusi e saccheggi, come nel 1396, quando i fuorusciti ghibellini, occupata la città, saccheggiarono e devastarono tutte le case degli Ebrei14; e subire umiliazioni e discriminazioni, come dopo la predicazione dell’Agostiniano Simone da Camerino, quando il Consiglio Comunale approvò la decisione che ogni ebreo portasse sul vestito una coccarda circolare gialla, come segno di riconoscimento15. D’altra parte è ovvio che i saccheggiatori non si muovono contro una religione o una razza, ma contro chi ha quattrini, allora solo gli Ebrei ne avevano in abbondanza; e la discriminazione non era solo colpa dei Cristiani, ma dipendeva soprattutto dagli Ebrei stessi che si erano autodiscriminati, pretendendo di vivere tra le popolazioni cristiane, odiandole e sfruttandole; non amalgamandosi con nessun popolo; restando sempre i più superbi e tenaci razzisti di ogni tempo. È vero che la Chiesa pregava per la conversione dei “perfidi” Giudei (e il più delle volte l’attributo era appropriato), ma non li ha mai chiamati “cani”, epiteto usuale degli Ebrei contro i Cristiani. È vero che da parte di Concili e di papi ci furono disposizioni discriminatorie nei riguardi degli Ebrei, ma chi si desse la pena di esaminarle una, per una (sempre inquadrate nel tempo), le troverà ragionevoli. Molte di esse, come per esempio l’abitazione nei ghetti e l’obbligo di non uscire in pubblico durante la Settimana Santa, più che discriminatorie, erano disposizioni appropriate per proteggere la vita degli Ebrei, generalmente malvisti dal popolo.

     A Fermo un vero ghetto non è mai esistito, fino al sec. XVI. Solo nel 1556, il Card. Carafa di pessima memoria, nipote del Papa e governatore di Fermo, fece organizzare un ghetto per gli Ebrei di questa città, nella contrada S. Bartolomeo, che corrisponde pressappoco a quella zona di scomode viuzze a nord dell’attuale Palazzo di Giustizia, dove era situata la sinagoga. Fino a quel tempo gli Ebrei fermani potevano abitare dove volevano; ma di fatto quasi tutti erano sistemati in contrada S. Bartolomeo e a Campoleggio16.

     Erano anche autorizzati dal Consiglio Comunale esercitare i loro traffici in botteghe, nella via dei magazzini, tra S. Bartolomeo e piazza San Martino17.

IL MONTE DI PIETA’

     A Fermo gli ebrei erano favoriti dalle autorità e protetti dalle leggi comunali, perché i loro prestiti erano utili, sia ai bisogni del Comune, sia al sostegno di traffici; ma erano odiati dal popolo, per motivi di religione e di razza. Ma c’era anche un altro motivo di odio, il più importante, ed era l’usura.

     La principale attività degli Ebrei era prestare denaro a interesse. Il Concilio Lateranense IV del 1215 aveva stabilito che essi non potevano esigere interessi troppo elevati, ma spesso approfittando di necessità particolari e di periodi di emergenza pretendevano tassi enormi, fino al trenta e quaranta per cento. Finché erano le autorità o i grossi mercanti a contrarre il debito, le conseguenze non erano irreparabili; ma quando i debitori erano singole famiglie e per giunta non ricche, le conseguenze erano rovinose per esse, perché gli alti interessi del prestito contratto le faceva presto trovare di fronte a un debito che non erano in grado di pagare, e a un creditore ebreo inesorabile e spietato. E non sono fuori posto alcune risoluzioni pontificie che vietavano che un cristiano diventasse schiavo di Ebrei, perché essi non avrebbero esitato a prendere schiavo un debitore impossibilitato a pagare, purché non si trattasse di un correligionario. A tutto questo aggiungi la predicazione dei frati che definivano immorali e peccaminoso qualsiasi prestito a interesse.

     Contro la disumanità dell’usura ebraica sorsero nel secolo XV  “i Monti di Pietà”, geniale istituzione dei Frati Minori Francescani.

     Si ritiene comunemente che l’ideatore del Monte di Pietà sia stato il Beato Domenico da Teramo, in occasione di una predicazione quaresimale a Perugia, del 1460. Ma poiché un po’ prima altro frate, Beato Domenico da Leonessa, nella quaresima del 1558 istituiva in Ascoli il Monte di Pietà, penso che sia superfluo attribuire l’invenzione di questa grande istituzione a un singolo18. L’ideatore del Monte è l’Ordine Francescano che già nel 1458 dava ai suoi predicatori quaresimalisti l’invito a promuoverlo nella città assegnata alla loro missione.

     A Fermo il Monte di Pietà fu istituito undici anni più tardi, nella quaresima del 1469, dello stesso Beato Domenico da Leonessa19. Ma all’istituzione giuridica di quell’anno non ebbe poi applicazione pratica; difatti nove anni dopo, nel 1478, B. Marco da Montegallo, durante la predicazione quaresimale, pregò il Comune che finalmente si effettuasse la fondazione del Monte di Pietà, e in modo che poi non perisse. Egli stesso ritocco gli Statuti e presiedette le adunanze degli incaricati della direzione del Monte, e l’otto Aprile esso iniziò la sua attività20. Penso che i ritardi e le difficoltà che il Monte di Pietà incontrò a Fermo siano dipese principalmente da due motivi: la freddezza del Comune verso la nuova istituzione e l’ostilità dei frati verso di essa.

     Dobbiamo sempre tener presente che gli Ebrei a Fermo erano molto numerosi e potenti; tenevano in città una quindicina di banchi di prestito. Il Comune, che non riusciva mai a pareggiare i conti, aveva bisogno di prestiti ebraici, come ne avevano bisogno anche le attività cittadine. Il Comune non poteva urtare gli Ebrei, appoggiando il Monte di Pietà istituito proprio contro di essi; difatti è il Vescovo e il suo Vicario che approvano gli statuti del Monte voluto da Fra Domenico da Leonessa; il Comune è assente.

     Riguardo poi ai Frati, a Fermo erano potenti francescani, ma forse anche più potenti erano gli agostiniani e i domenicani, i quali non approvavano i Monti di pietà, perché per essi era contro la morale prestare a interesse, anche se esso si limitava, come nel caso, al due o tre per cento. E forse a causa di questo rigorismo morale, anche tra i francescani sorsero dissensi: i perugini volevano il prestito del Monte “cum merito”, cioè con piccolo interesse; i marchigiani con Fra Marco di Montegallo “sine merito”, cioè del tutto gratis.

     Nel 1468 Frate Marco viene a predicare a Fermo; sveglia le autorità comunali e le convince a interessarsi dei poveri, mettendo un po’ da parte gli interessi degli Ebrei; propone il suo statuto per il Monte, che non può urtare la sensibilità morale delle altre fraterie, poiché i prestiti del Monte sono “sine merito”; e riesce nel suo intento, aiutato dalla generosità di tanti cittadini fermani e dal Consiglio Comunale che, l’otto Aprile 1468, legalizza il Monte di Pietà 21.

     Ma qualche volta i Santi si ingannano, rimettendo tutto nelle mani della Provvidenza, la quale invece vuole la collaborazione fattiva dell’uomo; e anche il Monte di Pietà di Fermo, dopo una trentina di anni, nei quali alle esigue assegnazioni del Comune si erano aggiunte le generose donazioni dei cittadini che gli avevano permesso di prestare “sine merito”, sentì la necessità di cambiare metodo. Fu necessario allinearsi alla regola ormai universale, di ammettere per il Monte un minimo interesse per sostenere le spese di gestione che andavano crescendo. Nel giugno 1506 si riformarono gli statuti del Monte di Pietà e il 25 Agosto il Consiglio Comunale li approvò, destinando al Monte anche il ricavato delle multe 22.

     Dopo questa riforma degli statuti, il Monte di pietà fermano godette prosperità sempre crescente; tanto più che nel 1517 il Concilio Lateranense V fece cadere ogni prevenzione dichiarando il Monte di Pietà “leciti, pii e meritori”, e arricchendola di indulgenze; “lecito un piccolo interesse, per sostenere le spese”23.

NOTE

1      Bolla di Eugenio IV – da Statuta Firmanorum p. 3 “Comunitas Firmana et officiales Rectores

        dictae civitatis habeant et habere debeant merum et mistum imperium et liberam ppotestatem

        cognoscendi et punendi de quibuscunque excessibus et dilictis commissis et committendis in dicta  

        civitate, comitatu et districtu cuiscunque generisexcessus et delicta existant”.

        Rescritto di Ottone IV – Arch. St. Fermo perg. n. 188 – “Nos civibus civitatis Firmanae dilectis

        fidelibus nostris plenam licentiam dedimus et potestatem cudendi et faciendi denarios”.

2      Agrumeti tra Pedaso e San Benedetto ci sono stati fino a pochi anni fa. Ancora si può incontrare

        qualche recinto di pietrame che serviva per proteggere i limoni dai ladri e dal vento.

3      STATUTA FIRM. l. V – rubr. 27-29 – e rubr. 1-2-3

4      STATUTA FIRM. l. II – rubr. 62 pag. 49 (ed.1589)

5      LIBER ISTRUMENTORUM – vol. I Arch. St. – Fermo

6      PAPALINI – Effemeridi p. 93

7      PAPALINI – Opera cit. p. 55

8      PAPALINI – p. 80

9      STATUTA FIR. – l. V rubr. 72

10    PAPALINI – Effemeridi p. 66

11    ACTA DIVERSA – Arch. Com. Fermo – “Capituli de la feria de Fermo”.

12    MARIA TASSI PISANI – La comunità ebraica di Fermo fino al secolo XV tesi di laurea

         Anno Acc. 1968-69 -Urbino. È il miglior lavoro esistente sull’argomento

13    PAPALINI – Effemeridi della città di Fermo – p. 35

14    ANTON DE NICOLO’ – Cronache della città di Fermo.

15    ANTON DE NICOLO’  – “…1433 de mense Mai  venit Firmum quidam frate Eremitanus vocatus

          Frate Simone da Camerino, et predicavit quamplurimus vicibus …. e disse tra le altre cose che i

          Giudei si confondevano coi cristiani; e tanto disse che in 1 grande cernita fu stabilito che tutti i

          Giudei portassero un segno, come un 0 di colore giallo….”

16      ANTON DE NICOLO’ – Cronache etc. – “ricuperata, la città, (27 Maggio 1396), tutti i cavalieri

           incominciarono a occupare le case ….. A rubare e saccheggiare tutta la Giudea, cioè tutti gli

          Ebrei, circa cento case, tra le contrade di S. Bartolomeo e Campoleggio”.

17    STATUTA FIR. – l. I p. 289 – “Dietro la proposta del nobile Cavaliere di Ludovico degli  

         Uffreducci e dietro disposizione del signor Matteo di Luca, fu registrata la legge che gli Ebrei        

         Potessero esercitare il loro mestiere nelle botteghe sulla strada dei fondachi, dalla chiesa di S.

         Bartolomeo in qua verso la piazza San Martino”.

         La via dei fondachi corrisponde al Corso Cefalonia (allora non c’erano ancora i palazzi

         monumentali), e anche oggi è la via delle grandi botteghe.

18    G. FABIANI – Gli Ebrei e il Monte di Pietà in Ascoli.

19    MARINI – Rubriche e trasunti dei libri delle cernite t. II p. 292

         “Deinde die 23 Martii  (1469) habetur capitula Montis Pietatis condita ad persuasionen

        Venerabilis Fratris Dominici de Lionissa ordinis Minorum de Observantia in Ecclesia Cathedrali

        Episcopatus Firmi in Quadragesima proxime exacta,  predicatoris optimi, , revisa et approbata per

        Rvmus Petrum Paulum eius Vicarius”.

20   MARINI – ivi p. 195 e 227 – “23 Gennaio 1478: “Venerabilis Frater Marcus Ordinis Minorum,

        Predicator petit fieri Montem pietatis”.

        “27 Marzo: “…. Proposuit capitula Montis Pietatis aperiendi  in perpetuum ita ut conservaretur

         nec amplius periret”.

        “Deinde habetur adunantia sub 10 Martii pro ordinandis capitulis Montis Pietatis cum venerabili

        Fratre Marco predicatore Ordinis Minorum et Domino Ludovico de Euffredutiis, Domino Antonio   

        de Pedibus, Domino Andrea domini Petri, Pandulfo Rogeri, Parjacobo ser Joannis, Domino Piero

       Angeli, , Sntonio domini Angeli, Joanne Filippi”.

21  “Die octo Aprilis confirmantur capitula Montis Pietatis a Dominis Prioribus, regolatori bus et

        predictis civibus deputatis una cum Domino Venerabili Patre Frate Marco predicatore”.

22   MARINI – Opera citata – II p. 316.

        “Die 25 Augusti in Concilio approbantur capitula Montis Pietatis, delegati eisdem  capitibus

        solidorum de maleficiis et confirmatis deputatis”.

23   LEONE X – Costit. “inter moltiplices”

        “Declaramus et definimus Montis Pietatis per respublicas institutos et auctoritate Sedis

        Apostolicae hactenus approbatos etc. … neque nullo pacto improbari debere tale mutuum

        minime usurarium putari…”.

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APPENDICE

INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

(il numero indica la pagina)

 Abate di S, Vittoria, 44

Abate Farfense, 31,33

Abruzzo, 88

Accumoli, 87

Acquaviva, castello,  45,79,85,96,97

Adelaide, vedova di Lotario, 17

Adenulfo, vescovo di Fermo, 34

Adriano, papa, 7

Adriatico, 7,65

Africa, 8

Agello, castello (poi Ripatransone), 27

Aginulfo, re longobardo, 18

Agricoltori, 99

Agricoltura, 99

Aimone, padre di Gualterio, 15

Alatrino, cardinale legato pontificio, 36,39

Albania, 86,96

Alberghetti, signore di Fabriano, 59

Alberico, conte e vescovo di Fermo, 15,17,29

Alberto di Montecosaro, feudatrio, 28

Albertuccio, nipote di Clemente VI papa, 56

Albornoz, cardinale, 57,59,60,61,62,63,65

Aldobrandino, marchese, 39

Aldonesi, piccoli proprietari, 21,23

Alessandria, 28,29

Alessandro II, papa, 20

Alessandro II, vescovo di Fermo, 27

Alessandro III, papa, 28,29

Alessandro Sforza, fratello di Francesco, 83,85.86,88,91,95

Alessandro V, papa, 75

Alfonso, re di Aragona, 83,84,88

Alfonso, re di Napoli, 89

Alteta, 75

Alto Fermano, 40,44,52,74.

Amandola, 83

Amatrice, 100

Amico, vescovo,18

Anagna, 51

Anagni, 71

Ancona, 7,27,29,31,34,35.39,47,59,61,62.67,73,94,95

Anconetani,  67,101

Andrea Tomacelli, fratello di Bonifacio IX, 73

Angelo dei Pierleoni, vescovo di Fermo, 72

Annibaldo degli Annibaldeschi, 46

Anton de Nicolò, 66,67,58,75.79,80,85,86,88.89.92

Antonia de Bencionibus, moglie di Giovanni da Oleggio, 63

Antonio Aceti, gonfaloniere, 73,75

Antonio Aceti, gonfaloniere, 82

Antonio Acquaviva, condottiero, 73

Antonio de Vetulis, vescovo di Fermo, 71,72,73,74,

Antonio Giorgi, cittadino fermano, 86

Aquileia, 35

Aquisgrana, 34

Arabi, 8,94.

Aragona, 83,84,88.

