1808 – Il “complotto dei tredici” fallì e Napoleone li fucilò p.
1809 – Napoleone la cancellò p.
1810 – Napoleone e il decreto sui camposanti p.
1810 – Un dì felice ma Napoleone voleva che si festeggiasse solo il suo compleanno p.
1812 – Quando il Viceré nominava i “sindaci” p.
1818 – E nacque “Stille Nacht”, un canto universale p.
1821- Leopardi “devoto servitore” del canonico fermano p.
1822- Diploma firmato Antonio Canova p.
1827- I Promessi Sposi di Fermo p.
1834- La “Cencia” di Belli – La passione del poeta molto legato al Fermano p.
1840 – Diventò un palio venerato e protettore p.
1843 – Il matrimonio felice del conte Gigliucci e del soprano Novello p.
1845 – Fermo ed i Fermani nel giudizio di Mommsen p.
1846 – Ancora sul Conclave di Pio IX p.
1846 – Due Fermani protagonisti nel Conclave che elesse Pio IX p.
1848 – In tempi di Tangentopoli ripensiamo al primato nelle scienze e nelle arti p.
1849 – Cinque erano gli assassini, solo tre divennero eroi p.
1849 – Garibaldi a Fermo, la truppa a Porto S. Giorgio p.
1849 – Il Cardinale odiato dalla Repubblica Romana e da Cavour p.
1849 – il letto dove dormì Garibaldi si conserva ancora intatto p.
1852 – I.T.I., il buon nome non tramonta “Mai” p.
1855 – Il Cardinale De Angelis rifiuta Bologna p.
1857 – Avvenne in una festa di colori la visita di Pio IX in Ancona p.
1857 – Fischiate, fischiate pure, disse Pio IX alla folla p.
1857 – I contadini videro insieme il Papa e il mare per la prima volta p.
1857 – Sfarzose scenografie in onore di Pio IX p.
1859 – Candido Augusto Vecchi e Mercantini p.
1860 – Plebiscito p.
1860 – Feste, battute di caccia, amori per Re Vittorio Emanuele II p.
1860 – Il “regalo” dei Piemontesi p.
1860 – Il plebiscito ed il giallo delle schede p.
1860 – Moti in piazza contro i “tagli” piemontesi p.
1860 – Provincia scippata; fu ritorsione? p.
1860 – Quando il Cardinale era perseguitato p.
1860 – Ricordando Vittorio Emanuele (1878-1978) nelle Marche p.
1867 – Carnevale 1867: don Bosco arriva a Fermo p.
1873 – Mons. Camilli e la Romania p.
1874 – La notte dell’Epifania del 1874 a Montefiore p.
1876 – Carducci e il dialetto di Fermo p.
1878 – Omaggio al poeta – Fermo, il monumento a Leopardi ha 114 anni p.
1880 – Quante “papere” doc p.
1882- Ancora Gabriele D’Annunzio a Porto S. Giorgio p.
1883 – D’Annunzio e il Fermano p.
1883 – Niente esonero per commemorare Garibaldi p.
1888 – Il clinico che curò Carducci e D’Annunzio p.
1888 – L’eredità di Temistocle Calzecchi-Onesti p.
1892 – Sul più famoso vocabolario latino “Campanini e Carboni” hanno studiato” p.
1895 – 1895-1995: L’ultimo Cardinale a Fermo, Amilcare Malagola p.
1895 – Un campanello sotto il letto del Cardinale aprì la strada alla scoperta di Marconi \\\\\\\\\\\\\\\\\\\
Anno 1818 – E nacque “Stille Nacht”, un canto universale
Feste di Natale! In questi giorni, ricorrono grandi eventi in cui so no coinvolti Fermo ed il Fermano: la vittoria di Pompeo Strabone sugli Italici e la caduta di Ascoli (89 a.C.); la morte di Iacopone da Todi, o meglio Giovanni da Fermo; la nascita del Cardinale Bemetti, governatore di Roma, il Cavour dello Stato Pontificio.
Ma siamo, come detto, nel clima natalizio e non è il caso parlare di guerre, assedi, prigionie. Nel clima suggestivo di Natale, non possiamo passare sotto silenzio le note dolcissime del Lied natalizio “Stille Nacht, Heilige Nacht” (Notte serena, notte santa) nota ora dall’“uno all’altro polo”, a tutti i popoli e religioni.
Era il Natale del 1818; da poco era cessata la bufera napoleonica. Dopo il Congresso di Vienna, l’Europa stava faticosamente tornando alla normalità. A Obemdorf, villaggio a 15 chilometri da Salisburgo, patria di Mozart, il Natale si prospettava grigio e senza canti. L’organo della chiesa parrocchiale era inservibile perché rosicchiato dai topi. Inconcepibile un Natale senza canti, senza musica! Il parroco, don Josef Mohr, compone alcuni versi e corre ad Amsdorf, a tre chilometri di distanza, per chiedere aiuto a Franz Xaver Gruber il maestro di scuola che è anche organista e sacrestano.
Occorre musicare l’inno composto dal parroco… Gruber accetta e, in meno che si dica, modula su una vecchia spinetta la musica. E nato “Stille Nacht, Heilige Nacht!” Le note si diffondono armoniose e patetiche, commoventi e delicate. È nato il canto di Natale, universalmente noto ed apprezzato in tutto il mondo: “Notte Santa, notte di pace! All’intorno è tutto buio eccetto lo splendore che si irradia dalla Vergine e dal Bambino, Santo Infante tenero e delizioso che dorme in una pace celeste”…
Oggi non c’è popolo o nazione che non conosca tale canto e non vi è luogo sacro in cui non echeggino le note nate in quella Notte Santa del 1818, quando don Josef Mohr e Franz Xaver Gruber, donarono al mondo la più bella poesia e la più dolce musica di Natale.
Anno 1821 – Leopardi ‘devoto servitore’ del canonico fermano
Fermo sin dal secolo XIII fu sempre in ottime relazioni con Recanati e l’amicizia tra le due città aumentò nel corso dei secoli. Prova ne sia, che sulla Torre del Borgo, immortalata da Leopardi, ancor oggi spicca lo stemma di Fermo con la legenda “Firmane amicitiae documentum et pignus”: pegno e documento dell’amicizia fermana. Anzi, secondo l’autorevole Corriere della Sera (VII, 1987) la famiglia Leo¬pardi proveniva dal Fermano.
A Fermo, Giacomo Leopardi ebbe (ed ha) molti ammiratori. Abbiamo addirittura lettere scritte di suo pugno a studiosi fermani; tra questi, il canonico Ignazio Guerrieri che, in suo onore, aveva tradotto in latino la “canzone ad Angelo Mai”, scopritore, fra l’altro, del “De Republica” di Cicerone. Il Guerrieri spedì a Giacomo il manoscritto per un giudizio e Leopardi risponde in data 26 ottobre1821 da Recanati: “Pregiatissimo signor canonico, quantunque non abbia ricevuto il manoscritto di cui mi parla, non voglio tardare a rispondere… e ringraziare la VS della gentilezza che si compiace usarmi. Come ricevo il manoscritto, avrò cura di leggerlo subito, non per giudicare come Ella dice, ma per conoscere e pregiare il valore della SV nelle lettere latine…”. Dopo tre giorni, il 29 ottobre 1821 il Leopardi scrive di nuovo: “Stimatissimo signor canoni¬co. Ho ricevuto coll’ultimo ordinario e letto accuratamente il manoscritto di VS, dove tutto è degno di molta lode, fuorché il soggetto, o la scelta dell’originale. Desidero che la traduzione ricuopra i mancamenti del primo testo, e che le mie canzoni col nuovo abito, facciano più bella com¬parsa. Rimando il manoscritto, dove parecchi falli del copista e segnata- mente molte negligenze nella punteggiatura, non sfuggiranno all’avve¬dutezza di VS quando ve lo passerà… rendendo grazie di avere voluto ammaestrare le mie canzoni contro il merito loro nella favella de’ nostri padri, me le professo particolarmente obbligato…” etc. La lettera chiude con: “suo devotissimo obbligatissimo servitore f.to Giacomo Leopardi“.
Non sembra che il canonico abbia fatto una splendida figura, ma dopo 174 anni l’ha fatta e superlativa il prof. Olindo Pasqualetti, che insegna ed abita a Fermo. Egli ha tradotto in distici latini e greci l’Infinito, che, pubblicato a cura del Centro Studi Leopardiani, gira per il mondo. Vincitore di certami europei e intemazionali, le sue traduzioni avrebbero avuto i complimenti del cantore di Silvia. Al Guerrieri i puntini sulle i; al Pasqualetti: “magnanimo campion”.
Anno 1822 – Diploma firmato Antonio Canova
Non ricorrono né centenari, né cinquantenari, eppure il 1992 è stato proclamato l’anno del Canova sotto l’alto patrocinio del Presidente della Repubblica, del ministro Bernini, presidente del comitato diretto dal prof. Sisinni e del comitato scientifico presieduto da Giulio Carlo Argan.
Antonio Canova, il famoso scultore, cantato dallo Zanella, celebrato ed apprezzato in tutta Europa, richiesto dall’Inghilterra di scolpire il monumento a Nelson, ha qualcosa a che fare con Fermo. Non sono certo le stupende statue esposte alla mostra di Venezia, undici delle quali vengono dal museo di S. Pietroburgo, statue di levigata, abbagliante bellezza, ma un diploma con firma originale di Canova. “All’egregio Architetto romano Antonio Brunetti. L’insigne Romana Accademia del Disegno detta di S. Luca… si è sempre fatta pregio di accogliere nel suo grembo valorosi artisti di Merito e Romani e Stranieri”, così recita il diploma che dopo varie considerazioni aggiunge: “Essendosi resi noti ad essa i sublimi vostri talenti ed il sommo valore da Voi dispiegato nel-l’Architettura, aggregatasi il 28 del cadente aprile, e tenuto proposito sulla vostra degna Persona, di Comune consentimento, ha risolto di annoverarvi fra i suoi Accademici di Merito e darvene con la presente chiara testimonianza… Dalla stanze Accademiche in S. Apollinare il 30 aprile 1822. Firmato Antonio Canova”.
Tale atto fu rilasciato e firmato pochi mesi prima della scomparsa di Canova, il quale, come noto, morì a Venezia il 13 ottobre 1822. Vi sono però altre liaisons tra Fermo e Canova… “Coinquilini” alle 11 statue che si conservano all’Ermitage, sono i bozzetti della Natività del Rubens, dipinto che troneggia nella civica Pinacoteca di Fermo. Un Cardinale fermano, Tommaso Bemetti, segretario di Leone XII, nel 1826 fu colà delegato a rappresentare il Sommo Pontefice all’incoronazione dello Zar Nicola I.
A Fermo si conservano molti altri autografi di personalità famose (tra essi Mazzini, Garibaldi, Carlo I, vari papi, dogi e pascià) ma la città deve essere fiera che la stessa mano che ha scolpito Amore e Psiche (ri¬petutamente baciata da Flaubert), Napoleone, Le Tre Grazie, i Papi Clemente XIII e XIV, ha firmato di suo pugno un documento ora gelosamente conservato nella Biblioteca Civica Fermana.
Anno 1827 – I Promessi Sposi e Fermo
Nel corso dei secoli, a cominciare dagli autori della Grecia antica, molti si interessarono di Fermo. Anzi, i fermani si recarono a scuola da Pitagora nella Magna Grecia (sec. V a.C.) prova della sete di sapere dei cittadini di quella che sarà poi la “città degli studi”.
Di Fermo parla Strabone nella sua opera in greco sulla “Geografia”. Silio Italico (sec. I d.C.); Plinio, morto nel ’79 d.C. nell’eruzione del Vesuvio; Procopio di Cesarea (V, VI sec. d.C.); Velleio Patercolo; Plutarco; Liutprando; Appiano Alessandrino; Cicerone; Giulio Cesare.
Ne parlano anche autori cristiani come S. Agostino, ne parla anche S. Gregorio Magno che incaricò il Vescovo del tempo ad occuparsi delle Diocesi di Ascoli e Teramo; ne parla anche Papa Gregorio VII, quello famoso per Canossa e così via. Se dovessimo soffermarci ad elencare tutti quelli che hanno scritto o parlato, fino ai recenti, come Fanfani, Giovanni Paolo II, Spadolini, Volponi, etc., non basterebbero molte pagine.
Ma fra gli autori non possiamo tacere Carducci che lodò l’indole, il dialetto ed il paesaggio di Fermo, né dimentichiamo Giulio Cesare Croce (1550-1609) autore di “Bertoldo e Bertoldino” integrati poi con “Cacasenno” per opera del monaco A. Banchieri. In tale volume si parla, e come, di Fermo.
Ma un altro luminare, celeberrimo nella letteratura italiana, Alessandro Manzoni parla di Fermo, ovviamente non della città, ma del personaggio-protagonista. Fermo, con Lucia, appariva nella prima ste¬sura del fortunatissimo romanzo “I Promessi Sposi”. I protagonisti amorosi erano: Fermo e Lucia, poi cambiati in Renzo e Lucia e con tale binomio consacrati alla gloria e alla fama. Ma tra i principali “attori” c’era anche Vittoria cambiata poi in Perpetua, entrata per antonomasia ad indicare la donna a servizio di un sacerdote o qualsiasi domestica anziana e ciarliera. Manzoni dice che lei perpetua che era “serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione”. Lei, di fronte alla paura di don Abbondio, rappresentava il buon senso popolare.
Noi però, anche se scherzosamente, dobbiamo bocciare il grande Manzoni e (dato che è stato tolto l’esame di riparazione) bocciarlo definitivamente. Infatti (continuando sempre nelle descrizioni di Perpetua) dice: “che era celibe” (non nubile, come avrebbe dovuto dire), … “aveva passata l’età sinodale dei 40, rimanendo celibe, per aver rifiutato tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevano le sue amiche…”.
Quindi Manzoni “bocciato” e “bocciato” due volte; prima per l’errore di Perpetua, poi per aver cambiato Fermo e Lucia con Renzo e Lucia. Ai fermani ne sarebbe venuto un notevole vantaggio e di propaganda e di immagine.
Tuttavia questa seconda “bocciatura” potrebbe essere annullata per il molto tempo trascorso. Rimane però quella (imperdonabile, in un autore di tale “stazza”), di celibe…
Anno 1834 – La “Cencia” di Belli – La passione del poeta molto legato al Fermano
Ricorre quest’anno il secondo centenario della nascita di Gioachino Belli, il grande poeta “romanesco” che ebbe relazioni con il Fermano e con Fermo quale ispettore del demanio del Governo Pontificio. Da noi ebbe amicizie e conoscenze ed a Morrovalle un’amica: la marchesa Vincenza Roberti affettuosamente chiamata “La Cencia”. A lei dedicò molti sonetti (tra cui un bellissimo acrostico) tali da costituire un vero e proprio canzoniere amoroso. Il Belli la incontrò a Roma quando lei aveva 21 anni, splendida, colta, vivace. Sebbene già sposato, se ne invaghì ed anche dopo le sue nozze col medico condotto di Morrovalle, Pirro Perozzi, continuò a frequentarne la casa. Anzi sperava che il figlio Ciro sposasse la figlia di lei, Matilde, ma Ciro si era già invaghito di un’altra e non se ne fece nulla.
A Morrovalle in casa della diretta discendente della “Cencia”, Nella Scattolin, sono stati rinvenuti recentemente due sonetti che sembrano inediti. Uno è “Napoleone all’Isola di S. Elena”, l’altro “A Gregorio XVI”. Una annotazione in calce ci parla di un cambiamento, fatto proprio da “Cencia”. Nei suoi sonetti, Belli parla anche di Fermo e di taluni cittadini fermani come il Cardinale Tommaso Bernetti, segretario di Stato. Parlando di Fermo lo pone sullo stesso piano di Napoli, Firenze, Genova etc. per “fornitura” alla sede pontificia, di prelati e di cardinali.
Ovviamente parla anche di Belluno, patria di Gregorio XVI allora pontefice: “Li prelati e li Cardinali. Pijjete gusto: guarda a uno a uno / Tutti li Cardinali e li Prelati; / E vvederai che de romani nati / Sce ne sò ppochi, o nnun ce n’è ggnisuno. / Nun ze sente che Napoli, Bbelluno, / Fermo, Fiorenza, Ggenova, Frascati… / E cqualunque scittà Ili ppiù affamati / Li manna a Rroma a ccojjonà er diggiuno. / Ma ssarìa poco male lo sfamalli: / Er pegg’è cche de tanti che cce trotteno / Li somari sò ppiù de li cavalli. / E Rroma, indove vienghero a ddà ffonno, / E rrinnegheno Iddio, rubben e ffotteno. / È la stalla e la chiavica der monno. / 27 maggio 1834.
Belli morì nel 1863 quando Roma era ancora governata dai Papi; la “Cencia”, nel 1884, dopo quasi vent’anni. A Roma, dove è sepolto al Verano, un monumento a Trastevere, un busto al Pincio ed una Via lo ricordano ai posteri. A Morrovalle, poche settimane or sono, gli hanno dedicato una via. Fermo dove esiste ancora qualche rampollo delle sue vecchie amicizie, lo ricorda per “li prelati e li cardinali” riconoscente per averla posta terza, in graduatoria, nella “esportazione” di eccellenze ed eminenze.
Anno 1840 – Diventò un palio venerato e protettore
Mentre si stanno spegnendo gli echi del Palio e della Cavalcata dell’Assunta, che si corre a Fermo da oltre novecento anni, piace ricordare un evento che ha aspetti affascinanti e miracolosi.
Si era nel 1840! Come da secoli, anche in quel 15 agosto ebbe luogo la corsa del Palio dell’Assunta vinto da un cittadino di Offida: Giuseppe Desideri, in sella ad una velocissima cavalla bianca. L’Arcivescovo di Fermo, Cardinale Gabriele Ferretti, gli consegnò il premio consistente in un palio con ivi dipinta la Vergine Assunta, patrona di Fermo. Esultante, Desideri lo riportò in triondo nella sua Offida e lo espose nella sua casa alla visione ed all’ammirazione di tutti. Era il trofeo di una vittoria squillante, conseguita brillantemente, nonostante il numero e l’alta professionalità dei cavalieri partecipanti, provenienti da ogni parte della penisola.
Dopo due anni, essendo ristrutturate le carceri, la sacra immagine fu collocata nell’oratorio del penitenziario, dove rimase esposta alla venerazione dei devoti, finché l’^tt»4«gli0 1850, Maria Giuseppina Loffreda, figlia del carceriere, la quale si recava spesso a pregare davanti alla sacra immagine, ebbe un sussulto. La Madonna muoveva ripetuta- mente gli occhi. Spaventata, corse, gridando, a chiamare gente. Gli accorsi videro chiaramente la Vergine muovere gli occhi, come la vide il giorno 12 luglio il vicario del Vescovo di Ascoli, mandato sul posto per rendersi conto di che si trattava. Mons. Giudo Poggetti (tale è il suo nome) ordinò che il Palio fosse portato nella chiesa collegiata, dove ancor oggi si venera, collocato nella cappella Pigliardi.
La fama dell’accaduto si sparse in un baleno e da quel giorno la sacra immagine, o meglio il Palio vinto a Fermo da Giuseppe Desideri, fu considerata dagli offidani quale loro protettrice. E non invano! Nel 1855 mentre infuriava il colera che mieteva vittime ovunque (basti pensare che nella vicina S. Benedetto, in un solo giorno morirono ben 63 persone), gli offidani si rivolsero alla loro protettrice e furono salvi.
Per voto, promisero di effettuare per cento anni, ogni otto luglio, una solenne processione con la partecipazione del clero, magistrature cittadine e confraternite; ciò quale ringraziamento dello scampato pericolo. Ma non basta! La Vergine del Palio, salvò Offida l’otto giugno 1944 dalla distruzione.
I tedeschi in ritirata, avevano posto delle mine sotto la chiesa di Santa Maria della Rocca. Gli offidani in preda al panico, promisero alla Vergine che se li avesse protetti, il voto della processione sarebbe durato fino al 2000. Nonostante i ripetuti e rabbiosi tentativi dei tedeschi di far brillare le mine, queste non scoppiarono e la cittadinanza fu salva. In questi giorni, a Fermo, nel Palazzo dei Priori, una grande foto e stampe dell’epoca, ricordano l’evento. C’è fra esse la foto nelle dimensioni originali del Palio, raffigurante la Vergine Assunta che, ripetutamente, ha protetto Offida da quel 15 agosto 1850 a tutt’oggi.
