Letteratura medievale dalle lezioni del prof. Mancini don Dino a Fermo

MEDIO EVO

ROMANESIMO, GERMANESIMO E CRISTIANESIMO.

    In seguito alla fusione dei tre fattori, Romanesimo, Germanesimo e Cristianesimo, sorgono forme nuove di vita nei vari settori dell’attività umana. Si tratta di for­me assai inferiori a quelle realizzate dalla civiltà latina, assai inferiori a quel­le proposte dalla civiltà cristiana; la primitività barbarica, imponendosi con la for­za al mondo latino-cristiano, produsse un abbassamento della temperatura della civiltà, che agli intellettuali del sec. V° e del sec. VI°, particolarmente ai pontefici, memo­ri delle conquiste civili del mondo romano, fecero l’impressione di un crollo disastroso di tutta la struttura dei vivere umano.

   Ma sarebbe sciocco pensare che l’inserzione del mondo germanico nei mondo latino abbia costituito soltanto una sciagura storica: nell’organismo della vecchia civiltà latina infatti, ormai esaurita, furono immesse forze giovani, che, per quanto primitive, con­tribuirono a dare una nuova fisonomia e un nuovo indirizzo all’Europa,

Vediamo come si verifichi la fusione dei tre fattori nei vari campi dell’attività uma­na e a quali nuove forme di vita essi diano origine.

a)-Nel campo economico:

    A potenziare l’economia romana contribuiscono tutti e tre i fattori della ricchezza, cioè agricoltura, industria e commercio. Le varie parti del mondo romano sono allacciate fra loro da rapporti commerciali intensissimi, che sono facilitati dall’uso della mone­ta. Si tratta, dunque,  di una economia integrale e aperta. L’agiatezza è diffusa ovunque, specie nelle città grandi. Tuttavia l’economia romana ha un grave difetto: promuove e utilizza il lavoro, ma lo disprezza come attività da riservare agli schiavi.

   I Germani, popolazioni primitive, usano procurarsi i mezzi di vita, con la caccia e la guerra, assai raramente con l’esercizio delle attività produttive pacifiche. I capi guer­rieri si piazzano nelle ville degli ex-proprietari romani non in qualità di direttori di azienda, ma di sfruttatori del lavoro dei latini ridotti servi della gleba. Vengono meno i commerci interprovinciali, vengono meno le industrie: unica a sopravvivere, benché ri­dotta ai minimi termini, è l’agricoltura; un misero artigianato a servizio degli eccle­siastici vivacchia nelle città; un più misero artigianato è aggregato alla villa o alla corte del latifondo. Interrotti i rapporti fra città e campagna o contado (=comitatum=terra del conte), nell’ambito dello stesso fondo vengono effettuati scambi non con la mone­ta, ma col baratto di merci. Economia esclusivamente agricola e chiusa, dunque. L’aristocrazia guerriera vive nell’agiatezza, la popolazione vive, generalmente, nella mise­ria. Al tempo dei regni romano-barbarici, dunque, la gloriosa economia romana crolla e le attività produttive ristagnano.

   A ravvivare la situazione viene la Chiesa. Il Cristianesimo proclama, la santità del la­voro e l’obbligatorietà di esso per tutti. I Benedettini congiungono alle attività dello spirito il lavoro agricolo: le terre monasteriali sono giardini; frati venuti da diverse parti d’Europa diffondono coltivazioni nuove; i conventi delle più lontane regioni si scambiano prodotti. Piccoli proprietari, per sfuggire o al fisco o alle soverchierie dell’aristocrazia barbarica, donano i loro possessi ai conventi e passano al servizio di essi in qualità di coloni liberi.  Il lavoro considerato non solo come mezzo di produzione, ma come dovere e come alta espressione di umanità; la tendenza ad allacciare rapporti com­merciali con tutto il mondo cristiano; il colonato libero, la diffusione dei contratti enfiteutici che rendono possibile la piccola proprietà, sono fattori di una economia nuo­va che troverà nel Comune l’ambiente più adatto per affermarsi.

b)-Nel campo giuridico.

  Roma considera la legge in un primo tempo (nel periodo repubblicano) come espressione della volontà del popolo; in un secondo tempo (nel periodo imperiale) come  espressione della volontà dei principe: quod principi placuit illud legis habet vigorem. La legge è universale, cioè vale per tutte le popolazioni incluse nell’impero. Il diritto romano, benché accolga principi ripugnanti alla ragione (nega, infatti, la personalità allo schiavo; esagera i poteri dello stato), tuttavia è il più ricco e preciso complesso di nor­me private e pubbliche che la storia ricordi.

   Presso i Germani la legge è espressione della volontà degli uomini liberi di que­sta o quella tribù. Quante sono le tribù, tanti sono i codici; e, nel complesso, si tratta di un diritto assai primitivo: si riduce quasi esclusivamente alle norme pe­nali, che sono basate sul criterio della vendetta e della multa pecuniaria. Nessuna specificazione dei diritti dei cittadini, dei diritti dello stato, dei rapporti re­ciproci tra i cittadini, dei rapporti fra sudditi e autorità. E’ un diritto che ri­vela un mondo ristretto in quanto provvede genericamente ai rapporti tra famiglia e famiglia; un diritto che chiaramente riflette la preoccupazione dei casati di salvaguardare le persone e le cose loro.

   Nei regni romano-barbarici, per garantire alle famiglie germaniche la possibilità di soddisfare l’ambizione di comandare e di legiferare, specie nell’epoca feudale, si crea una gerarchia infinita di capi e sottocapi (re, duchi o conti, vassalli, valvassini, valvassori) nella quale, venute meno le assemblee popolari, ogni casato possa assicurarsi un posticino direttivo.

   La Chiesa afferma che la legge è interpretazione dell’ordine universale creato da Dio; che la legge è uguale per tutti, essendo gli uomini uguali; che l’autorità è vo­luta da Dio e che da Dio essa ha il potere di obbligare i sudditi; che il governo è un nobile servizio prestato dai migliori alla comunità.

    Dalla fusione di queste tre concezioni giuridiche risulta la legge del futuro Co­mune: essa è definita dall’assemblea delle famiglie, è valida per tutti i cittadini, è garantita da un governo democratico. Ma esistono tanti codici di leggi quanti sono i Comuni; cioè nel campo giuridico, come in tutti gli altri campi, si afferma la va­rietà nell’unità: la varietà delle leggi, l’unità dei principi che le ispira.

c)-Nel campo sociale.

    Le società primitive sono divise in classi profondamente differenziate tra loro, in quanto le famiglie più forti e più ricche godono non solo di tutti i diritti po­litici e civili, ma anche di privilegi; mentre le altre sono oppresse da gravi pesi.

   Anche Roma, all’inizio della sua storia, era passata, attraverso questa fase clas­sista; ma già nel quarto secolo a.C. l’aveva superata. Il diritto romano (salvo la vergognosa eccezione fatta per gli schiavi) aveva affermato l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge; e negli ultimi tempi dell’Impero, Romani, Italici, provinciali, barbari federati, tutti godettero della civitas romana.

   Con la venuta dei barbari si ritorna indietro. La società è divisa in quattro clas­si: aristocrazia guerriera, onnipotente nell’ambito della sua giurisdizione; clero, abbastanza sicuro perchè protetto dalla venerabilità della religione; artigiani di città, liberi ma senza diritti politici; servi della gleba, in condizioni di semi­schiavitù.