Arnolfo di Carinzia, 12,13

Artigianato, 100

Ascherio, 16,17

Ascolani, 47,48.5685,92,96,07

Ascoli, 34,45,47,48,59,61,62,65,66,73,75.77,79,62,85,88,91,95,96,97,100,104

Aso,fiume, 15,99

Assisi, 76

Atri, 78,85

Attone, vescovo di Fermo, 23,24,26,27

Avignone, 51,67,71

Azzolino d’Este, marchese,36,39

Azzone VI d’Este,marche di Ancona, 39

Azzone VI, marchese di Este, 34

Azzone VII (Azzolino) d’Este, 35

Azzone VII d’Este, marchese di Ancona, 35

Azzone, vescovo di Fermo, 26

Badia di Farfa, 16,77

Balcani, 71,94

Baldo di Nicola da Firenze, podestà,24,31

Balignano di Falerone, 40

Balignano, 28

Balignano, vescovo di Fermo, 27,28

Basilea, 79

Basilicata, 20

Beato Domenico da Leonessa, 104

Beato Domenico da Teramo, 104

Beato Marco da Montegallo, 104

Beccai, 99

Belforte, 87

Belgrado, 94

Bellafiore, moglie di Ludovico Migliorati, 77

Belvisio, 60

Benedetto XII, papa, 54,55

Benedetto XIII, papa, 75

Benevento, 20

Berardo III, abate, 23

Berengaria, regina, moglie di Guglielmo di Brienne, 48

Berengario del Friuli, 12

Berengario II, 9

Berengrario, 17

Bernabò Visconti, duca di Milano, 65,82

Bertoldo, figlio del Duc di Spoleto, 35

Bessarione, cardinale, 94

Bianca, figlia del duca di Milano e moglie di Francesco Sforza, 85,87,89

Bianchi, 74

Biordo dei Micheletti da Perugia, condottiero, 73

Blasco Fernando di Belvisio, condottiero, 60

Boccolino Guzzone, 96

Boffo da Massa, 66,67.73

Boldrino di Panigale, condottiero, 73

Bologna, 63,79

Bolognesi, 44

Bonifacio IX, papa, 72,73,74

Bonifacio VIII, 51

Borgogna, 16,17

Braccio da Montone, condottiero, 76,77

Brescia, 77

Bretoni, 67

Brindisi, 43

Brunforte da Perugia, condottiero, 47

Cagli, 61,62

Calabria, 17,20

Callisto III, papa, 92,94,95

Calzolari, 99

Camerinesi, 16

Camerino, 45,51,52,55,59,60,61,62,67,73,76,83,85,87,90,102

Campoleggio, 103

Campone, abate di Farfa, 18

Capocci, Card, legato pontificio, 46

Capranica, cardinale di Fermo, 90

Capuano, condottiero ascolano, 97

Carafa, cardinale, 103

Carassai, 67,73,77,85,86

Carlo Magno, 7,8,17

Carlo Malatesta di Rimini, 74,75,76

Carlo Martello, 8

Carolingi, 8

Carosino, capitano di Ripatransone, 66

Carrara, 73,74,82

Casio, castello, 28

Casiolari, 99

Castel S. Angelo, 20

Castello del Girfalco, 48

Castello del Monte, in Ascoli, 66

Castello, 55

Castiglione, località, 45,46

Castignano, 95

Catalani, 71

Cattedrale di Fermo, 36,48,64,74

Cattedrale, 80

Causaria, abbazia presso Torre dei Passeri, 18

Cavalcata di Santa Maria, 64

Cecco Bianchi, fermano, 91

Celestino III, papa, 31,33

Cerqueto, 35

Cerreto, 75

Cesena, 67

Chienti, fiume, 35,45.52,62

Cicala Andrea, condottiero di truppe imperiali, 45

Cicconi di Carassai, 77

Cingoli, 53,55,59

Civitanova, 23,26,32,34,35,36,52

Civitate sul Fortore, 19

Civitella, 88

Clemente V, 51

Clemente VI, papa, 56

Clemente VII, papa, 71,72

Coccarda circolare gialla, 102

Codice dello Stato pontificio, 61

Codice Longobardo, 8,18,26

Codice Romano, 26

Cola di Amatrice, 100

Cola Pasquali, cittadino fermano, 86

Colle dei Cappuccini, in Ripatransone, 87,90

Colle della Guardia, 97

Colle di Capo di Termine, 90

Colle di Vetreto, 97

Colle S. Savino, 67

Collegi delle Arti, 99

Collegio Capranica di Roma, 92

Colonna Giovanni, cardinale legato pontificio, 37,45

Colonna, famiglia romana, 78

Comitato Camertino, 15

Comitato Fermano, 15

Commercio, 101

Como, 29

Compagnia degli Inglesi, compagnia di ventura, 66

Comuni Lombardi, 44

Comunità ebraica, 102

Concili, 103

Concilio di Basilea, 79

Concilio di Costanza, 76,77

Concilio di Lione, 45

Concilio di Pisa, 75

Concilio Lateranense IV, 103

Concilio Lateranense V, 105

Concilio Romano (VI), 21

Conclave, 78

Confraternita di Santa Maria, 55

Congiura dei Pazzi, 95

Congregazione dell’Abbondanza, 99

Consiglio comunale, 46,52.79,80,83,84,91,100,104,105

Consiglio di Cernita, 99

Consiglio di Stato, 62,63,64

Consiglio Generale, 41,92

Consiglio Speciale, 41

Consolino, coppiere dell’imperatore, 35

Conte di Carrara, 73,74,82

Conte di Fermo, 34,35

Conte Luzio da Bartolomeo di S. Severino, 67

Contea dei vescovi, 44

Contea di Fermo, 34,35,36,37,39,40

Controguerra, 95

Convegno di Mantova, 94

Convento di S. Agostino, 86

Convento di S. Francesco,  in Fermo, 91

Corinaldo, 61

Corradino, nipote di Manfredi, 46

Corrado II, 10,11

Cortenova, località, 44

Cossignano, 40,73

Costantinopoli, 8,20,95

Costanza, 76,77

Costanza, impretatrice, 31,32,43

Costituzioni Egidiane, 61

Crema, 29

Cremona, 85

Cristiani, 103

Cristiano di Magonza, cancelliere, 31

Cristiano di Perugia, 101

Cristiano Won Buk (Federico cancelliere), 29

Crociata. 43,94

Cupra Marittima, 12

Curia del Rettore, 100

Curia Generale, 60

Curia Romana, 36,100

Curia, 60

Cursor, balletto, porta ordini, 42

Dalmazia, 31,83

Dante Alighieri, 51

De Mirto Gregorio, podestà di Ripatransone, 66

Desiderio, abate di Montecassino, 20

Desiderio, re, 8

Diocleziano, 9

Doge di Venezia, 47

Domenico Capranica, cardinale e vescovo di Fermo, 77,78,79,91,92,94

Domenico Necchi, genero di Santoro Puci, 90

Duca di Atri, 85

Duca di Camerino, 73

Duca di Milano, 65,77,79,83,84,85,87

Duca di Spoleto, 12,13

Ducato di Camerino, 76

Ducato di Fermo, 9

Ducato di Spoleto, 7,9,15,37

Ducato Spoletino, 20,35

Duchi di Milano, 82

Ebrei, 80,102,103,104

Effemeridi della città di Fermo, 100

Egidio da Monte Urano, capitano di ventura, 68

Egitto, 43

Enea Silvio Piccolomini, segretario di Domenico Capranica, 79,92

Enrico III, imperatore, 19,20

Enrico IV, imperatore, 20,21

Enrico V, imperatore, 27

Enrico, figlio di Federico II, 43

Enzo, figlio di Federico II, 44,45,46

Eremitani di Sant’Agostino, 48

Errico VI, imperatore, 31

Esarcato di Ravenna, 7

Esino, fiume, 62

Ete, fiume, 99

Eugenio IV, papa, 78,83,84,88,89

Europa, 8,10,44,51

Everardo di Austop, 60

Ezzelino da Romano, signore di Verona, 44

Fabbrica di berretti, 101

Fabbricatori, 99

Fabriano, 59,61,62

Fagnano, 75

Falerona, moglie di Rabennone, 15

Falerone, 40,75,77

Fano, 28,54,61,62,77.88,95

Farfa, 16,18,61

Farfensi, 15,47,48

Farmacisti, 99

Federico Barbarossa, 28,31

Federico da Massa, 40

Federico di Urbino, 95

Federico II, 33,34,39

Federico II, figlio di Costanza imperatrice, 31,35,43,44,46

Federico, cancelliere (Cristiano Won Buk), 29

Fermani, 7,19,44,47,48,52,56,66,71,72,73,76,80,84,85,88,91,92,95,96,97,

Fermano, territorio, 15,17,68

Fermano, vescovo, 19

Fermo, 07,9,12,13,15,17,18,19,2021,23,24,26,27,28,29,31,32,33,34,36,3739,49,41,44,45,46,47,48,

Fermo, 52,53,55, 56,57,59,60,61,62,63,64,65,67,6871,72,73,75,76,77,79,80,83,87,88,89,90,91,92,

Fermo, 95,96,97,99,100,101,102,104,105

Fermo, fratello del Priore di S. Pietro (Vecchio), 54

Fiastra, 67

Fiera di Fermo, 101

Fieschi Sinibaldo, legato pontificio, 45

Filatoio di seta, 101

Fildesmido da Mogliano, vicario abbaziale, 40,45

Filippo II, vescovo di Fermo, 36,37,44

Filippo il Bello di Francia, 51

Filippo Maria Visconti, 82,85

Fiordaliso, 51

Firenze, 24,31,54,67,74,76,82,84,85,88,94,95

Firmiano, 91

Foglia, fiume, 62

Foligno, 59

Fonte Avellana, monastero, 97

Force, località, 45

Forcella, 35

Forlì, 57,59,60,63

Fornaciari, 99

Fossalta, località, 44,46

Fossombrone, 61,62

Fra Giacomo da Monteprandone (S. Giacomo della Marca), 86

Fracassetti, 56

Francavilla, 27,75

Francesco di Matelica, 67

Francesco I di Mogliano, vescovo di Fermo 53,54

Francesco II di Cingoli, vescovo di Fermo, 53

Francesco Piccinino, figlio di Nicolò, 90

Francesco Sforza, 82,83,85,87,88,89,90,91

Franchi, 8,40

Francia, 7,51,94

Frati Minori Francescani, 104

Fraticelli, setta, 55

Friuli, 12

Gaeta, 84

Gaidulfo, vescovo, 18

Galeazzo Maria Sforza, figlio di Francesco, 89

Galeotto Malatesta di Rimini, 56,57,60

Gallura, 45

Garigliano, 16

Garzoni, storico, 79

Geltrude, vedova di Guido di Spoleto, 13

Genova, 72,82,84

Genovesi, 84

Gentile da Mogliano, 56,57,59,60,63,82

Gentile Migliorati, fratello di Ludovico, 78

Gerardo, vescovo di Fermo, 46,52,56

Germania, 34,43

Gerusalemme, 43,48

Ghibellini, 31,43,45,46,47,51,52,53,59,61,73

Giacomo da Cingoli, vescovo di Fermo, 54,55

Giacomo della Marca, 94

Giacomo Piccinino, 95

Giacomo Ranieri di Norcia, vicario di Domenico Capranica, 78

Giacomo, figlio di Ludovico Migliorati, 77

Giambattista Capranica, vescovo di Fermo, 96

Gian Galeazzo Visconti, 82

Gilardino di Giovanni da S. Elpidio, 54

Gilberto, conte, padre di Balignano, 27

Gioisia Acquaviva da Atri, 78,85,95

 Giorgio Albanese, beato, 90

Giorgio da Como, architetto 48

Giorgio da Como, architetto, 29

Giorgio da Roma, 75

Giovannello, fratello di Bonifacio IX, 73

Giovanni Corvino Uniade, governatore dell’Ungheria, 94

Giovanni d’Angio, 95

Giovanni da Capistrano, 94

Giovanni di Penna S. Giovanni, 40

Giovanni Ferri di Ascoli, 100

Giovanni II, figlio di Alberico, 17

Giovanni III de Bertoldis, vescovo di Fermo, 77

Giovanni IV de Firmonibus, vescovo di Fermo, 77

Giovanni Paolo II, papa, 54

Giovanni Vanni, cittadino fermano, 86

Giovanni Visconti da Oleggio, 63,65

Giovanni X, papa, 16

Giovanni XXII, papa, 53,55

Giovanni XXIII, antipapa, 75,76,77

Girfalco, , 44

Girfalco, 60,67,73,74,76,78,80,86,87,91,92

Gisone, turore di Azzone VII d’Este, marche di Ancona, 35

Giubileo, 51,74

Giudei, 80,103

Giudice Generale della Marca, 63

Giudici, 99

Giusti di Filippo, massarius, 41

Golfarango (o Wolfango), vescovo di Fermo, 21

Gomesio, conte di Spanta, 65,66

Gonfaloniere della Chiesa, 83

Governo Centrale, 100

Governo pontificio, 47,73

Governo regionale, 100

Gozzolino, tiranno di Osimo, 56

Gregorio di Catino, 16

Gregorio IX, papa, 36,39,43,44

Gregorio Magno, papa, 23

Gregorio VII, papa, 20,21

Gregorio X, papa, 47,67,71.72

Gregorio XII, papa, 75,76

Grimaldo, vescovo di Fermo, 27

Grottammare, 63,101

Gualdo, 83

Gualterio, figlio di Aimone, 15

Guarnerio, marchese di Ancona, 29

Guarnerio, marchese figlio di Guarnerio,28

Guarnerio, marchese,27

Guelfi, 45,46,47,51,53,56,59,61,73

Guerriero, fuoruscito di Ascoli, 85

Guglielmo da Massa, 35,40

Guglielmo da Massa, figlio di Guglielmo, 56

Guglielmo da Massa, padre di Gerardo vescovo di Fermo, 46

Guglielmo da Massa, padre di Guglielmo, 56

Guglielmo di Brienne, re di Gerusalemme, 48

Guido da Landriano, podestà, 41

Guido di Spoleto, 13

Halley, cometa, 94

Ildebrando, duca di Spoleto, 15,20

Ilderico di Causaria, 18

Imperatore di Costantinopoli, 20

Imperatore Spoletino, 15

Imperatore Tedesco, 15

Ingealdo, abate, 15

Innocenzo II, papa, 27

Innocenzo III, papa, 33,34,43,44

Innocenzo VI, papa, 59

Innocenzo VII, papa, 74,75

Innocenzo VIII, papa, 96

Ismeduccio, signore di San Severino, 59

Italia Settentrionale, 7

Italia, 17,28,43,51.53,56,82,94,96

Jacopone da Todi, 74

Jesi, 36,59,61,62,87,95

Judex, paragonabili al nostro segretario comunale, 42

Ladislao, re di Napoli, 74

Lamberto, figlio di Guido di Spoleto, 12,13

Lazio, 7

Lega Fiorentina, 67,75

Legato della Marca, 90

Legato Pontificio di Ancona, 35,95,97

Legnano, 28

Leonardo de Fisiciis, vescovo di Fermo, 75

Leone di Arciprando, 18

Leone III, 7

Leone IX, papa, 19,20

Leonessa, 104

Liberto, vescovo di Fermo, 27

Lione, 45

Liutprando, re longobardo, 18

Lodi, 94

Lomo, signore di Jesi, 59

Longino di Ottone, 16

Longobardi, 7,12,23

Loro, 40,77

Lotario II di Sassonia, imperatore, 27

Lotario, imperatore, 12,15

Luca di Canale, 73

Luchina, moglie di Rinaldo da Monteverde, 67,68

Luchino, figlio di Rinaldo da Monteverde, 67,68

Ludovico di Antonio, podestà, 73

Ludovico il Bavaro, 52,53

Ludovico Migliorati, 76,77,78,79,82

Luigi il Pio, imperatore, 12

Luigi XI, re di Francia, 94

Lupo Ruggero, podestà di Fermo, ghibellino, 47

Lupo, duca di Fermo, 9

Macelli, 75

Macerata, 2326,32,34,35,36,37,45,51,52,59,60,62,73,83

Madonna della Misericordia, 74

Mainardi, signori, 40

Malatesta, signore di Rimini, 59,76

Manfredi, 46,47

Mantova, 94

Maometto II, 94,96

Marano, 35,63

Marca Anconetana, 34

Marca di Ancona, 34,35,37,45

Marca Fermana, 1619,20,34

Marca, 101

Marca, 17,27,29,31,33,34,35,51,52,59,60,61,62,6373,75,83,90.96

Marche, 18,29,46,47,48,51,60,61,62,63,66,67,74,82,83,84,86,95

Marchese di Ancona, 27,31,34,35

Marchese di Este (Azzone VI), 34

Marchigiani, 73,86

Marciari Nicola, vescovo di Fermo, 71

Marcoaldo di Anninuccia, 31

Marcoaldo di Anweller, 31

Marcoaldo, marchese, 32,33

Mare Adriatico, 47

Marino Marinelli da S. Vittoria in Matenano, 73,74

Marinuccio Mostacci da Offida, 78

Martello Marco, riformatore degli statuti di Fermo, 41

Martino V (Ottone Colonna), papa, 76,77,78

Massa, 35,40,46,56,59,66,67,73,75,77

Massarius = Sindicus, 42

Massignano, 40

Masso di Tommaso da Montolmo, podestà, 54

Matelica, 61,67

Mattei Matteo, cavaliere fermano, 55,56

Matteo da Fano, 54

Matteo II, abate farfense, 45

Mauro, presbitero fermano, 15

Medici, 99

Medio Oriente, 43,90

Mediterraneo, 83

Melfi, 20

Mercanti, 99

Mercenario da Monteverde, 52,53,54,56,59,66,82

Mercenario, figlio di Rinaldo da Monteverde, 68

Migliorati Ludovico, 74,75

Milano, 28,29,65,77,82,83,85,87,91,94

Modena, 39

Mogliano, 40,53,56,75,77,82

Molucci, signori di Macerata, 59

Monaldo di Penna S. Giovanni, 40

Mondavio, 61

Monsammartino, 47

Monsampietrangeli, 52,95,96,97

Monsampietro Morico, 75

Montappone, 75

Monte di Pietà, 103,104,105

Monte Fiore, 61

Monte Leone, 75

Monte Matenano, 15

Monte Milone (Pollenza), 83

Monte Rubbiano, 52,53

Monte S. Giusto, 73,96

Monte S. Maria in Georgio, 37

Monte Santo (oggi Potenza Picena), 27,36,37

Monte Soratte, 79

Monte Urano, 73,75,89

Monte Varmine, 55

Monte Varmine, 56

Monte Vidon Combatte, 75

Monte Vidon Corrado, 40,74,75

Montecassino, 20

Montecchio (oggi Treia), 46,76,83

Montecosaro, 28,35,76,

Montefalcone, 45

Montefalcone, 47,67

Montefeltro, 17,59,62

Montefortino, 86

Montegallo, 104

Montegiorgio, 36,40,67,73,75,89,96

Montegiorgio, 40

Montegranaro, 35,76,89

Monteleone, 15

Montelparo, 15

Montelupone, 36,37

Monteluro (Pesaro), 88,89

Monterinaldo, 15

Monterubbiano, 36,37,61

Montesampietrangeli, 48,75.89

Monteverde, 40,52,53,54,59,65,66,67,68,71,72,73,75,82,89

Montolmo, 35,36,37,54,55,75,83,90

Montottone, 35,52,72,73,75

Moregnano, 89

Morrovalle, 28,34,35,36,37,76

Mugnai, 99

Mulattieri, 99

Napoli, 74,75,84,88,89,91,94,95,101

Napoli, 74

Negroponte, 96

Niccolò Fortebraccio, capitano, 83

Niccolò V, antipapa (Pietro di Corbara)

