Ugo Foscolo appunti di Letteratura dalle lezioni di MANCINI d. Dino

FOSCOLO UGO  Appunti degli alunni dalle lezioni di Letteratura Italiana del prof. MANCINI DINO

Il pensiero

   il Foscolo vive in un periodo della storia europea, che è caratterizzato da una profonda crisi spirituale, dopo i grandi entusiasmi e le speranze generate dall’illuminismo. La rivoluzione francese, con le sue violenze e soprattutto con la tirannide imposta a tutti i popoli dell’Europa, aveva deluso le anime più generose. Il razionalismo negatore freddo e spietato di tutto ciò che non resiste alla critica della ragione, spogliava la vita di tutti i valori che la ingentiliscono, la idealizzano, la consolano.

   Contro l’illuminismo, che con il suo spietato razionalismo sfronda la vita e la inaridisce, insorge il romanticismo, che riafferma i diritti del cuore e della fantasia, cioè di due facoltà che, essendo diverse dalla ragione, erano state svalutate degli dagli illuministi. I romantici rivalutano la storia come patrimonio perennemente vivo dei valori creati dalle generazioni umane. Gli illuministi disprezzavano la storia, in quanto vedevano in essa solo un cumulo di pregiudizi, di istituzioni irrazionali, di superstizioni: contro la tradizione essi volevano instaurare nuove forme di vita privata e pubblica, basate esclusivamente sul dettato della Ragione.

   I romantici, invece, sostengono che la storia è soltanto creazione di valori, i quali rimangono perennemente vivi, pur nel morire delle generazioni e degli individui. Per i romantici l’uomo non è soltanto ragione, ma è anche sentimento e fantasia. L’uomo non è fuori della storia e della società, ma nasce in un ambiente sociale storico, da cui trae pensieri, affetti, incitamenti all’azione; e con il quale contrae vincoli di affetto quasi sacro.

   Questo contrasto tra il dettato della razionalità pura, contro le esigenze del cuore e della vita storica e reale dell’uomo, costituisce il nucleo della vita spirituale del Foscolo. In lui, infatti, vi sono due anime: quella del che ragiona con la freddezza spietata degli illuministi, e quella che sente il bisogno di rivestire la vita di ideali, di cari sogni, di affetti, affinché possa sostenerne il peso. In Foscolo, in altri termini, ci sono un’anima illuministica ed un’anima romantica.

   Quando il Foscolo si venne formando spiritualmente, la cultura europea era dominata dalla filosofia sensistica degli enciclopedisti francesi, il cui metodo era quello della spregiudicatezza nell’esame razionale della vita. Ecco in sostanza la concezione della vita propria di questa filosofia.

   Tutto ciò che esiste è materia. I minerali, le piante, gli animali, gli uomini, non sono altro che forme della materia: l’uomo si distingue dalle altre forme solo perché è materia capace di coscienza. Come da pianta nasce pianta, così da uomo nasce uomo; e la storia di ogni uomo si può riassumere così: nascere, soffrire, morire. La vita è un venire dal nulla, per ritornare nel nulla; tra il nulla iniziale e quello finale c’è il breve spazio dell’esistenza, colma di dolore o di noia; o dell’uno e dell’altra insieme.

   L’universo è materia in continuo divenire regolato da leggi ferree, nella cui trama l’uomo è inserito al pari dei minerali, delle piante e degli animali; e come questi, anche egli è mosso da forze misteriose a cui non può resistere. L’uomo ha la sensazione di essere libero, ma di fatto la vita degli individui e quella delle nazioni (dice il Foscolo nell’Ortis)  è l’effetto inevitabile del Tutto. Come nel mondo degli individui è necessario che muoiano i genitori, per far posto ai figli, così nel mondo delle nazioni è necessario che muoia or questo o quel popolo, per alimentare e potenziare la vita di altri popoli.

   Siamo, quindi, anche nei riguardi delle nazioni, di fronte ad una legge ferrea, simile a quella che regola il mondo della materia. “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma quaggiù” (dall’Ortis) …. “ Una forza operosa affatica le cose di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe e le esterne sembianze e le reliquie  della terra e del ciel traveste il tempo “ (Sepolcri).

   Inserito in una struttura meccanicistica di tale genere, l’uomo non differisce dalle altre forme della materia. È, di questa, solo la forma più elevata, in quanto è dotata di coscienza; ma per quanto riguarda il suo destino, egli non si differenzia affatto dagli altri esseri: nasce per generare altre vite e poi ritornare nel nulla, come le piante e gli animali.