   Il Cristianesimo, affermando il principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini, non riuscì certo ad eliminare la disuguaglianza, ma attenuò la violenza di essa. Diffuse il concetto che il valore dell’uomo non è costituito dalla nobiltà di san­gue, né dalla ricchezza, né dalla potenza, ma dal patrimonio delle virtù naturali e soprannaturali; e, alimentando con gli stessi principi lo spirito dei vincitori e dei vinti, alla fine riuscì a creare una società nuova in cui rimasero bensì le clas­si, ma furono eliminate le distanze fra di esse dal rispetto reciproco, imposto dal­l’unità della fede religiosa e dalla soggezione alla medesima legge: preparò, così, la società del Comune.

d)- Nel campo politico.

E’ caratteristica delle civiltà elevate la capacità di organizzare vasti comples­si politici: la tribù è caratteristica delle civiltà primitive; la nazione è caratteristica delle civiltà medie; gli imperi sono espressione di civiltà elevate. Roma organizza e civilizza il più potente impero della storia: a tutti gli abitanti di esso, con la “Constitutio Antoniniana” (di Caracalla nel 212) viene concessa la citta­dinanza romana. Tutte le Provincie possono apportare il loro contributo al benessere comune dell’Imperium e possono dare all’amministrazione di esso magistrati, generali, giuristi. Popoli di svariate nazionalità vengono saldamente collegati col centro, fusi in un’unica civiltà, resi coscienti ed orgogliosi di appartenere al medesimo mondo romano.

   I Germani, popolazioni primitive, conoscono solo l’organizzazione politica della tribù: essi sogliono eleggere un re solo in tempo di guerra; in tempo di pace ogni gruppo si amministra da sé. Quando si stabiliscono nel mondo latino hanno un re an­che in tempo di pace, ma l’autorità di lui è puramente nominale, perché i duchi lot­tano vigorosamente per mantenere la loro autonomia. Così il mondo latino occidentale si fraziona in svariati regni, e ogni regno si fraziona  in svariati settori ammini­strativi autonomi: cessa tra le varie regioni dell’occidente la libera circolazione di una vita comune.

   La Chiesa è cattolica cioè internazionalista per sua natura, avendo voluto Gesù Cristo organizzare in essa i fedeli di qualsiasi parte del mondo. Roma, venuta meno la sua funzione politica universale, continua ad esercitare la sua missione univer­salistica nel campo religioso. Il progetto della ricostruzione dell’unità del mon­do latino, in nome dell’universalismo romano e cristiano, vagheggiato dai papi da quando i barbari avevano frazionato l’Imperium, viene attuato nell’ 800 per opera di Leone III° e di Carlo Magno. Si giunge così ad una conciliazione fra l’individuali­smo politico germanico e l’universalismo politico romano-cristiano: sorge la respublica Christiana che accoglie in un unico organismo sociale tutti i fedeli del mondo sotto la vigilanza di una autorità spirituale e di una autorità politica, ambedue universali; ma le singole comunità di questo immenso organismo godono piena autonomia nel campo amministrativo politico (autonomia dei regni e dei feudi) e, benché in forma ridotta, anche nel campo amministrativo religioso.

   Riassumendo. Nel campo economico, giuridico, sociale, politico, Roma crea istitu­zioni e promuove attività di natura complessa, organica e universalistica.

   I Germani si presentano con istituzioni a carattere primitivo e individualistico, riducono le attività della vita a solo esercizio di comando militaresco, frazionano l’organismo vasto e solido della Società latina in una infinità di settori e sotto-settori: ma hanno il merito di favorire lo sviluppo della originalità dell’individuo. La Chiesa con i suoi principi e le sue istituzioni a carattere universale e soprannaturale, potenzia ciò che di buono è nella civiltà romana e purifica le fresche energie delle stirpi germaniche.

Si afferma così, da una parte, un universalismo che favorisce l’unificazione spirituale di popoli che prima neanche si conoscevano; dall’altra, un autonomismo individualistico che permette alle energie particolari di trovare la loro strada e di svilupparsi in modo originale.

L’unità nella varietà è la caratteristica fondamentale della nuova civiltà romanza.

e)- Nei campo religioso.

     I Romani, che avevano raggiunto elevate forme di civiltà in svariati campi dell’attività umana, quanto alla religione non avevano superato che di poco la men­talità e il culto dei primitivi.

   Adoravano le forze misteriose della natura, simboleggiate in personaggi sovru­mani che rassomigliavano a signorotti potenti, niente affatto forniti di attributi veramente divini. In essi i romani vedevano i legislatori di questo o quel settore della natura, i vigili custodi di questa o quella attività umana. Ma per una strana contraddizione, gli dei venivano presentati come i contravventori più spregiudicati delle leggi che essi stessi avevano promulgato: il gruppo dei signo­rotti dell’Olimpo dava troppo spesso indegno spettacolo di accese passionalità e di indecorose baldorie. Sulla terra i mortali invocavano la protezione degli dei per concludere felicemente le loro imprese sia gloriose che volgari: è evidente, in una religione di questo genere, l’intenzione di trovare negli dei i difensori e i giustificatori degli interessi privati e pubblici, e delle umane passioni. La re­ligione classica si riduceva, così, ad una specie di commercio fra gli dei protettori e gli uomini protetti: era del tutto ignoto il concetto dell’amore dell’uomo alle divinità e del dovere che hanno i mortali di imitare le perfezioni divine. E’ per questo motivo che i romani si limitavano a tributare agli dei un culto privato e pubblico assai lussuoso e generoso. I Germani, popolazioni anche in fatto di religione più primitive dei romani sono politeisti rozzi, che considerano gli dei come forze benefiche o malefiche da propiziare o da placare attraverso i riti di un culto più o meno disumano e feroce. La religione è da essi coltivata con un evidente senso di terrore e con una mentalità assai più utilitaristica di quella dei romani: sembrano più seri dei popoli classici, ma sono più chiusi e superstizio­si.

   Il Cristianesimo afferma con chiarezza la trascendenza, l’infinità, l’unicità di Dio e formula le più splendide definizioni della divinità: “Dio è l’essere”, “Dio è amore”. L’unica manifestazione autentica di Dio sulla terra è Gesù Cristo. La religione è adesione amorosa di tutto lo spirito della creatura al Creatore, adesione da realizzarsi attraverso la concordanza piena del pensiero, del cuore e della volontà con Gesù Cristo, costituito intermediario fra l’umanità e la divinità. Una società nuova, chiamata dal fondatore “regno di Dio”, propugna una civiltà soprannaturale, in cui le attività terrene o naturali non solo non vengono svalutate, ma sono convogliate verso una meta sublime, cioè verso l’infinito. Gli uomini, in forza della nuova religione, sono tutti fratelli e costituiscono una “Respublica” spirituale senza confini.

   Il Cristianesimo eliminò dalla circolazione le varie forme della mentalità e del culto pagano, però accolse dalla civiltà romana le istituzioni amministrative e civili, che si adattavano alle esigenze della amministrazione ecclesiastica, come accolse le forme dell’arte per edificare ed ornare i suoi templi e utilizzò le elaborate ed eleganti forme letterarie dei classici per esprimere in versi e in pro­sa il suo sentimento. In forza del Cristianesimo Roma diventò la capitale di una comunità religiosa senza confini, vera capitale del mondo in quanto il Cristiane­simo non ha confini di razza e di civiltà. Così quando decadde definitivamente l’impero, della vecchia capitale, cervello politico e civile dell’Europa, non restò che la fama; un mondo più vasto di quello contenuto nei vecchi confini del­la repubblica latina guardò ancora a Roma; ed ebbe motivo quel mondo di guardare a quella città, perché proprio da essa venne la luce di una civiltà che congiungeva le forme della vita soprannaturale e della Grazia con quelle della perfezione naturale e della ragione.