Nicola De Merciariis, vescovo di Ripatransone, 66

Nicolò II, papa, 20

Nicolò Maurizi da Tolentino, condottiero, 83

Nicolò Piccinino, condottiero, 87

Nicolò V, papa, 94

Nolfo, signore di Montefeltro, 59

Norcia, 78,97

Norcini, 97

Normanni, 19,20,27

Notai, 99

Notaio dei danni, messo comunale, esattore di multe, 42

Numana, 61

Offida, 16,23,33.61,78,91

Offoni, signori, 40

Olderico, vescovo di Fermo, 19,21

Oleggio, 63

Onorio III, papa, 34,35,36,43,44

Onorio IV, papa, 46,48

Oratorio di Santa Maria della Carità, 55

Orciano, 61

Ordelaffi Francesco di Forlì, 63

Ordelaffi, signore di Forlì, 57,59,60

Ordine Francescano, 104

Ordini Maggiori, 71

Ordini Minori, 71

Orefici, 99

Oriente, 43

Ortezzano, 15,75

Ortezzano, 75

Osimo, 7,45,52,56,61,62,96

Ospedale di Fermo, 55

Ospedale di Santa Maria della Carità, 55

Osti, 99

Otranto, 96

Otto Mazarino Bonterzi da S. Vittoria in Matenano, 73

Ottone Colonna (papa Martino V), 76

Ottone I di Brunsvik, 17

Ottone II, figlio di Ottone I, 17

Ottone IV di Brunswik, imperatore, 34,44,45

Ottone, padre di Longino, 16

Paccaroni, famiglia fermana, 48

Palazzo di Giustizia, 103

Palazzo Municipale di Fermo, 48

Pandolfo Malatesta di Pesaro, padre di Taddea, 77

Pandolfo, legato pontificio, 35,36,39

Pangione, signore di Cingoli, 59

Paolo II, papa, 95

Parlamento Generale, 42,83

Parma, 44,46

Parto della B. Vergine, quadro, 88

Pasquale I, papa, 12

Passivo, vescovo di Fermo, 23

Patria, 84

Patriarca di Aquileia, 35

Paulo, 91

Pavia, 17,18,28

Pellicciari, 99

Pencirvalle di Oria, condottiero, 46

Penisola, 82,90

Penna San Giovanni, 40,45,47,61

Penne, località, 18

Pentapoli, 7

Perugia, 47,73,101,104

Pesaro, 61,62,77,91

Pescara, 7,12

Pescatori, 99

Petriolo, 40,76,77

Petritoli, 75

Petritoli, 85,86,89

Petro, 91

Petrocco da Massa Fermana, 59

Piagge, 61

Piazza S. Martino, 68,74,85,88,92,103

Piccinino, 91

Piceno, 12,15,16,45

Pieca, castello, 40

Pier Damiani,19

Pietro Bini, vescovo di Fermo, 102

Pietro di Corbara (Nicolò V antipapa), 53Pietro I, vescovo di Fermo, 21

Pietro IV, vescovo di Fermo, 34,35

Pietro, abate, 15

Pio II, papa, 92,94,95

Pipino, re, 7

Pirenei, 8

Pisa, 75

Podestà, giusperito normalmente forestiero, 42

Poggio S. Giuliano (poi Macerata), 26

Polverigi, 33

Pontida, 28

Porchia, 73

Porta di Cupra (Cupetta), 90

Porta S. Giuliano, 68,73,77,83,86

Porta San Pietro Vecchio, 54

Portieri, addetti alle porte del castello, 42

Potenza Picena, 32,35

Potenza,fiume, 34,39,44,45,47

Presbitero, vescovo di Fermo, 31

Presbitero, vescovodi Fermo, 33

Presidato Camerinese, 61

Presidato dell’Abbadia di Farfa, 61

Presidato di Camerino, 62

Presidato di S. Lorenzo in Campo, 61

Presidato di S. Lorenzo in Campo, 62

Presidato di S. Vittoria, 45,91

Presidato Farfense di S. Vittoria, 62

Presidato Farfense, 45,61,89

Presidato, , 51

Principato di Fermo, 90

Priori, uno per ogni contrada, 41

Procuratori, 99

Puglia, 19,20,86

Quercy, 7

Rabennone, conte di Fermo, 15

Rabennone, conte di Fermo, 9

Rainaldo di Monaldo, vescovo di Fermo, 35,36

Rainaldo, vescovo di Fermo, 36,39

Rangone Guglielmo da Modena, 39

Raniero Zeno, doge di Venezia, 47

Raterio, nipote di Re Ugo di Borgogna, 16

Ratfredo, abate di Farfa, 16

Ravenna, 7,78

Re d’Italia, 17

Re di Gallura, 45

Re di Germania, 43

Re di Napoli, 75

Re di Sicilia, 34

Re Ferdinando, 95

Recanati, 52,59,60,61,62.83,88

Reginaldo, console di Fermo, 24

Regno d’Italia, 7,12

Regno di Napoli, 84,95,101

Regno di Sicilia, 34,43,46

Regno Franco, 7

Regno Italico, 16

Regno Longobardo, 7

Regno, 61

Reliquia della Sacra Spina, 67

Repubblica di Firenze, 74

Repubblica di Venezia, 47

Rettore della Marca, 62,73,74,83

Rettore di Ancona, 61

Rettore Pontificio, 61

Rieti, 15

Rimini, 31,56,59,74,95,

Rimone, prete, 16

Rinaldo da Monteverde, 65,66,67,68,71,72

Rinaldo da Petriolo, 40

Rinaldo di Acquaviva. Condottiero, 45

Rinaldo di Loro, 40

Rinaldo di Monteverde, 40,73

Rinaldo di Urslingen, duca di Spoleto, 39,41,43

Ripa, 79

Ripani, 87,96

Ripatransone, 23,32,35,40,47,52,71,66,79,8387,88,90,95,96,07

Roberto da Castiglione, vicario imperiale, 45,46

Roberto di Ginevra, 71

Roberto Guiscardo, 20

Rodolfo da Camerino, 67

Rodolfo Varano da Camerino, 59,60,67,76

Rolando, legato pontificio, 36

Roma, 7,15,17,20,21,51,53,59,67,71,75,78,85,91,

Romagna, 51,59,95

Romani, 12

Ruggero, figlio di Gentile da Mogliano, 63

S. Abundi, curtis, 15

S. Agostino, chiesa di Ripatransone, 88

S. Agostino, chiesa, 48,67,80

S. Agostino, torre campanaria, 56

S. Angelo in Piano (Carassai), 101

S. Angelo in Pontano, 73,83,101

S. Angelo in Trifonso, chiesa, 79

S. Barnaba, 67

S. Bartolomeo, 67,68,103

S. Benedetto in Albula, 47,48,96,97

S. Caterina da Siena, 67,71

S. Caterina, chiesa, 48

S. Claudio al Chienti, 101

S. Domenico, chiesa, 48,80

S. Domenico, predicatore, 48

S. Elpidio Morico, 75

S. Elpidio, 34,35,36,37,52,55,66,67

S. Francesco, 54

S. Francesco, chiesa di Fermo, 48,80,88

S. Germano, località, 43

S. Giacomo della Marca, 86,90

S. Ginesio, 8,83,85

S. Giusto, 35,76

S. Lorenzo in Campo, 61,62

S. Lucia, chiesa di Fermo, 64

S. Lucia, chiesa di Fermo, 88

S. Marco alle Paludi, 47

S. Marco, pieve, (oggi Servigliano), 23

S. Maria dell’umiltà, chiesa di Fermo, 85

S. Maria della Fede, 87

S. Maria Maddalena, chiesa di Ripatransone 87

S. Maria, chiesa di Fermo, 92

S. Marina, monastero, 15

S. Martino, 76

S. Martino, chiesa di Fermo, 86

S. Paterniano, chiesa, 28

S. Pietro (Vecchio), chiesa di Fermo, 54

S. Pietro, 7

S. Pietro, monastero, 48

S. Severino, 57,59,61,67,76,100

S. Silvestro, monastero, 15

S. Vincenzo Ferreri, 71

S. Vittoria in Matenano, 16,23,44,45,57,51,59,61,62,67,72,73,89,90,91

S. Vittoria, 15

S.Ginesio, 40

Sabina, regione, 66

Sacro Romano Impero, 7,8,9,10,17,51

Salirone, 16,17

Salutati, segretario fiorentino, 67

Santa Maria, confraternita, 55

Santa Prisca, 89,90

Santa Sede, 7,19,31,32,37,46,47,51,52,53,59,60,63,67,95

Santoro Puci, condottiero riparano, 87,88,90

Saraceni, 15,16,44

Sardegna, 83

Sarnano, 40

Sarnano, 61,87

Sartori, 99

Sassonia, 27

Scalpellini, 99

Schiavonia, 86

Scisma d’Occidente, 71,74,76

Sculcula (oggi Porto d’Ascoli), 47,56

Sede Apostolica, 41

Sellari, 99

Senigallia, 61,62

Serravalle, 85

Servigliano, 23

Settimana Santa, 103

Shabat, pirata, 12

Sibillini, 99

Sicilia, 31,32,34,83

Siena, 67,71

Sigismondo di Lussemburgo, imperatore, 76

Sigismondo Malatesta di Rimini, 91.95

Simone da Camerino, frate agostiniano, 80,94,102

Sindicus = Massarius, 41

Sisto IV, papa, 95,101

Spagna, 8,94

Spanta, 65,66

Spoletani, 16

Spoletini, 19

Spoleto, 7,9,15,29,39,43

Stato della Chiesa, 82,83

Stato Fermano, 75,83,99

Stato Feudale Farfense, 16

Stato Pontificio, 59,72,82,83,99

Stato Spagnolo di Castglia, 94

Stato Spagnolo di Leon, 94

Statuti, 100

Sulmona, 74,75

Sultano d’Egitto, 43

Taddea, seconda moglie di Ludovico Migliorati, 77,78

Tancredi, 31

Tanursi, storico, 79

Tenna, fiume, 47,61,67,90,99,101

Teramo, 85,104

Terra Santa, 24,74

Tesoriere della Marca, 62

Thener, 61

Todi, 74

Tolentino, 61,83,86

Torchiaro, 75

Torchiaro, 89

Torre di Palme, 101

Torre Matteucci, 48

Torre S. Patrizio, 40,75

Toscana, 7,83,84

Trasfigurazione, festa, 94

Trasone, 18

Trattato di San Germano, 43

Treia, 45

Trento, 28

Tribunale Superiore della Regione, 62

Trombecta, banditore, 42

Tronto, fiume, 20,34,39,44,47

Truento, 12

Turchi, 55,71,87,90,94,96

Turcomanni, 8

Uberto, conte di Fermo, 21

Uberto, vescovo, 18

Uberto, vescovo, 19

Ugo di Monte Vidon Corrado, 40

Ugo II, vescovo di Fermo, 34,35,39

Ugo, abate, 15

Ugo, re di Borgogna, 16

Ugo, re di Borgogna, 16,17

Ugo, re di Borgogna, 17

Ulcandinus (Ugo Candido), 23

Umbria, 7

Ungheria, 94

Università di Fermo, 12,91

Urbano VI, papa, 71

Urbano, VI, papa, 72

Urbino, 61,62,95

Urbisaglia, 40

Val Tesino, 79

Valle del Garigliano, 16

Valle del Tenna, 47

Valle del Tronto, 47

Valle della Cupetta, 90

Valle Padana, 82

Vanni Andreoli di Fermo, 75

Varano Bernardo da Camerino,, 52

Veneto, 82

Venezia, 29,31,37,46,47,67,82,83,84,85,87,88,94

Veneziani, 96

Verona, 15,16,44

Vetreto, 97

Vicario del Papa nelle Marche, 91

Vicario di Cristo, 51

Vicario nella Marca, 83

Vicedelegato della Marca, 96

Villa Firmana, 53

Vipera Antonio, progettista della chiesa di San Francesco, 48

Visconti, 66,67,84

Vitelleschi vescovo di Macerata e Recanati, 83

Vittore IV, antipapa, 28

Wolfango (o Volfarango), vescovo di Fermo, 21

Zambocco di Napoli, capitano, 74

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SANTA VITTORIA IN MATENANO STORIA SCRITTA DA GIUSEPPE MICHETTI

Don Giuseppe Michetti

SANTA VITTORIA IN MATENANO

EDITRICE “LA RAPIDA”      – SECONDA EDIZIONE

A Santa Vittoria V. e M.

voluta dai Nostri Padri

con Decreto Statutario

« Avvocata e Governatrice della Città »

dedico

nel Ventunesimo Cinquantenario

da quando le Sue Reliquie

vennero sul Matenano

                                                                           benedicenti

PRESENTAZIONE

Esaurita la prima edizione di questo libro, date le continue richieste, ho creduto utile farne una seconda, riesaminata e corretta, perché c’era da correggere. Che volete ! La prima edizione uscì nel 1969, quindici anni fa; è naturale che l’autore, dopo quindici anni di studio, veda le cose molto più chiaramente e con più precisione.

E’ una storia tanto bella che sembra una fiaba, ma vi assicuro che è scritta sulla base di documenti assolutamente certi e accuratamente controllati.

Spero che i giovani del mio Paese, per ì quali principalmente l’ho scritta, la leggeranno con l’amore che ha guidato me nello scriverla.

La nostra storia comincia nell’897.

Io non intendo farvi la preistoria del paese, cominciando dai cavernicoli, o dai Piceni, o dei Romani della vicina Falerio; voglio scrivere una storia vera, come poche città potrebbero vantarne una.

La difficoltà non la trovo nel procurarmi documenti, ma nello scegliere gli essenziali, per non riuscir troppo prolisso.

Fino al 1039 mi servirò delle notizie che ci fornisce l’Abate Ugo nella « Destructio », riportandone brani tradotti in italiano. Egli fu Abate di Farfa dal 997 al 1039 ed è il primo vero storico di Santa Vittoria in Matenano.

                                                                                                                     L’AUTORE

GIUDIZI SULLA PRIMA EDIZIONE

Quando uscì la prima edizione di questo libro, nel lontano 1969, il settimanale « La Voce delle Marche » n. 27 – Anno LXXVIII, così lo recensì :

E’ uscito in questi giorni, in elegante veste tipografica (Ed. La Rapida di Fermo) il volume di don Giuseppe Michetti intitolato « Santa Vittoria in Matenano ».

L’abbiamo letto tutto d’un fiato e con vero piacere. Il che è buon segno, in questo periodo in cui tanto si scrive, ma purtroppo non sempre ben si scrive. E Michetti ha scritto veramente bene.

Presenta in forma spigliata e piacevole la storia di una città che nel passato è stata centro di interesse per tanta popolazione che guardava con fondata speranza all’attività religioso-sociale degli infaticabili monaci Farfensi. Egli confida che i suoi « giovani compaesani la leggeranno con amore »; di questo siamo certi anche noi.

E proprio perché si rivolge ai giovani studenti, Don Giuseppe ha avuto particolare cura di presentare anche i grandi fenomeni che s’intrecciano con la storia di S. Vittoria in Matenano: i Farfensi, i Guelfi e i ghibellini, i Comuni, i Podestà, il banditismo, le signorie, gli scismi, la rivoluzione francese, il Risorgimento. . . Ne viene fuori un quadro completo che permette di comprendere gli avvenimenti storici, non con la mentalità di oggi (sarebbe un grave errore), ma con la mentalità del tempo, nel pieno dei fenomeni che allora si svolgevano.

Ci rallegriamo con don Giuseppe ed auguriamo alla sua opera la diffusione che, a nostro avviso, ha dimostrato ampiamente di meritare.

                                                          * * *

La tua storia di S. Vittoria in Matenano è una pubblicazione veramente interessante che ho letto tutta d’un fiato ».

                                                                                                       Ing. N. Cesarei

                                                         * * *

Della storia di S. Vittoria in Matenano che dirle? E’ un lavoro semplice, ma completo in ogni sua parte e perfettamente rispondente allo scopo che ella si è prefisso nel dettarla. Mi auguro che sia apprezzato dai suoi concittadini i quali, nel suo libretto, hanno motivi per apprezzare sempre più e sempre meglio il piacere di essere cittadini di un luogo così interessante e di così storica importanza.

S. Benedetto del Tronto, 5 gennaio 1971

                                                                                                    Prof. Enrico Liburdi

INDICE

Presentazione………………………………………………………………………..Pag.  3

Giudizi sulla prima edizione…………………………………………………      “      4

CAPITOLO I

S. VITTORIA NELL’ETÀ’ FEUDALE

Il Castello di S. Maria – Pietro I – Rimone – Ratfredo…………………… “    6

Ratfredo…………………………………………………………………………………… “   7

S. Vittoria V. e M. ………………………………………………………………………. “   7

I “mali Abates”…………………………………………………………………………… “   9

L’incendio del castello………………………………………………………………… “ 10

S. Vittoria e Ottone II – Prima scissione………………………………………… “ 10

I Farfensi……………………………………………………………………………………. “ 11

I Farfensi nel Piceno……………………………………………………………………. “ 13

Ugo I – Il primo Priore – Suppone………………………………………………… “ 15

Berardo I da Orte (1047-1085)…………………………………………………….. “ 15

S. Vittoria in Matenano nel 1050……………………………………………….….. “ 16

Possedimenti Farfensi nel Piceno…………………………………………….…… “ 17

Egemonia di S. Vittoria………………………………………………………………..    “18

Guelfi e Ghibellini……………………………………………………………………….… “19

CAPITOLO II

S. VITTORIA NELL’ETÀ’ DEI COMUNI

Parte I

Il Comune……………………………………………………………………………..…….. “  20

L’Abate Matteo I e i Comuni………………………………………………………..… “  22

Il nostro Comune……………………………………………………………………..….. “  23

L’incastellamento…………………………………………………………………….….. “  24

Odorisio – L’Abate Podestà (1235-1238)………………………………………. “  26

Dopo la guerra del 1240, alleanza con Fermo……………………………….. “  27

Rottura…………………………………………………………………………………….…. “  28

Il privilegio di Urbano IV……………………………………………………………… “  29

Morico di Monte………………………………………………………………………….. “  30

CAPITOLO III

S. VITTORIA NELL’ETÀ’ DEI COMUNI

Parte II

Presidato Farfense di S. Vittoria…………………………………………………… “  30

Podestà………………………………………………………………………………………. “  32

La strage di Sorbelliano……………………………………………………………….. “  33

I banditi………………………………………………………………………………………. “  35

S. Vittoria nel Secolo XIV………………………………………………………………. “  35

Durante il periodo di Avignone…………………………………………………….. “  36

CAPITOLO IV

LE SIGNORIE

Le Signorie…………………………………………………………………………………. “   38

S. Vittoria e le Signorie………………………………………………………………… “   39 

S. Vittoria e Urbano VI…………………………………………………………………. “  41         

S. Vittoria e Bonifacio IX (1388-1404)……………………………………..…….. “ 42

S Vittoria nel secolo XV……………………………………………………………..… “    43        

Durante lo scisma d’occidente………………………………………………….….  “  44

 Dopo lo scisma…………………………………………………………………………..  “  45

La Signoria di Francesco Sforza….………………………………………………..  “    47       

CAPITOLO V

S. VITTORIA NELL’ETÀ’ MODERNA

Declino……………………………………………………………………………………….. “  48         

Artisti di S. Vittoria nel ’400…………………………………………………………. “   49

S. Vittoria nel secolo XVI……………………………………………………………… “   50

Personaggi illustri………………………………………………………………………. “   51

S. Vittoria nel secolo XVII………………………………………………..…………… “   52  

La nuova Basilica Collegiata………………………….……………………………… “  53

Una umile benefattrice…………………………………………………………………. “ 53

Durante la rivoluzione francese…………………………………………………….. “ 53

S. Vittoria e il Risorgimento…………………………………………………………… “ 54

Gli illustri vittoriesi del Risorgimento…………………………………………….. “ 54                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

APPENDICE

Lettura I: Il governo comunale………………………………………………….….. “  55

Lettura II: Alcuni aspetti della vita civile……………………………………………. “   57

CAPITOLO I

S.VITTORIA NELL’ETA’ FEUDALE

IL CASTELLO DI S. MARIA -PIETRO I – RIMONE – RATFREDO

Nel secolo IX e fino al 916, i Saraceni furono la più grande calamità per l’Italia. Essi non erano un popolo di invasori, ma orde di briganti organizzate, che scorazzavano per la Penisola, saccheggiando e seminando distruzioni, senza incontrare serie difficoltà, per lo stato di divisione e quasi di anarchia nella quale l’Italia si trovava. I Saraceni avevano nell’Italia meridionale dei punti fortificati, dai quali partivano e ai quali tornavano col bottino, che poi spedivano verso l’oriente.