   A che cosa si riducono i cosiddetti valori della vita, in una concezione di questo genere?  Pure illusioni, puri artifici o sovrastrutture create dall’uomo per abbellire la vita.

   L’Amore, con tutte le sue emozioni, i suoi drammi e le sue tenerezze, non è altro che un fenomeno preparatorio della procreazione; in tal modo esso è spogliato dalla Ragione di ogni sua idealità.

   La patria propria, a cui le anime nobili sacrificano i beni e la loro stessa vita, è un’istituzione irrazionale, perché tutti gli uomini, avendo una natura uguale, appartengono ad una sola patria, l’Umanità.

   La famiglia, con tutto il corredo dei suoi affetti, non è altro che un istituto fondato su rapporti di sangue. L’attaccamento dei genitori ai figli e di questi ai loro genitori è frutto soltanto di un rapporto fisiologico. Tutto il resto non è altro che una sovrastruttura creata dall’uomo per dare un tono ideale alla vita familiare.

   La poesia è l’espressione più sublime delle capacità umane, perché è creazione della fantasia e del cuore, ma è da considerarsi come un’attività oziosa e inutile, proprio perché espressione di due facoltà che sono diverse dalla ragione, che è l’essenza della natura umana. Chi è convinto del dettato della Ragione, dunque, vede la vita spoglia di ogni idealità.

   Siccome lo spirito umano si emoziona soltanto di fronte all’ideale, venendo meno questo, viene meno anche ogni attrattiva del vivere: allora il cuore vive nella noia, “peggiore del dolore”  dice il Foscolo nell’Ortis.  La vita vissuta secondo il dettato della Ragione, diventa talmente arida e insignificante, come vita di un animale più evoluto, che non vale la pena che sia vissuta: “Beata! Ancor non si sa quanto agli infanti provvido è il sonno eterno; – e quei vagiti presagi son di dolorosa vita” (Grazie). Ad accrescere il pessimismo del Foscolo, contribuiscono anche le tristi esperienze e che egli fece nei primi contatti con la vita, specie dal 1796 al 1800.

   Lo scosse soprattutto la delusione politica che egli subì in seguito al trattato di Campoformio. Il Foscolo faceva parte del movimento che fu detto dei “patrioti” i quali simpatizzavano per la rivoluzione francese ed accoglievano con entusiasmo il Bonaparte, quando nel 1796,  “liberò” l’Italia settentrionale. Appunto nel 1796 egli compose un’ode “A Bonaparte liberatore”; ma fu proprio Bonaparte “liberatore”, che con quel trattato di Campoformio, vendette Venezia, patria del Foscolo, all’Austria, ed istituì in Lombardia la Repubblica Cisalpina, vassalla della Francia.

   Nel 1799 il Foscolo subì una profonda delusione amorosa per la Isabella Roncioni, che era stata promessa ad un altro uomo. Pieno di nobili idealità civili, educato dall’esempio dell’Alfieri e del Parini (due personaggi che egli venerava) il Foscolo vagheggiava una società italiana magnanime, retta, libera; e invece vedeva ovunque corruzione, servilismo e viltà. Basta leggere la Lettera dell’Ortis, in cui viene riferito il colloquio del protagonista con il Parini, per rendersi conto che il Foscolo, a 20 anni, era già annoiato della vita, senza fede religiosa, senza più quegli ideali che gli erano stati distrutti dalle delusioni dell’esperienza, senza speranza che la situazione migliorasse. Non gli restava altra conclusione che quella di Jacopo: suicidarsi.

   Eppure il Foscolo era avido di vita  “amore di gloria e carità di figlio”  dice egli nel sonetto giovanile  “A se stesso”  gli impedivano di togliersi la vita. A lui non sfuggiva che, se tutti i buoni avessero preso la decisione di Jacopo, la storia sarebbe stata fatta soltanto dai cattivi.   Contro la ragione e l’esperienza, insorge, dunque, il cuore.

   Il cuore, pieno di passioni, bramoso di conquistare, di fare, di costruire, di lasciare un ricordo immortale ai posteri, non può rinunciare alla vita.  Ma il cuore, per vivere, ha bisogno di una fede, un assoluto; ed il Foscolo, non trovando l’assoluto, né nelle cose, né fuori di esse, se lo crea attraverso l’illusione.

   Ci sono realtà nella vita che, pur risultando insignificanti per la ragione (come del resto tutte le altre), pure hanno il magico potere di far dimenticare all’uomo la sua miseria e gli permettono di riempire il breve giro dei suoi giorni con le opere che restano dopo la sua morte.