Anno 1843 – Il matrimonio felice del conte Gigliucci e del soprano Novello
In sweetest harmony they lived: essi vissero nella più dolce armonia! Epitaffio più acconcio non si poteva apporre sulla tomba di Clara Novello e Giovan Battista Gigliucci. È una frase dal Saul, del musicista George Friederich Haendel, scelta per una cantante famosa, Clara Novello (figlia di un oriundo italiano e di madre inglese). Il Times Musical del 10 aprile 1810 la definiva “il più grande soprano inglese di questo tempo”; Mendelssohn e Schumann la descrissero come “prodigio musicale” ed “esecutrice meravigliosa”.
Dopo gli allori mietuti in patria, nel 1839 venne a Milano, divenen¬do famosa anche in Italia; nel 1842 la troviamo a Bologna, dove Rossini la scelse quale soprano per lo Stabat. Mentre era in questa città, il con¬te Giambattista Gigliucci di Fermo, fu mandato colà per prendere con¬tatti e scritturarla per la stagione lirica fermana dell’agosto 1842. La Novello venne; cantò nella Saffo suscitando l’entusiasmo e l’ammirazione dei fermani, che pubblicarono anche un disegno eseguito da Gaetano Palmaroli. Dopo la stagione di Fermo, se la contesero Roma e Genova. Si verificava quanto di lei Charles Famb scriveva sull’Athenaeum del 26 luglio 1834: Women lead men by thè uose some cynics say: You draw them by thè ear – a delicate way cioè: “Qualche cinico afferma che le donne menano gli uomini per il naso; tu invece in modo più delicato, coll’armonia”.
Ma l’incontro del conte Giambattista Gigliucci con Clara a Bologna, avvenuto nel 1842, portò a un matrimonio che venne celebrato il 22 novembre 1843, nella parrocchia di Paddington. Clara Novello, ora contessa Gigliucci, venne a Fermo e vi trovò l’ambiente ideale per la sua arte. Vi erano i maestri di canto, come Carlo Mora e Francesco Cellini, e Alessandro Marziali maestro di suono; i fratelli Giuseppe e Fudovico Graziani.
Fa sera del 18 agosto 1846, spopolò con una esibizione musicale improvvisata, in onore di Pio IX. Diede poi concerti di beneficenza ai quali partecipò anche il Cardinale De Angelis. In uno di detti concerti, tale fu l’esibizione, che il Cardinale che aveva firmato per un’offerta di 200 scudi, ne elargì altri 200! Mutarono poi i tempi; venne la Repubblica Romana con Armellini, Mazzini e Saffi. Restaurato il governo pontificio, il conte fu preso di mira dalla polizia. Fu costretto da Martinsicuro, dove aveva i beni, a tornare a Fermo su un carro di buoi.
Nel 1850 i due coniugi emigrarono in Portogallo e l’anno seguente a Londra. Tornarono il 3 novembre 1860 per dare (il conte) il voto al Plebiscito del 4-5 di tale mese. Fu accolto con entusiasmo. La famiglia dimorò qui e la contessa Clara continuò a dare concerti. Ma il 29 marzo 1863 il conte si spense. Clara lo seguì il 12/3/1908; entrambi spirarono a Roma, dove si recavano a passare la stagione invernale. L’epi-taffio che contraddistingue la loro tomba è il più bell’elogio alla loro armonia coniugale e al genio canoro di Clara: “In sweetest harmony they lived!”.
Anno 1845 – Fermo e i Fermani nel giudizio di Mommsen
Spesso un diario, un atto di vendita, un contratto, una donazione, testamento, letti dopo molti anni, gettano nuova luce su fatti e vicende, correggendo più d’una volta la storia ufficiale. Da una pagina del “Viaggio in Italia” di Teodoro Mommsen scritta il 26 luglio 1845. apprendiamo qualcosa dei fratelli De Minicis, nati a Fermo sulla fine 1700.
Di profonda cultura, raccoglitori appassionati e intelligenti di materiale archeologico e bibliografico, illustrarono monumenti e memorie storiche della zona pubblicandoli in volumi, creando inoltre un cospicuo museo e una preziosa raccolta numismatica.
Quando Mommsen venne a Fermo il 26 luglio 1845, scrisse nel suo diario: “Ho fatto visita al Signor De Minicis, la cui abitudine di andare a letto alle 3 e alzarsi alle 11, stava quasi per mandare a monte l’incontro. Sono riuscito tuttavia a fare in modo che egli fosse svegliato, sebbene la cosa non fosse facile. Era altamente onorato e mi ha annoiato molto con la sua vanità epigrafica; se io avessi copiato una pietra del suo museo ricco di iscrizioni di Faleria e di Firmum, avrei dovuto citare il Museo De Minicis. Le iscrizioni nel palazzo pubblico le ho copiate; De Minicis ha pronta una raccolta di quelle di Fermo, che può essere utile per un Corpus. Per il resto il tipo è ignorante quanto gentile.
Sarei rimasto volentieri più a lungo nel suo museo, ma non volevo perdere la diligenza. Ora sono seduto qui a Porto di Fermo, impazien¬te di sapere come andrò in Ascoli”.
Sebbene il giudizio e l’appellativo di “ignorante” ci sembri poco generoso, tuttavia dalla pagina si evince che, dopo tutto, Mommsen era interessato al museo e non sono da buttare o sottovalutare le ricerche e le acquisizioni storiche effettuate dagli studiosi locali che vivono sul posto e che spesso forniscono la “materia prima” a “luminari” forestieri.
Mommsen, nella stessa pagina, dice di Fermo: “La città si trova sopra un alto monte che domina tutti i dintorni, sulle cui vette collinari c’è una gran quantità di paesi. Sulla collina dove si trovano la Cattedrale ed il punto più alto della città, si ha una magnifica vista del mare; l’Appennino è ancora coronato di un po’ di neve. La città è abbastanza antica, piena di brutte chiese; ma faccio eccezione per la Cattedrale”.
Anno 1846 – Ancora sul Conclave del 1846: le tabelle dell’elezione di Pio IX
“Mentre la cristianità esulta per /’ elezione del nuovo Papa, ospitiamo questa testimonianza del Prof. Gabriele Nepi, il quale rivela precedenti storici sul papato che ci riguardano da vicino. Infatti si riferi¬scono al Conclave che portò all’ elezione di Pio IX (conclave che si svose nei giorni 15-16 giugno 1846), nel corso del quale si ebbero soltan¬to quattro votazioni e fu, pertanto, uno dei più brevi della storia”. Così la nota introduttiva de II Resto del Carlino del 17 ottobre 1978, giorno successivo all’elezione di Giovanni Paolo IL
Nonostante tutte le proibizioni, i “bruciamenti” ed i segreti con cui sono coperti i risultati di tali elezioni, abbiamo trovato le tabelle di scrutinio, che portarono all’elezione di Pio IX. Ne parliamo, sia perché sia¬mo nel centenario della morte del grande Pontefice, sia nel clima dell’elezione di Giovanni Paolo IL
In queste tabelle sono elencati i nomi dei 62 Cardinali che allora componevano il Collegio Cardinalizio. Vi si riporta persino il numero dei Cardinali in conclave: 49; uno assente per malattia, mentre i Cardinali di Curia assenti erano 12. Le tabelle riguardano la votazione del 15 giugno (mane XV junii 1846), quella della sera del 15 giugno (vespere XV junii), e le successive del 16 mattina e della sera del giorno 16 che portarono all’elezione (mane XVI junii) e (vespere die XVI junii 1846).
C’è da notare che nell’ultimo scrutinio, fra i tre scrutatori figurava anche il Cardinale Mastai che ha potuto così vedere in prima persona il “crescendo finale” della votazione che lo portò all’elezione. Fra i nomi dei cardinali, spiccano i nomi di Micara. Macchi. Lambruschini Luigi (un ligure che sarà l’antagonista di Pio IX, tanto che nella prima votazione ottenne 15 voti), Castracane e Mattei. Tutti questi dell’ordine dei vescovi! Dell’ordine dei preti vediamo invece: Opizzoni, Fransoni (di Torino), Barberini, Patrizi, Polidori, Della Genga, Mezzofanti (il famoso poliglotta che conosceva oltre cento lingue, lo dice G. Ricciotti in “Osservatore Romano” del 18-2-1949), De Angelis Filippo (il Cardinale Arcivescovo di Fermo), Ferretti (di Ancona), il nostro Giovanni Ma-stai-Ferretti, Gizzi, Gagiano de Azevedo, immortalato da Leopardi (Italo ardito a che giammai non posi).
Dell’ordine dei diaconi (ricordiamo solo i più noti): Tommaso Ria- rio Sforza, Tommaso Bemetti (nativo di Fermo, che formò in conclave un forte gruppo che ostacolò il Lambruschini e che sarà poi segretario di Stato di Pio IX, come lo fu per Gregorio XIV) etc…
Le votazioni del primo scrutinio danno: Cardinale Lambruschini voti 15; Mastai voti 13; Soglia voti 4; Falconieri voti 4; De Angelis voti 4; Fransoni voti 3; Micara voti 1 ; Opizzoni voti 3; Polidori voti 2; Della Genga voti 2; Mai voti 1; Orioli voti 1; Ferretti voti 1; Pianetti voti 1; Gizzi voti 2. Quindi nella prima votazione si fronteggiano il Cardinale Mastai con voti 13 e Lambruschini con voti 15.
Il secondo scrutinio del pomeriggio del 15 giugno dà i risultati seguenti: Lambruschini voti 13; Mastai voti 17; Macchi voti 4; Fransoni voti 3; Soglia voti 2; Patrizi voti 4; Alberghini voti 1; Polidori voti 2; Della Genga voti 2; Mai voti 1; Falconieri voti 4; Orioli voti 1; De Angelis voti 4; Ferretti voti 1; Acton voti 7; Altieri voti 1; Gizzi voti 2.
Terzo scrutinio del 16 abbiamo; Mastai voti 27; Lambruschini voti 11; Macchi voti 4; Ostini voti 1; Opizzoni voti 1; Patrizi voti 3; Mai voti 1; Soglia voti 2; Falconieri voti 6; Orioli voti 2; de Angelis voti 5; Ferretti voti 1; Altieri voti 1; Gizzi voti 2; Antonio Cadolini voti 1 (so¬no due i Cadolini: Ignazio e Antonio).
La votazione finale che ha luogo nel pomeriggio del 16 giugno, ha per scrutatori i Cardinali Amati, Mastai e Fiaschi. I risultati sono: Ma-stai voti 36; Lambruschini voti 10; Macchi voti 2; Fransoni voti 1; Patrizi voti 3; Falconieri voti 4; Orioli voti 1; De Angelis voti 6; Altieri voti 1; Gizzi voti 1. Così il Cardinale Mastai-Ferretti viene eletto Sommo Pontefice; data l’ora tarda, l’annuncio al popolo viene dato il giorno dopo dal balcone del Quirinale.
C’è da notare a questo punto che, insieme al Mastai, era in predicato per l’elezione al pontificato un altro marchigiano, il già nominato Cardinale Giovanni Soglia, Vescovo di Osimo. Già sin dal 2 giugno 1846 nei rapporti dei vari ambasciatori ai loro governi sui nomi dei papabili si facevano i nomi di Mastai e del Cardinale Soglia, Vescovo di Osimo (Rassegna Italiana Risorgimento 1940, pag. 40).
Ma ora, l’interrogativo: come mai le tabelle di scrutinio, documento tanto segreto e tanto importante, sono finite nelle Marche e precisamente della biblioteca comunale di Macerata, dove sono custodite gelosamente? Ciò sorprende, data la scrupolosa cura ed il segreto con cui sono coperti tali atti. Forse saranno pervenute a Macerata attraverso canali sconosciuti del palazzo del Quirinale dove, come visto, si sono svolte quelle elezioni (vi si svolsero i conclavi che videro eletti Leone XII (1823), Pio Vili (1829), Gregorio XIV (1831) e il nostro Pio IX).
Dalla presa di Roma (20-9-1870), tutti gli altri conclavi ebbero luogo in Vaticano e non è escluso che nella confisca di archivi e biblioteche di Roma (oltre 60 arricchirono quella che è oggi la Biblioteca Nazionale) qualcuno, all’atto del trapasso dei beni, abbia preso le tabelle, poi finite nella biblioteca di Macerata. Non sappiamo nulla di certo! Queste sono soltanto ipotesi. Sappiamo però che questo è il solo ed unico documento del conclave del 1846, esistente fuori dal Vaticano dove (sono parole di P. Martina il più profondo conoscitore della vita di Pio IX) non si ritrova la relazione ufficiale del conclave del 1846. Alberto Serafini autore di una voluminosa vita su Pio IX, asserisce che fortuna¬tamente si conserva un resoconto almeno (allude al ns.) del conclave… in cui riuscì eletto Pio IX.
Da altre indagini, corrispondenze e controlli presso archivi romani, non si escluderebbe la possibilità che vi possano essere altri documenti, simili al nostro. Tuttavia, e lo ribadiamo, è certo che Macerata ha l’alto onore di possedere un documento importantissimo, l’unico esistente fuori dal Vaticano che registra le varie fasi che portarono al soglio di Pietro Papa Mastai, il Papa che regnò più a lungo di tutti i Pontefici.
Anno 1846 – Due fermani protagonisti nel conclave che elesse Pio IX
Il 16 ottobre ricorreva l’anniversario dell ‘elezione al pontificato di Papa Woityla. Un altro Papa fu eletto il 16 di un mese: era il 16 giugno 1846 e il Papa si chiamava Pio IX. Nella vicenda dell’elezione furono protagonisti due fermani: uno “purosangue”: il Cardinale Tommaso Bemetti; uno di adozione: il Cardinale Filippo de Angelis, Arcivescovo di Fermo. Come si ricorderà, Pio IX fu uno dei personaggi di spicco della storia del Risorgimento. Nato a Senigallia, dopo vari importanti incarichi, divenne Vescovo di Imola e cardinale.
Morto Gregorio XVI (spirato il le giugno 1846), il Cardinale Ma-stai Ferretti parte per il conclave la sera dell’8 e giunge a Roma il 12. Il mattino del 15 giugno, iniziano le votazioni; subito si delinea una contrapposta bipolarità: su 52 Cardinali presenti, spiccano due nomi: il Cardinale Luigi Lambruschini (da non confondere con l’omonimo pedagogista), genovese ed il “nostro” Cardinale Giovanni Mastai Ferretti. Quattro le votazioni. Nella prima Lambruschini riporta 15 voti; Mastai 13.
Entra allora in scena il Cardinale Tommaso Bernetti, che capeggia una corrente a favore di Mastai Ferretti. Seconda votazione: Lambruschini ha 13 voti: Mastai Ferretti 17; terza votazione: Lambruschini ottiene 11 voti: Mastai Ferretti 27; quarta: Lambruschini scende a 10 voti; Mastai Ferretti sale a 36; ha raggiunto i 2/3: è lui il Papa! Tutto ciò avviene non in Vaticano ma al Quirinale, dove in anni precedenti erano stati eletti altri Papi: Leone XII (1823-1829), conclave durato 18 giorni; Pio Vili (1829-1830), conclave durato 36 giorni; Gregorio XVI (1831-1846). conclave durato 50 giorni! Sono tutti Papi marchigiani, eccetto Gregorio XVI.
Come si vede, il conclave di Pio IX fu il più breve: durò soltanto due giorni. Ma in tutta questa vicenda, emerge un protagonista finora sconosciuto: il Cardinale Filippo De Angelis. Dalle tabelle di scrutinio di tale conclave, che grazie ad un colpo di fortuna abbiamo trovato, si può rilevare (anche se le schede vengono bruciate) la “vittoria” di tale Cardinale. Egli, nella prima votazione, ottenne 3 voti; nella seconda 4; nella terza 5; nella quarta 6. È il terzo della graduatoria, venendo dopo il neo Pontefice Pio IX che ottiene voti 36 e dopo Lambruschini che ha voti 10. In seguito, De Angelis (che era nato ad Ascoli nel 1792) verrà perseguitato dal governo piemontese per la sua opposizione all’invasio¬ne dello Stato Pontificio; per odio a lui, Vittorio Emanuele II toglierà a Fermo la provincia. Nel 1870, sarà presidente del Concilio Ecumenico Vaticano I. Il terzo posto del De Angelis, denota la stima di cui era circondato. Si noti che tra i Cardinali votanti vi erano personalità di spicco, come Mezzofanti conoscitore fra l’altro di 114 (centoquattordici) tra lingue e dialetti (Osservatore Romano 18 febbraio 1949). Angelo Mai, ricordato anche dal Leopardi ed altri illustri porporati.
Anno 1848 – In tempi di Tangentopoli ripensiamo al Primato nelle scienze e nelle arti
Oggi le “quotazioni” degli italiani con la vicenda di “tangentopoli” e gli annessi e connessi sono tutt’altro che alte, specialmente all’estero, anche se poi la faccenda non è del tutto disperata.
A mo’ di consolazione, ricordiamo che quest’anno ricorrono 150 anni della pubblicazione di un libro che fece furore: il “Primato morale e civile degli Italiani” di Vincenzo Gioberti che fu anche capo del go¬verno piemontese. Il “Primato” uscì nel 1843 e divenne subito il “vangelo” del neo-guelfismo, contribuendo ad infiammare gli Italiani nelle vicende politiche del 1848. Esso è l’esaltazione dell’Italia, della Chiesa e costituisce incitamento al popolo italiano ad essere degno della sua storia e del privilegio di avere la sede del Vicario di Cristo in “quella Roma, onde Cristo è romano (Purg. XXXII)”.
Ma negli stessi anni del Primato giobertiano, il conte Serafino dei Duchi d’Altemps, di Fermo, compilava un’opera analoga: “Il primato degli Italiani nelle scienze, nelle lettere e nelle arti”, poderosa opera in 38 fascicoli, ora rilegata in tre volumi, compresi documenti e note. Il conte Serafino (nato nel 1794, morto nel 1861) compì gli studi a Fermo, superati i quali si trasferì a Roma, dove dal 1815 al 1830 fu guardia Nobile Pontificia. Sposatosi con Caterina Palermi, romana, ebbe 4 figli tra cui Marco, Duca di Gallese. Diciamo ciò, perché più tardi una contessina di tale stirpe andrà sposa a Gabriele D’Annunzio e i due passeranno la luna di miele a Porto S. Giorgio (1883).
Ma torniamo al “Primato” del conte Serafino. In esso si tratta la preminenza italiana nelle scienze in genere (fisica, mineralogia, agricoltura) ed in quelle morali (etica, diritto, storia ecc.). Né poteva mancare la descrizione del primato italiano nelle arti belle, nella letteratura, musica ecc. Su tutto e su tutti emerge la figura dell’Italia madre di civiltà. “Gino eravamo grandi / e là non eran nati” (Giusti). L’opera che tuttora è conservata, manoscritta, nella biblioteca comunale fermana, costituisce un monumento letterario di indubbio valore, forse troppo poco conosciuto.
Il d’Altemps fu anche priore (sindaco) di Campofilone, grazioso paesino del Fermano; fu eletto con decreto del Delegato Pontificio del 3 ottobre 1857. In questo periodo, egli che da tempo era tornato a Fermo, alternava il suo soggiorno tra Campofilone e la città del Girfalco. In occasione dei trenta lustri dell’uscita del “Primato” giobertiano, sarebbe lodevole che qualcuno ricordasse l’interessante opera del conte d’Altemps che termina con un inno: “O bella Italia, Eden ferace e delizioso d’Europa, alma terra del sole, terra classica e di supremo privilegio, sede eterna del pensiero cattolico, visitata sempre da un angiolo il più vicino a Dio… Rinnova i gagliardi e generosi spiriti… e segui a mantenere così la tua primizia circa istituzioni e scoperte nelle Scienze, nelle Lettere e nelle Arti”.