Prendevano di mira soprattutto i monasteri, perché là trovavano la migliore ricompensa alle loro scorrerie. Nell’ 890 assalirono la Badia di Farfa, una delle più belle d’Italia e forse la più ricca.

L’Abate Pietro I ( 890-927 ) tenne testa ai briganti saraceni col suo piccolo esercito, per sette anni; poi vedendo che non avrebbe più potuto resistere, fece evacuare il monastero, mandando in luoghi più sicuri i monaci col tesoro; e con una parte di essi venne nelle Marche, dove i farfensi possedevano molti monasteri e molte terre.

L’Abate Ugo così narra l’origine del nostro paese: «L’Abate Pietro venuto nel Comitato Fermano, incominciò ad abitare nel monastero di S. Ippolito e di S. Giovanni detto in Selva (1) insieme ai fratelli che aveva condotto seco dalla Sibilla e a quelli che ci aveva trovati, piangente ed afflitto per la rovina del suo monastero (Farfa). Nel frattempo i saraceni nelle loro scorrerie incominciarono a penetrare anche nel Comitato Fermano, per cui il detto abate, messo di nuovo in apprensione, radunò i suoi monaci e i suoi soldati e fece un castello sul monte Matenano, dove poi fu trasportato il Corpo di S. Vittoria. Ivi rimasero aspettando che finisse quella persecuzione . . . ».

Finalmente nel 916 un fatto nuovo riempì di gaudio l’Abate Pietro I. Il Papa Giovanni X era riuscito a formare una lega di signori italiani per combattere i Saraceni e, partecipando anche lui alla battaglia armato come un guerriero qualunque, aveva conquistato Traietto, dopo tre mesi di assedio. (2)

I Saraceni non c’erano più; si poteva pensare di tornare nell’antico Monastero per riedificarlo, ma non era cosa da poco metter mano a quelle rovine, perché mancavano i mezzi sufficienti; l’età poi cominciava a pesargli.

Una parte dei suoi monaci e i soldati lo convinsero a designare un suo successore che lo coadiuvasse nel governo, nella persona di un certo chierico di nome Rimone, di una potente famiglia che dominava nel Fermano; il che egli fece, nel 919.

Gran parte dei monaci si ribellarono a questa decisione di Pietro I, che difatti era irregolare, ed elessero un monaco che si chiamò Giovanni II, del quale il Chronicon dice di conoscere solo il nome.   

 E difatti che volete che potesse fare l’Abate Giovanni II, di fronte a Rimone, appoggiato dall’Abate legittimo e dalla sua potente famiglia? Le cose si trascinarono così fino al 927, quando Pietro I morì.

Un monaco di nome Campone, di nobile famiglia di Rieti, che Pietro I aveva educato fin dalla fanciullezza e fatto istruire anche nella medicina, lo avvelenò. Fu sepolto a S. Vittoria, nell’oratorio a pianterreno della torre da lui fabbricata.

Morto Pietro I, restò Abate Rimone per un anno, poiché alla fine del 928, venuto nella Marca RE Ugo, cacciò dal Fer-mano i parenti di Rimone e lui con essi, e al suo posto mise un proprio nipote di nome Ratfredo. Rimone andò a Roma, dove l’anno appresso morì avvelenato. (3)

RATFREDO

« Ratfredo, preso il governo della Badia, incominciò ad agire con molto coraggio, perché c’erano rovine dappertutto. Radunate pertanto cento famiglie di uomini liberi e di servi del Comitato Fermano, le condusse con sé nella Sabina, a restaurare il monastero di Farfa, già da molto deserto ».

Dunque l’abate Ratfredo si servì di maestranze e operai piceni per ricostruire Farfa, ed essi riuscirono a compiere quel lavoro gigantesco in due anni: dal 932 al 934. Appena finito il lavoro di Farfa, il 20 giugno del 934, Ratfredo riconduce gli operai nelle Marche, portando insieme a loro sul Matenano il Corpo della martire S. Vittoria (4).

 Lo storico abate Ugo dice così : « Fu lui ( Ratfredo ) a trasportare il Corpo di S. Vittoria dalla Sabina al luogo dove ora si venera, cioè sul monte Matenano. Conferì a quel luogo molti altri benefici e fu lui che fece di nuovo fabbricare e consacrare la chiesa e il monastero, il che è notissimo ».

La chiesa e il monastero costruiti da Ratfredo sul Matenano erano grandiosi : se ne trova la descrizione genuina nei documenti dell’archivio priorale, che è uno degli archivi più interessanti delle Marche. Erano situati sulla cima del colle; caddero in rovina nel secolo XVII; di questi edifici resta solo il prezioso Cappellone.

Da Ratfredo incomincia la grandezza del paese: da quel monastero e da quel Santuario si irradiò per molti secoli la Fede e la Civiltà su tutto il Piceno. I pellegrinaggi incominciarono presto a venire da ogni parte; andavano all’urna della santa, andavano a « S. Vittoria », e il paese si chiamò : « S. Vittoria in Matenano ».

S. VITTORIA V. E MARTIRE

Poiché tutta la storia del nostro paese è legata al nome della Vergine e Martire S. Vittoria, è bene ricordare qui in breve la storia di questa Santa, che gli Statuti Comunali chiamano « Avvocata e Governatrice della città ».

Era una giovane di nobile famiglia romana, nata, secondo le più attendibili testimonianze, verso il 230 dopo Cristo. Educata cristianamente, come la sua intima amica Anatolia, era fidanzata con un nobile giovane romano di nome Eugenio, non cristiano.

per lunghi secoli venne celebrata dalla posterità farfense e finì per dare origine e nome, come canterà più tardi il Poeta, a S. Vittoria in Matenano, barriera inespugnabile dello Stato Farfense Piceno ».

Un giorno questi le chiese di fare opera di persuasione presso l’amica Anatolia, a favore di un suo amico, Tito Aurelio, che la voleva in sposa. Vittoria cercò di convincere Anatolia, facendole notare che le nozze non sono contro lo spirito del cristianesimo; anzi per mezzo delle nozze si può fare del bene; si potrebbero anche convertire al cristianesimo i futuri mariti, ora pagani.

Anatolia espose a Vittoria le sue idee in proposito; le parlò di vita consacrata solo a Dio, raccontandole di una visione che spesso aveva: un angelo meraviglioso le parlava sempre della bellezza della verginità, ed ella aveva deciso di dedicarsi e vivere sola con Dio. Le parole di Anatolia furono così persuasive, che Vittoria decise anch’essa di rinunziare alle nozze.

Eugenio, infuriato per questo risultato, ottenne dalle autorità romane che Vittoria fosse relegata nella villa che egli aveva a Trebula Mutuesca, oggi Monteleone Sabina, sperando di cambiare in seguito i pensieri della fidanzata colle lusinghe e coi maltrattamenti.

Tre anni di durissima vita non valsero a mutare la decisione di Lei, per cui Eugenio denunziò Vittoria come cristiana e ottenne che fosse mandato un sicario per toglierle la vita. Così Vittoria morì di pugnale, nel 251.

Poiché a Trebula eran numerosissimi i cristiani, anche per le conversioni operate da Vittoria in quei tre anni di esilio, il corpo di Lei fu da essi sepolto con molta cura, e la sua tomba divenne in seguito meta di pellegrinaggi. Il nome e la devozione a S. Vittoria si diffusero sempre di più non solo in Italia ma anche in altre nazioni.

Durante le invasioni barbariche, il S. Corpo fu sottratto alla profanazione in nascondiglio sicuro (5). Nel sec. VIII quando i Farfensi estesero il loro dominio su gran parte del territorio di Trebula, curarono la costruzione di una chiesa dedicata a S. Vittoria, nella quale si venerarono le S. Reliquie; sopraggiunto il pericolo saraceno, esse furono trasportate nel monastero di Farfa. Il 20 Giugno 934, l’Abate Ratfredo le fece trasportare sul Matenano (6).   

Nel Medioevo, S. Vittoria era una delle Sante più venerate in Italia e fuori. A diffondere questa venerazione furono principalmente i Benedettini; tanto che possiamo affermare essere stato sicuramente proprietà dei monaci un paese, dove si venera S. Vittoria V. e M. (7).

A poca distanza da Monteleone Sabina esiste la bella chiesa che la tradizione dice sorta su le rovine della villa dove visse prigioniera S. Vittoria. Intorno alla chiesa abbondano pietre lavorate che facevano parte della villa. Su quelle, un pellegrino poeta così cantò, un giorno di febbraio 1968 :

« Sullo scosceso colle ove spandeasi Trebula al sole, qualche derelitto rudere resta tra gli ulivi, asilo al rettile e coltivatore inciampo.

La villa ove inumano amor ti tenne prigioniera, Vittoria, non c’è più: tutto travolse il tempo, ma il ricordo Della Fanciulla che sfidò il dragone E’ vivo sempre e ispira eterno amore.

E volò al cielo col petto squarciato Tra queste pietre io vado meditando, E le abbraccio e le bacio. E’ forse questa La pietra ove sedevi a ricamare, anelando al tuo Dio? Su quella forse Il tuo piede leggero s’è posato? Io ricerco una pietra carezzata Dalla tua mano angelica. Qualcuna Di queste pietre rotte, abbandonate Ha udito la tua voce e la preghiera: La tua angoscio ha sentito e ha raccolto Le lacrime segrete. O care pietre,

Qui da tutti obliate, voi non siete freddi sassi per me; Io da lontano Son venuto a sentir la vostra voce; Io son venuto qua dal Matenano Che in urna accoglie le Beate Spoglie Della vostra Vittoria. A me parlate Di Lei, ché son venuto per sentire Più vivo in me il suo spirito aleggiare.

Sul Matenano anch’io, come ogni bimbo, Primieramente con quello di Mamma, Appresi pure il nome di Vittoria Lassù, nel nome di Vittoria Santa, si consacrano i talami e le culle; E sempre a Lei della fuggente vita E’ dedicato l’ultimo sospiro.

I « MALI ABATES »

«Appena morto (Ratfredo), (936), Ildebrando si recò a Pavia da re Ugo, che ancora viveva, e con molto denaro comprò la Badia per il pessimo Campone; indi tornò attraverso la Marca, dove gli corse incontro Campone. Questi, ricevuto il dono trasmessogli dal re, cioè il governo della badia, preso il comando dei soldati marchigiani e assicurato il possesso di tutti i luoghi grandi e piccoli che appartenevano alla Badia, se ne tornarono ambedue in Sabina … ».

« La pace non durò tra loro più di un anno, poi cominciarono le contese. Ildebrando si unì ai marchigiani, accattivandoseli con molto denaro, e tolse a Campone i beni della badia che erano nella Marca, coi’ monaci e i soldati; ma Campone corse nella Marca e, distribuendo ancor più denaro… cacciò Ildebrando dal castello di S. Vittoria e da tutto il territorio della badia. E ritornò trionfante nella Sabina, dove cominciò tranquillamente a distribuire i beni del monastero ai figli ed alle figlie: aveva sette figlie e tre figli le quali e i quali dotò coi beni della badia ».

« Il pricipe di Roma Alberico intervenne nelle cose di Farfa e cacciò Campone. Visto ciò Idelbrando occupò di nuovo il castello di S. Vittoria con tutti i suoi possedimenti e incominciò a distribuir tutto, ai figli e alle figlie, che erano parecchi; diede loro pure la curte di Mogliano grande e splendida ».

« Verso quel tempo si accese una grande guerra tra Salirone e Ascherio per contendersi la Marca Fermana; prevalse Salirone che uccise Ascherio con molti dei suoi e si impadronì della Marca (8).

«Saputa la cosa, re Ugo s’infuriò contro di lui e incominciò a perseguitarlo per l’uccisione di Ascherio che era suo parente prossimo. Allora Salirono, vedendo di non poter in alcun modo sfuggire all’ira del re, indossata la veste di monaco e legatasi una fune al collo, una mattina si presentò al re e si arrese senza condizioni. Re Ugo, mosso a pietà, lo perdonò e lo mise a capo di tutti i monasteri di investitura reale che erano nel territorio della Marca Fermana. Tutti gli abati di quei monasteri si sottomisero, eccettuato l’invasore Ildebrando che gli resistette; ma Salirone per allora prevalse e lo cacciò dal castello di S. Vittoria. Di nuovo tornò Ildebrando e cacciò Salirone, il quale poi riuscì a cacciare una seconda volta Ildebrando e definitivamente; ma visse poco tempo, e là morì e fu sepolto».

Fin qui l’abate Ugo; ed io invito “a considerare un pò quali delizie saranno state per il nostro povero popolo le cagnare di questi pazzi furiosi».

L’INCENDIO DEL CASTELLO

Salirone morì a S. Vittoria nel 945 e così «fu reintegrato in pieno l’infausto possesso di Ildebrando a S. Vittoria. Tutto trionfante per questo successo, un giorno fece preparare un grande festino per la consorte, per i figli e le figlie e per i soldati dei quali ne aveva molti e grossi (multos et magnos); poiché sebbene non fosse mai riuscito a governare sulla Sabina, tuttavia quello che costituiva il patrimonio della badia nella Marca, lo governò come sua proprietà fino al tempo di Ottone I (952-972)».

«Ma il giorno che fu celebrato quel festino, dopo la cena, a notte fatta, essendo tutti intontiti dal vino, e dal gran mangiare, nessuno di loro poté sentire quando il fuoco cominciò a bruciare il castello; in quell’incendio anche tutta la ricca suppellettile portata dalla Sabina andò perduta, bruciata dal fuoco ».

Ildebrando tenne S. Vittoria fino al 971, mentre a Farfa si succedono abati che non hanno forza sufficiente per riconquistare alla badia il dominio del Piceno; finalmente l’abate Giovanni III, eletto a Farfa nel 967, si presentò a Ottone I nel palazzo imperiale di Ravenna, e ottenne dall’imperatore la deposizione di Ildebrando, al quale fu assegnato un vitalizio dall’imperatore stesso.

S. VITTORIA E OTTONE II

A Ottone I, nel 973, successe il figlio Ottone II.

Aveva la mania delle reliquie dei Santi, come il suo consigliere Teodorico, vescovo di Metz, e del resto come tutti in quei tempi.

Recandosi in Calabria per combattere i Saraceni, fu ospite di Fermo. Qui sentì magnificare i miracoli della martire Santa Vittoria e gli venne in testa di far sue quelle Reliquie. Chi sa se in questi panegirici di S. Vittoria, tenuti dai signori di Fermo, non sì nascondesse il segreto fine di danneggiare la vicina rivale, attirando su di essa l’attenzione del tedesco? Tutto è possibile; ma essendo ciò una supposizione, non fa parte della storia.

Il fatto è che Ottone II mandò il vescovo Teodorico con una scorta armata, a vedere di poter convincere l’abate Giovanni con diplomazia, o, se fosse il caso tentare un altro espediente per portar via le venerate Reliquie. Teodorico venne a S. Vittoria, ma trovò una accoglienza troppo solenne, con una numerosa schiera di monaci e di soldati che, per onorare il personaggio, facevano buona guardia giorno e notte dappertutto. Il vescovo capì che quegli amici era meglio non molestarli e se ne partì tranquillo, dopo aver venerato le SS. Reliquie. Al suo ritorno, l’imperatore saltò su tutte le furie, sentendosi deluso per l’insuccesso e, da buon tedesco, si intestardì maggiormente, e mandò a S. Vittoria una buona schiera di soldati, per asportare colla forza il Corpo della Santa. Un forte temporale, che i cittadini ritennero miracoloso, evitò a S. Vittoria una battaglia; poiché i soldati tedeschi, dopo aver vagato tra fulmini che si schiantavano paurosamente, « subita mutatione mentis alienati», non riuscendo a trovare il castello, se ne tornarono mortificati al loro padrone. Il fatto è assegnato dagli storici a circa l’anno 980 (9).

Giovanni III lavorò molto per il riassetto del dominio, ma la nave faceva acqua da ogni parte:” quando stava a Farfa, nascevano guai nelle Marche; quando stava a S. Vittoria, nascevano guai a Farfa.

Il dominio era troppo disunito dai monti. Lamentele poi e ricorsi anche calunniosi arrivarono all’imperatore Ottone II, il quale, preoccupato da altre cose per lui più pressanti, per togliersi il fastidio, ordinò che fosse deposto Giovanni III e fosse eletto Adamo, finché non fosse venuto lui stesso a rendersi conto personalmente della cosa. Questo nel 983. Ma i due abati, invece di ubbidire al decreto imperiale, tanto più che Ottone II morì quasi subito, si divisero il dominio: Giovanni restò a Farfa, e Adamo occupò S. Vittoria (10).

Di queste scissioni tra Farfa e S. Vittoria ne incontreremo parecchie nel corso della nostra storia; sembrava fatale che S. Vittoria non dovesse mai a lungo restare unita a Farfa: contro questa unione giocavano molti fattori: l’ambizione degli abati che erano uomini e non sempre della migliore specie; la lontananza delle due capitali divise dagli Appennini; i signori piceni, compresi i vescovi, che incoraggiavano questa scissione, poiché la potenza farfense era molto incomoda per essi; soprattutto poi c’era la maggior ricchezza del Piceno in uomini e cose, per cui un abate di Farfa non riusciva a snidare da S. Vittoria un intruso, quando vi si fosse annidato. Giovanni III aspettò fino al 990, quando Adamo divenne vescovo di Ascoli e Ottone II era morto. Si rivolse allora alla vedova di lui Teofania, che teneva l’impero in nome del figlio Ottone III ancora giovanetto, ed ottenne quanto desiderava. Ma Adamo non sentiva decreti imperiali e restava a S. Vittoria; finché il 25 maggio 996, Ottone III venne in persona a cacciare Adamo e a riconsegnare il paese a Giovanni.

Giovanni III morì l’anno appresso, il 2 maggio 997, a S. Vittoria e qui fu sepolto, dove era stimato ed amato, perché è storia che si ricordò con solenni riti il giorno della sua morte per molti anni.