   Foscolo non crede al cristianesimo ed è imbevuto di dottrina classica, perciò l’unica fede capace di redimerlo e di consolarlo, di spingerlo all’azione e di garantirgli l’immortalità, è quella dei valori estetici ed affettivi della vita e dell’attività politica e guerresca. Mosso dalla sete di gloria, consolato e sostenuto dalle gioie della bellezza, dell’amore, degli affetti familiari, egli è capace di fare cose mirabili, di affermarsi come amante ideale, di trascendere la sua miseria come soldato e come poeta.

   I suoi modelli di vita sono Ettore come eroe della patria; Catullo come poeta della bellezza e dell’amore; Tacito come storico della libertà; Parini come immagine perfetta dell’integrità morale; Alfieri come esempio di indipendenza letteraria e politica. A creare quel mirabile complesso di valori che è la storia, non sono stati certo gli uomini che hanno seguito il dettato della Ragione, o, peggio ancora, gli istinti biologici; ma quelli che hanno seguito l’impulso di un cuore scaldato da ideali e da sogni.

   Chi vuole vivere con stile magnanimo e lasciare qualcosa di sé alla storia, oppone al dettato della Ragione l’esigenza del cuore, e supera lo squallore e il tedio della vita reale, con il fulgore della vita idealizzata. L’amore, la patria, la gloria, la poesia, non hanno alcuna consistenza  riconosciuta in modo razionale; ma il cuore, avendo bisogno di queste, le affida alla fantasia perché le idealizzi e doni loro una consistenza più solida di quella che suole dare la ragione, la consistenza cioè di una fede. Questa è fonte di consolazione, di energia morale, di dinamismo eroico, di magnanimità. In tal senso il Foscolo si concilia con quella vita che la ragione gli ha fatto detestare.

   Il Foscolo dice che l’illusione per il filosofo non ha alcuna consistenza; ma per il cuore essa è tutto. “E se un giorno il mio cuore non volesse più illudersi, io lo strapperei dal mio petto, come un servo infedele.”(Ortis)

   Esistono dunque due Foscolo: il razionalista in continua antitesi con l’illuso. Il contrasto non viene risolto: né la ragione elimina il cuore, né l’illusione elimina il dettato della Ragione. Tuttavia il contrasto permanente non degenera nell’assurdo. Infatti il dettato della ragione, ispirato ad un realismo spregiudicato, dà concretezza al suo discorso poetico. Il dettato del cuore, poi, lo innalza al piano dell’ideale, dove tutti gli aspetti della vita assumono caratteri di bellezza e di assolutezza. In tal modo il contrasto si risolve in un completamento reciproco.

Lo stile del Foscolo

   Si discute ancora se il Foscolo sia classico o romantico. Alcuni sostengono che è romantico perché il suo pessimismo, il suo dramma interiore, la sua passionalità ardente, il suo idealismo eroico, la sua persuasione di essere stato condannato a vivere in un luogo e in un tempo che non è il suo, sono le precise note che in genere caratterizzano lo spirito romantico. Altri sostengono che è classico perché adotta elementi compositivi del classicismo greco e romano e perché il suo stile è limpido e preciso.

   Smentisce i primi lo stesso Foscolo, il quale ebbe a scrivere contro il romanticismo per sostenere il classicismo. Contro i secondi basterebbe opporre che l’Ortis  ha uno stile effusivo ed immediato (romantico). La questione del Foscolo romantico o classico è basata sulla confusione che si suol fare tra l’ispirazione e lo stile, o modo di esprimere l’ispirazione. Quel “che si dice” e il modo “come si dice”, sono senza dubbio in strettissimo rapporto l’uno con l’altro, ma l’uno non è l’altro. Una stessa cosa può essere detta in mille modi diversi.

   Non possiamo parlare di ispirazione romantica o classica ma solo di stile romantico o classico. L’anima che si esprime nel Foscolo è la stessa anima che si esprime nelle opere del Manzoni e del Leopardi: è l’anima in crisi del primo 800. Questa crisi può essere espressa in due modi o stili: in modo immediato e caldo con lo stile romantico; ed in modo riflesso e controllato nello stile classico.

   La causa della confusione è da ricercarsi nel fatto che i critici troppo spesso usano il termine ‘romantico’ per indicare uno spirito in crisi; per cui, essendo lo spirito del Foscolo caratterizzato da un perenne dramma intimo,  egli viene definito romantico. Se invece si limitano i termini classico o romantico, allo stile, possiamo dire che il Foscolo in alcune sue opere si espresse con stile romantico, in altre opere con stile classico e nelle opere migliori seppe realizzare il connubio perfetto tra i pregi dello stile classico e quelli dello stile romantico. Lo stile classico ha i pregi dell’eleganza, dell’armonia, della compattezza e della precisione; lo stile romantico quelli della immediatezza, del calore, dell’originalità, dell’aderenza alla vera personalità.