Anno 1849 – Cinque erano gli assassini, solo tre divennero eroi
Era il 28 febbraio 1849, di mercoledì; sull’imbrunire, nell’area di piazzale Falconi a Fermo, alcuni sicari proditoriamente pugnalano Ori«seppe Corsi, Canonico della Chiesa Metropolitana e si danno alla fuga. Il malcapitato chiede disperatamente aiuto; vengono apprestati i primi soccorsi, ma dopo poco tempo muore. Ben sette erano i colpi inferti “da strumenti incidenti e perforanti” ma la causa della morte fu “il colpo inferto nella Regione umbellicale (sic) ed ipogastrica”; così recita la relazione dell’autopsia compiuta dal perito settore il 5 marzo 1849. Enorme fu l’impressione a Fermo, dove il canonico era conosciutissimo per il suo carattere mite e socievole ed era amato da tutti. Insegnante di sacra eloquenza in seminario, non si immischiava di politica. I tempi però erano burrascosi: lo Stato Pontificio in subbuglio. A fine novembre era stato ucciso Pellegrino Rossi, primo ministro del Governo Pontificio e Pio IX era fuggito a Gaeta. Venti giorni prima dell’uccisione del Corsi, era stata proclamata la Repubblica Romana e, dopo pochi giorni dall’eccidio, il Cardinale Filippo de Angelis, per ordine del Triumvirato venne preso prigioniero e condotto nel forte di Ancona, dove rimase per cento giorni. C’era una bufera di anticlericalismo, è vero, ma non era certo il canonico Corsi l’obiettivo giusto, anzi, la sua uccisione ebbe l’effetto opposto, suscitando risentimenti contro la fazione anticlericale. Caduta la Repubblica Romana, il 19 giugno 1849, il Cardinale De Angelis tornò a Fermo accolto da una folla esultante. Intanto continuavano le indagini per scoprire gli uccisori del Corsi. Molti contribuirono ad informare la polizia pontificia e vennero catturati i colpevoli. Erano: Rosettani Ignazio, 33 anni, coniugato, sarto; Venezia Enrico, 55 anni, coniugato, caffettiere; Casellini Giuseppe, 32 anni, celibe, possidente; Testori Filippo, 56 anni, sarto, coniugato senza prole; Smerlili Giambattista, 44 anni, calzolaio, vedovo. Il 10 febbraio 1855 furono processati e condannati a morte. Ebbe poi luogo un altro processo avanti al Supremo Tribunale Pontificio. La pena di morte irrogata in primo grado a maggioranza di voti fu confermata all’unanimità. Era il 22 novembre 1855. Il 23 maggio successivo venne a Fermo Mastro Titta, il boia che decapitò i cinque. Luogo dell’esecuzione: avanti alle Fonti di San Francesco da Paola. Nel frattempo c’erano state richieste di grazia; ad esse s’era unito anche il Cardinale de Angelis che le perorò presso il segretario di Stato Card. Antonelli. Nulla da fare. La scure non guardò in faccia a nessuno.
Caduto il Governo Pontificio e venuti i Piemontesi, l’8 febbraio 1861 il Regio Commissario Straordinario per le Marche, Lorenzo Valerio (decreto 749) accordò alla vedova del Rossettani, Adelaide ed a Giuditta, vedova del Venezia, la pensione. Nulla per Casellini perché celibe. Gli assasini col nuovo governo erano divenuti “eroi”. Nel 1902 fu posta una lapide, a ricordo dei condannati, ma in essa sono solo tre nomi, “tre o cinque?” si domandavano i giornali del tempo. Alla fazione clericale che chiedeva di poter apporre una lapide a ricordo del can. Corsi fu vietato. Invece, grandi le manifestazioni per l’inaugurazione di quella di Casellini, Rosettani, Venezia. Oltre duecento le bandiere; circa cinquemila gli intervenuti. Per superare le opposizioni (il prefetto aveva negato la commemorazione dei tre) si chiese l’intervento di Giolitti. Rappresentanti di logge massoniche, dei Comuni, delle varie province, erano presenti e Lorenzo Stecchetti, per la circostanza aveva compilato un sonetto. Terminava così: “Il prete qui decretò il macello / Venne per scherno a benedir la scure / e Fermo disse l’assassino è quello!”. Il Procuratore del Re vietò l’affissione di tale sonetto. Solo questo. Il resto fu una parata anticlericale e massonica.
Anno 1849 – Garibaldi a Fermo, la truppa a Porto S. Giorgio
Le scuole hanno da poco riaperto i battenti e le famiglie, come ogni anno, sono vittime del salasso determinato dall’acquisto dei libro di testo. Fra tanti libri figurano (e come può essere il contrario?) quelli di storia, non escluso il Risorgimento con i suoi eroi: Carlo Alberto, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi. Checché se ne dica, que-st’ultimo è il più conosciuto in ogni angolo della terra. Ho potuto constatarlo girando in lungo e largo gli Stati Uniti d’America e il Messico.
Addirittura nel museo oceanografico della California ho visto pesci chiamati Garibaldi (ysopsys rubicunda). Nell’America del sud, Garibaldi è quasi un eroe indigeno; in Brasile c’è una cittadina che si chiama Garibaldi.
Ma i nostri bravi studenti e i nostri altrettanto bravi docenti, parlando di Garibaldi, dovrebbero dire che l’eroe dei Due Mondi nel 1849 fu ospite a Fermo in una casa nei pressi dell’attuale sede del Liceo Classico in via Perpenti (una lapide lo ricorda ai posteri) e il 17 gennaio dello stesso anno, si recò, acclamatissimo, al teatro dell’Aquila, dove assi¬stè a una commedia del marchese Trevisani.
Ma Garibaldi era atteso a Fermo con 540 uomini e 50 cavalli. Ce lo documenta una lettera dell’Intendenza della Seconda divisione: Il ministero delle Armi con “venerato dispaccio comunicava essere stata destinata a questa piazza (cioè Fermo, ndr) la colonna di 540 uomini di truppa con 50 cavalli, organizzata e posta sotto gli ordini del signor ge¬nerale Giuseppe Garibaldi”.
Il “venerato dispaccio” era contraddistinto da protocollo 24929 / 15333 in data 31 dicembre 1848. Il comandante della piazza informa il gonfaloniere del Comune e subito è una ricerca frenetica per trovare alloggi. Si inviano celermente lettere ai maggiorenti della città. Il delega¬to apostolico, in data 1 gennaio 1849, conferma che “Garibaldi dovrebbe qui giungere secondo i precedenti avvisi del comando della piazza di Foligno”.
Ma il giorno successivo, 2 gennaio, il “delegato apostolico della città e Provincia di Fermo” scrive al signor gonfaloniere che “la colonna di Garibaldi non si fermerà più a Fermo, ma, dietro disposizione del ministro delle Armi del 2 gennaio 1849, avrà stanza a Porto S. Giorgio”. Piccole note, queste che non compaiono nelle storie ufficiali, ma sono tanto più preziose perché sconosciute o ignorate.
Anno 1849 – Il Cardinale odiato dalla Repubblica Romana e da Cavour
La nomina ebbe luogo il 27 gennaio 1842 durante il concistoro presieduto da Papa Gregorio XVI, ma la notizia giunse a Fermo qualche giorno più tardi; non c’erano i mezzi di comunicazione di oggi. Era trasferito dalla sede vescovile di Montefiascone e Cometo, alla sede arcivescovile metropolitana di Fermo, allora (come oggi) la più vasta, più importante, più popolosa Diocesi delle Marche.
Di essa erano (e sono) suffraganee le Diocesi di Macerata, S. Severino, Tolentino e quella di Montalto-Ripatransone e S. Benedetto del Tronto. Il Cardinale Filippo De Angelis (è di lui che si tratta) coronava così la sua carriera ecclesiastica, dopo essere stato visitatore apostolico a Forlì, Vescovo titolare di Leuca, poi di Cartagine, nunzio papale nelle città svizzere di Lucerna e Schwyz. In seguito si collocherà terzo nella “graduatoria” delle votazioni del conclave che portò all’elezione di Pio IX.
Fermo allora era importantissima. Quando egli giunse, era Cardinale da tre anni. Rimase nella nuova sede dal 1844 alla morte (1877) con due forzate interruzioni: una nel 1849 di cento giorni, perché fatto relegare nel forte di Ancona al tempo della Repubblica Romana; l’altra di sei anni, dal 1860 al 1866, quando all’arrivo delle truppe piemontesi, Fanti lo fece prelevare spedendolo in esilio a Torino. “Due volte nella polvere, due volte sull’altar”. Si temeva che il suo indiscusso prestigio e la sua popolarità potessero nuocere al nuovo governo e fomentare la resistenza antisabauda.
Del medesimo avviso erano stati il generale Fanti ed il commissario straordinario nelle Marche, Lorenzo Valerio. Ma se resistenze vi furono, non ebbero luogo a Fermo, semmai nell’Ascolano e nelle sue montagne, dove i Piemontesi dovettero combattere il brigantaggio e dove in alcune località nessuno si presentò a votare per il plebiscito (leggi: Mozzano, Roccacasaregnana, Porchiano). Anzi, non si riuscì in taluni casi a formare le commissioni elettorali; nessuno voleva farvi parte.
Ma quando la storia è scritta dai vincitori e quando sono essi ad imporre il diktat, c’è ben poco da fare. Infatti, nonostante tutto, Ascoli venne premiata con l’annessione della Provincia di Fermo, soppressa – pare – in odio proprio a De Angelis, che del resto era nativo di Ascoli.
Dopo il ritorno dalla prigionia, il Cardinale ebbe alti onori dalla gerarchia cattolica; fu nominato camerlengo di Santa Romana Chiesa e, nel 1870 presidente del Concilio Ecumenico Vaticano primo.
Volenti e nolenti dobbiamo ammettere che fu uno dei personaggi più in vista durante il periodo del Risorgimento nelle Marche.
Particolare coincidenza: il De Angelis, come il suo predecessore, Cardinal Ferretti, fu trasferito a Fermo da Montefiascone – Cometo; creato Cardinale l’8 luglio 1839 morì l’8 luglio 1877 (si notino le due date!) a Fermo, nel cui camposanto riposa.
Anno 1849 – Il letto dove dormì Garibaldi si conserva ancora intatto
Festa della Repubblica oggi. La ricorrenza assume un particolare significato anche per la presenza in Italia del Presidente della più potente Repubblica del mondo, Clinton, e per l’anniversario della morte di Giuseppe Garibaldi, strenuo difensore della Repubblica Romana; condottiero che tutto donò all’Italia.
Proprio oggi, il 2 giugno 1882, moriva a Caprera. Garibaldi ebbe relazioni con Fermo, il Fermano e i suoi abitanti.
Qui venne il 17 gennaio 1849, ospite dell’Avv. Giambattista Mur-ri, padre dell’illustre clinico Augusto e qui, al Teatro dell’Aquila, potè assistere ad una rappresentazione drammatica, dormendo poi nella casa ora del Conte Mancini-Spinucci.
Nel Caffè Broglio, che era sito deve è ora l’ufficio di Polizia urbana di Fermo, si dissetò e nel vedere dietro il bancone, in bella mostra, un ritratto di Carlo Alberto, qualificò il sovrano “traditore della patria” e squarciò l’effige con la spada.
L’ultimo dell’anno 1848 “un venerato dispaccio” della 28 Divisione Militare di Ancona preannunciava che Garibaldi sarebbe venuto e si sarebbe fermato a Fermo con una colonna di 540 uomini e 50 cavalli; ma poi vi fu un contrordine del Ministero in data 2 gennaio 1849. Come è noto, Garibaldi ebbe nel fermano Candido Augusto Vecchi un valido sostenitore per la spedizione dei Mille, anzi gli mise a disposizione la sua Villa Spinola in Liguria.
Nel 1849, anche il Cardinale De Angelis, Arcivescovo di Fermo, erogò a favore delle famiglie dei volontari che erano accorsi sotto la bandiera di Garibaldi (erano più di 70) 200 scudi ed a più riprese. Luogotenente di Garibaldi fu Costantino Tamanti di Petritoli; fervente garibaldino fu Pietro Basili di Porto S. Giorgio, etc.
Altra prova della fama e del prestigio di Garibaldi è data dalla casa dove riposò a Fermo, casa di proprietà del Conte Ing. Lorenzo Mancini-Spinucci, luminare della fenomenologia paranormale.
La stanza dove dormì in quel gennaio 1849 è ancor oggi tale e quale, con il letto a baldacchino, sedie, specchiere, comò. È questo un dato importante della storia italiana ed europea. Fino ad una quindici¬na di anni or sono a Grottammare si conservava intatta la sala dove Vittorio Emanuele II nell’ottobre 1860 aveva ricevuto le delegazioni
dei vari Comuni italiani e quella di Napoli che gli aveva offerto la co¬rona di quel regno.
Oggi più non esiste! Rimane però a Fermo la stanza di Garibaldi, più famoso di Vittorio Emanuele quello la cui “fama nel mondo dura e durerà quanto il mondo lontana” (Dante)
Anno 1852 – I.T.I., il buon nome non tramonta Mai
Giacomo Leopardi gli dedicò la canzone “Italo ardito a che giammai non posi”, quando scoperse il De Republica di Cicerone. Nato a Schilpario (Bergamo) nel 1792, moriva ad Albano Laziale nel 1854: quest’anno si compiono 140 anni. Ma chi era costui? Si tratta di Angelo Mai, principe dei paleografi italiani, cardinale, uomo d’immensa, poliedrica cultura, Prefetto alla Vaticana, il “ Colombo” dei palinsesti, pergamene, dei classici greci e latini. Ne scoprì ben 359. Sono opere di Cicerone (tra cui De Republica), Frontino, Marco Aurelio, Antonino Pio, Frontone, Dionigi d’Alicamasso, Porfirio, Plauto, Terenzio, etc. Tali scoperte vennero poi pubblicate in ponderosi e poderosi volumi.
Ma egli, il Re dei paleografi, il grande umanista, si occupò anche di Fermo o meglio del “ Montani” di Fermo. Contrariamente a quanto taluno pensa, il “ Montani” non è opera del governo piemontese, ma dei Conti Gerolamo e Margherita Montani, fermani, i quali sin dal 1849 pensarono ad istituire tale opera e con lascito testamentario destinarono per la sua attuazione la somma occorrente. Nominarono esecutore te-stamentario il Card. Filippo De Angelis, Arcivescovo di Fermo, che fu a capo della commissione relativa, composta da tutti i parroci di Fermo, il Gonfaloniere della città e membri del Consiglio Comunale e tre canonici. Ma nell’atto di dare attuazione all’opera, si riscontrarono alcune incongruenze e dissonanze tra quanto stabilito dai fondatori e la realtà del tempo. Ovviamente, non si poteva andare contro alle disposi-zioni dei Conti Montani. Occorreva, per farlo, una deroga sovrana cioè papale; allora era Pio IX il Capo dello Stato.
La Commissione espose allora al Papa le difficoltà di attuazione (tra l’altro gli alunni dovevano consumare soltanto il pasto di mezzogiorno, non la cena; la sera dovevano tornare alle proprie case, etc.).
Pio IX delegò a rappresentarlo il Card. Angelo Mai. Questi con rescritto in data 20 agosto 1852 dispose che l’Arcivescovo di Fermo De Angelis, viste le necessità reali ed oggettive poteva derogare: possit et valeat derogare prò suo arbitrio et prudentia.
Il 6 aprile 1854 (era il venerdì santo) nella Chiesa della Madonna del Pianto eletta protettrice dell’istituzione, ebbe luogo la solenne cerimonia di inaugurazione. Erano presenti autorità civili, religiose con a capo il Card. De Angelis ed i 60 alunni in fiammante divisa con l’effigie della Madonna del Pianto sul petto, e grande folla.
L’Istituto “ decollò” subito e la sua fama cresceva ogni giorno più. Vennero poi nel 1860 i Piemontesi che se ne impadronirono. Ebbero tuttavia il merito di affidare la scuola all’Ing. Langlois che la potenziò portandola a livelli di ulteriore prestigio. Dopo varie vicende e denominazioni, la Scuola di Arti e Mestieri divenne l’Istituto Tecnico Industriale, il primo in ordine di tempo e fino a poco fa il più prestigioso d’Italia.
Ma l’atto di nascita di esso fu scritto quel 20 agosto, quando il dotto umanista Card. Angelo Mai approvò le varianti all’atto costitutivo. Cultura umanistica e cultura scientifica unite, sancirono il nascere di una scuola che tanto ha giovato e giova alla città, alla Regione ed all’Europa. Basti ricordare che da esso uscirono il celebre Giuseppe Sacconi, la cui fama è legata all’Altare della Patria; Aristide Merloni, fondatore del- Findustria Ariston; i Benelli dell’omonima industria motociclistica; Flng. Giorgio Kolovic dell’Università di Belgrado, il Prof. Giuliano Massetti, creatore delle industrie Nucleari in California. Molti dirigenti di Telespazio del Fucino hanno studiato al Montani, come pure alti dirigenti della Fiat. Quest’anno ricorrono i 140 anni dalla fondazione (1854-1994).
Anno 1855 – Il Cardinale De Angelis rifiuta Bologna
Abbiamo accennato più volte al Cardinale De Angelis. Oggi vogliamo parlare di un aspetto pochissimo noto della sua vita. Nell’Archivio Segreto Vaticano si conserva copia di una lettera confidenziale di Pio IX, con cui gli offriva la prestigiosa sede arcivescovile di Bologna. Eccola: “Reverendissimo Cardinale Arcivescovo, pare che Iddio voglia da
Lei un atto di piena rassegnazione alla sua Santissima Volontà e credo che Ella vorrà pienamente assoggettarvisi. La vacante Sede Arcivescovile di Bologna, esige che sia provveduta di un nuovo Pastore ed io, dopo varie preghiere fatte per un affare così importante, mi sono sentito tutto inclinato di rivolgermi a Lei e mettere sopra di Lei lo sguardo per affidare una così onorevole ed importante missione. Ella quindi si rivolga al Signore e diriga la risposta che sia conforme alla stessa Volontà Divina, che si manifesta per mio mezzo. Riceva l’Apostolica Benedizione che di cuore Le comparto. “Datum Romae apud S. Petrum die 30 aprilis 1855”. (firmato) Pius PP. IX.
Nell’Archivio Vaticano non risulta risposta; tuttavia De Angelis non accettò. Fu nominato al suo posto il Card. Viale Prelà. Più tardi sarà Arcivescovo di Bologna il Cardinale Domenico Svampa di Montegranaro (1893/1907).
Anno 1857 – Avvenne in una festa di colori la visita di Pio IX ad Ancona
La visita del Pontefice ad Ancona, il 22 maggio 1857.
Archi, drappi, stendardi, fiori e bandiere pontificie e municipali sventolavano dappertutto in città, mentre nel porto molte navi in gran pavese erano ormeggiate per Limportante avvenimento: tra queste spiccavano le navi da guerra austriache Radetzsky e Vulcanov, insieme a due bastimenti pontifici S. Giovanni e S. Giuseppe.
Il Papa arrivò che erano le 14 circa, accolto dal generale austriaco Rukstuhl con lo stato maggiore in alta uniforme e le truppe schierate sui due lati della strada. Duecento marinai italiani precedevano la carrozza papale, attorniati da dragoni pontifici mentre le campane suona¬vano a distesa. Il Papa è ossequiato dal Cardinale Morichini, Vescovo di Jesi, dal Delegato apostolico, dal barone Lerder che rappresenta l’imperatore d’Austria. È tutto un animarsi di alte uniformi, di cappe, di prelati, di vescovi, di abati, mentre le due bande musicali, quella austriaca e quella dei pompieri di Ancona, eseguono marce trionfali. Ovunque campeggiano scritte inneggianti al Papa dell’“Immacolata” (ne aveva proclamato il dogma tre anni prima) ed alle sue realizzazioni. Si ricordava alla folla l’erezione, “dopo 262 anni, di un degno monumento alle ceneri lacrimate di Torquato Tasso, la conservazione ed i restauri dell’arco di Traiano, che dopo undici secoli appare più maestoso e bello”, l’aver eretto “l’osservatorio magnetico in Ancona” e “l’osservatorio astronomico a Roma, perché alla scienza che indaga l’armonia dei cieli sempre si appalesino le meraviglie dell’Onnipotente”. Non era taciuto il merito di avere snellito i commerci e l’incre¬mento della civiltà”. Anche gli ebrei inneggiavano al pontefice: “Gli israeliti di Ancona in segno di devozione e di omaggio”; e altrove “Gli israeliti esultanti festeggiano la desideratissima presenza dell’ottimo principe Pio IX”.
Nel palazzo municipale campeggiava la seguente scritta: “ANCONA, al Sommo Pontefice Pio IX / che nato da anconitana stirpe / è qui vissuto nei giovani anni / ne fu memore sul seggio pontificale / onorandola negli anconitani illustri / gratissima plaude, etc.”.
Moltissime erano le iscrizioni in latino. A sera, luminarie a non finire, inni e canti di giubilo, musiche della banda militare austriaca e cori in onore di Pio. I soldati austriaci con “fiaccole a cera” accese intrecciavano caroselli policromi, che nella fantasmagoria di luci e suoni, strapparono l’ammirazione del pontefice e del suo seguito. Il giorno successivo ebbe luogo la festa del mare. Non poteva Ancona, città marinara, esimersi dal mostrare al Papa le sue navi ed il suo porto.
Le navi di cui abbiamo fatto cenno erano nuovamente disposte a semicerchio attorno ad una piccola isola artificiale, costruita in mezzo al porto e riccamente addobbata ed imbandierata. Piccole imbarcazioni di ogni tipo, con bandiere e bandierine, solcavano il mare, mentre la folla che stipava ogni balcone, si assiepava ad ogni finestra o veranda, saliva persino sui tetti per godersi lo spettacolo.