I FARFENSI

Una delle Congregazioni monastiche più potenti in Italia fu quella di Farfa. Quando si parla di monaci farfensi, non dobbiamo pensare ai frati di oggi; il loro metodo di vita e di apostolato era diverso. Il loro ministero principale non era il sacerdozio: solo qualche monaco era sacerdote per il servizio interno delle diverse comunità; anche per assistere le popolazioni dipendenti da loro, si servivano di chierici da essi preparati a questo scopo.

 Il principale mezzo di apostolato per essi era il lavoro: lavoro negli scrittoi, nelle officine, nei campi; scuole di lettere di mestieri, di agricoltura. «Ora et labora» per tutti: lavoro e preghiera, ambedue ugualmente importanti, ambedue atte a dare all’uomo la sua dignità.

I farfensi ebbero origine nel secolo settimo.

Un pellegrino francese, Tommaso da Morienne, tornando dalla Palestina, sentì parlare a Roma di un monastero abbandonato e semidistrutto, situato presso il fiume Farfa, in territorio di Fara Sabina, tra Roma e Rieti. Vi si recò a vedere e vi stabilì la sua dimora, insieme a pochi compagni che come lui desideravano vivere servendo Dio, lontani dal mondo.

II monastero risorto di Farfa incominciò a ingrandirsi e a prosperare; cresceva il numero dei monaci e crescevano le donazioni dei fedeli, e fu necessario costruire altri monasteri dipendenti per accogliere altri religiosi; e Farfa, adagio, adagio seminò i suoi monasteri in Umbria, nelle Marche, in Abruzzo in Toscana, finché, verso il mille, l’abazia di Farfa era diventata una potenza da competere con qualsiasi potenza feudale del tempo.

Di questi potenti aggregati di monasteri, che si chiamarono poi Congregazioni Benedettine, ne troviamo molte nel Medioevo e possiamo citare nomi gloriosi, come Montecassino, S. Vincenzo al Volturno, Bobbio, S. Apollinare in Classe; congregazioni indipendenti l’una dall’altra, che avevano in comune la regola di S. Benedetto.

Dobbiamo precisare, per avere idee chiare sull’argomento, che il monastero di Farfa risorse dall’abbandono nel 677, per opera di Tommaso da Moriente, il quale non era un monaco benedettino, ma un sant’uomo che volle ritirarsi a Farfa insieme ad altri compagni, per vivere vita monastica. Se poi il monastero si sviluppò tanto, e quel genere di vita si diffuse tanto largamente, da diventare un vero Ordine Religioso, probabilmente non era negli intenti e nelle previsioni del fondatore. Farfa diventò benedettina più tardi.

Nell’817, il Concilio di Aquisgrana prescrisse, come unica regola per tutti i monasteri d’Europa, la Regola di S. Benedetto; e solo dopo molto tempo anche Farfa diventò una congregazione benedettina, come tante altre congregazioni che avevano in comune la Regola di S. Benedetto, ma che si reggevano con statuti propri e tradizioni diverse.

L’abate della congregazione si eleggeva a vita dai monaci e governava tutti i monasteri, preponendo a ognuno di essi un monaco che si chiamava appunto «Praepositus» e amministrava la giustizia per i suoi monaci e per i coloni dipendenti dai vari monasteri; presidiava coi propri soldati i possedimenti della Badia; assegnava ad ogni monastero i mezzi di sussistenza e impiegava a suo arbitrio in miglioramenti quello che in più otteneva dal dominio. La sua condizione era quella di qualsiasi feudatario, perché allora non si concepiva una organizzazione diversa, né forse si poteva.

Però non dovete pensare che l’abate eletto dai monaci fosse scelto tra i migliori elementi del monachismo. Molte volte l’abate era imposto da pressioni di potenti estranei al monastero, specialmente dall’imperatore, che si riteneva padrone di tutto; qualche volta veniva imposto un abate che non era un monaco; e quando l’elezione dell’Abate era regolare cioè fatta dai monaci, essi ordinariamente non sceglievano il più virtuoso, perché si sa che nel santo, rare volte si assommano anche le qualità del principe, e l’abate doveva esercitare l’ufficio di principe. Quindi nell’elezione dell’abate giocavano considerazioni molto umane: abilità negli affari, doti diplomatiche, prestanza fisica, abilità nelle armi, e sopra tutto, nobile origine, che gli avrebbe assicurato l’appoggio di famiglie potenti. In queste condizioni voi capite che del monaco negli abati ne rimaneva ben poco.

Carlomagno arricchì di donativi e di privilegi la badia di Farfa e la costituì Imperiale Abadia Farfense; da qui l’investitura imperiale dei suoi abati e l’importanza politica, a volte decisiva, di Farfa nelle lotte interminabili tra Papa e Imperatore, tra guelfi e ghibellini, come vedremo in parte nel corso della nostra storia.

Con la istituzione del Sacro Romano Impero, nel Natale dell’800, che possiamo considerare il primo tentativo di una Europa Unita, due dovevano essere, teoricamente, le supreme autorità, al cenno delle quali avrebbe dovuto muoversi il mondo cattolico: il Papa e l’Imperatore: il Papa per., dirigere l’organizzazione religiosa; l’Imperatore per dirigere i regni e i potentati civili di tutto il mondo cattolico.

Siccome era il Papa che creava l’imperatore, ecco una parte di dottori che volevano l’autorità del papa sopra quella dell’imperatore; mentre un’altra parte di dottori rispondevano l’imperatore una volta eletto, ha l’autorità suprema indipendente dal papa, anzi superiore.

Siccome in tanti secoli i dottori non si son messi d’accordo, noi accantoniamo la questione e passiamo ad altro.

L’imperiale Badia di Farfa era di investitura imperiale: cioè era l’imperatore a dare l’autorità e il possesso del dominio farfense all’abate eletto dai monaci, solo se esso era di suo gradimento.

Altrimenti ? Altrimenti se ne faceva un altro, perché, sempre in teoria, tutto era dell’imperatore e tutti i re, i duchi, gli abati, ecc. erano affittuari (feudatari) dell’imperatore; un possesso era legittimo, solo se riconosciuto dall’imperatore, e per questo gli abati e gli altri feudatari spesso richiedevano diplomi imperiali che riconfermassero la legittimità del loro feudo. Abbiamo detto teoricamente, perché praticamente tra l’imperatore e i feudatari le relazioni erano regolate dalla forza e l’imperatore arrivava dove la sua forza gli permetteva di arrivare. Per gli abati e per i vescovi c’era una questione particolare: essi erano capi religiosi e capi di un dominio temporale. Alcuni dottori dicevano: il papa nomina il capo religioso e l’imperatore lo investe del dominio temporale; altri dotti invece dicevano: l’imperatore sceglie il vescovo o l’abate feudatario e il papa gli dà l’autorità spirituale; e per secoli si scrisse e si questionò su questo argomento, e si versarono tante lacrime e tanto sangue: la lotta per le investiture.

La questione toccò anche qualche volta la badia di Farfa e, come vedremo, essa fu quasi sempre godente tra i litigi del papa e dell’imperatore.

I FARFENSI NEL PICENO

Abbiamo visto l’abate Pietro fuggire nei suoi possedimenti del Piceno; perché nel secolo X i farfensi avevano già un dominio vastissimo nel Comitato Ascolano, nel Comitato Fermano, nel Comitato di Camerte e altrove nell’Anconitano. I farfensi sono i veri civilizzatori del Piceno, dove nel decorrere di un millennio, lasciarono infinite impronte del loro lavoro nella profonda religiosità del popolo, nella cultura mai inferiore ad altre regioni, nell’arte che ci parla anche oggi con meravigliosi monumenti, quali S. Maria Annunziata di Monte Cosaro, S. Firmano in Val Potenza, S. Maria di Offida. E dove l’incuria degli uomini e l’inclemenza degli elementi hanno prevalso, resta ancora qualche rudere del loro lavoro a dire l’intramontabile grandezza della loro opera civilizzatrice.

Un merito particolare hanno i farfensi nell’aver sviluppato l’agricoltura nel Piceno. Chi si indugia ad ammirare le meravigliose campagne del Piceno, resta sbalordito dal senso estetico che guida l’agricoltore nella coltivazione di ogni palmo di terra. Niente è trascurato, niente è fuori posto; il Piceno è un immenso giardino coltivato con amore, con religiosità: chi l’ha coltivato, l’ha fatto pregando.

Ma i farfensi coltivavano essi la terra ? La coltivavano ed insegnavano a coltivarla. Fino a tutto il mille i monasteri benedettini rigurgitavano di monaci: erano anime che cercavano tranquillità; erano soldati stanchi e nauseati delle armi; erano lavoratori che non riuscivano a formarsi una famiglia col loro lavoro; erano anche signori che donavano tutto al monastero e si mettevano a disposizione dell’abate; per tutti valeva la regola di S. Benedetto « ora et labora » ed essi lavoravano, chi studiando e scrivendo; chi esercitando un mestiere; e molti lavorando la terra. Le terre poi che i monaci non lavoravano da sé, si davano in affitto ad altri lavoratori, ai quali il monastero prestava assistenza tecnica per una migliore lavorazione.

In tutti i contratti di affitto ricorre la frase «ad meliorandum» quasi si volesse dire: bada, io ti do la terra ad un canone leggero, ma devi migliorarla: era la premura maggiore dei monaci migliorare la terra. E la terra migliorava perché i monaci, col loro esempio insegnavano ai coloni la religiosità del lavoro; gli affittuari capivano che migliorare la terra era a loro vantaggio, perché potevano trarre da essa quanto bastava per pagare alla Badia il sempre tenue canone, per vivere la famiglia e per formarsi mano, mano, un piccolo capitale, e così l’esempio dei monaci spingeva al miglioramento anche le terre che non erano della Badia.

 Furono i farfensi a far sentire al nostro popolo, dopo le invasioni barbariche, la gioia del lavoro libero.

L’interesse per la terra spingeva spesso l’abate a cedere terre ben coltivate, in cambio di terre incolte, ragguagliando naturalmente il loro rispettivo valore: l’amore al lavoro avrebbe in poco tempo trasformato quelle terre incolte in giardini fioriti.

Dopo il mille, incomincia anche, almeno a S. Vittoria, un nuovo genere di contratto agricolo: la mezzadria.

Il contratto di mezzadria che si conserva nell’archivio priorale, e che forse è l’unico che si conosca, risale al 1201 ed è di una freschezza meravigliosa.

«Io Cencio di Giovanni Guatta faccio questo patto con te Matteo Rollani ed i tuoi eredi, riguardo alla terra che mi hai affidato per coltivarvi la vigna e curare tutto ciò che vi è in essa.

Prometto di darti metà dei frutti che potremo ricavare da detta terra; e metà di tutto il legname; e non debbo accogliere nessuno in quella terra, fuorché il mio fratello Migliore » (11). (Anche fino a pochi decenni fa, nel contratto di mezzadria, si stabiliva il numero dei componenti la famiglia del colono). Il proprietario ed il colono si associavano nel profitto e nel rischio in uguale misura: uno mette il capitale, l’altro il lavoro: il fruttato è diviso a metà tra capitale e lavoro. Non è una conquista sociale mirabile per quei tempi che chiamano barbari ?

Questi erano i farfensi, ai quali il Piceno deve il suo progresso in ogni campo sociale; essi hanno sollevato il nostro popolo dall’avvilimento; lo hanno difeso dall’oppressione; gli hanno aperto la via della libertà e del progresso. 

UGO I – IL PRIMO PRIORE – SUPPONE

Alla morte di Giovanni III fu eletto abate il Preposto di S. Vittoria Alberico, che morì dopo solo sei mesi; quindi fu eletto Ugo I, il grande abate riformatore; a lui dobbiamo la prima storia del nostro paese; «Ilio mortuo, veni ego, Ugo peccator», e venendo lui, io resto senza il suo aiuto nello scrivere la mia storia. Fu eletto abate nel 997, a 26 anni e confermato (cioè ricevette l’investitura) dal papa Gregorio V che ne aveva 25; erano molto giovani, ma erano all’altezza del loro ufficio. Ottone III non sopportò questo modo di agire, perché la Badia era di investitura imperiale, e depose Ugo; ma l’anno dopo dietro insistenza dei monaci, che amavano molto il loro abate, gli riconsegnò il governo della Badia.

Stette un po’ di anni a S. Vittoria per introdurre la riforma cluniacense nei monasteri marchigiani; per quella riforma i Preposti dei monasteri si chiamarono Priori, e fu lui che nominò il primo Priore di S. Vittoria, titolo che anche oggi porta il Parroco della nostra Collegiata.

Ugo morì nel 1039, lo stesso anno che morì Ottone III.

Fu eletto Suppone che governò la badia da S. Vittoria, fino al 1046. Anche lui fece trovare l’imperatore di fronte al fatto compiuto, per cui Enrico III lo depose e inviò a Farfa un abate eletto da lui.

Avveniva però spesso che simili disposizioni imperiali, o a causa di agitazioni e di eventi politici che distraevano altrove la mente dell’Imperatore; o per la lontananza dell’obiettivo da raggiungere, restassero senza effetto, come successe pure questa volta; e Suppone seguitò a fare l’abate a S. Vittoria, dove a fare l’abate c’era più sugo che a Farfa.

All’abate Suppone, nel 1039, Longino d’Attone, un signore di Offida di origine longobarda, donò la sua proprietà consistente in 40.000 moggi di terra, nei paesi di Offida, Castignano, Cossignano, Porchia ecc. Nello stesso anno donarono il loro possedimento Guido Massaro e Longino, figli del fu Guidone, detto Lepre: essi diedero Monteprandone e Sculcula (P. D’Ascoli) (12).

Da simili donazioni era stato costituito il dominio farfense e poi ingrandito come un regno.

BERARDO I DA ORTE (1047 – 1085)

Io non fo storia degli abati di Farfa, ma debbo almeno menzionare quegli abati che hanno avuto speciali rapporti col nostro paese; uno di questi è Berardo I ortano, che fu eletto nel 1047 e governò la badia quasi sempre da S. Vittoria.

La sua residenza in questo paese si può spiegare colla necessità di organizzare l’immenso possesso donato dai signori di Offida e di M. Prandone, e con l’opportunità di seguire da vicino le agitazioni politiche che nel Piceno in quest’epoca cominciano ad acuirsi. Fu molto amico del suo confratello il monaco Ildebrando e favorì la riforma della Chiesa da lui iniziata; e quando Ildebrando diventò Gregorio VII, Berardo seppe essere figlio devoto della Chiesa e, nello stesso tempo, fedele feudatario dell’imperatore, cosa estremamente difficile con Enrico IV e Gregorio VII. Morì vecchio nel 1085.

S. VITTORIA IN MATENANO NEL 1050

S. Vittoria era giuridicamente la succursale di Farfa, cioè il centro amministrativo di quella parte del dominio farfense che era di qua dell’Appennino. Spesso era la vera capitale del dominio, perché spesso l’Abate teneva la sua curia nel magnifico monastero del Matenano; e se consideriamo il tempo che gli abati risiedono a S. Vittoria, o per loro scelta, o per scissione tra le due parti del vasto dominio, è molto di più il tempo che gli abati passano a S. Vittoria, di quello che passano a Farfa. Quando poi l’abate risiedeva a Farfa, teneva a S. Vittoria un Preposito o un Priore che faceva le sue veci nel governo delle chiese del dominio, e un Giudice che in suo nome amministrava la giustizia.

Urbanisticamente non era gran che, stava però all’altezza delle altre capitali: case, la maggior parte di terra battuta, come le case delle altre città; e se altre avevano un episcopio, essa aveva un monastero imponente.

L’orgoglio cittadino poi si sentiva lusingato dal continuo affluire di pellegrini e di sudditi entro le sue mura: i pellegrini venivano a venerare la Santa, che era la loro Santa: i sudditi venivano a portare i tributi al Monastero, che era il loro Monastero; e i cittadini, dalla vicinanza del padrone, si sentivano un po’ anch’essi padroni. E un pò di bene ne veniva loro realmente, perché qualche lavoro retributivo, o qualche impiego lo potevano ottenere tutti con facilità: magari una missione nelle guarnigioni costiere o di confine, o alla peggio, una modesta carriera militare. E’ ovvio che i cittadini di S. Vittoria con più facilità di altri ottenessero impieghi nello stato, sia perché più vicini agli abati e più in vista, sia perché potevano avere una maggiore preparazione nella scuola del Monastero.

S. Vittoria nel Mille e cinquanta era una umile città, cui però non mancavano cose invidiabili, come il monastero e il Santuario, e non mancava il benessere dei cittadini. Fonti di questo benessere erano i diversi mestieri che sapevano esercitare alla perfezione; il continuo afflusso dei forestieri e il movimento dei militari che arrivavano e partivano dalla capitale. Questo benessere si poteva constatare nei giorni solenni, quando la popolazione usciva vestita con sfarzo, per partecipare alle funzioni nella basilica della Santa o alla processione solenne; o quando si recava ad assistere alla sfilata dei cortei che recavano, su carri addobbati, i tributi in generi agricoli, alla Badia, nelle feste di Natale, di Pasqua e di Maria Assunta. Erano le occasioni nelle quali le signore e le ragazze del paese potevano fare sfoggio di vesti e di monili che i loro mariti e i loro fidanzati avevano portato da lontano, in occasione di qualche missione svolta.

E la sera, nelle osterie del paese o presso il focolare, fiorivano i racconti di imprese coraggiose, di incontri strani, di pericoli superati miracolosamente nelle diverse spedizioni in lontane terre del dominio, nei porti dell’Adriatico, o magari anche su una nave da carico della Badia diretta a Venezia, a Ragusa o a Bari. Quegli uomini si sentivano fieri di essere qualcuno, di conoscere il mondo; e le donne di essere le loro donne.

Gli abati potevano chiedere tutto a quei cittadini, perché essi sentivano che la Badia era per loro sicurezza, benessere, vita dignitosa.

POSSEDIMENTI FARFENSI DEL PICENO

Quali erano i luoghi farfensi che gravitavano intorno a S. Vittoria? Non possiamo darne una rassegna completa, non già per mancanza di documenti, che ce ne sono anche troppi, ma per il continuo fluttuare degli avvenimenti politici del tempo che portavano frequenti cambiamenti geografici nei confini dei diversi statarelli d’Italia

Ne daremo un breve cenno, basandoci sul Diploma di Enrico IV, del 1084.

Incominciamo col dire che il possesso di uno Stato allora non era continuo, cioè, non si racchiudeva in confini ben determinati, come potrebbe pensare un moderno, ma consisteva in latifondi con relativi castelli, e anche in poderi, in-tersecati da altri latifondi e da altri poderi in proprietà di altri Stati o di altri signori.