   Se il Romanesimo diede al Cristianesimo le forme della attività amministrativa, le forme espressive artistico-letterarie, una capitale gloriosa e famosa, il Cristianesimo alla civiltà latina che si stava esaurendo per la vecchiaia e per soffo­camento provocato dal sopravvento dei Germani, diede a sua volta uno spirito nuovo, una missione ed una funzione più elevata ed un universalismo più umano e più vasto a cui è ignota, come dice S. Paolo, la distinzione tra barbari, romani, Greci, Ebrei, la distinzione fra nazione e nazione.

   L’attività e l’abilità di pontefici illustri riuscirono a conquistare alla Chiesa tutto il mondo germanico latinizzato e quello germanico puro; cosicché fu possibile realizzare nel Natale dell’800 il sogno di una “Respublica” immensa, a carattere cristiano-romano-germanico (Sacro Romano Impero).

   Era naturale, però, che l’evento barbarico, come aveva abbassato con la sua pri­mitività la temperatura del Romanesimo, così abbassasse anche la temperatura del Cattolicesimo. Infatti il cristianesimo germanizzato presentò evidentemente forme pri­mitive: resti di idolatria, superstizioni, rozzezza disciplinare, misticismo esa­sperato, sopravvento dell’autorità sulla Chiesa abbassarono miseramente il tono del­la religione cattolica, specie nel periodo che intercorre fra il secolo IX° e la metà del secolo XI°. Tuttavia il cristianesimo, affermando il principio della fra­tellanza universale, professando ovunque lo stesso complesso di principi e le stes­se norme morali, celebrando le sue feste in tempi uguali e con riti identici, usan­do la medesima lingua (il latino dotto medievale), istituendo monasteri, vescovadi quali centri di cultura e di civiltà, oltre che di vita religiosa, collegando infi­ne tutte le città con Roma, contribuì in modo efficacissimo a creare una spirituali­tà unitaria e quel che più conta altamente umana in tutto il continente europeo.

   E’ certo che se non fosse esistito il Cristianesimo, anche l’influsso del Romanesimo sulla civiltà moderna, sarebbe stato meno sensibile e il sopravvento delle stirpi germaniche, ancora primitive, avrebbe abbassato assai di più il tono della civiltà.

f)- Nel campo della morale

I Romani avevano realizzato forme di vita esteriori mirabilmente fini ed eleganti: nel costruire edifici, nel lusso privato e pubblico, nel1’organizzare la vita po­litica, avevano saputo unire l’utile e il bello, la praticità e l’idealità.

   Ma, dal punto di vista morale,  la spiritualità presentava delle deficienze deplo­revoli; il principio “fa tutto quello che la natura ti suggerisce purché usi pruden­za e decoro” permise agli uomini del vecchio mondo latino turpitudini morali assai disonorevoli, evidenti perfino nella celebrazione dei riti religiosi.

   E’ troppo poco per una morale contentarsi che l’uomo non rechi danno materiale a sé stesso e alla patria e non cada in volgarità esteriori: la vera civiltà è anzi­tutto razionalità ed ordine spirituale.

   Il Cristianesimo ha compiuto questa opera di civilizzazione interiore dell’uomo imponendogli lo stile della razionalità perfetta e uno stile di perfezione soprannaturale il cui precetto essenziale e, per così dire unico, è quello dell’amore di Dio e del prossimo.

    Quelle forme di saggezza che nel mondo classico erano riuscite a realizzare solo pochissimi uomini (Aristotele, Socrate, Platone) nel mondo cristiano invece diven­nero comuni e furono di gran lunga superate dall’esercizio delle tre virtù sopran­naturali: Fede, Speranza, Carità.

    Se il mondo pagano aveva contato degli eccellenti eroi nel campo civile e milita­re, il cristianesimo seppe darne in numero incomparabilmente superiore ed eccellen­ti sotto tutti gli aspetti.

    Per questo motivo, mentre i principi della vecchia morale pagana di ispirazione naturalistica, stavano svigorendo la stirpe romana, cosicché Tacito preferiva i bar­bari della Germania ai suoi concittadini, il Cristianesimo risollevò le sorti civi­li del mondo romano e riuscì non solo a superare la crisi spirituale dell’Impero, ma ad affrontare trionfalmente l’Opera di civilizzazione delle varie stirpi germa­niche, che, per quanto fossero invidiate da Tacito, erano tuttavia anche esse dal punto di vista morale in stato di rozza primitività. Il Cristianesimo conservò la forma di civiltà esteriore creata dai Greci e dai Romani ed aggiunse il fattore che più contava cioè quello di una elevata disciplina interiore.

   Il principio del naturalismo pagano secondo il quale è lecito e quasi doveroso da­re sfogo a tutti gli impulsi della natura, fu sostituito dal principio cristiano secondo il quale gli impulsi della natura debbono essere assecondati solo in vista e nei limiti dei fini ai quali essi servono. Ne derivò uno stile di vita meno chiassoso e meno spensierato, ma, in compenso, più fattivo e più umano: non si può ne­gare che la disciplina degli istinti sia un potente fattore di elevazione della ci­viltà.

L’opera del Cristianesimo fu tanto più preziosa in quanto si svolse in un periodo storico in cui i Romani che disprezzavano i barbari come se fossero delle bestie, e i barbari disprezzavano i Romani come se fossero degli effeminati, si trovarono di fronte gli uni gli altri, anzi incominciarono a vivere gli uni al fianco degli altri. Sono note le prodezze di parecchi gruppi germanici allorché si stanziarono nel territorio del ex-impero, nonostante che Papi e Vescovi cercassero di influen­zare con la loro autorità i capi delle varie bande barbariche: si può immaginare co­sa sarebbe avvenuto se quell’influsso fosse mancato del tutto.

   In breve tempo anzi Latini e Germani si affratellano in nome della comune Fede, i loro costumi si fondono e si modellano sui principi della disciplina morale cri­stiana.

Con questo non si vuol dire che i nuovi costumi benché pervasi dallo spirito cristiano presentino forme eccellenti; la zavorra della barbarie influì assai sensibilmente ad abbassare il tono dello stile di vita privato e pubblico. Vendette personali e familiari, punizioni feroci, sistemi sleali nella lotta, oppressione dei deboli, esplosioni di cruda sensualità, disprezzo generale della cultura, furono espressioni troppo frequenti nella fase di incontro fra la civiltà classica e quella germanica: espressioni di mentalità troppo vicina a quella dei primitivi. Questo abbassamento fu più evidente nei periodi in cui la forza più attiva della nuova civiltà, cioè il Cristianesimo, rallentò la pressione del suo influsso a causa della decadenza del clero; e ciò avvenne specialmente nei secoli IX° e X° fino alla metà dell’XI°, cioè nel periodo in cui i feudatari spadroneggiarono nei vescovadi e nelle abbazie a cui proponevano, in genere, persone ignoranti, rozze e scostumate.

g)- Nel campo della cultura.

Dai II° secolo d. C  la cultura romana era venuta decadendo non tanto perché fos­sero venute meno le scuole (le quali fiorirono fino agli ultimi decenni del secolo V°) quanto perché l’erudizione prevalse sulla genialità e su una salda e robusta forma­zione spirituale.

   Fortunatamente, mentre stava decadendo la letteratura latina profana, sorgeva la letteratura cristiana, la quale, portando un alimento sostanzioso ed inesauribile al contenuto, e adottando le forme più espressive e più belle inventate dai classici, fece rifiorire la prosa e la poesia romana.