Ad un tratto compare la lancia che porta il Papa; giunge fin sotto la fregata Radetzky, “la più bella e più potente della imperiale regia marina austriaca”, accolto dall’equipaggio e gli ufficiali schierati sul ponte; mentre la banda suona l’inno imperiale e quello pontificio, trecento marinai, ad un segnale, si slanciano sui pennoni, sugli alberi, si arrampicano sulle corde, calano, salgono, agitando, in tripudio di gioia, i berretti.
Compaiono e scompaiono tra le nuvole prodotte dallo sparo dei cannoni delle navi a cui fanno eco da terra i cannoni della fortezza e quelli dei baluardi circostanti. Le campane squillano a festa ed il rimbombo dei cannoni si disperde nel mare… Purtroppo tre anni più tardi, parte dei forti e la polveriera salteranno per aria durante l’assedio dei Piemontesi e 125 artiglieri pontifici moriranno sotto le macerie.
Dopo la festa del mare, a sera, luminarie ovunque, mentre le piccole imbarcazioni sfoggiano fanali e palloncini luminosi e dalla som¬mità delle colline, focaracci di gioia fanno da cornice ai fuochi artifi¬ciali che, da ben 72 punti della città, si innalzano verso il cielo illuminando a giorno Ancona.
Un particolare molto interessante nella storia è quello dell’ultima notte di soggiorno di Pio IX in città: “Ad un tratto, sfolgorò vivissima una luce che uscendo da una delle fineste (sic) d’una casa posta sulla piazza del teatro, innondava (sic) le contrade e gittava splendidissimi i raggi d’argento sino al palagio Apostolico… era il fuoco elettrico… che veniva posto in azione dal professore canonico Don Luca Zazzini e sì brillante ne fu lo effetto che lo stesso Sovrano e molti personaggi della sua corte ne andarono ammirati”; così un cronista del tempo che precisa che la luce era tanto vivida che la “luce delle luminarie rimase vinta dalla potenza di quella” (elettrica).
Nella visita del Papa si parlò anche dell’apertura del Canale di Suez (verrà aperto dopo due anni, cioè nel 1859). Ancona per la sua posizione e per i traffici con l’Oriente, ne avrebbe certamente guadagnato. Altra conquista per la civiltà ed i commerci fu l’inizio dei lavo¬ri della ferrovia Pio-Centrale e dopo due giorni la decisione di far pas¬sare per Jesi la ferrovia Ancona-Roma, mentre Macerata l’avrebbe vo¬luta nella valle del Chienti.
Il Papa ripartì da Ancona diretto a Chiaravalle dove visitò la fab¬brica dei tabacchi e le seicento operaie; sostò poi a Jesi “salutato dal suono delle campane e dallo sparo de’ mortai… e da ben cento gruppi corali”. A Jesi decretò il distacco da quella città della frazione di Santa Maria Nuova e la sua erezione in Comune autonomo a decorrere dal ls gennaio 1858; proseguì poi per la sua Senigallia, “sì bella a specchio dell’Adriaco mare…”.
Anno 1857 – ‘Fischiate, fischiate pure’ disse Pio IX alla folla
Giorni fa abbiamo ricordato il centenario della morte di Vittorio Emanuele II, che fu nelle Marche e precisamente a Castelfidardo, Ancona, Loreto, Macerata, Grottammare, senza contare le altre località di passaggio. Ricordiamo ora un nostro corregionale, Pio IX, che morì esattamente il 7 febbraio di cento anni or sono; egli, nato nelle Marche, ebbe qui le trionfali accoglienze nella visita del 1857 mentre dopo soli tre anni subiva, sempre nelle Marche, una sconfitta che lo privò dello Stato Pontificio ad eccezione del Lazio.
Pio IX, l’undici maggio 1857, venne nella nostra Regione, sostando a Camerino. “Lasciata Roma ai primi di maggio, arrivò a Camerino circa due ore dopo il meriggio”.
“Archi di verdura” erano innalzati “in più luoghi della strada da lui percorsa… il colle… la via e le mura castellane tutto era gremito di popolo… Fu ricevuto nel tempio maggio¬re dall’Arcivescovo a cui facevano corona i vescovi di Fabriano, Sanseverino, Amelia, il delegato apostolico ecc.”.
Il 12 maggio fu a Tolentino, indi, dal 13 al 15 maggio a Macerata, alloggiando nel palazzo dell’attuale Prefettura. Varcò i confini di quella che era allora la Provincia di Fermo, sostando a Porto Sant’Elpidio, davanti alla torre della dogana e qui ricevette l’omaggio della delega¬zione della città di Fermo “tutta vestita in spada, eccetto il conte Vinci che indossava la divisa del vice-console di Russia”.
Alle ore 16,30 del giorno 16 maggio, Pio IX giunse a Fermo, accolto dalle bande di Santa Vittoria in Matenano, di Porto S. Giorgio e di Fermo stessa, tra un tripudio di folla plaudente osannante con in testa il Cardinale Arcivescovo Filippo De Angelis. A sera, grandi furono le feste; pii! di diecimila lumini adornavano Piazza del Popolo (la luce elettrica non esisteva). Fermo era tutta vestita a festa; ovunque drappi, festoni, scritte inneggianti a Pio IX, archi di trionfo, luminarie e festose marce rallegravano la città. Fra il Municipio ed il Palazzo dell’Arcivescovo era costruito un artistico ponte di legno per il passaggio del Papa. Il 17 maggio, domenica, il Papa celebrò la messa al Duomo; la chiesa ed il Girfalco rigurgitavano di folla; tra due fitte ali di popolo, a piedi, scese lungo lo stradone di S. Savino; sostò nel palazzo della De-legazione Apostolica (palazzo dell’ex sotto-prefettura) pieno di personalità in abito di gala e musiche. Il 18 maggio, Pio IX partì alla volta di S. Benedetto del Tronto passando per Porto di Fermo (Porto San Giorgio). A S. Benedetto, dopo aver ricevuto l’omaggio di mons. Bufarini, Vescovo di Ripatransone, del conte Gaetano Martini e le deliranti attestazioni di affetto della folla, dormì nell’attuale Palazzo Brini, non senza aver prima degustato uno squisito brodetto di pesce da fargli esclamare che nella sua Senigallia non ne aveva mai assaggiato così buono.
Proseguì poi per Ascoli, dove si trattenne due giorni sempre accompagnato dal Card. De Angelis, Arcivescovo di Fermo. Anche qui luminarie, archi di trionfo, bande musicali fatte affluire anche dall’Abruzzo, piogge di fiori e fuochi notturni sul S. Marco e sul monte dell’Ascensione. Pio IX donò alla “bella e buona città di Ascoli” (sono sue parole), una ricca pianeta rossa; elevò la delegazione apostolica al rango di seconda classe; diminuì di sei mesi la pena ai carcerati; ripassò poi per la Salaria e l’Adriatica; si fermò di nuovo a Porto S. Giorgio festosamente accolto dalla popolazione, mentre la “Comune di Fermo” diede alla famiglia del Papa in regalo “doppie in oro numero dieci”; rivide Porto Sant’Elpidio che, sebbene di soli seicento abitanti, lo aveva accolto con sfarzo di archi, scritte e colori, e si diresse verso Osimo, Loreto, Ancona.
A titolo di curiosità, ricorderemo che, quando il Papa passò a S. Benedetto del Tronto la “Magistratura” si trovò a disagio. Non disponeva infatti di “paludamenti” ufficiali. Si affrettò allora a chiederli in prestito a Ripatransone, ad Acquaviva, a Massignano e a Campofilone; Acquaviva e Massignano opposero un netto rifiuto; Campofilone e Ripatransone, invece, li prestarono, ma non eran sufficienti per cui vennero presi altri in affitto a Fermo.
Ad Osimo il 22 maggio successe un fatto curioso. Pio IX si trovava nell’episcopio e doveva benedire la folla, assiepata e stipata nella piazza sottostante. Le campane suonavano a distesa ed i campanari ce la mettevano tutta; il crocifero era già apparso sui balconi, i prelati del seguito erano pronti, ma le campane suonavano, suonavano, nonostante i segni della folla. Ad un tratto qualcuno dei campanari se ne accorse e frenò i bronzi. Finalmente silenzio! Ma per un moto istintivo di reazione, la folla proruppe in un formidabile fischio. Proprio in quel momento apparve il Papa. Impartì la benedizione e poi “fischiate, fischiate pure” esclamò. Ci volle del bello e del buono per far capire al Pontefice l’equivoco…
In Ancona il Pontefice ebbe solennissime trionfali accoglienze. Le truppe austriache ivi in servizio, i nostri marinai, le autorità civili militari e religiose apprestarono un’accoglienza calorosa e una brillantissima festa del mare che rimasero a lungo memorabili.
Anno 1857 – I contadini videro insieme il Papa e il mare per la prima volta
Domenica 17 maggio 1992, mentre “primavera d’intorno brilla per l’aria e per li campi esulta”, ricorreva l’anniversario della scomparsa di un grande pittore: Sandro Botticelli che fra l’altro dipinse proprio La Primavera, conservata negli Uffizi. La morte lo ghermì il 17 maggio 1510.
In un altro 17 maggio, quello del 1857, di quel maggio che “risveglia i nidi”, che “risveglia i cuori” come canta Carducci, i cuori dei fer- mani battevano esultanti ed in corale tripudio. Il pontefice Pio IX si trovava a Fermo in visita alla città, una delle più importanti del suo Stato. Venuto la sera precedente, fu accolto a Porto S. Elpidio (il primo Comune a nord dell’allora Provincia fermana) dai maggiorenti della città. Spiccavano fra essi Vinci cav. Raffaele; Brancadoro cav. Antonio; Benedetti conte Saverio; Morrone-Mozzi conte Ludovico “tutti vestiti di spada, meno il conte Vinci in uniforme di vice-console della Russia”. A Porto S. Elpidio c’era una folla veramente oceanica. Erano qui convenuti da una vasta zona circostante, stipati come acciughe in lunghe carrette, contadini e contadine, vestiti a festa. Alcuni vedevano il mare per la prima volta. Era una festa di colori, di sole, di mare. Archi ovunque; festoni, drappi. Fra l’altro, sempre a Porto S. Elpidio, era stata eretta una statua dell’Immacolata tutta di cera. Un famelico sciame di api le si avventò sopra, attacandola da tutte le parti.
Fortunatamente qualcuno pensò ad una salutare fumata di zolfo: la statua fu salvata, ma ne uscì deturpata ed i ricami d’argento rovinati.
A Fermo, il Papa restò dalla sera del 16 tutto il 17 e parte del 18. Qui scritte, luminarie, fuochi artificiali, bande musicali, canti, popolo tripudiante! Il 17 maggio, giorno di domenica, il Papa celebrò in Duomo quindi tra due fitte ali di popolo, si recò a Villa Vinci e di lì bene¬disse la folla che assiepava il Girfalco. Poi, a piedi, discese lungo lo stradone e si recò nel Palazzo Apostolico. Attraversò la piazza, acclamatissimo e tornò in arcivescovado, accompagnato sempre dall’arcivescovo card. Filippo de Angelis. A sera, fuochi d’artificio, luminarie, suoni di bande musicali. Ripartì il giorno 18 diretto ad Ascoli.
Diciasette maggio 1863 ! In questa data, un altro fausto evento si verificò per Fermo e per il suo antico porto. Alla presenza del principe Umberto (il futuro Re Umberto I) veniva inaugurata la ferrovia e la stazione ferroviaria. Come si vede i binari della storia, fissano appuntamenti al 17 del mese di maggio. Le Gazzette e le Effemeridi del tempo, riportarono la notizia il 19 maggio. Anche giornalisticamente la storia si ripete…
Anno 1857 – Sfarzose scenografie in onore di Pio IX
Era il 16 maggio 1857. Partito da Roma e proveniente da Loreto, Pio IX celebre nella storia d’Italia, il Papa che regnò più a lungo di tutti i Papa finora esistiti (superò i 32 anni di Pontificato) veniva da Fermo. A Porto S. Elpidio, primo paese dell’allora Provincia fermana, erano andati ad ossequiarlo le autorità e la Magistratura. Pio le accolse amorevolmente e si soffermò a lungo, osannato da una folla plaudente.
Si diresse poi a Fermo, scortato da carrozze e dragoni. Vi giunse alle 18,30. Le campane di tutte le chiese suonavano a festa; sparo di mortaretti; tre bande musicali, inni e canti, accolsero il Pontefice. Per l’occasione tra il Palazzo dei Priori e l’arcivescovado, era stato costruito un ponte in legno. La piazza era tutta un tripudiare di fiori e di colori.
Pio si diresse verso la cattedrale. Vicino alla statua di S. Savino, che torreggia in capo a via Mazzini, faceva spicco un grandioso arco di trionfo a due prospetti con colonne corinzie adorno di statue. Sulla spianata del Duomo “in fondo al maggiore viale fu innalzato un grandioso monumento sormontato dalla statua del pontefice in abiti pontificali”. Alla ba-se di esso, spiccavano otto statue simboleggianti la fama e la gloria. Sfarzoso e lucente l’interno del Duomo “rivestito di serici drappi”. Il gonfaloniere gli aveva offerto le chiavi della città. Pio era sceso dalla sua carrozza per salire su quella dell’arcivescovo, Cardinale Filippo De Angelis. Giovinetti “uniformemente vestiti a spese del Municipio, spargevano fiori”. Tre bande musicali, impeccabili intonavano inni. Era un rimescolìo di prelati e presuli, presenti anche i Vescovi suffraganei di Macerata, Ri- patransone, S. Severino, Montalto, i delegati apostolici di Fermo e Macerata e folla strabocchevole. Possente e potente il canto del Tu es Petrus.
Uscito dalla cattedrale, Pio IX si recò a Villa Paccaroni (attuale Villa Vinci) ed impartì dal balcone la benedizione alla folla genuflessa. Ridiscese a piedi, attraversò piazza del popolo tra ali di folla osannante e si recò in Arcivescovado. Lumi e fiori in ogni dove; la sola piazza “riluceva per più di diecimila lumi e bengali”.
Il giorno 17 (era di domenica), ancora celebrazioni solenni in Duomo; benedizione alla folla da Villa Paccaroni; ridiscesa a piedi e sosta nel palazzo del Delegato Apostolico (attuale Comune). Qui ammise al bacio del piede autorità, religiosi, sacerdoti e suore. Il 18 mattina verso le ore 10 partì per Ascoli fermandosi prima a S. Benedetto.
Spiace quindi contraddire l’autore di Dagli Sciaboloni ai Piccioni edito nel 1990 che sostiene (pag. 222) la presenza di Pio IX in Ascoli il 17 e 18 maggio. Ad Ascoli giunse la sera del 18. Nel tragitto da Fermo a Porto S. Giorgio “per oltre quattro miglia” due ali di folla lo salutarono commosse ed entusiastiche. Pio lasciò 500 scudi alle autorità fermane, per elargizioni di beneficenza. Ricevettero in quella occasione la no¬mina a commendatori delFordine di S. Gregorio Magno: i conti Raffaele Vinci, Ludovico Morrone Mozzi, Francesco Roccamadoro, Camillo Garulli. I signori Attilio Marfori e Filippo Capponi, avvocato, presidente del Tribunale.
Immensa la produzione di scritte e componimenti. Tra le scritte v’e-ra quella che arieggiava il Carmen Seaculare: “Sole che sorgi libero e giocondo, tu non vedrai nessuna cosa al mondo più bella di Pio IX”. Per elencare le scritte in parola, non basterebbe un volume. Commovente la poesia delle Benedettine… Oh giubilo! / Oh fortunato avviso / il solitario claustro / si muta in paradiso / Lo sposo almo dei Cantici / Qui viene in mezzo ai fior / etc. Dopo 131 anni, un altro papa, l’attuale, venne in visita a Fermo esattamente il 30 dicembre 1988.
Anno 1859 – Candido Augusto Vecchi e Mercantini: due piceni a cuii Garibaldi deve molto
È il centenario della morte di Garibaldi, l’eroe dei due mondi, figura alquanto demitizzata ma pur sempre fascinosa e affascinante, famoso in Italia e moltissimo all’estero.
Garibaldi ebbe a che fare con le Marche e con la nostra Provincia: il primo fatto d’arme lo dedicò a Macerata; il colonnello Elia, comandante in seconda del “Lombardo” gli fece scudo a Calatafimi del suo corpo, salvandolo da sicura morte. Luigi Mercantini di Ripatransone, scrisse per lui l’inno “Si scopron le tombe si levano i morti”, detto appunto Inno di Garibaldi. Garibaldi fu in Ascoli, a Fermo, a Grottam-mare, Arquata, in Sant’Angelo in Vado, Macerata Feltria, Lunano, ecc. Ma è interessantissimo ricordare che un nostro comprovinciale Candido Augusto Vecchi, fu accanto all’eroe ed è uno dei principali artefici della spedizione dei Mille. Diede infatti a Garibaldi la sua villa. Villa Spinola, presso Quarto, dove Garibaldi si trattenne per oltre venti giorni. Qui, Candido Augusto Vecchi procurò all’Eroe aiuti materiali, armi e denaro.
A spedizione conclusa lo seguì a Caprera, dove collaborò con l’Eroe come fidato estensore di proclami, di memorie e di lettere a Re Vittorio Emanuele II ed altri regnanti e fu illuminato suo consigliere, quando, Abramo Lincoln invitò Garibaldi ad assumere il comando dell’esercito degli Stati Uniti.
Nato a Fermo nel 1813, Candido Augusto Vecchi fu battezzato nella chiesa di S. Martino; ma subito dopo, “battezzato” nuovamente “italiano e carbonaro” dal colonnello di Murat, Bricchetti. Ben presto si trasferì con la famiglia in Ascoli Piceno e quindi Chieti dove attese agli studi secondari. Tenuto d’occhio dal Card. Lambruschini segretario di Stato (sarà questi l’antagonista del Card. Mastai poi Pio IX nel conclave del 1846) come elemento pericoloso, salvò Anita, la moglie di Garibaldi, al crollo della Repubblica Romana e la riconsegnò all’Eroe che si allontanava da Roma per sfuggire alla cattura.
Egli fu un po’ l’alter ego di Garibaldi e con Mercantini, costituisce il duo che, almeno nella nostra Provincia, portò l’eroe verso la fa¬ma e la gloria.
Secondo Angelo Fucili, noto scrittore di cose marchigiane, parteciparono alla spedizione dei Mille di cui oggi ricorre il 122 anniversario, i seguenti nostri comprovinciali: tenente Eugenio Fabi, morto in Ascoli nel 1870, capitano Giacomo Vittori di Montefiore dell’Aso (1808-1875), Raffaele Rivosecchi di Cupra Marittima (1829-1866) ed i volontari: Gaetano Cestarelli di Fermo, Giuseppe Mondoni di Ascoli, Giovanni Della Costa di Fermo, i quali si imbarcarono con la colonna Zambianchi a Talamone.
Ci par quindi doveroso ricordare Candido Augusto Vecchi nell’an¬niversario della spedizione dei Mille e con lui il Mercantini che compose l’inno “terribile nelle battaglie”, famoso nell’epopea garibaldina.
Anno 1860 – Ancora del plebiscito
La consultazione elettorale si svolse in un clima d’entusiasmo – Un busto di Vittorio Emanuele II “presenziò” alle votazioni – Cortei e bande musicali per sensibilizzare i cittadini al dovere del voto.
135 anni or sono, la febbre, l’entusiasmo per il plebiscito di annessione al Regno di Vittorio Emanuele II, infervoravano la “municipalità” ed i cittadini di Fermo e sua Provincia. Era il 4 e 5 novembre 1860! Dopo la battaglia di Castelfidardo, erano venuti a Fermo oltre mille piemontesi più 200 volontari provenienti da Grottammare, S. Benedetto del Tronto e Martinsicuro. Il giorno 11 ottobre era passato a Porto S. Giorgio (allora Porto di Fermo) il Re Vittorio Emanuele II il quale, sebbene fosse atteso a Villa Pelagallo, non vi si recò, ma proseguì per Grottammare ove ricevette la commissione dei fermani che vi andò, servendosi della carrozza dell’arcivescovo di Fermo, il Cardinale de Angelis, arrestato il 28 settembre proprio per ordine del Governo di Vittorio Emanuele e tradotto in esilio in Piemonte.
I preparativi per le elezioni cominciarono sin dal l° novembre 1860. Il giorno successivo, fu comperato un busto in gesso di Vittorio Emanuele (costo: 1 scudo); tale busto nei giorni 4 e 5 novembre “presenziò” alle votazioni per il plebiscito. La sera prima delle consultazioni, la banda municipale percorse le vie della città, bandiere (tricolori) al vento, illuminata da “8 torcie a vento” acquistate a Porto di Fermo. In ben cinque logge del porticato che circonda quella che è oggi la piazza principale, era stata posta una figura dellTtalia “trasparente e guarnita di molti lumi a colore e addobbata di molto lauro”.