La Badia poteva possedere un paese nella sua totalità; di un altro paese poteva possedere una gran parte; di un altro una contrada appena, o magari pochi poderi.

Da qui possiamo comprendere l’enorme fatica che un abate trovava nel governo del suo dominio; possiamo anche comprendere le interminabili liti e guerriglie di quei tempi. Guerriglie fomentate anche dall’astuzia dei piccoli feudatari, che speravano sempre di essere i terzi godenti nei litigi dei signori maggiori.

Alla morte dell’abate Suppone, colla donazione di Longino d’Attone, signore d’Offida, il dominio farfense nelle Marche viene a comprendere la maggior parte della provincia di Ascoli Piceno e gran parte della provincia di Macerata

Il nucleo centrale di tutto il dominio farfense piceno è costituito costantemente da S. Vittoria, Montelparo, M. Falcone. con Perticara dove risiedeva una specie di stato maggiore delle milizie della Badia. Sempre gli abati si erano preoccupati di conservare unito ed intero questo nucleo centrale, inespugnabile baluardo dello Stato; tanto che M. Falcone fu ricomprata da Ratfredo «magno pretio» e sempre gelosamente custodita con grandi spese.

Da questo nucleo centrale il dominio si estendeva da una parte fino ai Sibillini, dall’altra fino al mare, intrecciandosi lungo i tre fiumi Tenna, Aso, Tesino coi possessi del Vescovo di Fermo.

Verso i Sibillini, nel Comitato di Ascoli, i Farfensi possedevano chiese e territori vastissimi in Amandola, Comunan-za, Montemonaco, Montegallo con la zona del Fluvione, Venarotta e fino ad Ascoli dove avevano S. Maria in Solestà «cum pertinentiis magnis et optimis».

Fra il Tronto e il Tesino, quasi por intero avevano i territori di Offida, Castignano, Rotella col monte Polesio, M. Prandone donato dai figli di Guidone detto Lepre e Sculcula (oggi Porto d’Ascoli).

Tra l’Aso ed il Tesino: parte di Ripatransone, Cossignano Porchia, Patrignone, Montedinove con Rovetino e per intero Force.

Tra l’Aso e il Tenna nel Comitato di Fermo: terre in Ortezzano, uno dei più antichi possessi farfensi. (13) Monte Leone, Belmonte, Montottone, Ponzano, Petritoli e Altidona con una fascia costiera dalla foce dell’Aso a quella dell’Ete. 

Diverse chiese possedevano pure in territorio fermano, tra le quali S. Palaziata verso il mare con mille moggi di terra.

Sulla sinistra del Tenna: terre in Monsammartino, Penna San Giovanni, S. Angelo in Pontano, M. Giorgio con Cerrete e Alteta, Rapagnano, Mogliano, Torre S. Patrizio, Montegranaro, chiese in S. Elpidio. Monasteri e chiese lungo la valle del Fiastra e del Chienti, con S. Maria Rotonda, S. Benedetto in Ripa e S. Maria a pie’ del Chienti.

Questi immensi territori costituivano la zona picena dello Stato Farfense uno Stato che incuteva rispetto per la sua potenza e la sua ricchezza. La sua potenza dipendeva sì dalla molta popolazione che comprendeva, ma soprattutto dalla fine politica degli abati; una politica interna oculata e paterna legava i sudditi con una fedeltà a tutta prova; una politica estera astuta e prudente attirava sul dominio infiniti privilegi da parte dell’lmperatore e del Papa; dal primo, perché, un feudo abaziale di quel genere era garanzia di dominio nell’Italia centromeridionale; dal secondo, perché, se fosse riuscito a trarre dalla sua parte l’abate di Farfa, avrebbe potuto usare coll’imperatore altro linguaggio. La politica dello stato farfense era tutta nel destreggiarsi tra l’imperatore e il papa.

EGEMONIA DI S. VITTORIA

Ormai S. Vittoria non è più la figlia di Farfa spesso ribelle, ma addirittura l’emula e l’antagonista; per due secoli, dal 1085 al 1220, l’abate solo raramente risiederà a Farfa, ma governerà il dominio da S. Vittoria.

Alla morte di Berardo I, nel 1085, i monaci piceni eleggono abate a S. Vittoria Berardo II, fiorentino, ma priore in un monastero delle Marche. Appena eletto corre colle armi a Farfa, dove avevano eletto Rainaldo II, e impone con la forza la volontà dei piceni.

Alla sua morte, nel 1099, sono ancora i piceni a prevalere, eleggendo abate Berardo III, priore di Offida, di nobilissima famiglia, che lo Scuster dice reatina.

Questo grande abate merita la riconoscenza di tanti paesi piceni che a lui debbono la loro fortuna. Ingrandì Offida e ne fece una città fortificata; ricostruì quasi dalle fondamenta Montedinove e la cinse di mura; comprò e fortificò Arquata e Trisungo; fortificò Montegiorgio e preparò il suo territorio piceno alle lotte future con una chiaroveggenza meravigliosa (14).

Fu un fine diplomatico; nella lotta tra il papa e l’imperatore sembrò più incline verso l’imperatore, ma non si piegò quando Enrico V impose un antipapa: Farfa fu sempre per il legittimo papa Callisto II. Berardo III morì nel 1119.

I marchigiani insistono eleggendo Berardo IV che governa a S. Vittoria per sei anni, mentre a Farfa si eleggono contemporaneamente due abati. Nel 1126 tutti e tre sono invitati da Callisto II ad abdicare e al loro posto venne eletto Adenulfo I (l5). 

Adenulfo appena eletto corre nelle Marche, e per chiudere l’adito ad ogni scisma, si nomina priore di S. Vittoria : abate e priore; i marchigiani si contentano, e per vent’anni vivono calmi e soddisfatti sotto il governo sapiente dell’abate priore. Coi soldati della Badia cacciò gli antipapi Anacleto e Vittore in favore di Eugenio III. Fu eletto cardinale nel 1142 e morì due anni dopo.

Berardo V eletto nel 1152 si preoccupa della indigenza dei monaci di S. Vittoria e assegna loro dei mezzi di sussistenza: assegna tra le altre cose: i denari che si raccolgono nella fiera di S. Maria, (la fiera che ha luogo a S. Vittoria a mezz’Agosto) e tutto quello che spetta al monastero di Farfa per tali mercati, sarà diviso a metà con S. Vittoria, dedotto prima quanto spetta alla Curia. (Fa curia era il governo centrale di Farfa, composto dai consiglieri dell’abate: il consiglio dei ministri di allora); e parimenti sarà dato a S. Vittoria l’olio e il sale che viene raccolto sul mercato di Altidona. ( Si tratta di dazi che si riscuotevano in generi o in denaro ). Una concessione da notare è: « quanto la curia dà ogni anno per gli uomini di Montefalcone e per i soldati di Perticara, sarà d’ora innanzi versato direttamente al monastero di S. Vittoria. Quindi anche i soldati riceveranno lo stipendio da S. Vittoria; non ci manca più niente per essere indipendenti da Farfa.

Due anni dopo, nel 1154, Berardo V viene deposto e non ne sappiamo il perché. Il fatto che il suo successore Rustico (1154 – 1168) tenta di annullare le concessioni fatte da Berardo a S. Vittoria, ci fa pensare che Farfa si era accorta di aver concesso troppo; ma a S. Vittoria c’era un grande priore, il priore Alberto, che aveva amicizie alla corte dell’imperatore, e le concessioni di Berardo V restarono come erano.

Adenulfo II (1168 – 1183) deve restaurare Farfa, quindi ha bisogno di denaro. Come al solito, in questi casi, le somme necessarie si possono raccogliere nel Piceno; pone la sua residenza a S. Vittoria e invita tutti gli affittuari a recarsi a pagare in anticipo il dovuto « a noi nel monastero di S. Vittoria ».

Gli succede Pandolfo (1183 – 1193) che seguitò l’opera sua e, finito di restaurare Farfa coi soldi di S. Vittoria, fu fatto cardinale Presbitero di S. Romana Chiesa.

Così sono due monaci che da S‘. Vittoria passano al cardinalato: Adenulfo I, abate priore; Pandolfo, solo abate.

GUELFI E GHIBELLINI

Poiché nella nostra storia si parla continuamente di lotte tra guelfi e ghibellini, è necessario, per i meno provvisti, un cenno che sia sufficiente a dare una idea chiara su questi due partiti politici che fanno tutta la storia del Medioevo.

Guelfi e ghibellini erano partigiani di due famiglie regnanti tedesche; quindi agli italiani avrebbero dovuto interessare fino a un certo punto; invece no, vediamo gli italiani dividersi in due fazioni e ammazzarsi con molto zelo, per il trionfo dell’una o dell’altra; è perché per gli italiani, quella lotta aveva un significato più reale e pratico.

Dal fatto che i guelfi si appoggiavano al papa e i ghibellini all’Imperatore, molti si sono fatta l’idea che questa fosse una lotta per la supremazia dell’uno o dell’altro; quindi i guelfi avrebbero lottato per la supremazia del papa o per la religione; i ghibellini per la supremazia dell’imperatore contro la Chiesa: non è proprio questo il significato della lotta: essa è una lotta per un assetto sociale.

I poveri, gli artigiani, i piccoli affittuari si appoggiavano al Papa per le loro rivendicazioni sociali, per un autogoverno comunale (guelfi); contro i grossi feudatari e i ricchi egoisti e oppressori, che si appoggiavano all’imperatore (ghibellini), per opporsi alle libertà comunali, nelle quali non ci sarebbero stati più per essi privilegi di casta e di potere. Non è, badate bene, che i ghibellini non volessero il Comune; lo volevano ma a modo loro. Mentre il Comune guelfo doveva essere governo di popolo, senza privilegi per nessuno, il Comune ghibellino era vigilato e quindi dominato da un messo imperiale, che, favorendo i ricchi, rendeva inoperanti le libertà comunali.

Nello stato farfense, come nel comitato fermano, la lotta tra guelfi e ghibellini si svolge ardente sì, ma non come nell’Italia settentrionale, perché qui da noi i grossi signori feudatari erano rari e ben controllati. Di fronte al vescovo di Fermo, o all’abate di S. Vittoria, i piccoli feudatari avevano poco da fare, sia perché la loro potenza era limitatissima, sia perché dovevano allinearsi al trattamento che il vescovo e l’abate usavano verso i loro soggetti.

Questo documento del 1213 ci dice un po’ le relazioni tra l’abate e i signori feudatari: «Questa è la composizione della vertenza fatta tra Gentile abate farfense e gli uomini di S. Vittoria da una parte, e i figli di Milone dall’altra; cioè i figli di Milone concedono ai vassalli che hanno o che avranno in S. Vittoria la franchigia e la libertà che l’abate concede ai suoi vassalli e promettono per sé e per i loro eredi, a lui e agli altri abitanti del paese che essi non contravverranno al breve concesso loro dall’abate, salvi i consueti obblighi nel prender moglie, nel dar marito e nel comprar terre e cavalli(16).

Insomma il feudatario poteva esser signore, ma doveva regolarsi coi vassalli come voleva l’abate; quei figli di Milone saranno stati ghibellini, ma battuti in partenza. 

CAPITOLO II

S. Vittoria nell’età dei Comuni

Parte I

IL COMUNE

La istituzione del Comune è una rivoluzione che mira alla totale trasformazione dell’ordinamento sociale basato sul sistema feudale.

Leggendo certi libri di storia, il lettore si forma l’idea che, a un certo momento esploda da parte del popolo, contro i regnanti e i potenti, una feroce reazione che sfocia nel libero governo comunale; ma i fatti non stanno proprio cosi.

L’istituzione del governo comunale non viene da una decisione improvvisa e arbitraria, ma è l’epilogo di una lunga preparazione; di una lunga esperienza di autoamministrazione popolare. Questa autoamministrazione, formatasi in ogni centro urbano, per la necessità che tutti gli uomini naturalmente sentono di un organismo che regoli le loro relazioni reciproche, diriga, in altre parole, la loro convivenza fu esercitata da uomini scelti che si chiamarono: « Boni Homines ». Essi esercitavano la poca autorità che loro permetteva l’arbitrio del feudatario, o la prepotenza del signore terriero: costituivano quindi un autogoverno popolare molto limitato e imperfetto. Con la istituzione del Comune, questo autogoverno popolare si perfeziona sempre di più, fino a diventare completo, quando acquista anche il diritto di amministrare la giustizia. L’istituzione del Comune, quindi, non è l’inizio dell’autogoverno popolare, ma la perfezione di esso; e per conseguenza è l’inizio della libertà responsabile di una popolazione.

Poiché siamo abituati a dare alla parola « rivoluzione » un significato violento, faremo meglio a chiamare la lotta per il governo comunale: «evoluzione»: una lenta evoluzione di più secoli, che porta al libero governo comunale. Ciò non toglie che esso sia una rivoluzione nelle conseguenze, poiché conduce a una radicale trasformazione nell’assetto sociale.

Le «plebes», composte di gente libera ma povera: di artieri, di piccoli commercianti e anche di professionisti si organizzano in confraternite, sperimentando la grande convenienza della solidarietà. Queste plebi crescono, si organizzane meglio e reagiscono contro l’oppressione del nobile signore di campagna che, nel sistema feudale, controllava tutte le fonti della ricchezza, essendo la terra la principale base dell’economia.

Anche una maggiore comprensione popolare della giustizia e della libertà spinse le plebi verso il governo comunale, poiché fece loro sentire la necessità di rompere quella rete di diritti e di privilegi signorili che condizionavano lo sviluppo della stessa vita civile. Non era più sopportabile che i pedaggi pagati dai commercianti sulle strade e sui ponti, la percentuale che la povera gente pagava per servirsi dei mulini e dei forni tutti in proprietà del signore, andassero totalmente a profitto di lui che non si curava affatto delle necessità della plebe, la quale abitava in raggruppamenti di tuguri, tra vie impraticabili per fango e immondizie.

E la «plebe» si scelse i suoi capi che, a mano, a mano si sostituirono al dominio del feudatario, assorbendone le prerogative e i diritti, in nome e a beneficio della Comunità. Questi capi eletti dal popolo difesero la libertà di ogni cittadino, abolendo la servitù della gleba e la prestazione gratuita di servizi obbligati (17); amministrarono la giustizia secondo leggi Comunali uguali per tutti; provvidero al bene sociale, organizzando la vita cittadina con maggiori comodità e più decoro.

Non si deve però credere che con la istituzione del Comune sparissero immediatamente tutte le inconvenienze del feudalesimo. Anche il Comune è una istituzione umana, non sicuramente perfetta.

Dato il gergo politico odierno, qualche lettore potrebbe esser tentato di chiamare la lotta per le libertà comunali: «lotta di classe». Se ne guardi bene, perché qui non c’è lotta di classe, ma solo lotta all’arbitrio e all’asservimento, per avvicinare le classi sociali e costringerle a collaborare per il bene di tutti. Con l’incastellamento, il nobile signore terriero diventa anche lui «popolo» e completa la Comunità, apportandole sicurezza con le sue ricchezze e con le sue armi; mentre la plebe poteva dare solo lavoro e intelligenza.

Nel Feudo Farfense e nel Piceno in genere i Comuni si formano dietro l’incoraggiamento del Vescovo e dell’Abate. Qui la formazione del Comune avviene con un contratto preciso che stabilisce i diritti e i doveri del Comune verso il governante; e i doveri e i diritti del governante nei riguardi del Comune. Qui il Comune sorge per assicurare alle popolazioni maggior libertà e benessere, in una solidarietà che chiameremo statale, che le garantisca da ogni pericolo di sfruttamento da parte dei potenti.

La Chiesa favorì e sollecitò l’istituzione dei Comuni; il sentimento religioso li accompagnò nella loro crescita, li sorresse nelle loro difficoltà; e non poteva essere altrimenti, perché essi lottavano per la promozione dell’uomo che è figlio di Dio. 

Per il Comune di Santa Vittoria non sappiamo l’anno della sua istituzione, cioè non conosciamo l’atto ufficiale di nascita, consistente in un contratto tra l’Abate di Farfa e i rappresentanti della popolazione, ma sicuramente nel 1220 era già Comune ben organizzato; e nel 1292 ebbe la facoltà di eleggersi liberamente il Podestà: ebbe cioè l’autonomia piena.

L’ABATE MATTEO I E I COMUNI

Nello stato farfense, gli abati incoraggiavano le istituzioni comunali, perché le trovavano molto utili, sia per motivi tecnici, poiché era diventato difficile per essi amministrare queste popolazioni molto aumentate di numero; sia per motivi politici, poiché col libero Comune, la popolazione avrebbe meglio sentito la necessità di difendere i propri diritti e i propri beni, e avrebbe meglio reagito al pericolo di asservimento ghibellino.

Il grande organizzatore dei nostri comuni fu Matteo I, eletto nel 1214. Nel novembre dello stesso anno, si recò a M. Falcone a presiedere alla elezione dei consoli del Comune e a dettare gli statuti comunali (18) .

Con M. Falcone Matteo I fu molto generoso, perché questi primi comuni che si andavano creando dovevano essere esempi incoraggianti per gli altri paesi del dominio. In questi piccoli centri la possibilità di scelta del personale dirigente non era molto vasta e, per conseguenza, anche il coraggio di governarsi da sé era scarso.

Matteo I sembra che tenesse conto di queste difficoltà e incoraggia ad intraprendere il governo comunale, facendo risaltare che ci restava sempre l’autorità abaziale, per proteggere il nuovo Comune ed aiutarlo in ogni bisogno (19).

Matteo I tenne sempre la sua residenza a S. Vittoria perché nel Piceno la situazione politica diventava sempre più critica per l’aumentato pericolo dei ghibellini, rianimati dalla presenza tra loro di Federico II, marchigiano di nascita: pericoloso miscuglio di guerriero e poeta, di cristiano e maomettano, che aspirava ad asservire il papato, combattendolo proprio nelle terre che erano patrimonio di S. Pietro.

Tutta la cura di Matteo I fu di organizzare i Comuni del suo territorio e prepararli per la resistenza alle incursioni ghibelline.

IL NOSTRO COMUNE

Abbiamo affermato che l’istituzione del Comune a S. Vittoria avviene nei primi anni del sec. XIII. In quel tempo la popolazione del paese era organizzata in Confraternite secondo le varie arti e professioni che vi si svolgevano.