   Il difetto dello stile classico, in generale, è la freddezza dovuta all’eccessiva riflessione; il difetto dello stile romantico è l’imprecisione, dovuta all’eccessiva impulsività. Lo stile perfetto sintetizza l’immediatezza romantica con la precisione classica.

   Premesso questo, vediamo la storia dello stile del Foscolo: nell’adolescenza egli seguì lo stile dell’Alfieri: stile vibrante, forte, martellato, come si vede nei sonetti giovanili.

Nell’Ortis, composto tra il 1797 e il 1802 egli segue lo stile romantico: caldo, impetuoso, spesso irregolare.

   Nei sonetti maggiori: A Zacinto;  Alla sera;  In morte del fratello Giovanni;  e nelle odi: A Luigia Pallavicini caduta da cavallo;  All’amica risanata; . e nei  Sepolcri, Foscolo realizza la sintesi perfetta tra l’immediatezza romantica e la precisione classica. Nelle Grazie  predomina lo stile classico: l’elaborazione metodicamente precisa attenua il calore dell’ispirazione.

   Nel complesso il Foscolo adotta spesso lo stile classico. Quando scoppiò la lotta fra i classicisti ed i romantici, il Foscolo parteggiò per il classicismo, perché, secondo lui, i romantici, abolendo il mirabile e l’ idealizzazione, lasciavano la poesia sul piano della realtà o del vero; mentre essa è “su un gradino più alto del reale”. Ad ogni modo, se si vuol chiamare romantico lo spirito delle generazioni del primo ‘800, possiamo definire il Foscolo come “spirito romantico” che si esprime in stile ora classico ora romantico.

Il Foscolo critico

   Durante l’esilio in Inghilterra, dal 1816 al 1827, il Foscolo si dedicò alla critica letteraria. Scrisse: Discorso sul testo della divina Commedia;  Saggio sul Petrarca;  Discorso sul testo del Decamerone. Con il Foscolo comincia un nuovo indirizzo critico, la critica storica.

   Egli parte dal concetto di Giambattista Vico, secondo il quale un’opera di poesia è lo specchio della generazione in cui essa fu composta. Una volta accettato questo concetto, il Foscolo sostiene che, se è un’opera è l’espressione dello spirito dell’autore, e se lo spirito dell’autore è espressione dello spirito dell’epoca in cui egli vive, ne consegue che, per comprendere un’opera bisogna inquadrarla nello spirito del tempo in cui fu scritta. Perciò la ricerca del Foscolo è chiamata ‘critica storica’.

   Come mai il Foscolo pensò ad una critica di questo genere? Prima di lui vigeva la critica formale o retorica, che valutava un’opera d’arte in base alle belle immagini, alle belle frasi, alla fedeltà alle regole fissate dai retori. Una critica di questo genere non penetrava affatto nello spirito dell’opera, la cui lettura diveniva inutile alla vita. Il Foscolo è un poeta patriota, un poeta eroe; e perciò vuole che la lettura di un capolavoro conduca all’assimilazione dello spirito dell’autore, dello spirito di un’epoca: vuole che sia una lettura viva, vitale.

   Con la critica storica si riesce a penetrare più facilmente nello spirito dell’opera, ma non si riesce a definire se questa sia bella o no: il capire un’opera è la condizione necessaria per giudicarla, anche dal punto di vista estetico, ma capirla non vuol dire giudicarla. Perciò la critica storica sarà completata poi con la critica estetica. Il completamento sarà fatto dal De Santis e dal Croce.

L’ORTIS

   L’opera foscoliniana “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” è un romanzo epistolare, ossia un romanzo in cui la narrazione viene affidata al protagonista (Jacopo Ortis) che espone le vicende dei suoi ultimi due anni di vita, in una serie di lettere inviate al suo amico Lorenzo Alderani (G. B. Niccolini). Tra un gruppo di lettere e l’altro è inserita una notizia storica attribuita a Lorenzo stesso che, secondo l’invenzione del Foscolo, avrebbe raccolto quelle lettere. Usa la forma di del romanzo epistolare, perché la lettera si presta più facilmente all’espressione immediata e calda dei sentimenti.