Interessanti quelle votazioni plebiscitarie sempre accompagnate dal suono di bande musicali! Il 4 novembre 1860, alle ore 4, suona la campana maggiore del municipio. All’inizio delle votazioni (cioè alle ore 9 del 4 novembre) esce di nuovo la banda per le vie della città, pavesata a festa, e con drappi alle finestre, mentre la campana maggiore del Municipio suona a distesa per la durata di un’ora e mezza. Intanto la “trombetta” del Comune, nei due giorni 4 e 5, va in giro per informare che “la votazione è aperta” avvisando che la votazione sarebbe durata fino alle ore 17 del giorno 5, ora di chiusura delle votazioni. Avevo dimenticato di dire che nella notte dal 4 al 5 ben sette “militi” avevano montato la guardia all’urna ed alle schede.
Terminata la votazione, eccoti un solenne corteo snodarsi per le vie della città per portare le schede e gli scrutini al Tribunale: apre il corteo l’immancabile banda, poi la Guardia Nazionale, indi due servitori del Comune vestiti di mezza gala “uno da una parte ed uno dall’altra, portano l’urna sigillata e chiusa”. Seguono tutte le autorità municipali. Le donne e i ragazzi che non avevano potuto votare, avevano con il loro entusiasmo infiammato i cuori e la mente dei cittadini, inviato delle petizioni alle autorità del nuovo governo (interessanti quelle delle donne e dei minorenni di Fermo, conservate nell’archivio di Stato Fermano). Lo spoglio venne effettuato la stessa sera del cinque. I voti favorevoli alla monarchia erano 3.068, contrari 3, schede bianche 4.
A sera di nuovo illuminazione in città e in piazza e “coro cantato da molti coristi”.
Il giorno 6 Fermo è invasa da moltissime bande musicali le quali erano venute ad accompagnare i rispettivi sindaci, recatisi a Fermo per la consegna dei risultati della votazione. “Le bande – come riferisce un diario del tempo – suonarono sempre, sebbene fosse tempo cattivo”.
Il giorno dopo, infatti, nevica abbondantemente! È interessante ora, a distanza di oltre un secolo, dare un’occhiata ai risultati elettorali.
La Provincia di Fermo comprendeva i Comuni di: Alteta, Altidona, Belmonte, Campofilone, Castel Clementino (odierna Servigliano), Cossignano, Falerone, Francavilla, Fermo, Grottammare, Grottazzolina, Lapedona, Magliano, Marano (cioè Cupra Marittima), Montefiore, Montegilberto, Montegiorgio, Montegranaro, Monteleone, Montottone, Monterinaldo, Monterubbiano, Monte S. Pietrangeli, Monsampietro Morico, Monturano, Montevidoncombatte, Montevidon Corrado, Moregnano, Moresco, Ortezzano, Pedaso, Petritoli, Ponzano di Fermo, Porto di Fermo (Porto S. Giorgio), Rapagnano, Ripatransone, S. Elpidio a Mare, S. Elpidio Morico, S. Vittoria in Matenano, Smerillo, Torre di Palme (che divenne poi frazione di Fermo nel 1878), Torre S. Patrizio.
Tutti questi 42 Comuni che avevano una popolazione di 110.391 abitanti (la Provincia di Ascoli che allora faceva Provincia a sé, ne aveva 91.916) costituivano la Provincia di Fermo ed erano raggruppati in varie “giusdicenze” cioè Fermo, Grottammare, Ripatransone, S. Elpidio a Mare, Monterubbiano, S. Vittoria in Matenano, Montegiorgio.
Il giorno 9 novembre 1968 il regio commissario Vittorio Salvoni pubblicò i seguenti risultati.
Giusdicenza di Fermo: iscritti 9144, votanti 5269, sì 5224, no 39, nulle 6. Giusdicenza di Grottammare: iscritti 2149, votanti 1570, sì 1569, no 1. Giusdicenza di Ripatransone: iscritti 2233, votanti 1337, sì 1327, no 10. Giusdicenza di S. Elpidio a Mare: iscritti 3951, votanti 2328, sì 2322, no 5. Giusdicenza di Monterubbiano: iscritti 2998, vo¬tanti 1872, sì 1862, no 10. Giusdicenza di S. Vittoria in Matenano: iscritti 3187, votanti 2040, sì 2030, no 10. Giusdicenza di Montegiorgio: iscritti 4198, votanti 2376, sì 2361, no 15.
Come si vede, molti non si presentarono a votare, nonostante le bande musicali ed il suono prolungato del campanone; il popolo non sentiva molto; partecipava passivamente…
Il 22 novembre a Napoli, Lorenzo Valerio commissario regio per le Marche, presenta a Vittorio Emanuele i risultati delle Marche. Re Vittorio ringrazia, gradisce il plebiscito dicendo che non ha visto ancora tutti i paesi delle Marche, ma li visiterà appena potrà. Subito giunge a Fermo la notizia del gradimento di Vittorio Emanuele ed ecco che alle ore 1 esce la banda musicale; suona la campana maggiore, si sparano bombe e tonanti; si accendono fuochi artificiali ed a sera viene esposto il ritratto di Re Vittorio illuminato da “6 torce a cera”. Dopo pochi giorni ripassa a Porto S. Giorgio Re Vittorio che si reca a Torino per la riapertura delle Camere. La immancabile banda e 99 fra soldati ed “uffiziali” vestiti in uniforme, lo vanno ad ossequiare.
Anno 1860 – Feste, battute di caccia, amori per Re Vittorio Emanuele II
Di questi giorni, 129 anni or sono, tra Fermo e Grottammare si svolgevano fatti ed eventi di importanza nazionale nel quadro e nel clima risorgimentale.
Dopo la battaglia di Castelfidardo (18 sett. 1860) e la susseguente occupazione di Fermo da parte dei Piemontesi, il 28 settembre Stanislao Toro, tenente dei “regi Carabinieri”, alle ore 15 arresta l’arcivescovo di Fermo, Cardinale Filippo De Angelis e lo spedisce in esilio a Torino. Era la seconda volta che tale Cardinale Arcivescovo veniva imprigionato: la prima, nel 1849, venne condotto in Ancona dove rimase per cento giorni. Questo secondo esilio, durò sei anni.
Tolto di mezzo il Cardinale De Angelis, il solo di tutti i prelati che (secondo la dichiarazione di Lorenzo Valerio) poteva dare “fastidio”, Vittorio Emanuele, che il giorno 3 ottobre era sbarcato in Ancona, dopo soste a Loreto, Macerata ed altre località, cala verso Fermo. Doveva fermarsi a Porto S. Giorgio (allora Porto di Fermo), dove si era recata la municipalità fermana per ossequiarlo ed era stato preparato un sontuoso banchetto per 50 persone. Ma il Re non si fermò affatto e si diresse a Grottammare, dove giunse alle ore 14,15.
Mortificati per la mancata sosta nel territorio del loro Comune (Porto S. Giorgio era tutt’uno con Fermo), le autorità decisero subito di recarsi a Grottammare, sia per ossequiare il Re, sia per portare drappi, addobbi e copertine per decorare la villa Laureati, dove era alloggiato il sovrano (“furono portate cento braccia di cotonina rossa e undici tele che servono per addobbare l’orchestra del Duomo nella festa di Santa Maria”).
Il povero Cardinale De Angelis che si trovava in esilio a Torino, non poteva mai immaginare che, proprio quel giorno, la sua carrozza ed i suoi cavalli sarebbero stati adibiti per andare ad ossequiare il suo “persecutore”. Infatti, non trovandosi una carrozza degna per una visita ad un sovrano, venne presa proprio quella del cardinale, bella e sontuosa, e venne incaricato della guida equestre lo stesso vice-cocchiere del Cardinale in esilio (il sottococchiere Domenico).
Giunte a Grottammare, le autorità fermane indirizzarono al Re un vibrante discorso; assistono ai fuochi artificiali che incendiano il cielo della cittadina rivierasca, fieri che la banda musicale di Fermo rallegri con le sue note patriottiche la prima giornata di Vittorio in Grottamma-re, paese di giurisdizione fermana. La banda municipale tornò a Fermo ad un’ora di notte e la commissione (composta per la storia dal marche¬se Cesare Trevisani, Napoleone Marconi, e dagli avvocati Pietro Petrocchi e Federico Monti) “pensò a pagare tutte le spese, anche per le vetture, che portò scudi 29”.
Il giorno successivo, 12 ottobre, il Re riceve il generale Cialdini, il vincitore di Castelfidardo, quindi la commissione napoletana guidata da Ruggero Bonghi che gli offre la corona di Napoli. Da Lione, l’arcivescovo di Torino, mons. Fransoni, scrive a Torino al collega Card. De Angelis, una lettera consolatoria. A Fermo, da Grottammare, da Macerata, da S. Benedetto giungono in continuazione feriti. Ad ognuno di essi il Comune di Fermo dà un sussidio di baiocchi 18,5. Ma non si deve credere che Fermo fosse solo città ospedaliera. Vi è un continuo “sbaro di bomme”, fuochi artificiali, suoni di bande cittadine e dei paesi vicini; si innalzano globi, la “campana maggiore” del Duomo viene fatta suonare in continuazione. Anzi vi fu anche la corsa dei cavalli col pa¬lio; su questo era effigiato il Re Vittorio Emanuele IL Il vincitore del palio si buscò dieci scudi di premio.
A Grottammare intanto il Re, di buon mattino, nei giorni 13 e 14 va a caccia della fauna locale e anche… di prosperose donzelle, scortato dalla guardia del corpo.
Come si vede, le gesta eroiche del Risorgimento Italico erano caratterizzate (e qui “essenzialmente”) da sortite venatorie, “sbaro di bomme”, fuochi artificiali, balli, bande musicali e corse al palio. Ma quello che non mancò, fu la presenza della contessa di Mirafiori che, eccettuati i momenti venatori del re, gli fu costantemente al fianco e da Grottammare lo seguì a Giulianova, dove il Re si recò il giorno 15, alle ore sette, dopo aver dato udienza alle ore sei ai ministri Farini e Fanti.
Anno 1860- Il “regalo” dei Piemontesi
Il 22 settembre 1860 dopo la battaglia di Castelfidardo, dilagarono nel fermano ed a Fermo le truppe piemontesi. Era crollato nelle Marche e in Umbria il governo pontificio, grazie anche al contributo dei volontari e dei “Cacciatori del Tronto” i primi, in verità, che entrarono a Fermo.
I Piemontesi per “ripagare” il contributo di sacrifici e di sangue dei Fermani alla causa di Vittorio Emanuele II, dopo tre mesi esatti, il 22 dicembre 1860, decretarono la soppressione della Provincia di Fermo insieme a quella di Camerino.
La Provincia di Fermo era più florida, più ricca, più popolosa di quella di Ascoli, ma i nuovi padroni la accorparono a questa, mandando in esilio il Cardinale Arcivescovo Filippo De Angelis, confiscando beni e biblioteche ai religiosi.
Oggi, dopo 129 anni e precisamente in questi giorni, la questione della Provincia o meglio di una nuova Provincia a Fermo è sulla bocca di molti e se ne sono interessati giornali e rotocalchi. Con Fermo sono interessate altre località di ogni parte della Penisola.
Ma quali Comuni componevano nel 1860 la Provincia di Fermo prima della sua soppressione?
Erano (fra parentesi il numero degli abitanti) i seguenti: Alteta (ora fraz. di Montegiorgio con 496 abitanti); Altidona (1356); Belmonte (Piceno, 1002); Campofilone (1413); Castel dementino (Servigliano, 2218); Cerreto (442); Cossignano (1343); Falerone (3439); Francavilla d’Ete (1057); Fermo (18.179); Grottammare (3799); Grottazzolina (1431); Lapedona (1474); Magliano (di Tenna, 1048); Marano (Cupra- marittima) + S. Andrea (2262); Massa (Fermana, 1255); Massignano (1848); Montappone (1960); Montelparo (1641); Monte Falcone (1124); Montefiore (dell’Aso, 2436); Monte Giberto (1385); Monte Giorgio + Monteverde (4938); Montegranaro (4342); Monte Leone di Fermo (1049); Montottone (1758); Monte Rinaldo (936); Monterubbia- no (2924); Monte S. Pietrangeli (2412); Monsampietro Morico (639); Monturano (2015); Monte Vidon Combatte + Collina (1142); Monte Vidon Corrado (1239); Moregnano (ora fraz. di Petritoli, 405); Moresco (881); Ortezzano (862); Pedaso (605); Petritoli (2615); Ponzano + Torchiaro (1395); Porto S. Giorgio (4143); Rapagnano (1474); Sant’El- pidio a Mare (8817); Sant’Elpidio Morico (502); Santa Vittoria in Ma- tenano (2419); Smerillo (808); Torre di Palme (1126); Torre S. Patrizio (1107).
Tutti gli altri Comuni dell’attuale Provincia di Ascoli, appartenevano a quella che era la Provincia di Ascoli la quale aveva una popolazione totale di 91.916 unità, mentre Fermo ne aveva 110.321.
Fermo aveva un estimo catastale di lire 19.187.948, Ascoli di lire 12.929.555. Ascoli aveva 131 Km. di strade rotabili, Fermo 357. Ma, come detto, a soli tre mesi dalla “liberazione” avvenuta il 21 settembre 1860, il 22 dicembre dello stesso anno i Piemontesi regalarono a Fermo F“accorpamento” ad Ascoli, sopprimendo la Provincia fermano.
Anno 1860 – Il plebiscito ed il giallo delle schede
Il 4 novembre segna la data della vittoria nella Grande Guerra e da allora ogni anno se ne ha la rievocazione ed il commosso ed affettuoso ricordo per tanti caduti per la patria. Ma non tutti sanno che in un altro 4 novembre, quello del 1860, dopo la “venuta” dei Piemontesi, fu decretato il plebiscito per l’annessione delle Marche al regno di Vittorio Emanuele II.
Sono passati 129 anni, ma nelle pagine di alcuni diari manoscritti troviamo la narrazione di tale evento, con alcuni particolari che meritano di essere conosciuti. Ovviamente non c’era stata possibilità di propaganda libera. Il governo pontificio nelle Marche era caduto sotto i colpi dei cannoni piemontesi, e questi avevano fra l’altro cacciato i religiosi, confiscato beni della Chiesa, esiliato il Cardinale Arcivescovo Filippo De Angelis.
C’era solo, da parte piemontese, la fretta di mostrare ad una certa opinione pubblica che le Marche tutte, erano con Vittorio Emanuele. Infatti i voti a suo favore furono 3068; tre i contrari; schede bianche quattro (“tre contro, e quattro cartine bianche” dice il diario). La propaganda era a senso unico. Il giorno del 4 novembre alla mattina alle ore quat¬tro, la campana maggiore del Comune suonò a distesa svegliando quan¬ti non si ricordassero di votare o avessero dei “dubbi”. Poi alle ore 9, “suono della campana maggiore per il lasso di un’ora e mezza” sbaro (sic) di molte bombe, suono della banda in città; alla sera, illuminazione per la Città.
“L’urna contenente le schede votate fu posta nella camera annessa alla residenza, guardata da sette militi, ai quali il Comune di Fermo passò la cena consistente in maccheroni, umido, arrosto, insalata, pane e vi¬no in tutto per conto del Comune che portò la spesa di scudi 3.72 e fu‘ (sic) pagato al cuoco Brini cantiniere”.
Il 5 novembre in presenza del “capo di ispezione della Guardia Nazionale, Fuma fu’ (sic) portata nella sala grande dove fu messa il giorno prima; suono della campana maggiore e suono di banda. Una Trombetta del Comune dovette dar segno alla loggia col suono della Tromba, ed un balivo per pubblicare che la votazione era già aperta… Alle ore 5 pomeridiane in punto, la commissione fece dare segno da un Trombet¬ta alla loggia che la votazione già è chiusa”.
Il giorno dopo, 6 novembre, Fermo fu invasa dalle bande musicali dei paesi che componevano la sua provincia. Il 7 novembre grande fe¬sta da ballo in Comune per celebrare la… vittoria. Il giorno 9, il Commissario Regio per le Marche. Lorenzo Valerio, telegrafa che “ha accettato in modo solenne i risultati portatigli dai presidenti dei sette tribunali delle Marche”. Il testo viene fatto stampare e quindi esposto alla vista di tutti “illuminato con quattro padelle di sego e vi fu’ messo una copertina rossa”.
Anno 1860 – Moti in piazza contro i “tagli” piemontesi
Centotrentaquattro anni or sono, di questi giorni, e precisamente finite le feste natalizie, a Fermo scoppiarono moti di piazza, manifestazioni contro il Governo piemontese ed agitazioni varie. Dopo tre mesi esatti dal loro ingresso a Fermo e due dall’indizione del Plebisci¬to (21 settembre 1860 e 21 ottobre 1860) con decreto n. 4495 del 22 dicembre 1860, il Governo piemontese privava Fermo della Provincia e la univa coattivamente a quella di Ascoli. Si disse che era necessario istituire una nuova grande Provincia comprendendovi anche parte di quella di Teramo e costituire così una “saldatura” tra l’ex Stato Pontificio e l’ex Regno di Napoli. Teramo reagì energicamente e non se ne fece nulla. Fermo si diede da fare per riaverla, ma inutilmente. Addi¬rittura lo stesso Consiglio provinciale in data 8 dicembre 1875 ne chiese il ripristino al Parlamento, ma invano. Si ottenne solo, nel 1861, una sotto-Prefettura che fu soppressa dal governo fascista nel 1926, inasprendo ancora una volta la ferita infetta a Fermo che mai, nel corso dei secoli, era stata soggetta ad Ascoli.
Il governo piemontese (il Regno d’Italia sarà proclamato solo il 17 marzo 1861 quando la fortezza della vicina Civitella del Tronto resisteva ancora), cercò di addolcire la pillola istituendo a Fermo l’”Istituto d’Arti Mestieri per tutte le Marche”, dotandolo di una rendita annua di lire diecimila. Ma tale istituto, promanazione dell’opera Pia Montani, esisteva già dal 1854. Per dare idea della ottusità dei Governanti di allora, basti dire che mentre il commissario regio (che viveva ed operava sul posto, cioè Lorenzo Valerio, consigliava di mantenere a Fermo la Provincia, il Governo piemontese la soppresse senza alcuna ragione.
Per la progettata macroprovincia con Teramo, si era deciso che se non si fosse riusciti, Fermo (come del resto Teramo) avrebbe riavuto il mal tolto! Ma nulla! Ottusi e microcefali, i governanti di Torino ne commisero altre… che qui sarebbe troppo lungo elencare e che appaiono ora perché, allora, la storia la scrissero i vincitori ed a modo loro. La forzata e forzosa unione della Provincia di Fermo a quella di Ascoli, fu un atto di solenne ingiustizia.
Al momento della soppressione, la Provincia di Fermo contava 110.960 abitanti (Ascoli soli 90.000). Solo nel 1901, dopo 40 anni dal¬la perdita della Provincia, passa seconda in graduatoria. In quell’epoca, Fermo contava 138 professori (Ascoli 98). Il censimento pontificio del 1853 indica per Fermo 46 “cultori di scienze e lettere” ‘Ascoli solo 4); Sanitari nella Provincia di Fermo: 241; (Ascoli 139). All’atto della soppressione della Provincia fermana, questa era della stessa importanza di Ancona e di Macerata, cioè di seconda classe (Ascoli era di terza classe). Oggi, malgrado le mutilazioni, privazioni ed emarginazioni (leggi: Cassa del Mezzogiorno solo per la parte sud dell’attuale Provincia), Fermo ha ancora buoni numeri. Basti pensare che ha 60 mila abbonati al telefono contro i 45 mila di Ascoli e nel traffico telefonico per l’Europa il Distretto di Fermo è il secondo d’Italia.
E che dire le giurisdizioni ecclesiastiche? Fermo ha la più vasta e popolata Diocesi delle Marche ed un Tribunale ecclesiastico per tutta la Regione. Ora c’è l’aspirazione alla istituzione o meglio alla restituzione della Provincia e nonostante i 40 Comuni su 73 siano favorevoli ed il Consiglio Regionale pure, ci sono forze oscure, contro una deci¬sione di giustizia. Non siamo contro nessuno. “Io parlo per ver dire / non per odio d’altrui né per disprezzo”, come dice il Petrarca, ma non è giusto che il calzaturiero di Montegranaro per pagare l’iva o per il Catasto od altro, si debba recare al capoluogo dell’attuale Provincia e per di più attraversando il territorio abruzzese, quando a due passi ha Macerata.