A S. Vittoria, come possiamo ricavare dagli Statuti Comunali (Libro I, paragrafo II), esistevano sette Confraternite, codificate in quest’ordine:

1) Confraternita dei Letterati; 2) dei Mercanti; 3) dei Fabbri; 4) dei Cerdones; 5) dei Carpentieri, intagliatori, falegnami; 6) dei Manuali e bifolchi; 7) dei mugnai, tavernieri e fornai.

In quei primi anni, erano i Capitani e i dirigenti delle varie Confraternite a eleggere il MASSARO o Sindaco e i PRIORI che dovevano, per un determinato periodo, dirigere il Comune; assistiti da un «Judex» (giudice) equivalente pressappoco al nostro Segretario comunale, ma con responsabilità molto più ampie.

Ordinariamente il «iudex» era l’esecutore di tutte le ordinanze del consiglio: gli venivano assegnate, secondo il bi-sogno, una o più guardie, che egli pagava col proprio stipendio, e provvedeva all’ordine pubblico, alla nettezza urbana, alla riscossione delle tasse e del dazio, al tribunale dove si discutevano le cause di prima istanza, ecc. Il suo lavoro poteva durare pochi mesi o anche più anni, secondo che aveva saputo soddisfare il Consiglio, o secondo la volontà del governo centrale. Doveva periodicamente render conto al Consiglio del suo operato e poteva anche correre il pericolo di pagare di propria tasca qualche sbaglio o qualche negligenza nell’esecuzione dei decreti comunali.

Col progredire del tempo, l’organizzazione comunale si perfeziona sempre più, e si perfeziona anche il metodo di eleggere le autorità e gli impiegati comunali, ai quali, verso la metà del sec. XIII, si aggiunse, il « Podestà » (20)  .

Il Comune per vivere tranquillo aveva bisogno di difesa, di gente armata quindi, che in caso di necessità fosse in grado di difendere la città, senza aspettare per questo l’esercito dell’abate che poteva anche arrivare troppo tardi; e aveva bisogno di vettovaglie sufficienti per la popolazione, perché in quei tempi la carestia e la fame erano molto frequenti; era quindi necessario avere entro le mura le provviste, perché poteva sempre succedere di trovare, al momento del bisogno, bloccate le vie di comunicazione con altri paesi: occorreva l’autosufficienza. E’ chiaro che questa autosufficienza poteva venire solo dalla campagna: dai piccoli proprietari senza alcuna forza e dai feudatari che vivevano nei loro castelli di campagna, in mezzo ai loro coloni e servi della gleba.

S. Vittoria in Matenano, come capitale dello stato farfense del Piceno, aveva sempre vissuto nella prosperità e nella sicurezza e non aveva mai avuto questi problemi da risolvere.

Cessata la sicurezza di città dell’abate, alla quale convenivano derrate e soldati da ogni parte del dominio, sente di avere un territorio ristretto: a sud,, Montefalcone già libero Comune con confini a pochi passi da S. Vittoria; a nord Sorbelliano o Pieve di S. Marco che allora era sita dove ora è Curetta; verso l’Ete, a pochi passi dalle mura, i Signori di Monterodaldo si erano incastellati a Fermo; un pò più di spazio si aveva verso l’Aso e verso il Tenna dove dominavano alcuni feudatari nelle loro curti e castelli.

Bisognava assicurarsi l’incastellamento di questi signori, per non restare soffocati, in caso che i Comuni vicini arrivassero prima; ed ecco cosa seppe fare il nostro primo sindaco Valente di Malaparte e, dopo di lui, il sindaco Vitale de Zocco.

INCASTELLAMENTO

A causa delle lotte tra Guelfi e Ghibellini non c’era più sicurezza nelle campagne, e i castelli isolati non erano più sufficientemente difesi.

I feudatari sentivano la necessità di lasciare i loro castelli e le loro curti, per chiudersi nei vari paesi che si munivano di mura più o meno turrite, a difesa generale. Questo fenomeno viene chiamato dagli storici: incastellamento.

Bisogna però contenerlo nei giusti limiti, per non esagerare nella sua valutazione storica.

L’incastellamento è semplicemente l’adesione o iscrizione a un Comune. Esso non è una fuga generale dalla campagna, (l’agricoltore marchigiano non ha mai abitato entro le mura di un paese), ma si limita a quei feudatari che, abitando nei loro castelli e nelle loro curti di campagna, per le cresciute agitazioni sociali, non si sentivano più al sicuro da saccheggi.

L’incastellamento non si faceva ad arbitrio di un signore o di un Comune, ma era vigilato e regolato dall’autorità superiore, perché il vescovo o l’abate guardava sempre con preoccupazione il ricco feudatario e ne temeva per la libertà del Comune.

Ed ecco il vescovo di Fermo concedere a Ripatransone di eleggersi i consoli nel 1205, sotto certe condizioni; tra le altre quella di non accogliere nel loro Comune nessun nobile, senza il consenso del vescovo: « esteros vero sine nostra licentia non mittetis: potestatem, neque rettores vel consulem . . . (reg. Ep. p. 184).

«Aliis vero nobilibus ad hoc castrum venire volentibus, cum licentia Episcopi firmani dandi popestatem habeatis (ivi)».

Erano i feudatari che avevano bisogno di mettersi al sicuro entro le mura di un paese; ma siccome i vari Comuni smaniavano di ingrandirsi e di crescere in sicurezza e potenza,

I feudatari ne approfittarono e seppero vender caro il loro incastellamento.

Nel 1223, Gualtiero di Galerano che aveva il suo possedimento e relativo castello verso l’Ete, castello che si chiamava Podium Petrae (oggi Poggio), promette con atto pubblico a Valente di Malaparte sindaco di S. Vittoria, di trasferirsi in paese e di abitarvi per due parti all’anno e di rendere ì suoi vassalli cittadini di S. Vittoria (21).

Appare chiaro il fine di accrescere il numero degli abitanti e assicurare al paese un maggiore vettovagliamento. Ed ecco come Gualtiero vende bene il suo incastellamento, per altro prezioso.

«Quia tu Valens promisisti mihi» dare (ma diciamolo in italiano) undici moggi di terra nel territorio del paese, non tra i migliori né tra i peggiori; un mulino ben attrezzato sul fiume Aso e una casa dentro il paese con tre staia di terra per l’orto.

(Quegli orticelli dentro il paese di S. Vittoria hanno tanti secoli di vita; non fateli sparire).

Nel 1229 sono i signori di un castello detto di Monte Rodaldo, nei pressi dell’attuale camposanto a trattare l’inca-stellamento col sindaco Vitale di Zocco. I detti signori si impegnano ad abitare nel paese, a non riedificare e non far riedificare il castello di Monte Rodaldo.

A uno di questi signori che si chiama Monaldo il sindaco dà la propria casa, cento lire volterrane, un mulino di quelli che erano in costruzione per conto del Comune; tre staia di terra per l’orto e venti salme di vino. All’altro che si chiama Giraldo dà una casa con uno spazio libero intorno; 130 lire volterrane e un mulino; venti salme di vino e tre staia di terra per l’orto. Ai detti signori il sindaco garantisce la sicurezza, la difesa e l’esenzione da ogni obbligo verso il Comune, eccetto il servizio militare « quod facere teneatis ». 

Ci dispiace che qui si apra la via ai privilegi dei nobili, ma era una necessità, particolarmente nel caso dei signori di M. Radaldo, perché il loro incastellamento era per Santa Vittoria una conquista insperata. Essi erano già, nel 1215, incastellati a Fermo pagando tre lire volterrane annue e ricevendo in cambio la promessa di protezione e difesa da parte di Fermo, contro tutti, eccetto il papa e l’imperatore.

Sembra che il castello fu assalito e distrutto da Guglielmo da Massa, del quale il Brancadoro fa questo panegirico: « costui non restava, per mezzo di mandatari feroci, taglieggiare con carichi importabili, ed opprimere i propri vassalli con violenze continue».

I signori di Monterodaldo vedono più opportuno incastellarsi a S. Vittoria, e il sindaco Vitale, vista la convenienza per il Comune, non sta a lesinare in privilegi.

Nello stesso anno 1229, il sindaco Vitale de Zoeco riceve con atto pubblico l’incastellamento dei signori Rinaldo, Esmido e Gentile di Racafano che avevano le loro terre dalla parte dell’Aso. (22)

Essi si impegnano ad abitare nel paese e ad iscrivere nel Comune di S. Vittoria tutti i loro vassalli, alle condizioni colle quali l’abate Gentile aveva ceduto i suoi; si impegnano ad incastellare i loro raccolti e abitare nel paese in tempo di guerra, con cavalli ed armi a loro spese e uno dei fratelli non lascerà il paese finché duri la guerra. Ricevono in cambio dal sindaco una casa con orto ed alcuni moggi di terra in varie contrade del Comune.

Nel 1239, sono i figli di Milone, Giovanni e Leonardo, che già abbiamo incontrato in questa storia, a fare l’incastellamento.

Avevano le loro terre sul versante del Tenna, e forse anche della terra oltre il Tenna. Promettono di incastellare in S. Vittoria i raccolti delle loro terre; di mantenere un cavallo con rispettiva armatura a disposizione del Comune e a non lasciare il Comune in tempo di guerra contro chiunque, eccetto i signori Giovanni e Gilberto di Penna S. Giovanni, contro i quali non debbono essere obbligati a combattere. (23)

Ricevono in cambio 15 lire volterrane per comprare una casa a S. Vittoria e tre per un orto. Casa con orto e cavallo sono la maggiore preoccupazione che appare dai documenti del tempo; senza orto quei signori, abituati alla libertà della campagna, non sapevano vivere; senza cavalli non si poteva sostenere una guerra.

Riceveranno inoltre una data ricompensa per ogni vassallo che incastelleranno a S. Vittoria.

L’incastellamento si faceva col permesso dell’autorità superiore ed è il Cardinal legato per le Marche a convalidare, nel 1248, per S. Vittoria gli incastellamenti avvenuti fino a venti anni addietro (24)  .

E il successivo Cardinal legato, Pietro di S. Giorgio ad Velum aureum, concede a S. Vittoria ampia facoltà di ricevere nel Comune qualsiasi cittadino del territorio abaziale, del territorio fermano o di qualsiasi altra provenienza; e questo per la fedeltà dimostrata sempre dal Comune verso la S. Sede (25).

Dalla lettura di questo capitolo si capisce il perché dei confini di certi paesi e il perché della posizione privilegiata di certe antiche famiglie. Il territorio di un Comune si formava secondo il saper fare dei Consigli Comunali, e di S. Vittoria in M. possiamo dire che i sindaci di quel tempo seppero fare abbastanza bene; seppero fare anche colle autorità superiori, per ottenere privilegi di ogni genere. L’abate favorendo la costituzione dei Comuni, procurava una perdita alla Badia, per cui a parziale mantenimento degli introiti necessari per la vita dei monasteri, si riservava di esigere, dai Comuni stessi lievi tasse che gravavano sui singoli cittadini. Nel 1250 il Cardinal Legato scioglie i cittadini di S. Vittoria dall’obbligo di pagare qualsiasi canone al monastero, riducendo tutto a un solo canone annuo di lire 25 volterrane (26).

Nel 1257 il Rettore Generale della Marca dichiara che, per quanto abbia cercato, non ha trovato documenti che dimostrassero che S. Vittoria avesse mai pagato niente. Perciò, in considerazione della fedeltà di quel Comune, lo dispensa in perpetuo dal pagare qualsiasi fitto, qualsiasi focatico, qualsiasi dazio (27).

E che volete di più?

ODORISIO – L’ABATE PODESTÀ’

(1235- 1238)

Odorisio fu eletto abate nel 1235 e tenne la sua residenza a S. Vittoria, che gli deve la sua importanza politica e soprattutto strategica che essa ebbe nei due secoli seguenti.

Rispettando la libertà del Comune e del suo Consiglio, si fece nominare Podestà, per poter provvedere con più speditezza alla organizzazione della città, che era la città dell’abate e che aveva bisogno di fortificazioni, perché in caso di guerra su di essa facevano affidamento le forze della Badia.

L’abate podestà cominciò la ricostruzione delle mura cittadine; comprò una casa entro lo spazio fortificato e vi tra-sferì gli uffici comunali; edificò la torre a cavallo della porta S. Salvatore, che anche oggi è il miglior ornamento del paese; quando nel 1238 Gregorio IX diede ordine ai Comuni piceni di fortificarsi nel miglior modo, perché prevedeva pericoli da parte dell’imperatore Federico II, l’abate podestà, aveva già preparato a puntino la sua capitale e poteva lasciare al suo successore Matteo II una magnifica fortezza.

E la guerra venne, feroce e disastrosa, che arrossò di sangue le province picene. Nel 123.9 Enzo, figlio di Federico II, tentò l’occupazione di tutto il Piceno; conquistò Osimo e Macerata, ma Treia resisté accanitamente. L’imperatore pensò di aprire un nuovo fronte e inviò un esercito di tedeschi e di saraceni, al comando di Rinaldo da Acquaviva, ad assalire il Presidato di S. Vittoria. Da poco era abate di S. Vittoria Matteo IL Con un buon esercito, guidato da Fildesmido da Mogliano, che dal 1230 era vicario abaziale nelle Marche, egli oppose resistenza agli imperiali concentrando la difesa sui castelli di Force e Montedinove, che ricorderete fortificate dall’abate Berardo III (28).

La resistenza di Force fu breve, sopraffatta da forze superiori, e gli imperiali ebbero via libera verso la capitale del Presidato, rimanendo M. di Nove tagliata fuori. Ai vassalli racchiusi a Monte di Nove Matteo II tenne piangendo un discorso, per esortarli alla speranza e alla fedeltà alla S. Sede; lasciò suo luogotenente il monaco Nicola da Pozzaglia, e corse con Fildesmido in Sabina a provvedere aiuti (29).

 Intanto gli imperiali occuparono Montefalcone e S. Vittoria, che fu sottoposta a forti tributi.

Era il 1240.

L’occupazione del Piceno da parte degli imperiali fu completa con l’occupazione di Fermo e di Ascoli; alla caduta delle quali non fu estraneo il tradimento (30).

DOPO LA GUERRA DEL 1240, ALLEANZA CON FERMO

Federico II, e dopo di lui re Manfredi, occupate le Marche, cercò di organizzare i Comuni a modo suo, controllati da regi podestà che ne limitavano il libero governo, e quindi odiati dal popolo.

La popolazione picena che aveva conosciuto la libertà comunale, non era disposta a tornare indietro; per cui l’opera del legato pontificio nelle Marche, intesa a riportare alla Chiesa questa regione conseguiva buoni risultati.

Ci furono però delle città, come Ascoli e, specialmente Fermo, che intravvidero nel governo podestarile la possibilità di estendere e rafforzare il proprio dominio su altri Comuni minori, e aderirono al re Manfredi. S. Vittoria, di fatto centro anch’essa di una provincia, il territorio farfense, non cambiò la sua politica tradizionale di fedeltà alla S. Sede e aborriva la podesteria regia, per gelosia della propria libertà. Tremò quando nel 1257 Fermo ottenne da Manfredi di occupare

Penna S. Giovanni, M. S. Martino, Smerillo e Montefalcone che facevano parte della sua giurisdizione, però non mancarono per essa riconoscimenti e incoraggiamenti da parte della S. Sede.

Ma la sua posizione non era facile. Il nostro Comune era libero e forte, ma la sua forza era relativa e non poteva permettersi il lusso di non tremare di fronte alla lotta feroce tra il Papa e Manfredi; bisognava stare con gli occhi ben aperti, per vedere in tempo da che parte si abbassava la bilancia e usare tutta la prudenza per non riportarne rotte le costole.

La politica del re che limitava coi suoi podestà l’autorità dei consigli comunali, era favorevole alle aspirazioni am-biziose di Fermo; l’ostacolo e il pericolo maggiore veniva da S. Vittoria che non voleva accettare il podestà che il re aveva imposto, nella persona di Falerone da Falerone. Era necessario che S. Vittoria acconsentisse al regio podestà, per togliere al guelfismo la base di ogni possibile rivalsa.

Siccome era da scartare la forza, il sindaco di Fermo ricorre alla più fine diplomazia.

Il sindaco di Fermo, Gentile di Marco di Stefano, promette a Pietro di Compagnone, sindaco di S. Vittoria, il risarcimento dei danni, qualora il podestà Falerone da Falerone ne provocasse nell’anno corrente che esso è podestà (siamo in aprile 1261) e di quei danni che a S. Vittoria provenissero da qualsiasi ministro di Manfredi negli anni seguenti.

« S. Vittoria non sarà nemmeno tenuta a pagare lo stipendio al signor Falerone. Poi i nove somari che portavano il sale a S. Vittoria, che alcuni cittadini fermani hanno ingiustamente tempo addietro requisito, saranno subito restituiti (31). 

 Il sindaco di S. Vittoria accettò, o finse di accettare, non per la diplomazia del sindaco di Fermo, ma perché aveva intravvisto un. nuovo pericolo che si avvicinava. Nel fermano si era formata una lega ghibellina che toccava molti paesi e alla quale sembrava che partecipasse anche l’arcivescovo Gerardo. Alla lega partecipavano: Guglielmo da Massa, Ruggero da Falerone, Guido da S. Angelo, Fildesmido da M. Verde, Claudio da Petriolo, Anselmo da Smerillo, Gualtiero da Loro, Andronico da Montevidone.

Non era il caso di provocare disastri; era meglio tentare un modo di quieto vivere e bisognava salvarsi.

Il sindaco di S. Vittoria forse non crede a nessuna delle promesse del sindaco di Fermo, ma gli conveniva cedere per il bene del suo popolo e, nella chiesa di S. Martino in Fermo, si firmò un patto di alleanza tra le due città: in caso di guerra, Fermo assisterà S. Vittoria con due cavalli e duecento soldati; si farà guerra e pace di comune accordo (32).

ROTTURA

Son passati appena quattro mesi, siamo al 12 luglio 1261, e Lico di Mastro Alberto, sindaco di S. Vittoria, si presenta a Fermo con un incarico speciale del suo consiglio, per chiedere a quel Comune di mantenere i patti stipulati lo scorso aprile. Il Comune di S. Vittoria si sarà indotto a questa delibera in seguito alle pressanti esortazioni del vicario papale di allora Guido di Anastasio, che raccomandava ai Comuni marchigiani, e particolarmente a S. Vittoria di separarsi da Fermo; ma anche senza queste pressioni, c’erano motivi sufficienti per rompere il trattato.