   I più grandi padri della Chiesa,  intelletti dediti alla speculazione teologica e scrittori che non sdegnano di fare uso dei migliori suggerimenti dell’arte classica, riempiono di luce il secolo IV° e V°. Mentre tramonta il pensiero pagano, comincia a risplendere quello cristiano.

   Quando nei secoli V° e VI° i barbari si stanziano nelle varie provincie, vengono chiuse le scuole che in esse fiorivano. Il popolo latino ridotto in condizioni di semi-schiavitù, immiserito, escluso dalla vita politica, non ha più né mezzi né voglia di attendere alla cultura. D’altra parte i barbari, uomini primitivi, quindi rozzi e grossolani, non solo non appoggiano la cultura, ma addirittura la disprezzano. Per essi la penna è spregevole e solo la spada è apprezzabile: anche i capi supremi barbari preferiscono l’ignoranza alla cultura. Infine alcuni ecclesiastici, mossi da un inveterato sospetto nei confronti della cultura profana, volentieri vedrebbero la rovina totale e la scomparsa di essa.

   Fortunatamente, però, la Chiesa ufficiale e l’ordine religioso dei benedettini, proprio nel   momento di maggiore crisi per la cultura classica, si assumono il compi­to di mantenerne desti la memoria e l’esercizio.

   S. Benedetto propone come motto ai suoi monaci:  “Ora et labora“; Cassiodoro, fonda­tore del monastero, del vivaio,  interpreta il “labora” anche come obbligo di attività culturale e impone perciò ai suoi monaci l’obbligo di esercitarsi nella cultura classica e di trascrivere le opere dei grandi prosatori e poeti antichi.

   Egli scrive le “Institutiones”, una specie di enciclopedia in cui vengono esposte le nozioni essenziali intorno ai più importanti argomenti profani e sacri e in cui vengono indicate le opere dei più famosi scrittori alle quali ricorrere per completare le varie nozioni (una specie di bibliografia).

   E siccome la conoscenza del greco in Occidente va man mano decadendo, Severino Boe­zio si propone di tradurre tutte le opere di Aristotele e di Platone e di commentarle: la morte gli impedisce di   realizzare gran parte del suo proposito.

   Nei vari monasteri sorgono scuole e sono esse gli unici centri di cultura nelle varie zone del mondo romano-barbarico. I conventi più famosi sono: MONTECASSINO, FARFA, BOBBIO, NONANTOLA, SAN GALLO, FULDA, CLYNY, BANGOR; in questi monasteri vi sono scuole, scrittori (luoghi ove si ricopia­no i testi antichi sacri e profani) e biblioteche. Le materie che si insegnano in que­ste scuole sono: grammatica, dialettica, retorica che costituiscono le arti del trivio. La grammatica è lo studio della lingua latina dotta;  la dialettica è lo studio della logica; la retorica è lo studio dell’arte del comporre. L’aritmetica, la geometria, la musica, l’astronomia (che più tardi costituiranno le arti del quadrivio), non ven­gono coltivate durante il corso dell’alto medioevo.

La lingua che viene adottata nei monasteri e nei vescovadi è quella latina dotta. Dei classici più che le opere intere vengono letti passi scelti, raccolti in “flo­rilegi” o “antologie”, e i brani preferiti sono quelli ricchi di sentenze morali. I copisti dei monasteri trascrivono nei codici anche le opere di scrittori pagani, che lasciano molto a desiderare dal punto di vista della moralità. Ma di queste opere si dà una interpretazione allegorica di senso morale: il vizio presentato in certe opere di Ovidio come trionfante sulla virtù, è allegoricamente interpretato co­me il demonio che trionfa sull’anima.

   E’ bene in questo punto esaminare l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della cultura pagana. In un primo tempo la Chiesa si dimostrò ostile verso i classici che rappresentavano gli esponenti di una cultura imbevuta di errori religiosi e morali. In un secondo tempo, e precisamente al tempo degli apologisti del II° e III° secolo, gli intellettuali cristiani, pur combattendo il pensiero pagano, non spregiarono le finezze dello stile dei classici. Nel IV° e V° secolo scrittori cristiani, ecclesiasti­ci e laici, volentieri si appellano all’autorità di scrittori pagani nei loro trat­tati morali e storici, e volentieri fanno uso della forma elaborata che ha reso glo­riose le opere degli scrittori antichi. Lattanzio, S. Girolamo, S. Agostino, S. Am­brogio, adottano uno stile che si avvicina molto a quello dei classici. Ma ciò che più contribuì ad una riconciliazione totale tra i classici profani e il cristianesimo, fu il pensiero di S. Agostino relativo alla illuminazione. L’intellet­to umano, dice S. Agostino,  si trova di fronte alla verità come un occhio vivo di fronte agli oggetti da vedere; e come la visione dell’occhio non è possibile se non c’è la luce, così non è possibile che l’intelletto veda la verità se non v’è una lu­ce interiore: tale luce viene comunicata dal Verbo,  il quale illumina ogni uomo che viene nel  mondo e che ha illuminato quindi anche i pensatori pagani.

   Tale illuminazione dei pagani ha avuto la sua ragione d’essere nel piano della Provvidenza: Dio attraverso le verità scoperte dai pensatori greci e romani doveva pre­parare il campo all’avvento della verità assoluta. Da qui l’ansia degli intellettuali cristiani di ritrovare, nelle opere dei classici, spunti che preludessero ai principi filosofici ed etici della Chiesa. Orazio, Lucano, Seneca, lo stesso Ovidio vengono considerati come scrittori morali, spiritualmente molto vicini alla morale cristiana. Virgilio poi viene considerato addirittura come un profeta del cristianesimo, per la famosa predizione della nascita di un fanciullo rigeneratore della umanità, contenuta nella IV° egloga.

   Ma l’attenzione dei pochi studiosi del Medioevo era tutta rivolta alla cultura re­ligiosa, cioè alla interpretazione della sacra Scrittura, all’esame dei dogmi, all’o­ratoria sacra, alla storia ecclesiastica. Quindi le opere più comuni, nell’Alto Medioevo, sono commenti alla sacra scrittura e ai dogmi, cronache e storie di argomento o almeno di ispirazione religiosa,  raccolte di prediche o di racconti edificanti.

   Questo spirito ecclesiastico pervase, si può dire, tutte le manifestazioni della modesta cultura alto-medievale. Se in questo periodo qualche scrittore laico si dedica alla composizione di qualche opera, sente anche egli il bisogno di inquadrare gli sviluppi dei suoi temi nella spiritualità della Chiesa.

   Di laici che si dedichino alla cultura in questo periodo il numero è ben esiguo: dopo la fine del secolo VI°,  la prima volta che si rivela un certo interesse per la cultura nel mondo dei laici, è al tempo di Carlo Magno, il quale istituì nella sua corte una “Schola” detta “Palatina”.

   Il grande imperatore, pur non avendo una grande cultura letteraria, anzi pur non sapendo neanche scrivere, era amantissimo del sapere e se non poteva egli stesso a causa delle eccessive occupazioni, attendere allo studio, voleva che almeno si eru­dissero gli uomini della corte: perciò accolse nel suo palazzo di Aquisgrana il mona­co inglese Alcuino, Paolo Diacono Longobardo,  il tedesco Eginardo. Eginardo scrisse la vita di Carlo; Paolo Diacono, la storia dei Longobardi; Alcuino alcuni commenti critici ad opere classiche e sacre; una nipote di Carlo, di nome Erosvita, scrisse alcune commedie di argomento e di ispirazione religiosa.

La scuola palatina fiorì solo durante la vita di Carlo e poi decadde.

h)-Nel campo artistico.