Anno 1860 – Provincia scippata; fu ritorsione?
Nel quadro delle iniziative che sono state prese, o si stanno prendendo, per l’istituzione della nuova Provincia di Fermo, Gabriele Nepi non nuovo a certe ricerche riguardanti l’area Picena, ha pubblicato un’interessante monografia “La Provincia di Fermo nella storia”, patrocinatori di quest’ultima fatica di Nepi: l’Associazione dei Comuni della zona calzaturiera e l’Associazione intercomunale del Fermano, che si battono ormai da anni per l’istituenda Provincia.
La ricerca parte da un’ampia sintesi dell’età romana per arrivare sino al 1860, quando con il decreto n. 4495 del 22 dicembre, la Provincia di Fermo fu soppressa. Eppure a questa data – come Gabriele Nepi dimostra con precise testimonianze storiche – Fermo godette di un eccezionale prestigio e di una vera e propria supremazia su tutte le città marchigiane. Il periodo riguardante l’occupazione napoleonica, con la divisione delle Marche in dipartimenti (tra i 3 dipartimenti in cui la Regione marchigiana era divisa, del Metauro, del Musone e del Tronto, Fermo fu il capoluogo di quello del Tronto comprendente la Marca del sud), viene accuratamente studiato ed illustrato con riproduzioni di carte geografiche dell’epoca, mentre con grafici e tavole vengono riportati i dati del censimento pontificio del 1853, riguardante le due Province di Ascoli e Fermo, da cui risulta una superiorità notevole del capoluogo ferma¬no nei confronti della densità demografica.
Soffermadosi sul Plebiscito, al quale nei primi giorni di novembre del 1860 fu chiamata la popolazione marchigiana per decidere la sua annessione al regno di Vittorio Emanuele II, Nepi fornisce i dati precisi dei risultati. Essi (malgrado ricerche) erano sconosciuti. Infatti quelli dell’allora Provincia di Fermo e di quella che era la Provincia di Ascoli erano raccolti in una busta con l’indicazione: Polizia. Essi sono qui pubblicati per la prima volta.
Malgrado la quasi totale adesione degli abitanti del Fermano al nascente stato italiano, la grave ingiustizia della soppressione della Provincia fermana ebbe luogo a poco più di un mese dal plebiscito. Le ragioni di tale atto non sono state mai chiarite: forse una ritorsione del Governo piemontese contro Fermo per la posizione del suo arcivescovo, il Cardinal De Angelis. mai favorevole al nuovo stato di cose; forse una ri- ricci dello stesso Governo piemontese, per la tiepida accoglienza di cui fu oggetto nel suo viaggio verso il sud: forse un più vasto disegno politico che mirava a costituire una Provincia centralizzata comprendente anche territori a sud del Tronto. Certo è che la soppressione della Provincia fermana, generò tensioni e proteste che perdurarono per alcuni decenni: tentativi furono fatti da parte di amministratori, deputati e dagli stessi cittadini fermani attraverso delegazioni, recatesi a perorare la causa di una restituzione del mal tolto, o attraverso petizioni popolari, ma da parte del Governo centrale nessuna risposta positiva fu data e il problema, col passare degli anni, fu posto nel dimenticatoio finché fu ripreso soltanto con la riconquista della libertà democratica, all’indomani del secondo conflitto mondiale.
La monografia si chiude con una serie di dati riguardanti la vita economica e culturale di Fermo e del territorio, dati che ancor oggi dimo¬strano il crescente sviluppo della zona fermana, anche se privata da tutti quei benefici e privilegi garantiti al territorio ascolano dalla Cassa del Mezzogiorno. La restituzione della Provincia a Fermo appare quindi, anche per opera della monografia di Gabriele Nepi, un atto di giustizia riparatrice dei tanti torti e speculazioni subite da Fermo in questi cento- trentacinque anni che ci separano da quell’infausto dicembre dell’anno 1860. (V. Girotti in “Resto del Carlino”- 30-XII-1990) (31-XII-1990).
Anno 860 – Quando il Cardinale era perseguitato
Il Card. Filippo De Angelis è noto, oltre che nella storia di Fermo, anche in quella nazionale. Deportato, al tempo della Repubblica Romana del 1849 in Ancona, vi rimase per cento giorni fino alla liberazione da parte degli Austriaci. Nel 1860, all’indomani della venuta dei Piemontesi a Fermo, fu preso prigioniero e deportato a Torino dove rimase fino al 1866. Appena giunto, chiese ed ottenne di conferire diretta- mente con Cavour per l’ingiusto trattamento e gli rinfacciò la sua politica anticuriale.
Venne a Fermo dalla Diocesi di Cometo Tarquinia nel 1842; era già insignito della porpora cardinalizia e Cardinale fu per 38 anni esatti: dall’8 iuglio 1839 all’8 luglio 1877, giorno della morte. Ma vi sono aspetti inediti della sua vita e della sua storia, specie sulla prigionia a Torino e ritorno a Fermo nel 1866. Appena saputa la notizia della liberazione dopo sei anni di esilio, si recò nel Duomo di Torino per celebrare una messa solenne di ringraziamento. Particolare curioso: oltre ad una folla strabocchevole, vi partecipò la Duchessa di Genova con i figli Eugenio ed Amedeo di Savoia, di quei Savoia il cui governo lo aveva preso e tenuto prigioniero. Il De Angelis partì da Torino il 29 novembre 1866. Qui era stato visitato dal Card. Arcivescovo di Rouen, Enrico Maria Gaston; da S. Giovanni Bosco, dal clero torinese, prelati subalpini ed altre personalità del mondo della cultura fra cui l’umanista Antonio Vai- lauri. Nel viaggio di ritorno, fu ossequiato dal Vescovo di Tortona, Giovanni Negro, dai canonici, clero e popolo. A Voghera, molti sacerdoti e religiosi andarono a salutarlo. A Piacenza il Vescovo della città, Antonio Ranza (anche egli perseguitato dal governo piemontese), gli andò incontro. Lo fece salire sulla sua carrozza e fra due ali di popolo plaudente, i due si recarono in episcopio dove il De Angelis rimase due giorni per riposarsi dagli strapazzi del viaggio. Qui vennero a trovarlo non solo i canonici in pompa magna, ma i maggiorenti della città e le più ragguardevoli signore. Nessuno poteva credere che un uomo così amabile e pio fosse stato oggetto di persecuzioni ed angherie. Dopo le accoglienze calorose e trionfali di Piacenza, fu la volta di Ferrara, dove venne accolto dal Cardinale Luigi Vannicelli Casoni, che lo ospitò nel palazzo arcivescovile. Fermo si avvicinava. A Pesaro gli venne incontro una delegazione del clero di Fermo. Ad Ancona una commissione di canonici. A Porto S. Giorgio lo attendevano i maggiorenti di tutte le località dell’archidiocesi e due ali di folla osannante. Un corteo di 19 carrozze di cittadini fermani scortò il De Angelis fino al Duomo. Lasciamo immaginare al lettore il tripudio dei fermani e le calorose accoglienze in cattedrale. La relazione del ritorno, scritta in latino e stampata a Cometo. si dilunga in particolari. Ivi è riportata integralmente una lettera del Card. Fransoni. esule a Lione e la risposta del De Angelis. Curiosità: entrambe le lettere sono scritte in francese.
Il Card. De Angelis per le sue benemerenze fu nominato in seguito Camerlengo di S. Romana Chiesa, presidente del Concilio Vaticano le (1870). Nel Conclave che portò all’elezione di Pio IX, si piazzò onorevolmente nella votazione: giunse terzo in graduatoria. Il Card. Mastai Ferretti (poi Pio IX) ebbe 36 voti: Luigi Lambruschini 10, Filippo De Angelis 6. Chiarissimo Falconieri 4, seguono gli altri.
Anno 1860 – Ricordando Vittorio Emanuele (1878-1978) nelle Marche
Non era ancora spenta l’eco della battaglia di Castelfidardo (18/9/1860), che il Re Galantuomo sbarca il 3 ottobre in Ancona passando in rassegna l’esercito di circa 30.000 soldati. In Ancona il Re si trattenne sette giorni, ricordando la città di Pergola che gli aveva donato (accompagnato da un’ode di Luigi Mercantini di Ripatransone) un paio di speroni d’oro, e da Ancona inviò il proclama “ai popoli dell’Italia Meridionale”. Dopo aver visitato il luogo della battaglia di Castelfidardo, il 9 ottobre, il Re, passando per Osimo e Loreto, si reca a Macerata.
A Loreto grande era l’attesa. Tutto il capitolo era ad attenderlo davanti la porta maggiore della Basilica, però senza la presenza del Vescovo. Vittorio Emanuele ammirò la statua di Sisto V, entrò poi in Basilica e si “pose in ginocchio davanti all’antica statua di legno, della Vergine dalla faccia di colore oscuro, con ricchissima veste intessuta d’oro”.
“Vista una scodella piena di corone (racconta Gaspare Finali) mi ordinò di acquistargliene un buon numero”. Prima di lasciare il santuario, donò di sua tasca la somma di lire cinquantamila, cifra cospicua allora per i bisogni della Basilica; quindi visitò il Collegio Illirico che sorge ad un passo dal Santuario e visitò i feriti piemontesi e pontifici dello scontro di Castelfidardo. Alcuni, vedendo il Re “usurpatore” si nascosero sotto le lenzuola; altri sembravano quasi chiedere scusa di aver combattuto contro di lui; altri gli strinsero la mano. Dopo la visita ai feriti, TAmministrazione della Santa Casa offrì il pranzo al Re.
Tornando da Macerata, ridiscese verso il litorale e da Porto Civitanova si diresse a Porto Sant’Elpidio “tutto bandiere, verdure e fiori” dove spiccava un arco trionfale “incimierato dallo stemma sabaudo”. L’allora modesta frazione che contava sì e no 600 (seicento) abitanti, rigurgitava di migliaia e migliaia di persone, accorse dalle zone più lontane per “vedere lo Re”.
Proseguendo nel suo itinerario, Vittorio Emanuele doveva fermarsi a Porto S. Giorgio e sostare nell’ex villa Bonaparte, ma poiché il proprietario non si fece trovare presente ed a causa della sua ideologia tutt’altro che ligia alla monarchia sabauda, Vittorio Emanuele si diresse a Grottammare non senza gradire l’omaggio della popolazione e di alcuni cittadini di Fermo che, banda in testa, andarono a salutarlo a Porto S. Giorgio. Cavalcando il fido destriero, chiamato Solferino, il Re passò a Pedaso indi a Cupra Marittima ed alle ore 13 dell’undici ottobre 1860 giunge a Grottammare.
Qui fu ospite a Villa Laureati ove una lapide ricorda l’evento mentre lo stato maggiore (Gen. Fanti, Menabrea, Farini, De Sonnaz, etc.) e le “reali cucine”, trovarono alloggio nel palazzo del nobile Carlo Fenili.
In quel periodo, aspro era il dissidio con l’autorità. L’Arcivescovo di Fermo, Cardinal Filippo De Angelis, era stato mandato in esilio a Torino dal governo del Re Vittorio Emanuele e, particolare curioso, il nobile Paolo Guerrieri-Paleotti, prese la sontuosa carrozza del Cardinale Arcivescovo scacciato, e con essa si recò a rendere omaggio a Vittorio Emanuele nella Villa Laureati.
Grottammare in quei giorni era alla ribalta della cronaca. Il Municipio, nell’indirizzo rivolto al Sovrano, asseriva che il popolo di Grottammare, ultimo in dignità, ma non ultimo di cuore agli altri fratelli redenti, salirà in auge allorché per volere della nova Dinastia “nelle marchiane contrade” saranno applicate le vie ferrate, i telegrafi, l’incremento dell’industria e del commercio…”.
Ma l’evento più importante fu il ricevimento, nel Comune di Grottammare, della Commissione del Regno di Napoli (circa 25 persone tra cui Luigi Settembrini) capeggiata da Ruggero Bonghi che sarà poi Ministro della P.I. del Regno d’Italia (1874-1876); essa era venuta attraverso varie peripezie ad offrire a Re Vittorio la corona del Regno partenopeo. Bonghi indirizzò al Re un alato discorso invitandolo a liberare il Sud.
Il 14 ottobre, domenica, Re Vittorio ascoltò la Messa nel vecchio incasato di Grottammare; messa celebrata dal cappellano di corte; indi, nel pomeriggio, andò a caccia nelle alture circostanti. Il 15 ottobre alla testa del suo esercito e con tutto lo stato maggiore, passa per S. Benedetto del Tronto e, sempre a cavallo del fiero Solferino, alle ore 10,30 varca il Tronto, annullando così la secolare barriera tra lo Stato Pontificio ed il Regno di Napoli…
A Napoli il 22 novembre accoglieva il plebiscito delle sei Provìnce marchigiane (oltre alle attuali v’erano Fermo e Camerino che verranno soppresse esattamente un mese dopo). “O sire nelle Marche avete operosi cittadini, soldati valorosi, italiani di Vittorio Emanuele” così il proclama.
Sia lecito a noi discendenti di quei operosi cittadini e soldati valorosi e corregionali dei grandi marchigiani del Risorgimento come Luigi Mercantini, Pio IX. Terenzio Mamiani, Candido Augusto Vecchi, Augusto Elia ed altri, ricordare umilmente ma con una punta di meritato orgoglio l’anniversario della morte del Re Galantuomo che con Castelfidardo, Pergola. Grottammare ebbe nelle Marche tappe luminose e gloriose nel cammino che portò all’Unità d’Italia.
Anno 1867 – Nel giorno di carnevale 1867, don Bosco arriva a Fermo
Siamo in Quaresima, ma non lo si era nei giorni 27 e 28 febbraio 1867; anzi, proprio in quei giorni, si era in pieno carnevale e a sera da Roma, dopo un faticoso viaggio, giungeva a Fermo Formai famoso Don Bosco, accompagnato dal suo fedele segretario Don Francesia.
Don Bosco veniva a salutare e a rivedere il suo amico, l’arcivescovo Cardinale Filippo de Angelis, che aveva conosciuto a Torino dove, dal 1861 al 1866, era stato mandato in esilio dal governo piemontese.
Dopo la battaglia di Castelfidardo (18 settembre 1860), i Piemontesi avevano invaso le Marche, avevano innanzitutto soppresso ordini e congregazioni religiose confiscandone i beni, abbattuto gli stemmi pontifici e mandato in esilio il De Angelis, perché vedevano in lui il fiero oppositore del nuovo governo e il punto di riferimento dei “nostalgici” pontifici.
Il Card. De Angelis fu tenuto in esilio per sei anni, ospitato a Torino nella casa dei padri Lazzaristi e sorvegliato a distanza dalla polizia di Cavour. Don Bosco lo andò a visitare per la prima volta nell’aprile del 1861. Conosceva di fama il card. De Angelis (si occupò di lui anche il regio commissario per le Marche Lorenzo Valerio) e il De Angelis conosceva anch’egli di fama il sacerdote Giovanni Bosco, che due anni prima aveva fondato i Salesiani.
Tra i due, nacque una nobile amicizia sostanziata da reciproca stima e ammirazione. De Angelis era molto quotato in Vaticano.
Gli incontri fra Don Bosco e il Cardinale furono frequenti. Don Bosco andava spesso a trovare il porporato. L’esilio è sempre triste ed essere confinati, non è certo “idilliaco” tanto più che nel 1849 De Angelis aveva subito un altro esilio in Ancona, durato cento giorni. Nel 1866, una disposizione del ministro Bettino Ricasoli, permise ai Vescovi e prelati esiliati in Piemonte o rifugiatisi a Roma, di poter tornare alle loro sedi. De Angelis era libero. La notizia non gli fu notificata personalmente, ma venne data al superiore delle Case dei Lazzaristi dove era ospitato. Tuttavia poté tornare a Fermo nel novembre 1866.
Intanto Don Bosco che, come detto, aveva fondato i Salesiani, non riusciva dopo quasi otto anni ad avere l’approvazione pontificia. Da Torino, si era recato a Roma accompagnato dal suo segretario Don Fran- cesia. Nella città eterna aveva contattato vari prelati e cardinali, ma invano. L’approvazione della Santa Sede non arrivava. Pensò allora al suo amico Card. De Angelis e da Roma venne direttamente a Fermo a trovarlo. Inutile dire che fu accolto con la più festosa cordialità. Dopo qualche mese i due si ritrovavano non più nell’esilio di Torino, ma nella sede arcivescovile del cardinale, a Fermo. Nel frattempo, De Angelis era stato nominato camerlengo di Santa Romana Chiesa; il suo “peso” e la sua influenza erano aumentati. Era inoltre stimato moltissimo da Pio IX. Chi meglio di lui poteva aiutare Don Bosco per ottenere l’approvazione pontificia della Società Salesiana? Il Card. De Angelis prese a cuore la cosa e la sospirata approvazione venne.
Nel suo soggiorno a Fermo. Don Bosco visitò la città, il seminario e parlò ai chierici. Uno di essi, Domenico Svampa, che sarà poi Arcivescovo e Cardinale a Bologna, gli lesse una poesia da lui composta che Don Bosco gradì moltissimo. E così i Salesiani, ora sparsi in tutto il mondo (sono 18.000) con scuole, istituti di educazione, ospedali, missioni e università, furono approvati grazie all’interessamento del Card. De Angelis, amico ed estimatore di Don Bosco.
Anno 1873 – Mons. Camilli e la Romania
Alla ribalta oggi della cronaca nazionale, la Romania ogni tanto ci ricorda i suoi legami con la nostra patria e col nostro Piceno.
Oltre al nome che arieggia Roma, la sua conquistatrice, oltre i vincoli di lingua e di stirpe e di etnia (Traiano nel sec. 2- d.C. vi trasferì da ogni parte del mondo romano un gran numero di coloni), ricordiamo che in una sua città, a Tomi, odierna Costanza, morì il “nostro compagno di scuola” Publio Ovidio Nasone qui relegato per il carnieri et errar. Tempo fa siamo andati a trovarlo, o meglio a vedere la stele eretta in suo onore; gli abbiamo perdonato i giorni tristi che ci ha fatto passare nel tradurre i suoi tomi di latino, congratulandoci con lui per la carica di agonoteta che qui ricoprì durante la relegazione voluta da Augusto.
In Romania abbiamo visto pure il castello di Dracula e ricordato Dumitrescu, un grande storico romeno, che ha fatto grandi studi sul Piceno pubblicando nel 1929 e in lingua italiana un volume ancora attuale: “L’età del Bronzo nel Piceno”. In esso si parla delle necropoli picene di Fermo, di Belmonte, di Cupra Marittima, di Porto S. Elpidio, di Grottazzolina, di Colli del Tronto, Offida, etc.
Ma grande il nostro stupore a lassi, città alle porte della Russia, anzi ad essa vicinissima, dopo le “rettifiche di confine” dell’ultima guerra.
Qui nella Chiesa cattolica, abbiamo trovato… un quasi concittadino, o meglio la lapide di un concittadino, fondatore della risorta Diocesi di lassi. Si tratta del Vescovo Nicola Camilli, nato a Monterubbiano nel 1840, consacrato dapprima Vescovo di Mosinopoli; venne promosso nel 1873 alla sede arcivescovile di lassi, dove eresse una bella Cat¬tedrale e il seminario. Due lapidi, ambedue in un latino stupendo (e come poteva essere altrimenti in una nazione daco-romana?) ricordano le virtù e le opere di Mons. Nicola Camilli vescovo, nativo di Monterubbiano. “Itala gente dalle molte vite!”. O meglio: “mondo che giri, marchigiani che trovi!”.
Anno 1874 – La notte dell’Epifania del 1874 a Montefiore
Era la notte dell’Epifania del 1874! Nella vicina Montefiore dell’Aso apriva gli occhi alla luce Adolfo De Carolis, che sarebbe diventato pittore di fama internazionale. Nasceva nella “notte in cui in cielo disfavilla la cometa che portò luminoso nel mondo il nome di Montefiore”. Così Bruno da Osimo, poi allievo del De Carolis.
Dopo gli studi elementari, entrò nel Seminario di Ripatransone, ma ben presto ne uscì e frequentò il ginnasio-liceo statale di Fermo. Qui come altri “spiriti magni”, temprò il volo per mete luminose. La scuola fer-mana, che aveva forgiato personalità di spicco come Sacconi, Temistocle Calzecchi-Onesti, Augusto Murri, sommo clinico; Silvestro Baglioni, i Benelli, i Nardi, Don Romolo Murri etc., “guidò le penne / delle… ali a così alto volo”. E quanto mutuiamo da Dante (III, XXV, 49-50), non è esagerazione, perché dopo il liceo classico, De Carolis si iscrisse all’Accademia d’Arte di Roma e Bologna, spiccando un autentico, luminoso volo!