   Il primo a scrivere un romanzo epistolare era stato in Inghilterra il Richardson in Pamela; in Francia Rousseau in Nouvelle Eloise;  in Germania il Goethe nei Dolori del giovane Werter. C’è una stretta somiglianza tra l’Ortis ed il Werter e il Foscolo stesso lo riconobbe bene, ma egli faceva notare che mentre Werter ha una sola passione, quella amorosa, il suo Jacopo ne ha due: quella amorosa e quella patriottica. L’Ortis  potrebbe essere definito il romanzo della prima generazione romantica, in quanto si ritrovano in esso il passionale culto dell’ideale, il senso pessimistico della vita, una specie di compiacimento nel considerarsi perseguitati dalla sfortuna e dalla cattiveria umana, l’ansia di evasione da un ambiente considerato come non adatto alla propria esistenza, la ricerca dell’assoluto: caratteristiche queste tipiche del primo romanticismo.

   Il Foscolo ha saputo scegliere i due motivi più adatti a commuovere la gioventù: l’infelicità nell’amore, e  l’infelicità del patriottismo. E veramente la gioventù, nell’epoca risorgimentale, considerò quest’opera come il romanzo proprio: per la sincerità, l’elevatezza e l’onestà dell’amore di Jacopo per Teresa; per la sdegnosa fierezza di Jacopo contro ogni forma di servilismo verso i tiranni; soprattutto per quel suo generoso slancio verso l’azione, pur mortificato e spento dalle circostanze avverse.

   Il Foscolo, poi, è riuscito ad evitare un difetto sentimentalistico in cui cadranno troppo spesso i romantici tardivi, ogni volta che tenteranno lo svolgimento del motivo patriottico insieme con quello amoroso. Quando si trattano questi due motivi congiuntamente, c’è sempre il pericolo di rendere patetico il patriottismo con l’amore, o di rendere eroico l’amore con il patriottismo. Il Foscolo non ha mescolato i due sentimenti, ma li ha lasciati ciascuno nella sua forma naturale, e li ha unificati solo con il motivo dell’infelicità, vibrante in ambedue.

   Patriottismo e amore non decadono nel sentimentalismo, ma conservano l’energia sana ed eroica degli ideali a cui si attacca un’anima generosa e disperata. Jacopo ama in Teresa, anima gentile, intelligente, pietosa, dotata dello squisito pregio del gusto artistico per cui suona meravigliosamente l’arpa. Insieme all’anima Jacopo ama anche il corpo, che non è una sintesi equivoca di attrattive voluttuose, ma è l’espressione più nitida degli ideali dell’armonia e delle grazie. Era proprio quello che andava cercando la gioventù del primo romanticismo: un amore ardente, ma cavalleresco; una bellezza che consolasse il cuore triste per le sue disperazioni ideali.

   Il sentimento patriottico si manifesta come sfiducia e avversione contro i responsabili della vita dei popoli; come disprezzo contro i venduti alla tirannide e allo straniero, contro i vili e gli indolenti; come isolamento dello spirito, sdegnato per la miseria evidente in quelle zone della storia italiana passata in cui singoli individui e intere masse erano capaci di morire per la libertà; come disprezzo del tempo presente ed ansia di anticipare il futuro.

   Il suicidio di Jacopo fu considerato dagli giovani lettori di quel tempo come la conclusione inevitabile della sconfitta morale inflitta dai tempi e dal destino ad un’anima generosa.

   Così, del resto, aveva voluto presentarla il Foscolo stesso: “ Se il padre degli uomini mi riprenderà perché ho abbandonato la vita, risponderò: – la vita era diventata per me un peso superiore alle mie forze; e se tu mi obbligati a sopportarla, dovevo pensare che fossi crudele; se tu mi autorizzavi a deporla, dovevo pensare che tu fossi giusto; ho preferito pensarti giusto-.

   Durante il Risorgimento l’ Ortis fu molto letto e si dice che abbia persino indotto alcuni giovani al suicidio. Ma non bisogna dimenticare che esso ha contribuito anche alla formazione di coscienze generose e forti. L’Ortis  fu imitato, in seguito, dall’Aleardi, che, però con il suo sentimentalismo morboso, rovinò sia il tema amoroso che quello patriottico.

I SEPOLCRI

   E’ un carme epistolare. ‘Carme’, secondo la definizione del Foscolo stesso, è una composizione lirica, in cui, attraverso una serie di immagini collegate fra loro da un forte sentimento, vengono comunicate, alle menti dei lettori, le verità sublimi ed utili. Il carme dei Sepolcri è in forma di Lettera in versi, indirizzata all’amico Pindemonte  (traduttore dell’Odissea e autore di liriche malinconiche e di un poemetto intitolato “I cimiteri”). Anche qui è adottata la forma epistolare, perché questa garantisce maggiore immediatezza di espressione.