I pittori e scultori greci e romani avevano preso a modello la natura, proponendo­si di riprodurla in forme idealizzate ed eleganti. Gli architetti avevano costruito edifici privati e pubblici, sacri e profani in cui la semplicità e il decoro, la so­lidità e l’eleganza avevano realizzato un connubio perfetto: la struttura degli edifici classici è condotta col metodo della combinazione tra linee verticali e orizzontali e di un   agile gioco di pieni e di vuoti, di luci e di ombre, costituisce un modello perfetto di grazia e di buon gusto. La decorazione si ispira a motivi assai semplici, ma disposti con un perfetto criterio di proporzione e di armonia: né la grandiosità della struttura disperde la decorazione né la decorazione sopraffà le linee della struttura. La norma suprema dell’arte per i Greci e per i Romani è l’ar­monia che risulta dalla proporzione perfetta delle parti: nell’armonia è l’essenza del bello.

   I Germani non conoscono alcuna forma di arte, all’infuori di una cesellatura o di un intaglio assai primitivi con cui sogliono decorare armi o strisce di cuoio. Quando essi si stanziano nel mondo latino normalmente occupano le case private e i palazzi pubblici che essi hanno requisito cacciandone i proprietari. E, in un primo tempo, se costruiscono  nuovi edifici,  si valgono dell’opera di ingegneri e di artisti latini; in seguito anche qualche germano si dedica alla attività artistica: ma si tratta quasi sempre di soggetti che, entrati in qualche convento benedet­tino, hanno appreso le norme più elementari del disegno e dell’ornato e hanno inco­minciato a lavorare nel campo dell’arte religiosa.

   Tra i laici latini si formano o continuano ad esistere alcune compagnie di costrut­tori edili che hanno particolari indirizzi di disegno e di decorazione e segreti di tecnica (da ricordare i soci comacini). Costruttori laici e costruttori monaci, in seguito a progressivo fondersi del gusto latino e di quello germanico, vengono elaborando disegni e decorazioni nei quali si riflettono il proposito classico del­la semplicità e della linearità e il gusto germanico simpatizzante per le forme pie­ne e pesanti: ad esempio la struttura delle chiese alto-medievali riproduce nel com­plesso il disegno della vecchia basilica romana, ma rivela influssi germanici nella prevalenza dei pieni sui vuoti, nella decorazione distribuita un po’ a caso e fer­ma ancora all’imitazione di motivi tratti dalla flora e dalla fauna; la figura umana, riprodotta al massimo in modesti altorilievi, è anzitutto un motivo raro, e in secondo luogo è trattata con modellatura approssimata e rozza. Le prime chiese romaniche e i primi palazzi comunali, con la pienezza della massa murata, con i ra­ri intervalli di vuoti, con i loro portali che sembrano semplici aperture semicir­colari nel muro della facciata, esprimono un gusto assai pesante e privo di ini­ziative.

   La Chiesa, impegnata a costruire e a decorare con eleganza sempre più evoluta la casa del Signore, che è nello stesso tempo il luogo di riunione dei fedeli, promuove, agli inizi del basso Medioevo, lo sviluppo del disegno e dell’ornato introducendo motivi simbolici che non solo non guastano la semplicità della struttura, ma arricchiscono di iniziative l’ispirazione degli artisti. Sorgono cosi le gloriose costruzioni romaniche che, pur nella loro massiccia struttura, riescono, in forza di eleganti motivi di decorazione, ad assumere un tono simpatico e spigliato. Al culmine del Medioevo troveremo la più splendida delle arti medievali, quella gotica, la quale è una sintesi perfetta di motivi romani e di motivi germanici. Sia nell’arte romanica che in quella gotica non ritroviamo il puro motivo classico, in quanto struttura e decorazione presentano una straordinaria complessità e procedono con criteri liberissimi: ma nel labirinto delle linee, troviamo sempre il vecchio criterio della proporzione.

LA LETTERATURA LATINA  dell’ALTO MEDIOEVO

     Durante il corso dell’alto-medioevo nessuna opera che abbia un certo valore lette­rario è scritta in lingua volgare. Nel campo delle attività religiose e delle ammini­strazioni statali, si faceva uso del latino dotto. 

   Si tratta sempre di un latino che conserva fondamentalmente il vocabolario e le for­me grammaticali e sintattiche dell’età repubblicana e imperiale, ma assume vocaboli nuovi, dà significati nuovi a vocaboli vecchi e introduce talvolta anche forme sintat­tiche nuove: si tratta insomma di un latino che segue l’evoluzione dei tempi e quindi si può chiamare “vivo”. Quelli che usano il latino dotto non si preoccupano di model­lare ogni loro espressione su quelle usate nell’età classica, ma, avendo cose nuove da dire, creano forme nuove di linguaggio sempre sullo stampo fondamentale del latino tradizionale. Nelle relazioni private e nella vita quotidiana si usava il volgare nell’Europa occidentale, il tedesco nell’Europa centrale e settentrionale; lo slavo nell’Europa orientale (non è il caso di dire che del volgare, del tedesco e dello sla­vo esistono svariatissime suddivisioni).

La forma  o stile della Letteratura in lingua latina dotta medievale non presenta né originalità, né buon gusto. Dopo il periodo aureo del classicismo, in cui scrittori glo­riosi avevano espresso in modo vivace, decoroso, complesso e nitido nello stesso tempo, i motivi della loro ispirazione ricca e profonda, si era formato nel campo letterario lo stile retorico. Dal II° secolo in poi, fino agli inizi del 500 in tutte le Provincie dell’impero fiorirono numerose scuole, in cui i professori di letteratura insegnavano agli alunni l’arte del bello scrivere. Ma siccome l’arte del bello scrivere non s’in­segna, perché eccellente scrittore è definito anzitutto dalla sua ricchezza interiore, i vari maestri di retorica si riducono a precettisti più o meno pedanti; alcuni di essi consigliano le sottigliezze concettuali, altri l’espressione metaforica sfavillante e nuova e le allegorie complicate, altri le parole antiquate, le allitterazioni, i perio­di ritmati e talvolta legati l’uno all’altro da consonanze.

Le scuole monasteriali ed episcopali dell’alto medioevo, nell’insegnamento della re­torica seguono pressappoco lo stesso indirizzo delle scuole imperiali della decadenza. Sorgono così le “artes dictandi” o “cursus” cioè quei complessi di norme che regolano la composizione del periodo e la forma del linguaggio, secondo i diversi indirizzi delle scuole. Famoso, ad esempio, fu nell’alto medioevo il Cursus Isidorianus, usato da S. Isi­doro di Siviglia e ricavato dalle sue opere dai maestri di retorici.

La curia papale aveva il suo cursus come lo avevano la curia (o ufficio centrale di amministrazione) del sacro romano impero e quelle dei singoli re d’Europa. Ogni cursus era fondamentalmente uguale agli altri, però aveva anche delle particolarità che lo distinguevano, per cui ad un esperto non era difficile individuare da quale curia un documento diplomatico provenisse.

Le norme artificiose delle artes dictandi non furono applicate soltanto ai documen­ti curiali, ma a quasi tutte le composizioni in lingua latina dotta, sia di contenu­to religioso e morale che di contenuto storico. Quando molto tardi, e cioè agli inizi del secolo III°, in Italia e precisamente alla corte di Sicilia si userà per la prima volta il volgare per composizioni letterarie, si sentirà molto viva l’influenza del cursus o della retorica medievale; e la stessa cosa, poco prima che in Sicilia avverrà in Provenza, poiché anche qui la poesia in volgare fiorirà nelle corti.