In quest’ultima città, si iscrisse all’Accademia di pittura, tornando spesso nella natia Montefiore, nella “quiete profumata e sinuosa dell’Aso, nel lembo di mare che azzurreggia giù in fondo”. Vincitore di mostre di pittura e di concorsi, dipinse a Bologna la “Sala Maggiore” del Palazzo del Podestà, opera grandiosa di 2500 metri quadrati. Decorò l’Aula Magna dell’Università di Pisa; i palazzi delle Amministrazioni provinciali di Arezzo e di Ascoli Piceno; gli episodi della vita di S. Francesco a Padova; la cappella dei caduti a S. Ginesio! Disegnò le vetrate ed i mosaici per la cappella di Villa Puccini a Torre del Lago e la Villa Brancadoro a S. Benedetto del Tronto.
Valentissimo xilografo, ci diede mirabili capolavori: il suo Dantes Adriacus fu posto in tutte le Ambasciate d’Italia dei cinque continenti. Celebri le tavolette dei “Fioretti”. Decorò ed illustrò molte opere di D’Annunzio: Laudi, Figlia di Jorio, Notturno, Francesca da Rimini, Fedra, L’Alcione, Canzoni e Gesta d’Oltremare. Per Pascoli, illustrò Nuo¬vi Poemetti (1909), Odi ed Inni (1911), Carmina (1914). Nel periodo fiorentino, cominciato nel 1901, fu in relazione con personalità celebri, quali Papini, Marinetti, Borgese, Conti, Prezzolini.
Quando al liceo studiavamo greco e latino, sarebbe stato per noi sommo piacere, sapere che quasi tutte le illustrazioni ai nostri libri di testo erano opere di marchigiani, ma in modo speciale di Adolfo De Carolis. Avremmo dorse amato di più i Lirici greci (Zabichelli) e Inni di Pascoli (pure Zanichelli), oltre ai vocabolari italiani (quasi tutti di autori marchigiani: Gabrielli di Ripatransone; Panzini di Senigallia: Palazzi di Arcevia; Mestica di Apiro) e latini Campanini e Carboni (Carboni era di Ortezzano), Scevola-Mariotti (Scevola è del Pesarese), nessuno peò ce l’ha mai detto.
De Carolid che come Giovanna d’Ascoli era nato il 6 gennaio, morì a Roma il 7 Febbraio 1928, esattamente mezzo secolo dopo la morte di Pio IX, avvenuta nello stesso giorno.
Nell’prmai lontano 1902 Pascoli svriveva al nostro: “….. auguro un anno pieno di gioia e di gloria”. Ci permettiamo dopo 90 anni ripetere tale augurio ai nostri lettori con affettuosa stima e viva cordialità, nel ricordo di De Carolis (o meglio de Karolis, come lo aveva ribattezzato D’Annunzio), nato nella notte in cui in cielo disfavilla la cometa, che portò poi luminoso nel mondo il nome di Montefiore.
Anno 1876 – Carducci e il dialetto di Fermo
In questi giorni gli studenti vivono trepidanti attese per i risultati degli esami di maturità. Nel 1876 Giosuè Carducci, dinanzi al Consiglio Comunale di Fermo, rendeva noti i risultati delle interrogazioni effettuate da lui e da un collega. Egli infatti, da Bologna era giunto nella nostra città, per una ispezione valutativa al Liceo Classico. Era con lui il Prof. Francesco Rossetti. Carducci da Fermo scrive alla moglie, Elvira, elogiando l’ambiente Fermano “… Ma intanto ho visto di gran bei paesi fra il mare e monti, colli e valli coltivati benissimo: par di essere in Toscana”.
Quello che però più ci onora è ciò che aggiunge: “Qui la gente parla benissimo!”.
È veramente un complimento lusinghiero, se pensiamo che ad esprimerlo è nientemeno che l’autore delle “Odi Barbare”, quindi un buon intenditore. In realtà, il nostro dialetto è molto vicino alla lingua italiana ed è il vero dialetto marchigiano. “Veri e genuini dialetti marchigiani sono quelli che terminano in U” – diceva Giacomo Devoto presidente dell’Accademia della Crusca – e tracciava un’“area dialettale con tre poli: Fermo, Macerata, Camerino”. Infatti, molto diverso è il dialetto ascolano che risente di influssi abruzzesi e quello pesarese che sa di romagnolo. Il nostro si avvicina molto all’umbro, talché il Cantico delle Creature di S. Francesco con le molte desinenze in U (laudatu sii Signore per frate focu… ellu è bellu) può essere considerato dialetto marchigiano. Del resto, Gubbio e il suo distretto, durante il Governo Pontificio, facevano parte delle Marche; ne fu staccato dopo il 1860 dal Governo Piemontese.
Torniamo alla lettera di Carducci. Il poeta continua indicando cosa farà appena tornato a casa: “… Quando poi mi sarò riposato due giorni, metterò a posto i libri e a luglio, nei gran calori, lavorerò… Tu non credere mica che io faccia il fannullone: lavoro e di molto… io voglio udire e vedere tutto coi maggiori scrupoli, onde va più per le lunghe che non credessi. Figurati, mi tocca a stare a sentire lezioni ed interrogazioni di studenti per cinque ore al giorno..”Il poeta poi prega la moglie di dire a Bice, la diciasettenne primogenita, che “mi mandi una trentina o quarantina de’ miei biglietti da visita e me li mandi sotto forte fascia per posta, qui subito a Fermo”. Ancora: “fammi da dimani in poi (venerdì) comperare la Patria e impostala la sera subito con un francobollo da un centesimo, prima per Fermo e da domenica in poi per Spoleto”. Come si vede, anche se la spedizione costava un solo centesimo, le poste viaggiavano puntuali perché Carducci riceveva subito la corrispondenza.
I “maturi” agli esami, i maturandi ed i cittadini di Fermo che non lo sapessero, saranno lieti di conoscere questa autorevole testimonianza sulla preziosità e bontà del nostro dialetto e, dato che siamo in tempo di vacanza, sull’apprezzamento turistico di Carducci (ho visto dei gran bei paesi fra i monti e il mare ecc.) cosa del resto ripetuta dal poeta il quale, parlando delle Marche, dice: “La terra picena è benedetta da Dio, di bellezza e di venustà, tra il digradare dei monti che difendono, tra il distendersi dei mari che abbracciano, tra il sorgere dei colli che salutano, tra l’apertura delle valli che arridono”.
Ma ora un dubbio mi tormenta: ho detto che Gubbio era nelle Marche. Ovviamente anche il famoso lupo di francescana memoria era… marchigiano. Ecco perché era un lupo buono… e quando morì, narra l’antica poesia, “fu da tutti pianto / e seppellito presso il camposanto”.
Anno 1878 – Omaggio al poeta: Fermo, il monumento a Leopardi
Era il 25 giugno 1876. Grandi festeggiamenti a Fermo per l’inaugurazione del monumento a Giacomo Leopardi, tuttora esistente sito tra il Liceo classico, l’Archivio arcivescovile e l’Archivio di Stato. Le cronache riferiscono di stupende cerimonie, ma noi non sappiamo se quel giorno il nostro Leopardi fosse del tutto soddisfatto. Infatti, nello stesso giorno e nella stessa Fermo, veniva con il suo, inaugurato anche il mo-numento ad Annibai Caro, l’autore della “bella infedele”, o meglio della traduzione dell’Eneide. Tra i due, c’è una differenza di… fama! Tuttavia, l’autore del “Sempre caro mi fu quest’ermo colle” non pare si sia adontato del monumento al Caro. Da 114 anni, imperturbato, alto sul suo piedistallo, continua a leggere…
Tra Recanati e Fermo vige dal sec. XII un’antica amicizia. Il visitatore, o il turista, può ammirare tutt’oggi sulla famosa Torre del Borgo lo stemma di Fermo con la scritta: Firmanae amicitiae documentum et pignus (documento e pegno dell’amicizia fermana); per tale motivo all’inaugurazione del monumento non poteva mancare la rappresentanza di Recanati. Furono infatti invitate le autorità e gli uomini di cultura, i quali accettarono l’invito, ma vennero a mani vuote. In effetti avevano preparato come dono un’artistica pergamena, ma il miniatore non fece in tempo ad approntarla per il 25 giugno. Furono presenti dunque alla cerimonia, ma tornarono il giorno 28 giugno e portarono la pergamena miniata che recitava: XXV Giugno MDCCCLXXVI / Alla Nobile Fermo I nel dì che festeggia / le due splendide glorie / del Piceno l Giacomo Leopardi lei Annibai Caro / La Comunità Recanatese I suggellando / nel nome del suo massimo cittadino / Manda / un saluto fraterno /.
In tal modo, veniva ancora una volta sanzionata l’antica amicizia e rinsaldati i vincoli che legano la civitas iustissima di Recanati con Fermo, firma fides. In quel giorno, nel discorso di circostanza, si parlò di Gualtiero figlio di Ugone. potente fermano che nel 1603 aveva donato a Recanati il castello di Loreto; di Gaeta, figlia di Ugone, che cedette al Vescovo terre tra l’Aspio ed il Potenza; di Petrus de Recineto, senatore di Roma nel 1373. di Sisto IV, che nel 1475 chiamò Recanati “città insigne e famosa”.
Quel giorno, però, non si parlò di Paolo Vanni Leopardi. Questi, forse antenato della celebre famiglia Leopardi, nel 1430 era gravemente malato e chiese di essere curato da un famoso medico fermano (la storia non ce ne tramanda il nome). Il medico partì da Fermo e nonostante le difficoltà di allora per il lasciapassare ecc., giunse in tempo al capezzale di Paolo Vanni e lo guarì. Quindi Fermo non solo ebbe (ed ha) ottime relazioni con Recanati, ma anche con la famiglia Leopardi. Tempo fa (per l’esattezza il 28 giugno 1987) il Corriere della Sera afferma¬va che i Leopardi hanno origini nel Fermano. Comunque stiano le cose, dato che proprio l’altro ieri ricorreva l’anniversario della nascita del grande poeta, (vide la luce il 29 giugno di 192 anni fa) noi che lo ospi¬tiamo da 114 anni, gli auguriamo, sia pure in ritardo, buon compleanno!
Anno 1880 – Quante ‘papere’ doc Sfogliando un recente Annuario della Regione Marche, per informazioni turistiche trovo (pag. 402) un’illustrazione di Fermo, con la di¬dascalia Fermo (Ancona) palazzo dei Priori.
Inoltre, consultando l’Atlante storico mondiale, edito nel 1989 dall’Istituto Geografico De Agostini di Novara, atlante in cui si sono dati convegno “luminari” di varie Università, specialmente straniere (è la traduzione del The Times Atlas of World History, con aggiunta di testi italiani a cura dell’I.G.D.A. di Novara) trovo altre “papere”.
Nella descrizione cartografica del Dipartimento del Tronto, voluto insieme a quelli del Musone e del Metauro da Napoleone Bonaparte. si assegna ad Ascoli il capoluogo di tale Dipartimento, mentre sia durante la Repubblica Romana voluta dai Francesi, sia nel Regno Italico di Napoleone, protrattosi dal 1808 al 1815 e poi sotto gli Austriaci, e quindi sotto Gioacchino Murat, capoluogo del Dipartimento del Tronto fu sempre Fermo da cui dipendevano le vice prefetture di Ascoli e quella di Camerino.
In omaggio alle verità ed alla bibliografia, dobbiamo rilevare che i Tedeschi e i Francesi sono al riguardo più esatti (vedi: Atlas Historique di G. Duby ediz. Larousse; K. von Spruner e T. Menke Handatlas fiir die Geschichte des Mittelalters, Gotha 1880 etc.).
In libreria recentemente è apparso un lavoro d’indole archeologica redatto da un’équipe di docenti dell’Università più settentrionale delle Marche. Ebbene? Vi leggiamo: Fermo, Provincia di Macerata. Che oggi tutti scrivano di tutto è risaputo, ma che qualificate pubblicazioni a livello intemazionale ed universitario, possano commettere tali errori non è certo ammissibile.
A scuola ci insegnavano che l’ignoranza è la carenza della dovuta scienza (carentia scientiae debitae). Dev’essere quindi bollato come “portatore” di ignoranza, anzi, di crassa ignoranza, chi commette tali errori. E quanti se ne leggono in “riviste specializzate” od in volumi e testi universitari…
Anno 1882 – Ancora di Gabriele D’Annunzio a Porto S. Giorgio
Durante l’estate 1882, un panfilo attraccava a Porto S. Giorgio e dopo una sosta nella cittadina rivierasca, proseguiva alla volta di Ancona, Rimini, Venezia; era il “Lady Clare”.
A bordo viaggiavano due amici, due letterati: Adolfo De Bosis di Ancona e la giovane promessa della poesia italiana, Gabriele D’Annunzio, appena diciannovenne. I due, legati da fraterna amicizia, si godevano il caldo sole ed il fresco mare, il mare Adriatico, “l’amarissimo” di cui il D’Annunzio parla spesso nelle opere, soprattutto nella poesia “Ad una torpediniera nell’Adriatico”.
Il poeta sostò a Porto S. Giorgio e vi incontrò i “Canottieri Piceni”, i quali andarono fieri di lui e del cordiale incontro con il “poeta-soldato magnifico” ed “animatore della passione del Mare Nostro”.
Ricorre in questi giorni l’anniversario di quell’incontro e nel clima di tale ricorrenza, ricordiamo che il 28 luglio 1883, Gabriele D’Annunzio venne nuovamente nella cittadina adriatica a trascorrere la sua luna di miele con Maria Hardouin, con la quale si era sposato contro la volontà del padre di lei, il 21 luglio 1883.
Erano le ore 9 del 28 luglio e la coppia felice scendeva dal treno. Il giovane poeta, era vestito con un abito bianco col capo coperto da un grande cappello di paglia; la duchessina, bionda, vestiva un elegantissimo abito nocciola. Una carrozza li attendeva fuori dalla stazione; vi furono caricati i numerosi bagagli, mentre il marchese Trevisani, il deus ex machina della vita balneare sangiorgese ed Alfredo Fiori, vi prendevano posto insieme alla coppia. La carrozza si diresse al corso Garibaldi 17, dove i “colombi” trascorsero i primi giorni della loro luna di miele. Il 5 agosto 1883 assistettero alla regata effettuata dai “Canottieri Piceni” (esiste ancora un biglietto di ingresso ai posti riservati).
A Porto S. Giorgio gli sposi rimasero circa due mesi e trascorsero le loro giornate passeggiando verso le località vicine come Marina Palmense; visitando la Rocca Tiepolo, Villa Pelagallo, legata ai ricordi dell’ex-Re di Westfalia, della principessa di Wiirttenberg, di Gerolamo.
Il 5 agosto il “Canottiere Piceno”, giornale locale, nella rubrica “Su e giù per la spiaggia” scriveva: “… da qualche giorno trovasi fra noi la duchessa di Gallese che fin dal 21 luglio è diventata la Signora D’Annunzio; forse avete visto quanto sia carina e simpatica”.
Il poeta abruzzese trasse ispirazione a Porto S. Giorgio per la sua opera “La Signora dei Sogni”. Nessuno certo potè dimenticare l’avvenimento, e soprattutto la duchessina; per molto tempo nella cittadina si parlò “degli occhi celesti e dei biondi capelli della sposa”. Quando passeggiavano, i due erano mostrati a dito e vi era un ammiccare di sguardi delle signore “per bene” che nascondendosi dietro i variopinti ventagli, seguivano ogni minimo movimento degli sposi. A Porto S. Giorgio si sapeva tutto di loro, soprattutto del romantico e romanzesco matrimonio, che mise in subbuglio tutte le questure dell’allora Regno d’Italia.
Con D’Annunzio altri piceni furono in stretta relazione e collaborazione; per limitarci al solo Fermano ricorderemo: Adolfo De Carolis (che cambiò, per consiglio di D’Annunzio, in De Karolis) di Montefiore dell’Aso, autore di splendide xilografie che adomano le opere dannunziane.
Ricordiamo anche il Conte Ernesto Garulli di Monterubbiano (altri membri della famiglia Garulli diedero aiuti finanziari al poeta in momenti di povertà) che morì nel 1952 a Fermo; fu con D’Annunzio a Fiume ed intimo amico del poeta. Da non dimenticare ancora Ludovico Censi di Fermo, che volò con D’Annunzio su Vienna ed Alfredo Zallocco di Porto S. Elpidio, che condivise con il poeta la vicenda di Fiume.
Per concludere, una curiosità: a Pescara, nella camera di D’Annunzio, capeggia un quadro della Madonna del Pianto, il cui simulacro si conserva a Fermo, dove è veneratissima.
Queste sono piccole tessere di un policromo mosaico della vita del poeta-soldato, legato a Porto S. Giorgio, ai “Canottieri Piceni”, all’Adriatico “amarissimo”, ma per lui, in verità, molto dolce, nella luna di miele vissuta con Maria Hardouin, duchessina di Gallese.
Anno 1883 – D’Annunzio ed il Fermano
Tempo di ricorrenze il 1988. Non è soltanto il cinquantenario della morte di Gabriele D’Annunzio, ma anche il sessantesimo della scomparsa di uno dei più famosi collaboratori ed amici: Adolfo De Carolis (1874-1928) di Montefiore dell’Aso, ivi sepolto accanto alla tomba dei genitori del Card. Partino, segretario di Stato di Papa Bonifacio Vili. Fra D’Annunzio e De Carolis (che illustrò anche opere di Pascoli) si instaurò subito un rapporto di amicizia e di stima. Il Poeta, volle che illu¬strasse le sue opere e così, ottanta anni or sono, nel 1908, De Carolis (che per suggerimento di D’Annunzio aveva variato il cognome in De Karolis) disegnava le illustrazioni della seconda edizione delle “Laudi del Mare del Cielo e degli Eroi”, mentre in precedenza aveva ornato di disegni la “Francesca da Rimini” (1902), la:“Laus Vitae” (1903) e decorato di xilografie “La Figlia di Jorio” (1904), disegnandone anche la scenografia ed il bozzetto pubblicitario. Del 1909 sono i disegni per la “Fedra” e la scenografia relativa. Seguono a ritmo veloce le illustrazioni per il 32 libro delle “Laudi” – “Alcione” e nel 1912 il quarto libro, non¬ché le “Canzoni delle gesta di Oltremare”. Nel 1917 in piena guerra mondiale, appaiono le illustrazioni per il “Notturno” e l’anno successivo, per la “Beffa di Buccari”, indi la“Gloria” (1919), i “Sogni delle stagioni”. Tanta era la stima e l’affetto di D’Annunzio per De Karolis, che avendo questi vinto il concorso per il bozzetto in onore di Dante, amichevolmente se ne impossessò battezzandolo Dantes Adriacus. Opera di severa e solenne bellezza, fu posta in tutte le sedi delle Ambasciate e Consolati Italiani all’Estero. D’Annunzio fu pure legato a Marina Paimense, una frazione di Fermo, dove abitava il suo fraterno amico Conte
Anno 1883 – Niente esonero per commemorare Garibaldi
Solenni ed imponenti le commemorazioni a Fermo e nel Fermano, in occasione della morte dell’“Eroe dei due mondi”. Alcune preziose foto dell’epoca, mostrano la piazza del Popolo a Fermo in cui campeggia un maestoso catafalco; drappi neri alle pareti, manifesti e striscioni al lutto. Ma un episodio curioso contraddistingue Fanno successivo alla scomparsa dell’eroe. Stavolta si tratta di Fermo e Porto S. Giorgio.
19 marzo 1883: festa di S. Giuseppe e ricorrenza onomastica di Garibaldi. Si vuole fare una commemorazione dell’eroe a Porto S. Giorgio e le autorità del luogo si rivolgono al sindaco di Fermo, perché mandi le scolaresche dell’Istituto Industriale. Si chiede anche la banda musicale di Fermo e l’esonero dalla scuola, per quel giorno, dei professori di tale Istituto.
Il sindaco convoca la Giunta. La Giunta dopo aver esaminato la richiesta, decide di non esonerare, né professori né alunni.
“La Giunta fa riflesso che in giorno di scuola, non sia opportuno dispensare gli alunni dalle lezioni, per quanto sia patriottica la dimostrazione e siccome si verifica fuori città, crea un precedente per altri Comuni”.
Ma Porto S. Giorgio non molla; anche senza la presenza degli allievi dell’Istituto Industriale, la commemorazione la tiene lo stesso; ha luogo al teatro a porte chiuse “con discorsi e brindisi piuttosto accentuati in linea politica”. Tale Giovenale Mancinelli, studente dell’Istituto Industriale, si scaglia contro le autorità che si sono opposte all’invio degli alunni.