   La poesia cimiteriale, che allora fioriva in Inghilterra, riscuoteva molto interesse presso il pubblico, perché suscitava quelle emozioni forti che furono tanto care alla prima generazione romantica, a cui piaceva il brivido, suscitato dall’orrido e dal drammatico. In Inghilterra avevano svolto con successo il tema della morte e della tomba lo Young in “Pensieri notturni” e il Gray in “Meditazione sopra un cimitero campestre” e l’Hervey in  “Meditazione sulla tomba di un soldato”. Il Foscolo riconosce che il tema da lui svolto è già stato trattato dagli inglesi, però ci tiene a far notare che la sua ispirazione non è né filosofica né religiosa, ma civile, dicendo che essi hanno meditato sui sepolcri da filosofi o da cristiani; il poeta stesso medita su di essi da cittadino.

   Lo spunto per la composizione del carme, gli venne da una occasione. Nel 1805 Napoleone istituì il Regno Italico che comprendeva la Lombardia e il Veneto. Allora il Foscolo poté ritornare a Venezia, sua patria, sottratta all’Austria, con la pace di Strasburgo. Nel frattempo veniva esteso anche al Regno Italico l’editto di Saint Cloud dell’1804, con cui Napoleone, in nome dell’uguaglianza, ordinava che le sepolture venissero tolte dalle chiese; I cimiteri fossero costruiti nelle remote campagne; fossero abolite le lapidi; tutti fossero sepolti nella fossa comune. Quando il Foscolo, nel 1806 si recò a Venezia, ne discusse insieme con l’amico Pindemonte.

   Il Foscolo era favorevole all’editto, perché, questo veniva ad eliminare gli inconvenienti igienici e psicologici delle sepolture nelle chiese. Ritornato a Milano,  meditò nuovamente l’argomento e vide la cosa non più sotto l’aspetto igienico solamente, ma anche sotto l’aspetto civile e politico. Nella decisione del Bonaparte, egli vide l’ultimo di una serie di delitti commessi dal tiranno per soffocare la voce della libertà: dopo aver soffocato la voce libera dei vivi, Napoleone pretendeva soffocare quella dei morti, che parlano ai vivi attraverso il sepolcro. Egli vide, inoltre, nell’editto di Saint Cloud un’offesa al sentimento umano, alla giustizia e alla civiltà.

   Il motivo occasionale per scrivere, tuttavia, viene decisamente superato dal Foscolo, a differenza di quanto soleva fare il Monti, il quale prendeva lo spunto dall’occasione e rimaneva nel significato contingente di essa. Per questo poeta il problema del sepolcro si identifica con quello della morte; e questo si inserisce, come tema fondamentale, nella concezione che egli ha della vita.

   In una concezione materialistica dell’esistenza umana, la morte rappresenta la conclusione angosciosa e nera di una vita resa insignificante dalla noia e insopportabile dal dolore. Perciò il carme dei Sepolcri, se fosse stato dettato al poeta solo dalla Ragione, si sarebbe risolto in una serie di maledizioni contro l’esistenza umana e il destino.

   Ma il Foscolo sente il bisogno di superare il dettato della Ragione e, facendo leva, anche questa volta su un’illusione magnanima, cioè sulla persuasione, imposta dal cuore, che i morti vivono ancora nel ricordo dei superstiti, egli esalta la perennità della vita delle generazioni umane, garantite dalla storia, a cui va attribuito il merito di eternare i valori creati dagli individui e dai popoli.

   Ogni singolo uomo, secondo il poeta, dopo il breve e malinconico tratto della vita, ritorna nel nulla; ma rimangono i valori creati dai singoli uomini, dalle generazioni, dai popoli:  valori d’arte, di affetti nobili di grandi opere politiche e sociali,  di scoperte scientifiche e simili, perché la storia li salva dall’oblio e li trasmette sempre più potenziati di età in età.