Nel complesso la letteratura medievale, oltre ai difetti di linguaggio dovuti al­l’artificio retorico, scolastico e curiale, presenta anche notevoli deficienze di forma e di contenuto. Il contenuto, infatti, se è religioso non viene quasi mai impo­stato su basi solide di pensiero né prende quasi mai sviluppi veramente notevoli; se è morale e parenetico (esortativo) troppo spesso viene sviluppato con esempi e racconti ingenui e poco significativi; se è storico assume spesso l’aspetto di crona­ca che insiste sui particolari senza individuare il significato e le cause dei fatti.

Numerosissime sono le liriche religiose nel tema e nell’ispirazione: inni a Dio, alla Vergine, ai santi venerati in tutta la Chiesa o in luoghi particolari. Però gli inni veramente belli sono rari (è famoso l’inno che cantavano le sentinelle modenesi che facevano guardia sulle mura durante l’invasione magiara).

     L’innografia alto-medievale se non ha grande importanza estetica, ha tuttavia no­tevole importanza storica, in quanto già presenta alcune particolarità tecniche che preludono alla poesia in volgare, che si affermerà nei secoli XII° e XIII° (tali par­ticolarità sono specialmente due: l’introduzione della metrica accentuativa e della rima).

    Nel complesso, dunque la letteratura alto-medievale non ha avuto espressioni notevo­li dal punto di vista dell’arte: si tratta di opere che hanno più importanza per la storia della lingua, della tecnica letteraria, dei costumi, della politica e della religione, che per la storia della poesia. Ma è da notare che una civiltà in elaborazione, cioè ancora fanciulla, non può darci che espressioni ancora primitive, ossia ancora ingenue e rozze: non si può pretendere da un mondo che si sta formando, le espressioni adulte e complesse che si chiedono ad un mondo già formato.

   Lo stesso abbandono della cultura da parte dei laici, storicamente non poteva non verificarsi, perché una civiltà primitiva quale era quella dei Germani, non poteva apprezzare le lettere e le arti e quindi non poteva favorire la fioritura di esse né privatamente, né pubblicamente. Le vicende storiche, come in tutti i secoli, anche nell’alto Medioevo hanno avuto il loro influsso sullo sviluppo delle lettere e delle arti. Mentre i Germani si stanno stanziando nelle provincie dell’ex-impero, le popolazioni latinizzate, rallentano, ma non cessano la loro attività culturale.

   Quando i Germani ormai affermatisi nei territori conquistati, hanno il sopravvento politico, la cultura pubblica muore; quando, con Carlo Magno, si ha una prima espressione di vita unitaria, nell’Europa centro occidentale, una specie di prima coscienza della nuova civiltà che si sta formando, anche la cultura ha la sua manifestazione civile e unitaria nella corte del Sacro Romano Impero, per opera di uomini venuti dalle di­verse parti della Respublica Christiana.

   Quando, poi, nella seconda metà del secolo IX° e in tutto il secolo X°, l’impero è in crisi, e il feudalesimo, sfruttato e manovrato dalla aristocrazia militare di origine germanica, controlla conventi, vescovadi, parrocchie, la cultura ritorna a languire: i conti e i marchesi, infatti, come i loro vecchi antenati, preferivano l’attività guerresca al culto delle arti liberali e preferivano piuttosto sudditi ignoranti, facili a tenersi soggetti, che sudditi colti, I conventi che erano stati centri di cultura, in questo periodo (eccetto quelli di Germania), decadono. Il secolo X° è appunto detto l’età ferrea della Chiesa, ma si potrebbe dire anche “età fer­rea della cultura”.

   Alla metà del secolo X° la Chiesa inizia la sua riscossa religiosa e morale, ed allora anche la cultura riprende il suo cammino, che diventerà sempre più glorioso e si concluderà con S. Tommaso, con Giotto, con Dante.

                                      Conclusione

   Più che di Italia o Francia o Germania ecc, ossia più che di questa o quella nazione singola, nell’alto Medioevo si può e si deve parlare di Respublica Christiana, cioè di una comunità immensa i cui membri, individui e popoli, professano la stessa fede religiosa e sono amministrati da due autorità supreme, unica e universale ciascuna nel suo campo: dal Papa nel campo spirituale, dall’Imperatore nel campo politico. L’universalismo cristiano riesce a dare una fisionomia spirituale unitaria ad un mondo frazionato in un infinità di famiglie etniche dalle indoli più diverse.

E’ la Chiesa cattolica che fa da madrina e da madre ai popoli che la storia ha unito nell’ambiente della civiltà romanza; è la Chiesa che ispira non solo la loro formazione religiosa, ma anche la loro evoluzione culturale e civile: il Papa da Roma, i vescovi nelle singole diocesi, i conventi nei centri urbani e nelle zone solitarie rurali, promuovono con intelligenza e zelo più o meno intense, più o meno costanti, la graduale ascesa del mondo romanzo dalla temperatura civile assai bassa della fine del V° secolo, a sempre più elevate forme di spiritualità e di espressio­ne.

   Si tratta di una Respublica Christiana che dal punto di vista organizzativo pre­senta deficienze non lievi: basta notare, a questo proposito, che le autonomie lo­cali, sia delle diocesi che dei feudi, svigoriscono l’autorità dei due capi supremi, cioè del Papa e dell’Imperatore. Eppure in tutti i   membri di questa immensa co­munità è viva la coscienza di appartenere allo stesso organismo spirituale e po­litico: e questa coscienza è un ottimo fattore di unità spirituale nel mondo delle nascenti nazioni moderne.

   In forza di questa fisionomia generale unitaria che assume il mondo europeo, nel periodo sec. V° – sec XIV°, per opera del Romanesimo e del Cristianesimo, possiamo definire “romanza” tutta l’epoca medievale e “romanze” possiamo chiamare tutte le nazioni del Continente senza alcuna distinzione etnica.

   Il termine “romanzo” inteso nel suo senso più generico oggi vale lo stesso che “medievale”, appunto perché l’intonazione unitaria alla civiltà dei tre settori dell’Europa fu data dalla Romània, cioè dal settore occidentale, ove dapprima si verificò la fusione dei tre fattori: Romanesimo, Germanesimo, Cristianesimo.

   I rinascimentali, gli illuministi, gli scientisti si sono compiaciuti di presen­tare il medioevo come epoca di nera barbarie, di rozza primitività; e, specie gli illuministi e gli scientisti, hanno volutamente caricato le tinte per denigrare la Chiesa che di quell’epoca fu la maestra e l’assistente. E’ vero che l’alto Medioevo presenta forme primitive di vita, ma bisogna rico­noscere che, come i bambini, così anche le nazioni nella fase di formazione non pos­sono esprimersi in forme evolute ed adulte; e, soprattutto bisogna riconoscere che al mondo più caotico che la storia abbia mai presentato, la Chiesa seppe dare almeno una struttura spirituale unitaria e seppe infondere i principi e le energie di una evoluzione ideale di cui anche noi oggi godiamo alcune conseguenze.

BASSO MEDIOEVO

   Come gli individui e le singole generazioni hanno la loro fanciullezza, la loro giovinezza, la loro maturità e la loro vecchiaia, così anche le epoche storiche hanno la loro fase di formazione, di maturità e di tramonto. Dall’epoca medievale, il periodo alto è fase di formazione, il periodo basso è fase di maturazione, il periodo in cui a fianco della vecchia civiltà romanza sorge una civiltà nuova (quel­la del Rinascimento) è fase di tramonto.

Ambiente storico del basso medioevo.