Il sottoprefetto di Fermo (la sottoprefettura fu istituita dopo la soppressione della Provincia di Fermo e durò fino al 1926), incaricato di vigilare sulla faccenda, comunica ai suoi superiori: “vuolsi pure che qualche frase poco misurata, sia stata udita all’indirizzo di codesto Municipio”.
Anche i paesi del circondario ebbero relazioni con Garibaldi. Costantino Tamanti di Petritoli combattè a Varese, Como, S. Fermo, Bezzecca; fu uno dei “settanta” nella battaglia di Villa Glori (23 ottobre 1867) e venne preso prigioniero a Mentana, quando per la prima volta dai francesi vennero usati i famosi fucili Chassepots che, come affermò il generale Du Fallay, avevano fatto miracoli (les Chassepot ont fait merveille).
Altro fervente garibaldino è Pietro Basili nato a Porto di Fermo (Porto S. Giorgio) nel 1847: partecipò diciannovenne alla battaglia di Bezzecca (21 luglio 1866) rimanendo poi ferito e prigioniero, l’anno dopo, a Mentana, come il Tamanti.
E come dimenticare Luigi Mercantini di Ripatransone, autore della “Spigolatrice di Sapri” e dell’inno “terribile nelle battaglie glorioso nei secoli. Si scoprono le tombe si levano i morti”? Garibaldi a cui il 2 marzo 1859 fu fatto leggere l’inno, scrisse a Mercantini: “Ho ricevuto e ho letto con ammirazione l’inno vostro bellissimo”.
In vari archivi del Fermano, si conservano preziose lettere di Garibaldi. Sarebbe utile alla storia raccoglierle e pubblicarle in un volume. “Gran parte della storia d’Italia giace negli archivi e nel sottosuolo”. Così ricordava il celebre storico tedesco Mommsen; io… “parole non ci appulcro!”.
Anno 1888 – Il clinico che curò Carducci e D’Annunzio
Era di venerdì, quell’undici novembre 1932, quando lugubri rintocchi annunciavano la scomparsa di Augusto Murri, clinico di fama intemazionale. La sua morte gettò nel lutto il mondo medico di allora e la dotta Bologna, dove esercitava la sua professione, era in lacrime.
“Nella mestizia del grigiore autunnale, onde natura si assopisce, serrando in se stessa ogni forma di vita, si è spenta l’operosa esistenza di un uomo che, salito per ardua e tenace virtù propria agli alti fastigi della scienza, lascia dietro di sè un’orma profonda, incancellabile, Augusto Murri il clinico insigne, il filantropo illuminato non è più… Bologna che si gloriò dell’opere di lui per il vanto che ne venne al suo Ateneo, che del Maestro raccolse non soltanto i fecondi insegnamenti ma la generosa umanità, sente il troncarsi di una consuetudine affettuosa” etc. Così uno dei tanti manifesti che costellavano la città di Bologna.
Nato a Fermo l’8 settembre 1841. laureato in medicina nel 1864, continuò gli studi a Parigi e a Berlino e fu aiuto di Guido Baccelli. Nel 18 ebbe la cattedra di clinica medica di Bologna, tenendola fino al 1916, conquistandosi fama e gloria. Innumerevoli le sue pubblicazioni: quelle anteriori al 1902 sono raccolte in tre grossi volumi.
Personalità illustri “ruotarono” attorno a questo nostro concittadino, così famoso che, secondo D’Annunzio, Dante lo avrebbe posto nel “l9 Cerchio”, fra Dioscoride, Ippocrate e Galeno.
Giosuè Carducci fu da lui curato e guarito, Giovanni Pascoli ere lo ebbe amico, Ada Negri che ne cantò il dolore, furono in stretta relazione col nostro Murri. Recentemente, anche la televisione italiana si è occupata di Murri e delle vicende familiari (sceneggiando II caso Murri, 1982). Anch’egli infatti non fu immune dalla sventura.
Sfogliando i giornali del 1932 che annunciavano la sua morte, emerge da essi (La lettura, il Giornale d’Italia, la Tribuna, L’Illustrazione Italiana, ecc.) il suo altissimo sapere e la profonda umanità.
“Per il medico il sapere è il mezzo, ma la carità fu e deve rimanere il fine di ogni attività” così soleva dire. Murri è di attualità ancor oggi.
A D’Annunzio (che egli curò e fu suo ospite a Fiume) un giorno che il poeta vantava la sua sobrietà rispose: “Voi affermate di essere sobrio, ebbene anche l’uomo cosiddetto sobrio, mangia dieci volte più del necessario”.
Il grande clinico volle essere sepolto a Fermo, cullato dal pianto delle natie campane. Una modesta tomba racchiude le sue spoglie mortali ma “la sua fama ancor nel mondo dura / e durerà quanto il mondo lontana” (Inf. II 59.60).
1888 – L’eredità di Temistocle Calzecchi-Onesti
Non poteva certo pensare Bernardo Panzoni, segretario comunale di Altidona, che il suo nome sarebbe riemerso dopo 135 anni, nel corso di una ricerca biografica sulla data di nascita di Temistocle Calzecchi Onesti. Infatti, taluni fanno nascere il futuro scienziato il 13 dicembre 1853: taluni il 14: altri il 15 dicembre, per cui siamo andati alla fonte per consultare l’atto di nascita o meglio di battesimo, poiché all’epoca (si era ancora sotto lo Stato Pontificio) nascite, matrimoni, morti venivano registrati non dal Comune ma dal Parroco. Quello di S. Giacomo di La- pedona ebbe la ventura di registrare la nascita e battesimo di “Temistocle, Timoleonte, Tito, figlio dei signori Icilio e Angela Onesti Calzec¬chi di Monte Rubbiano”.
“… Esso fu da me battezzato e furono padrini Bernardo Panzoni se¬gretario di Altidona e Orsola Onesti moglie del conte Fanelli. In fede, Don Leo Martinelli”.
Pur di famiglia monterubbianese. Temistocle nacque a Lapedona (non Lampedusa come qualche enciclopedia dozzinale ha scritto) il 14 dicembre 1853 (Die 15 Decembris 1853 Temistocles. Titus. filius baptizatus fuit). Infatti il padre vi esercitava la professione di medico condotto.
Dopo aver frequentato le scuole elementari a Monterubbiano fu allievo del ginnasio liceo “Annibai Caro” di Fermo. Passò quindi all”uni- versità di Pisa, dove si laureò in fisica sperimentale. Fu professore di fisica nel liceo di Fermo e in seguito a Milano e a Roma. Fondò a Fermil gabinetto di fisica e qui scoprì un fenomeno elettrico che doveva dargli gloria e fama.
Studiando la conducibilità elettrica delle limature metalliche, osservò che queste, raccolte in un cannellino coibente, acquistano la conducibilità elettrica se il cannellino viene posto nel circuito di una corrente indotta; perdono tale conducibilità, se il cannellino viene colpito da un piccolo urto. Tale dispositivo fu chiamato coherer e Guglielmo Marconi, che stimò moltissimo Calzecchi, lo impiegò come apparecchio ricevitore delle onde elettromagnetiche nella telegrafia senza fili.
Circa sessantanni dopo, il Prof. Branly di Parigi, effettuava esperienze analoghe, ma la priorità della scoperta è di Calzecchi. Egli l’aveva già consegnata alla storia con una memoria pubblicata sulla rivista Nuovo Cimento s. 3. XVI. anno 1884.
A Fermo aveva fondato anche un osservatorio meteorologico. Si occupò anche di problemi pedagogici e della rieducazione dei sordo¬muti. Col suo compaesano, prof. Oreste Murani fisico, docente univer¬sitario a Milano, fu amico di Achille Ratti poi Papa Pio XI. Morì a Monterubbiano nel 1922.
Anno 1892 – Sul più famoso vocabolario latino ‘Campanini – Carboni’ hanno studiato
cinque milioni di studenti
FERMO – Spesso, noi marchigiani lasciamo passare sotto silenzio commemorazioni e ricorrenze, mentre altrove (come accadde ed accade ad esempio per la Montessori) i nostri Grandi sono degnamente ricordati ed apprezzati.
Ma stavolta siamo un po’ tutti coinvolti: marchigiani e non! Anzi, sono interessati tutti gli Italiani che dal 1911 ad oggi hanno studiato il latino, servendosi nelle traduzioni del vocabolario (il famoso vocabolario) Campanini e Carboni. Era un binomio che ci ha accompagnato a lungo; era ed è il binomio del più diffuso vocabolario latino! “Tuttolibri” il 10 giugno 1978” scriveva che non si sa più nulla degli autori Campanini e Carboni e si ignora “se di origine marchigiana fosse il Prof. Campanini od il Prof. Carboni”... Marchigiano era il Prof. Giuseppe Carboni, morto esattamente 50 anni or sono, a Ortezzano, un paesino del Fermano, dove era nato nel 1856.
Dopo gli studi elementari, effettuati nel paesello natio, passò a Recanati presso uno zio agostiniano che gli insegnò i primi rudimenti di latino. Quindi entrò nel seminario arcivescovile di Fermo, dove attese con ardore e passione agli studi umanistici. Anzi tanto era lo zelo e l’applicazione, che, alla fine, ne risentì la salute e dovette uscire e ritornare in famiglia. Si recò allora in Ascoli Piceno dove, ventenne, conseguì il diploma di maestro elementare, per tornare subito ad Ortezzano ed insegnare, per 16 anni, in quelle scuole elementari.
Intanto, senza trascurare i doveri scolastici, potenziava la sua cultura umanistica con particolare riguardo al latino e si applicava allo studio dell’inglese, del francese e del tedesco.
Nel 1892, è chiamato a Fermo ad insegnare in quel Liceo – Ginnasio Statale, facendosi apprezzare ed amare! Ma la sua fama aveva ormai varcato i confini della Regione e, nel 1903, è chiamato a Roma ad insegnare nel liceo Quirino Visconti. Di qui passa al Liceo Tasso, quindi al Mamiani. Sono 23 anni di intensa attività culturale. I colleghi lo stimano profondamente; gli alunni lo adorano. Il Ministero della Pubblica Istruzione lo insignisce di onorificenze e di attestati di benemerenza. Viene nominato Cavaliere della Corona d’Italia, con motivazione onorifica. Dopo 50 anni di intenso lavoro e di feconda attività culturale, nel 1926 viene collocato a riposo a seguito di domanda e si ritira nella pace e nella quiete di Ortezzano.
Grande la sua produzione letteraria e scientifica. Oltre al celebre vocabolario, il più diffuso in Italia e di cui si sono avute 40 ristampe dal 1911 al 1943 e dopo la guerra (in cui andò distrutta la Casa Editrice Paravia) ebbe ben 70 ristampe. Da una statistica fornita dalla Editrice del vocabolario, si desume che dal 1911 ad oggi sono state vendute 2 milioni e mezza di copie del “Campanini e Carboni” ma considerando che i vocabolari spesso passano di padre in figlio per proseguire per generazioni, si calcola che vi abbiano studiato 5 milioni di studenti. Lui vivente, si ebbero 14 edizioni, cifra ragguardevole per quei tempi, quando lo studio era appannaggio di pochi. Aveva pronto anche il Dizionario Etimologico Latino, ma la morte gli impedì di portarlo a termine ed egli negli ultimi giorni di vita, si lamentava di non poter realizzare un tale e tanto volume. Scrisse anche Le accuse contro il greco ed il latino e la legge biogenetica, Fermo, Bacher 1884. Varietà Didattiche 1894, ibidem. Per una spiegazione di Orazio, Fermo, 1898; Un metodo originale per /’apprendimento del Latino, Fermo, 1898; Critica di crìtica, Fermo, 1898; Quisquis per aliquis, in “La Nostra Scuola”, 1898; The birth, in “La Nostra Scuola” 1899; Il ne proibitivo Fermo, 1899; Esercizi graduali per il Ginnasio, Torino, Paravia, 1915. La tredicesima edizione del Vocabolario Italiano – Latino e Latino – Italiano ebbe luogo nel 1927.
Come già detto, oltre cinque milioni di studenti sono passati (per così dire) sulle pagine del suo vocabolario. Le Marche che hanno dato alla cultura ed agli studi lessicali altri illustri autori come Mestica (autore del vocabolario Italiano edito da Loescher), il Palazzi (autore di un altrettanto famoso Dizionario della Lingua Italiana, già edito da Ceschina ed ora dai F.lli Fabbri). Panzini (nato a Senigallia, autore del Dizionario Moderno vocabolario edito da Hoepli); Aldo Gabrielli (era nato a Ripatransone) autore del Dizionario Linguistico e di quello dei Sinonimi edito da Mondadori; di Scevola Mariotti (coautore con Castiglioni de II Vocabolario della Lingua Latina Loescher; (altro Mariotti ha compilato pure un Vocabolario della lingua francese); di Alessandro Niccoli di Osimo, che ha compilato un Dizionario della Lingua Italiana Roma 1961. Le Marche, dicevamo, reverenti e fiere onorano con essi il nostro grande Giuseppe Carboni nel cinquantenario della sua scomparsa.
Anno 1895- L’ultimo Cardinale a Fermo: Amilcare Malagola
Si compie quest’anno un secolo esatto dalla scomparsa dell’ultimo Cardinale di Fermo, Amilcare Malagola, successore del famoso Cardinal Filippo De Angelis.
Nato a Modena il 24 dicembre 1840, a 16 anni vestì l’abito clericale e venne ammesso al Collegio dei Nobili Ecclesiastici. Ordinato sacerdote il 19 dicembre 1862, ben presto si laureò in diritto canonico, in filosofia e teologia. Appena venticinquenne, tenne nella Basilica di S. Pietro alla presenza di Pio IX, una dissertazione su De Cathedra Romana. Gli si spalancarono subito le porte dei Dicasteri Pontifici; tuttavia egli preferì la missione pastorale, tornando in diocesi. Ma l’occhio vigile della Sede Apostolica lo seguiva ed a soli 36 anni venne eletto vescovo di Ascoli Piceno. Fu consacrato nel Duomo di Fer¬mo dal Card. De Angelis. Fortunato presagio: infatti, l’anno dopo Malagola venne promosso alla sede arcivescovile di Fermo, succedendo proprio al De Angelis. Il suo ingresso a Fermo ebbe luogo il 23 dicembre 1877. “All’arrivo dell’arcivescovo Malagola – scrive un cronista del tempo – gli sono andati incontro sopra quaranta legni (= carrozze), moltissima gente e molti applausi; non avendo ancora Vexe- quatur del Governo, è andato ad abitare in Seminario”.
A Fermo portò un ventata di rinnovamento e di potenziamento. Ripristinò, col consenso della Santa Sede, il Collegio Teologico che conferiva i gradi accademici e la laurea in teologia ed impresse un ritmo propulsore alle istituzioni. Nel 1893, a 53 anni, fu nominato Cardinale ed il 5 maggio del 1895 “consacrò” Vescovo nella Cattedrale di Fermo, Mons. Tacci Giovanni, eletto alla sede di Città della Pieve. Tale Vescovo, divenuto poi Cardinale (era di Mogliano Marche), nel 1925 ebbe la fortuna di consacrare a Roma, Arcivescovo, Mons. Angelo Roncalli che sarà il futuro Giovanni XXIII.
Fermo, che come stiamo vedendo fu sede cardinalizia fino al 1895, ebbe ben 18 Cardinali-Arcivescovi ed è tuttora la più importante e popolosa Arcidiocesi delle Marche, superiore alla stessa Ancona. Oltre ai Cardinali che furono Arcivescovi di Fermo, espresse dal suo seno altri porporati fra cui gli Azzolino, il Card. Bemetti, che fu go¬vernatore di Roma ed altri.
Per “prassi”, fra qualche anno, dovrebbe essere eletto Cardinale l’attuale Segretario del Giubileo del 2000 Mons. Sergio Sebastiani, nativo di Montemonaco e passato poi a S. Vittoria; ha studiato nel Seminario di Fermo ed è stato ordinato qui sacerdote da Mons. Norberto Perini nel 1956.
Tornando ai Cardinali che la Diocesi di Fermo ha avuto in passato, notiamo che nel periodo che fu Arcivescovo di Fermo Mons. Carlo Castelli, morto nel 1933, vi erano contemporaneamente nel Collegio Cardinalizio ben tre Cardinali dell’Arcidiocesi: il Cardinale Giovanni Tacci di cui abbiamo parlato che, come detto, era di Mogliano; il Cardinale Luigi Capotosti, di Moresco; il Cardinale Giuseppe Mori, di Loro Piceno.
Nello stesso periodo, vi erano tre Vescovi residenziali della Diocesi: Augusto Curi di Servigliano, Arcivescovo di Bari; Filippo Maria Cipriani, Vescovo di Città di Castello; Massimiliano Massimiliani, Vescovo di Modigliana e Mons. Giuseppe Petrelli di Montegiorgio, Vescovo nella diplomazia pontificia. Ora Fermo ha due Vescovi residenziali: Mons. Carboni, Vescovo di Macerata; Mons. Michetti, Vescovo di Pesaro. Il primo è di Ortezzano, il secondo di Corridonia. Fino a poco tempo fa, era Vescovo di Ariano Irpino-Lacedonia Mons. Nicola Agnozzi, fermano, giovanissimo, nonostante le sue 84 primavere.
Anno 1895 – Il campanello sotto il letto del Cardinale aprì la strada alla scoperta di Marconi
Il Tg3 regionale ha effettuato una ripresa televisiva andata in onda tre giorni or sono, dove si parlava di Temistocle Calzecchi Onesti e ciò nel quadro del Centenario delle invenzioni di Marconi.
Calzecchi Onesti, le cui scoperte furono di valido ausilio a Marconi, era nato a Lapedona da famiglia monterubbianese il 14 dicembre 1853, e non il 22 ottobre 1853 come riporta una lapide il suo busto, vicino al Palazzo comunale. Noi che non ci “fidiamo”, siamo andati a consultare l’atto di battesimo (allora non esisteva lo Stato Civile ed Anagrafe) rilevando che venne battezzato il giorno dopo la nascita: il 15 dicembre 1853.
Quest’anno, come detto, ricorre il Centenario delle invenzioni di Marconi il quale, anche per sua esplicita ammissione, deve molto al nostro Calzecchi!
Questi aveva inventato il coherer, prezioso dispositivo che Marconi impiegò nei primi esperimenti della telegrafia senza fili, avvenuti a Montecchio, ad un passo da Bologna, nel 1895.
In quel tempo, era Arcivescovo di Bologna il Cardinale Domenico Svampa, nato a Montegranaro nel 1851. Entrambi, Calzecchi-Onesti e Svampa, avevano studiato a Fermo ed entrambi vi furono docenti: il primo al liceo classico dove inventò il choerer; il secondo nel seminario arcivescovile.
Svampa, in poco più di un anno, si era conquistata la stima e la simpatia dei bolognesi (vi era giunto il 18 maggio 1894) e ben presto era divenuto amico di Giuseppe Marconi, padre di Guglielmo, che dopo poco, lo aveva invitato a Villa Grifone ad un passo da Pontecchio. Qui, i due parlarono dei loro problemi quotidiani e Giuseppe Marconi confidò al Cardinale la sua conflittualità col figlio Guglielmo, le sue stranezze di comportamento ed il suo rifiuto allo studio (Pensate!!!). Forse Guglielmo lo riseppe; fatto sta, che preparò un tiro birbone al Cardinale! Approfittando della sua amicizia col parroco Calzonari, eludendone la vigilanza, aveva posto sotto il letto dove riposava sua eminenza un ricevitore collegato ad un campanello, poi durante la not¬te, da Villa Grifone, avrebbe azionato il dispositivo che a distanza faceva trillare il campanello, in modo da svegliare il porporato. Una, due, tre, quattro volte. Alla fine, il Cardinale non potendone più, chiama il parroco don Calzonari, che scopre sotto il letto del prelato il “corpo del reato”.
Svampa, nonostante il sonnus interruptus ci rise sopra divertito, e volle conoscere l’autore del “misfatto”… Risero poi entrambi ed il Cardinale predisse al Marconi un avvenire luminoso. Questi, chiedendo scusa allo Svampa per l’accaduto, gli chiese di non parlarne a nessuno per non compromettere l’esito di un’invenzione che si profilava importantissima e che avrebbe rivoluzionato le comunicazioni fra popoli e nazioni.
E così, con un gesto birichino, dopo tutto simpatico e direi goliardico, due piceni-fermani: Calzecchi Onesti e lo Svampa furono inconsapevolmente ed indirettamente protagonisti di un esperimento che, perfezionato poi e munito di tutti i crismi ed i carismi di scientificità, portò Marconi ai fasti ed ai fastigi della gloria. Calzecchi morì nel 1922 a Monterubbiano, dove si era già trasferito, poco dopo la nascita; Svampa cessava di vivere nel 1909; Marconi morirà nel 1937