   Muoiono gli individui, non muore la storia umana, intesa come civiltà o complesso di valori creati dagli uomini. Il ricordo, il legame affettivo che lega gli individui e le generazioni fra loro, è il fattore che garantisce questa perenne continuità della storia. Siccome anche il sepolcro contribuisce a trasmettere il ricordo degli uomini passati e dei valori che essi hanno creato, la tomba non è più il simbolo dell’estrema miseria dell’uomo, il punto più nero di un’esistenza nera, ma assurge a simbolo di quel legame affettuoso che, nella perennità della storia, lega gli uomini del passato a quelli del presente e del futuro. La morte tronca il rapporto tra vivi e i morti, disperde una vita già il se stessa mal connessa; però il cuore, che ricostruisce quello che la realtà e la ragione distruggono, riesce a riprendere contatto con il morto; e siccome una tomba bella, una lapide bella, un cimitero bello promuovono ed alimentano l’illusione del cuore, tomba, lapide e cimitero cessano di essere simboli paurosi della morte e diventano simboli dello spasimo con cui gli uomini, condannati a morire, si costruiscono l’immortalità.

   Solo la tomba permette al vivo di illudersi che il morto viva ancora; e attraverso questa illusione gli permette di continuare a parlare e a vivere con le persone care ed illustri del passato. Le tombe diventano così fonti d’ispirazione per egregie cose. Ancora una volta, anzi più potentemente delle altre volte, il dettato del cuore permette al Foscolo di superare e dimenticare quello della ragione.

   Il carme sulle tombe, che sarebbe stato d’intonazione lugubre e desolata, diventa il canto trionfale della vita che si perpetua attraverso il ricordo affettuoso e gentile delle anime nobili, e che non solo non teme la tomba, ma trova in questa il più valido fattore della sua perennità. Il Foscolo non illumina il sepolcro con la luce della fede cristiana, ma con la luce della fede nei valori della civiltà.

Riassunto dei Sepolcri

Introduzione: parla la ragione. Né il sepolcro, né la sua lapide valgono a compensare la perdita della vita o ad alleviare la triste realtà della morte. Se poi con la tomba e con la lapide i vivi intendono opporre una barriera contro l’oblio, si illudono: infatti il tempo travolge e trasforma tutto, anche le tombe e le lapidi.

–Parte Prima: Parla il cuore. Critica all’editto di S. Cloud. Benché la ragione affermi che la tomba e la lapide non hanno alcun valore, tuttavia il cuore non può fare a meno di esse, perché gli facilitano l’illusione che la persona cara (defunta) viva ancora  e gli permettono di continuare con lei la corrispondenza d’amorosi sensi intrecciati in vita. Perciò è sbagliato l’editto di S. Cloud perché:  a) E’ contrario ad un’esigenza insopprimibile del cuore umano. Solo chi “non lascia eredità d’affetti”,  non ha interesse ad essere ricordato, non si preoccupa di avere una tomba; e se pensa al suo destino dopo la morte, si preoccupa soltanto della sorte della sua anima, mentre è disposto a lasciare il suo corpo anche “alle ortiche di deserta gleba”.

b) Questo editto, inoltre, è contrario alla giustizia. I corpi degli uomini illustri vengono chiusi nella stessa fossa, insieme con quelli dei malviventi. In forza di tale editto, emanato già nel 1787 dall’Austria, il corpo del Parini, che doveva essere sepolto sotto i tigli di Porta Orientale, ove, in vita, andava ad ispirarsi e dove la sua tomba avrebbe acceso “ad egregie cose” gli animi dei concittadini che là si recano a passeggiare, ora invece giace nella fossa comune di un orrido cimitero isolato nella lontana campagna.

c) L’editto di S. Cloud , infine, è contro la civiltà. Infatti la civiltà è sorta con l’istituzione del matrimonio, della giustizia pubblica, della religione, del culto dei morti. Se il culto dei morti segnò, insieme con le altre tre istituzioni, il passaggio dalla barbarie alla civiltà, questo editto, abolendo le tombe, è contrario alla civiltà.

Parte intermedia: il Foscolo dice che nell’opporsi a questo editto, non intende affatto sostenere gli inconvenienti igienici e psicologici connessi con la sepoltura nelle chiese. Tra i due estremi, quello della fossa comune campestre e quello del seppellire in chiesa, c’è una via di mezzo: è il cimitero giardino in uso presso i popoli classici, ed allora in uso presso gli inglesi.

Parte Terza:  la tomba è ispiratrice di cose egregie: “a egregie cose i forti animi accendono l’urne dei forti”. Presso i popoli, nei quali dorme l’entusiasmo per le gesta gloriose, le tombe e le lapidi costituiscono un’ostentazione inutile di fasto o uno spauracchio della morte. Presso i popoli spiritualmente vivi, le tombe e le lapidi delle persone che si sono rese utili all’umanità, costituiscono una fonte di perenne ispirazione a cose egregie.