   Abbiamo visto come, nell’Alto Medioevo, popoli che non si erano mai conosciuti fra loro si incontrano per la prima volta; e come l’unità religiosa e politica della Respublica Christiana favorì i rapporti e quindi gli scambi, di ordine materiale e spirituale, fra le giovani nazioni romanze.

   Il potenziamento della civiltà, avvenuto attraverso questa rete di rapporti che resta ignota alla storia abituata ad annotare i fenomeni più evidenti e più clamoro­si, ha la sua espressione giovanile nei secolo XI°.

   Questo secolo è denominato secolo della “Rinascita”, perché dalla metà di essa si nota in tutte le nazioni dell’Europa occidentale e centrale un risveglio di attività, che segna l’inizio di un periodo nuovo nella storia del nostro continente. Alcuni hanno favoleggiato che tale risveglio sia da attribuirsi alla mancata fine del mon­do, che sino all’anno 1000 le genti del Medioevo avrebbero temuto in base a una espressione mai pronunciata da Cristo: “Mille e non più di mille”: dopo il mille non essendo crollato il mondo, la gente avrebbe ripreso coraggio e avrebbe deciso di sve­gliarsi. Questo secondo la favola.

   La verità, invece, è che, dopo la puerizia e la fanciullezza, l’Europa moderna entrava nella fase della sua giovinezza, per giungere, poi, agli inizi del secolo XIV°, alla maturità.

I fenomeni più importanti che si verificano in questo periodo sono i seguenti:

1)- Aumento della popolazione in ogni parte dell’Europa. Con l’incremento demogra­fico vanno connessi i seguenti fatti:

a)-Diminuiscono le tracce differenziali tra le varie stirpi che si sono fuse nel­la unità di ogni singola nazione, perché man mano che si susseguono le generazioni, si definisce sempre più chiara la fisionomia delle stirpi fuse e si afferma sempre più la coscienza della nazionalità.

b)-Col crescere delle persone crescono i bisogni, col crescere dei bisogni si in­ventano nuovi mezzi di produzione e nuovi sistemi di rifornimento: cresce l’attività agricola, si sviluppa l’artigianato e si risveglia il commercio; entrano in uso nuo­vi contratti agricoli, va scomparendo la servitù delle gleba, si diffondono il colo­nato libero e la piccola proprietà, si moltiplicano le fiere e le piazze commerciali

c)- Diventano più frequenti i contatti fra città e campagna, fra città e città, tra feudo e feudo: col moltiplicarsi dei contatti si intensifica lo scambio delle idee, delle usanze, dei ritrovati del progresso.

2)- Decadenza del feudo e rinascita delle città. Il sistema ereditario nel regime feudale era duplice: in alcuni feudi vigeva il diritto del maggiorasco per cui l’eredità era riservata al primogenito e in tal caso il patrimonio restava sempre intatto; in altri, invece, l’eredità era divisa fra tutti i figli, e in tal caso, dopo alcune generazioni, il patrimonio era frazionato in modo da non garantire più una potenza temibile o almeno rispettabile all’erede.

  E’ chiaro che le zone in cui il frazionamento dei feudi è progressivo sono de­stinate in breve tempo ad una evoluzione politica e civile addirittura radicale. Infatti la città che, nell’alto medioevo, era stata sotto il dominio e il con­trollo del conte e si era trovata in condizioni di inferiorità rispetto al castel­lo feudale, ora riprende vigore e sorpassa in importanza e potenza le sedi feudali.

   Gli Ottoni, per indebolire la potenza dei feudatari, avevano sottratto il maggior numero possibile di città al controllo dei medesimi, concedendo specialmente a quel­le che erano sedi vescovili l’immunità e l’autonomia. Così, passando sotto l’ammini­strazione del vescovo, la città gode di maggiore libertà e può essere curata meglio, perché chi la governa ha da pensare solo ad essa.

   Vengono restaurate le mura, che o sono state abbattute secoli prima dai barbari invasori o sono crollate per trascuranza; vengono organizzati regolari servizi di rifornimento delle merci necessarie alla vita familiare e cittadina; vengono isti­tuite scuole; vengono addestrate ed armate le milizie, insomma la città diventa un piccolo mondo più garantito dal punto di vista della sicurezza, più attivo, più ric­co di risorse commerciali, più colto e più civile nei confronti del castello, del conte solitario nella campagna. E’ per questo motivo che i cavalieri ossia i ca­detti dei feudi maggiorascali, ed i proprietari dei feudi sminuzzati per eredità universale, abbandonano la campagna e si stabiliscono in città.

   Quando in seguito alla riforma di Gregorio VII° vennero cacciati dalle città i vescovi altezzosi e prepotenti, investiti o dall’imperatore o dai re o dai grandi feudatari, e a posto di essi furono eletti uomini degni per santità di costumi e per cultura, le città ebbero allora più libertà e i cittadini stessi dal vescovo che attendeva all’esercizio della sua missione spirituale ebbero il permesso di ammini­strarsi da sé.

3)- Nascita del Comune. Sorse così il “Comune” cioè regime di amministrazione col­lettiva della città. Con l’affermarsi di questo regime essenzialmente democratico, si afferma in pieno anche la libertà politica; e siccome la libertà permette a cia­scuno di esprimere le proprie energie e favorisce le iniziative private o colletti­ve, si spiega come dalla fine del secolo XI° (tempo in cui sorsero i primi comuni) la civiltà abbia assunto un ritmo più celere e più pieno.

  Il fattore che maggiormente contribuì alla formazione spirituale delle giovani repubbliche comunali fu il Cristianesimo.

  La Chiesa, durante la riforma gregoriana, contro i vescovi simoniaci e quindi con­tro i conti, i re e l’imperatore stesso, si era valsa dell’aiuto delle masse, e quin­di già fin dalla seconda metà del secolo XI° si era stretta una leale e cordiale collaborazione fra clero rinnovato e popolo.

  E’ per questo motivo che i Comuni affermano quasi tutti, nel primo articolo dei loro statuti, la fedeltà al Cristianesimo e alla Chiesa.

  Ogni Comune elegge e venera il suo Santo protettore; ogni Comune gareggia, con gli altri nella costruzione di chiese meravigliose; ogni Comune partecipa vivamente alle vicende liete e tristi della Respublica Christiana nel mondo. Questo predominio della religione nella vita del comune si può spiegare col fatto che gli ecclesiasti­ci, dopo la riforma gregoriana, son più zelanti e democratici, sono assai numerosi e lavorano in centri di modesta entità, esercitano solo essi l’educazione del popolo attraverso la predicazione e le scuole (scuole parrocchiali vescovili e monasteria­li). Il Comune è una specie di piccola famiglia di cui gli ecclesiastici sono per dir così i padri spirituali:

 Fiorenza dentro dalla cerchia antica

ond’ella toglie ancora terza e nona

si stava in pace sobria e pudica   (Purga. XV°)

4)- Tendenza associativa. Valendosi del principio della fratellanza la Chiesa promuove lo spirito associativo, le cui espressioni svariatissime non solo costi­tuiscono la forza delle attività economiche, artistiche e religiose, ma rivelano anche una capacità organizzativa assai evoluta.

   Si costituiscono anzitutto associazioni di carattere religioso, dette confrater­nite, le quali hanno finalità pie o di devozione o di assistenza ai bisognosi o di suffragio ai defunti.

  I lavoratori dello stesso mestiere costituiscono associazioni che si chiamano corporazioni le quali hanno finalità economiche, assistenziali e talvolta anche didat­tiche (è chiaro, si tratta solo di istruzione riguardante l’esercizio dell’arte).