     Il consiglio comunale di Fermo si aduna « sono Tubae et sono campanae et voce preconis more solito » sotto la presidenza di Busone da Gubbio, podestà. Lieo di mastro Alberto espone i fatti: il podestà Falerone voleva lo stipendio e molestava la popolazione; il regio commissario di Ancona sembrava che ignorasse i privilegi antichi di S. Vittoria ed esigeva i tributi; il Comune di S. Vittoria chiede a Fermo che la difenda da costoro, secondo i patti (33).

Ma che cosa poteva fare Fermo per S. Vittoria in questo caso?

Il trattato tra le due città -ci appare sempre più un meschino giochetto di Fermo per assoggettare S. Vittoria alla sua politica espansionistica, nel quale era caduto o aveva finto di cadere Pietro di Compagnone, per evitare al suo Comune mali peggiori. Non potremmo affermare che la politica di S. Vittoria in questa occasione fosse stata chiara, ma era politica del tornaconto che è buona politica; d’altra parte non possiamo nemmeno condannare la rottura del trattato da parte di S. Vittoria, perché poggiata su condizioni pattuite e non osservate.

A questo punto ci viene spontanea la domanda: l’abate di Farfa che parte ha in questo lavorio politico della sua capitale picena? Dopo la guerra del 1240 le cose erano molto cambiate. Per il governo pontificio lo Stato Farfense era diventato un incomodo, e in questi venti anni aveva cercato ogni occasione per ostacolare il governo politico degli abati, con la mira di assorbirlo e così dare allo stato pontificio una direzione più unitaria. Tutto si concluse col privilegio di Urbano IV, nel 1261.

IL PRIVILEGIO DI URBANO IV

La diocesis nullius di Farfa (diocesi di nessun vescovo) con un vicario a S. Vittoria, che diviene giuridica col privi-legio di Urbano IV, di fatto esisteva già da almeno due secoli. Nel territorio della badia, la giurisdizione su tutte le chiese e su tutti i sacerdoti con cura d’anime era esercitata dall’abate, e per i territori farfensi del Piceno, la giurisdizione era a S. Vittoria: o esercitata dall’abate quando vi risiedeva o dal priore che ne faceva le veci.

L’abate e il priore, che non erano vescovi, chiamavano nelle loro chiese il vescovo che volevano, per esercitarvi il ministero di quei sacramenti che essi non potevano amministrare. Ma erano gelosi di questa autorità e non ammettevano eccezioni.

Il privilegio di Urbano IV è una bolla che dà valore giuridico a questa indipendenza dei monasteri farfensi da qualsiasi autorità vescovile e garantisce ed essi il tranquillo possesso dei beni che possedevano e che avrebbero potuto acquistare.

Era veramente un privilegio la bolla di Urbano IV? Se fosse stato un privilegio, Farfa l’avrebbe ottenuto molto prima; era sempre però un documento vantaggioso, poiché, mentre segna la fine di uno Stato Farfense, diventato anacronistico, riconosce alla Badia una posizione giuridica molto favorevole.

I tempi erano cambiati. I Comuni si consolidavano, lo Stato Pontificio prendeva sempre più consistenza; la potenza dell’imperatore sull’Italia era ridotta al minimo, a Farfa quindi non conveniva più seguitare a chiamarsi Imperiale Badia. Vescovi e Signori, approfittando della debolezza dell’abate, si facevano padroni delle terre del dominio, come fossero di nessuno; così non poteva durare.

Per salvare il salvabile, Farfa chiede di potersi mettere sotto la protezione di Roma, e questa protezione le procura il privilegio di Urbano IV che le garantisce il possesso dei beni che ancora possedeva; le riconosce la diocesis nullius che la esenta dalla giurisdizione dei vescovi; ma la priva di ogni autorità civile sullo Stato Farfense, che passa a far parte dello stato pontificio. Dal privilegio di Urbano IV diventa giuridica anche la giurisdizione dei Vicari dell’Abate nel territorio farfense piceno, che ordinariamente erano i Priori di S. Vittoria. Crebbe tanto questa autorità con l’andar del tempo, fino a diventare una diocesi a sé, staccata da Farfa e col proprio Cardinal Protettore, e durò fino al secolo XVII (34).

MORICO DI MONTE

Tra tanti personaggi di questo periodo non possiamo dimenticare Morico di Monte. Priore di S. Vittoria dal 1257 al 1275 quando fu eletto abate di Farfa.

Era di S. Vittoria; intelligente, energico, dinamico; univa alle zelo di monaco, il grande attaccamento alla terra di origine, comune a tutti i suoi conterranei. Difese con energia e con successo i diritti di S. Vittoria, sia contro il vescovo di Fermo, sia contro il clero di Montelparo e dei paesi soggetti alla sua giurisdizione, diventato abate, non dimenticò di essere vittoriese. Fu buon mecenate. Un povero studente, Giacomo di Giovanni, chiede all’abate un aiuto per poter continuare i suoi studi. L’abate Morico gli assegna la prebenda della chiesa di S. Cecilia di M. Falcone in usufrutto; di essa non dovrà render conto a nessuno, fuorché all’abate (35).

Morico di Monte si fece molti nemici, sia a S. Vittoria, sia a Farfa, dove risiedeva da abate, e fece una brutta fine: morì avvelenato nel 1285.

CAPITOLO III

S. VITTORIA NELL’ETA’ DEI COMUNI

PARTE II

 PRESIDATO FARFENSE DI S. VITTORIA

Ci sono degli scrittori i quali, forse con poca persuasione, pretendono di saper tutto; poi dal loro linguaggio ti accorgi che sanno poco e fanno molte chiacchiere e tanta confusione.

Riguardo al « Presidato », io debbo umilmente confessare di saperne poco: solo quello che i documenti mi suggeriscono, ma questi non sono troppi.

10 penso che il Presidato sia di istituzione farfense, ma non ho documenti per provarlo; e se la mia affermazione va bene per il Presidato di S. Vittoria, non altrettanto conviene agli altri due: Presidato di Camerino e di S. Lorenzo in Campo, dove i Farfensi erano molto meno potenti.

Il   Card. Albornoz nelle sue « Constitutiones » codifica tre Presidati, ma non li crea lui, li trova già operanti, e « ab antiquo ». Allora azzardo un’altra supposizione che pure non sono in grado di documentare. Dopo il Trattato di Worms del 1122, quando finì la lotta per le « investiture » e il Papa ebbe la possibilità di ingerirsi maggiormente negli affari dello Stato Farfense, forse ci fu per la Marca un nuovo ordinamento giurisdizionale, e fu divisa in tre Presidati: Presidato Farfense di S. Vittoria già esistente; Presidato di Camerino e di S. Lorenzo in Campo, di nuova istituzione.

Certo è che il Card. Albornoz trova la Marca, nel 1357, divisa in tre grandi circoscrizioni giurisdizionali: Presidato Farfense, con sede a S. Vittoria in Matenano, dove il Preside aveva il suo tribunale di appello per i Comuni del territorio di Ascoli e di Fermo, che comprendeva pressappoco il territorio dell’at-tuale Provincia di Ascoli, con le città di Fermo, Ascoli, Offida, Ripatransone ecc.; il Presidato di Camerino con sede in quella città che era la seconda città della Marca per grandezza, che comprendeva il territorio tra il Chienti e l’Esino, dal quale dipendevano le città di Osimo, Recanati, Fabriano ecc.; il Presidato di S. Lorenzo in Campo (Pesaro), che comprendeva il territorio dall’Esino al Foglia, con le città di Iesi, Senigallia, Fano, Pesaro, Urbino ecc. (36).

Il Preside o Giudice del Presidato aveva piena autorità giuridica in tutta la sua circoscrizione; a lui andavano in appello le cause discusse nei tribunali dai giudici comunali e definiva ogni controversia legale con la stessa autorità del Rettore della Marca (37).

A differenza però di questi, non sembra che il Preside avesse alcuna autorità in campo politico, o militare.

Le Costituzioni Egidiane cambiano completamente questo ordinamento regionale.

Benché allora fosse Fermo la città principale della Marca, il Cardinale scelse Ancona come sede di un governo regionale; composto da un Rettore nominato direttamente dal Pontefice; un Tesoriere pure nominato dal Pontefice con l’incarico di riscuotere le imposte; un Maresciallo e quattro Giudici. Questo era il Tribunale Superiore per la Regione (38).

A questo Governo Regionale facevano capo gli Stati o Province. Esse erano: Ascoli, Fermo, Macerata, Recanati, Ancona, Iesi, Cagli, Pesaro, Urbino, Santagata Feltria (39). Rimanevano poi i tre Presidati, ma ridimensionati nella loro estensione territoriale e nei loro poteri: Presidato Farfense di S. Vittoria; Presidato di Camerino; Presidato di S. Lorenzo in Campo (40).

A ogni città capoluogo di Stato faceva capo un numero più o meno grande di Comuni minori che subivano l’influenza di esse. Il Cardinale strinse maggiormente i vincoli tra questi Comuni e le loro città, esigendo che essi prestassero giuramento di fedeltà e pagassero un tributo a quella, come a capitali (41) .

Non si abolivano i Comuni, ma si mettevano sotto il controllo della città capitale di Stato. In questa, oltre il Consiglio Comunale che governava la città, c’era un Consiglio di Stato, che vigilava sui Comuni del contado e vi eleggeva i Podestà (42) .

Per i Presidati era diverso: facevano parte dei Presidati i Comuni che non erano inclusi negli Stati, ma dipendevano direttamente dalla S. Sede. Nel Presidato non c’era il Consiglio di Stato: il Giudice del Presidato riceveva a nome della S. Sede il giuramento di fedeltà dei Comuni dipendenti; a lui andavano in appello le cause discusse nei tribunali comunali, ma non si intrometteva nel governo dei Comuni, i quali erano amministrati dai loro Consigli Comunali e giudicati dai loro Podestà, liberamente eletti.

Il nuovo Presidato di S. Vittoria comprendeva i Comuni di un vasto territorio tra lo Stato di Ascoli e quello di Fermo. I suoi maggiori Comuni erano: Amandola, Force, Castignano, Offida, Ripatransone e, per un certo periodo, Montefiore Aso e Monterubbiano.

Mentre i Presidati di Camerino e S. Lorenzo in Campo cessarono presto, assorbiti da Province confinanti o sbriciolandosi in piccole signorie, il Presidato di S. Vittoria resistette fino al sec. XVI. Il Colucci (XXXI p. 91 ) riporta un brano di Gaspare Gaballino il quale, commentando le Costituzioni Egidiane dice: «Hodie (oggi) 1576, queste Costituzioni cessano, perché non c’è più nessun Presidato nella regione. Era rimasto solo il Presidato Farfense, ma anche quello è sparito».

Nel 1586, Sisto V volle innalzare la sua città di Montalto a sede vescovile e sede di provincia, risuscitando il Presidato: il Presidato di Montalto, con un Preside che avesse giurisdizione su tutto il territorio dell’estinto Farfense, alle dirette dipendenze della S. Sede. Questo secondo Presidato durò fino all’unità d’Italia (43)  .

IL PODESTÀ

«Potestas» era il funzionario che impersonava l’autorità giuridica e l’autorità militare.

L’ufficio del Podestà incomincia col governo comunale; mentre prima la stessa mansione era esercitata dal « Comes » (conte) nelle civitates, e dal « Vicecomes » nei centri minori.

Inizialmente il Podestà era mandato nei vari Comuni dal governo centrale, per amministrarvi la giustizia e per garantirne la sicurezza e la fedeltà allo Stato.

Alla fine del secolo XIII cresce nei Comuni l’attaccamento alla libertà e sempre più s’impone la dottrina che l’autorità è nel popolo; e tanti Consigli dei maggiori Comuni cominciarono a rivendicare il diritto di eleggersi il Podestà (Fermo 1189 – S. Vittoria 1292) : non più « Potestas regia », ma Potestas Populi »; e il Podestà non è più il controllore del Comune, ma un impiegato controllato dal Comune; con l’incarico di amministrare la giustizia, e provvedere all’armamento e alla sicurezza del Comune.

Con le Costituzioni Egidiane del 1357, come vedremo, il Podestà resta elettivo nei Comuni dei Presidati, mentre in quelli degli Stati o Province viene inviato nei vari Comuni dipendenti dal Consiglio di Stato di ogni Provincia.

Nel 1289 il Comune di S. Vittoria ebbe un Podestà: «Leonardus de Archionibus, civis Romanus», che gli procurò seri grattacapi. Costui era stato mandato a S. Vittoria dal Rettore della Marca Giovanni Colonna. Il Comune non fece con lui nessun patto per lo stipendio, poiché usava dare al Podestà 50 lire ravennati annue; ma durante il secondo anno del suo mandato, Leonardo ne chiede duecento: cento per l’anno trascorso e cento per l’anno corrente; e cita il Comune di S. Vittoria al tribunale del Rettore (44).

Mentre la causa era in mano al giudice generale Giovanni da Spoleto, e il Comune aveva portato documenti e testi per la difesa, il giudice comandò che si presentasse il sindaco del paese con altri sei cittadini tra i più ricchi. Il Comune scelse gli uomini (fideiussori) e ordinò che si presentassero al Rettore generale, ma prima che arrivassero alla presenza di lui. furono messi in carcere e costretti a sborsare cento lire al podestà per l’anno antecedente e minacciati di dover restare in carcere, finché non avessero pagato le altre cento lire per l’anno corrente, (qualche volta la cosidetta giustizia era fatta così ).

S. Vittoria ricorse al papa Niccolò IV, che era di Ascoli, il quale con molta delicatezza avverte del fatto il Rettore e lo prega di far giustizia con sollecitudine e di mettere le cose a posto. Il risultato fu che, dopo un anno, il 4 ottobre, il povero sindaco con i sei uomini erano ancora tenuti nella casa comunale di Montolmo, dove dovevano pagare 21 soldi ravennati per vitto e alloggio; pena 500 lire ciascuno se si fossero allontanati. Il papa Niccolò IV scrisse di nuovo al rettore della Marca che non era più Giovanni, ma Agapito Colonna: « De tam nefario processu, non sine admiratione turbati . . . districte pracipiendo mandamus », cioè, ti ordiniamo precisamente di impedire simili procedure, e liberare immediatamente il sindaco e i sei uomini senza pretendere niente da loro. E lo minaccia: fa in modo che in seguito sii degno di lode (45).

Da quanto sopra, potete capire in quale agitazione minacciosa si trovasse il popolo di S. Vittoria, e come nessun altro si azzardasse di presentarsi in Comune coll’ufficio di podestà; onde l’anno seguente 1292, Niccolò IV propose una soluzione onorevole. «Dilectis filiis, Consilio et comuni castri S. Vittoriae Apostolicam Benedictionem. . . » (46)   .

« Conoscendo la vostra fedeltà alla S. Sede e finché questa fedeltà conserverete, avete facoltà irrevocabile di eleggervi tra il popolo cristiano il podestà e gli ufficiali che vorrete. Essi avranno facoltà di conoscere tutto nella vostra terra e di esercitar la giustizia in criminalibus et civilibus, fuorché nel delitto di lesa maestà e di eretica pravità. Potranno giudicare anche l’omicidio, l’adulterio, il raptus viginum, l’incendio doloso e il furto, anche se il furto comporti pena di mutilazione e di morte … In cambio pagherete alla camera apostolica (erario) 81 lire ravennati ogni anno, entro l’ottava di Pasqua ».

La libertà di scegliersi il podestà costava cara, perché ol¬tre alle 81 lire all’erario, si doveva pagare il podestà; ma per il Comune di S. Vittoria la libertà non costava mai troppo.

E l’anno stesso, il 4 maggio 1292, il Comune riceve quietanza per le 81 lire ravennati pagate regolarmente, per mano del sindaco Andrea Gentile (47).

LA STRAGE DI SORBELLIANO

Nel 1272, un gruppo di armati di S. Vittoria invasero la Pieve di S. Marco (Sorbelliano) e la saccheggiarono, bastonando e ferendo quelli che facevano resistenza, compreso il Pievano Grazia, di quel paese. Rovinarono case ed anche la pievania con le altre chiese del territorio, che erano sotto la giurisdizione del vescovo d: Fermo, poiché Sorbelliano non faceva parte del Presidato.

Questa ferocia nei cittadini di S. Vittoria è una novità che ci sbalordisce, perché S. Vittoria era una nobile e pacifica città, che aveva sempre preferito alla guerra l’azione diplomatica; e non conosciamo i motivi di questo vandalismo, che pure dovevano esserci e gravi. Forse in passato c’erano state provocazioni o ruberie da parte dei Sorbellianesi; o forse alla base della questione c’era il Castellare di S. Gualtiero. Questa specie di Castello, con l’annessa chiesa di S. Gualtiero, molto venerato in quei tempi, ed anche oggi, era nella valle del Tenna, proprio ai confini dei due paesi ed era agognato da tutti e due. Non c’era dubbio che appartenesse a S. Vittoria, perché ogni anno il sindaco della città rinnovava la presa di possesso del castellare (48); ma sembra che quell’anno i sorbellianesi avessero tentato (od anche seguito) di asportare le Reliquie del Santo, sicuramente confidando nel vescovo, che allora si era riconciliato col papa, e che poteva così ripagare il priore Morico per l’incastellamento di S. Maria della Valle, avvenuta pochi anni prima. Chi sa? Forse S. Vittoria credette che fosse venuta l’ora buona per farla finita coi fastidi del vescovo e con le intimidazioni dei fermani, ora che Manfredi era morto e la lega dei ghibellini fermani non metteva più paura. Sorbeliano era poi sempre una spina fastidiosa per S. Vittoria: politicamente, perché era un inciampo alla sua espansione territoriale; religiosamente perché il Pievano possedeva in S. Vittoria una chiesa e una casa: cose che innervosivano in quei tempi e si sopportavano male.

Ma fu un errore funesto; sia perché la violenza è sempre un errore, sia perché toccava gli interessi del Vescovo, col quale bisognava essere molto guardinghi, o almeno più forti. Il rettore della Marca poi, che aveva sempre colmato di benefici S. Vittoria, non poteva appoggiarla in questo caso, perché non poteva ammettere violenza di sorta tra un Comune e l’altro.

Il vescovo Gerardo ebbe il manico del coltello dalla sua parte e possiamo immaginare come si preparò, leccandosi i baffi, a farla pagar cara a quel Comune presuntuoso, che era sempre stato la spina più dolorosa del suo episcopato, o forse una delle più dolorose, perché di spine se ne era procurate tante. Il Comune di S. Vittoria fu citato al tribunale di Montolmo. Il consiglio comunale incaricò il sindaco Pietro Bonaccursi, per rispondere alla causa e tratt