   Le tombe ispiratrici degli italiani sono quelle a Santa Croce in Firenze: la tomba di Machiavelli, quella di Michelangelo, quella di Galilei. A queste tombe si è ispirato Vittorio Alfieri, che ora giace nello stesso tempio, a fianco di quei grandi. Da queste tombe prenderanno gli auspici gli italiani, il giorno in cui decideranno di risorgere a nuova vita. Anche i greci avevano la loro tomba ispiratrice, la tomba di Maratona.

   Inoltre il luogo ove un giorno fu una tomba gloriosa è capace di suggestionare e di ispirare, come se essa esistesse ancora: sulle sponde del promontorio Reteo , ove un tempo fu la tomba di Aiace, il Pindemonte ha rivissuto, nell’intimo del suo spirito, la pietosa tragedia dell’infelice eroe.

Parte Quarta: La poesia eternatrice dei grandi. Presto o tardi le tombe saranno spazzate via dal tempo, ma il ricordo dei grandi sarà affidato alla poesia e così esso vibra in eterno. Elettra chiese a Giove l’immortalità; ma non le fu concessa, perché i fati erano contrari. Chiese che almeno la sua tomba fosse immortale e Giove lo concesse. Nella tomba di Elettra furono sepolti i più illustri eroi Troiani e perciò ad essa venne ad ispirarsi Omero.

   La poesia di Omero ha eternato il ricordo di Elettra, di Troia, di Ettore e di tutti gli eroi morti per la loro patria: “E tu onore di pianti, Ettore, avrai, – ove fia santo e lacrimato il sangue per la patria versato,  – finché il sole splenderà sulle sciagure umane”.

   Nei Sepolcri notiamo un procedimento simile a quello seguito dal Petrarca nei Trionfi: la ragione affligge e vince il cuore; ma questo supera la visione della ragione con l’illusione. La morte spegne la voce dei grandi, ma la tomba e l’illusione  alimentata da questa, rendono la voce poetica più viva e potente. Il tempo vince la tomba; ma la poesia vince il tempo.

Le Grazie

   E’ un carme mitologico in cui il Foscolo intende svolgere poeticamente questo tema: Le Grazie sono civilizzatrici dell’umanità. Le Grazie sono figlie di Venere: Aglaia la nitida, Talia la fiorente, Eufrosine la lieta. Queste simboleggiano la luminosità, la floridezza, la gioia del bello. Il carme è diviso in tre inni:

1 ) Inno a Venere. Il poeta parla della nascita delle Grazie; del loro approdo in Grecia, della civilizzazione di questa regione. In un primo tempo, le accompagna la madre Venere; poi questa ascende al cielo e, in sua sostituzione, manda Armonia in terra. Venere è la bellezza e l’Armonia la sostituisce: significa che armonia e bellezza si identificano.

2 ) Inno a Vesta. Il poeta rappresenta un rito che si svolge sul poggio di Bellosguardo, davanti all’altare delle tre Grazie scolpite dal Canova. Tre donne care al Foscolo offrono ciascuna un dono alle Grazie: la prima offre un mazzo di fiori, simbolo della grazia della musica; la seconda offre un favo di miele, simbolo della grazia della parola; la terza offre un cigno, simbolo della grazia della danza.

3 ) Inno a Pallade. Il poeta svolge il tema del velo delle Grazie, intessuto e decorato da più dee (Flora, Psiche, Tersicore, Iride) sotto la protezione di Pallade,  in un’isola sperduta dell’Atlantide. Nel velo vengono rappresentate cinque scene: la giovinezza; l’amore coniugale; la pietà verso gli infelici; la generosità verso l’ospite; l’amore materno. In quest’ultima figurazione appare la madre che veglia presso la culla del suo bambino e, sentendolo vagire, teme che quei vagiti siano presagi di morte. Il poeta commenta: “Beata! Ancor non sa quanto agli infanti provvido è il sonno della morte; e quei vagiti presagi son di dolorosa vita”. Il concetto che il Foscolo intende svolgere in questo terzo inno è che le Grazie sono di per sé caste, e quindi possono essere anche ignude; ma non sono casti gli occhi degli uomini che le contemplano, per cui è necessario velarle. In altri termini il Foscolo vuol dire che l’arte deve essere sempre pudica, per non suscitare le passioni.

   I concetti svolti nel carme sono caratteristici del pensiero neoclassico: l’arte è armonia; e siccome l’armonia genera armonia, chi contempla l’arte viene liberato dalle passioni ed innalzato al mondo luminoso e consolante degli ideali.

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