   Si costituiscono, in fine, associazioni di studenti dette UNIVERSITATES, le quali hanno finalità schiettamente culturali. Sono gli studenti che scelgono i loro inse­gnanti; e questi considerano somma gloria avere discepoli eccellenti e numerosi che diventino diffusori delle loro teorie e con la loro bravura professionale facciano onore al maestro che li ha formati.

5)- Rinascita della cultura. Gli studenti che frequentano le università non sono più soltanto ecclesiastici, ma sono in gran numero anche laici. Infatti, essendo le scuole parrocchiali e vescovili accessibili a tutti e, con l’aumento del benes­sere economico, essendosi diffuso anche il desiderio della cultura, molti sono i laici che si dedicano agli studi. Nelle scuola, per cosi dire, media, alle vecchie arti del trivio (grammatica, dialettica, retorica) si aggiungono le arti del quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia); negli studi o università si inse­gnano teologia, filosofia, giurisprudenza, medicina (la facoltà di lettere o reto­rica non esisteva nelle università del medioevo).

   I castelli feudali che fino a questo momento sono stati le rocche-forti della pre­potenza ed hanno avuto come caratteristica uno stile militaresco mezzo selvatico ed un oscurantismo cieco, si aprono anche essi alla cultura. Infatti alla fine del se­colo XI° ed agli inizi del secolo XII° anche i membri della famiglia feudale impa­rano a leggere e a scrivere, acquistano familiarità con la cultura e si compiac­ciono di ospitare bravi giuristi e letterati. Così la corte (cioè lo spazio quadra­to al centro del castello) da luogo destinato a parate militari ed a feroci esecu­zioni capitali, diventa luogo di festose adunate e centro di gentili costumi. L’ag­gettivo curtensis (cortese) passò, così, a significare gentilezza sopraffine.

6)- Cavalleria. Ad abbellire e ad ingentilire la vita della corte contribuì moltis­simo la cavalleria. Fin dal secolo IX°, cioè fin da quando si era affermato il feu­dalesimo, i figli cadetti dei conti e dei marchesi, non essendo ammessi all’eredità, si dedicavano al mestiere delle armi. Appoggiati dalla forza dei loro parenti, questi, armati a cavallo spesso riuniti in gruppi, si dedicavano al brigantaggio, mole­stando i deboli, assalendo i monasteri, rapendo donne. La Chiesa si preoccupò di questa piaga della società e propose di organizzare i cavalieri in una istituzione che li impegnasse a mettere la loro forza a servizio del bene. Sorse così l’istituzione della Cavalleria: il cadetto viene consacrato soldato con una cerimonia suggestiva, al centro della quale è il giuramento che egli d’ora innanzi si servirà delle armi solo per il bene. Il cavaliere diventa così il difensore dei deboli e degli oppressi; invece di perseguitare le donne e i religiosi egli sacrifica le sue migliori energie, a vantaggio delle donne perseguitate e della religione. “Cavaliere” diventò sinonimo di generoso, audace, gentile, insomma sinonimo di uomo senza mac­chia e senza paura. I cadetti così davano esempio di civiltà ai familiari che era­no rimasti al castello; a questi esempi andavano uniti quelli che venivano dalla città in cui fiorivano forme di vita assai più gentili di quelle mezzo selvatiche del castello; ed in fine anche i legami tra la famiglia del feudatario e la Chiesa, resi più stretti dal fatto che alcuni dei cadetti entravano nel ceto ecclesiastico, contribuirono a rendere più frequenti e più intimi i contatti del castello col mondo in cui si affermava uno stile più umano. E’ così che le corti feudali nel secolo XI° quasi tutte si ripuliscono spiritualmente, incominciano a sorridere e paral­lelamente al sorgere e al fiorire dei comuni, si avviano a diventare anche esse centri di civiltà.

   In tali centri il personaggio più gradito come uomo di corte è senza dubbio il cavaliere cioè l’uomo di mondo e d’armi che professa un programma di lealtà, di dedizione generosa alla difesa degli oppressi, di finezza di modi.

7)- Università. Un altro personaggio che alla fine del secolo XI° si afferma nel mondo dei laici è il giurista. Le amministrazioni comunali richiedono persone le quali si intendano di diritto sia civile che penale; lo stesso bisogno sentono le corti feudali maggiori, ove le attività di governo diventano più complesse in seguito al trasformarsi dei feudi stessi in veri e propri regni.

   A questo bisogno di giurisperiti vengono incontro le università, le quali appun­to sorgono nei primi decenni del secolo XIII° con le facoltà di legge, teologia e filosofia. Nel 1130, ad esempio, sorge a Bologna la facoltà di diritto per opera del giurista Irnerio.

   Così giovani intelligenti sia della classe aristocratica che del popolo hanno la possibilità di frequentare le scuole del trivio e del quadrivio negli istituti vescovili o abbaziali; e terminato, per così dire, questo corso medio, possono passare all’università. Anche i castelli feudali, almeno quelli maggiori, in gara con le città istituiscono scuole: così la cultura, osteggiata per secoli e secoli dall’aristocrazia barbarica, viene accolta nelle corti come un fattore necessario all’elevazione e all’ingentilimento della vita.

   La scuola della corte viene frequentata da tutti i membri della famiglia feudale sia uomini che donne.

8)- Poesia di scuola. Il cavaliere che nella corte rappresenta il personaggio più fine, ora che i membri della famiglia feudale si erudiscono, sente il bisogno, per non restare indietro, di dedicarsi anche egli alla cultura, anzi di emergere anche in questo campo. Si afferma così il tipo del cavaliere-letterato il quale, per dimostrare la sua gentilezza e la sua capacità di fronte al signore o alla da­me, o alle damigelle, compone in lingua volgare le prime liriche, i primi racconti della letteratura europea moderna. Sorge così, a fianco della letteratura dotta in lingua latina, specializzata nel diritto o nella filosofia o nella teologia, e in vigore negli istituti ecclesiastici e nelle università, una letteratura d’arte lirica o narrativa in lingua volgare, talvolta aderente allo spirito religioso-mi­stico del tempo, talvolta di ispirazione mondana ed alquanto spregiudicata. Anche i giuristi che vivono nelle corti dei re o dei signori   feudali si dedicano alla composizione poetica.

   Così cavalieri-poeti e giuristi-poeti danno l’avviamento alle prime forme della poesia romanza, costituendo spesso anche scuole, cioè indirizzi letterari intorno ai quali si raggruppano più compositori che seguono un’ispirazione e uno stile co­mune.

9)- Arte. L’architettura in questo periodo di giovinezza della civiltà si afferma anche essa,  in quanto le popolazioni dei comuni e le autorità ecclesiastiche e i signori gareggiano nella costruzione di chiese, di palazzi pubblici e di castelli che si impongano alla ammirazione per la loro complessità e bellezza.

   Anche la pittura e la scultura, sebbene in forme rozze e con una tecnica approssimativa, entrano in campo per abbellire le abitazioni di Dio e dell’uomo, cioè chiese, palazzi comunali, castelli.

10)- Poesia e arte popolare. Il regime democratico, che nell’ambiente comunale permette a tutti i cittadini di partecipare alla vita pubblica e di contribuire alle iniziative più svariate con il proprio consiglio e la propria critica, impone anche al popolo il bisogno di erudirsi e nello stesso tempo gli offre la possibilità di affinare la sua mentalità e il suo gusto. Di qui una discreta fioritura di arte popolare, che sebbene modesta nelle forme, tuttavia rivela vivacità e spon­taneità. Così la cultura medievale può suddividersi in dottrinale (teologia, filosofia, giurisprudenza, medicina), artistica (scuole poetiche e scuole di archi­tettura e pittura) e popolare (poesia e forme artistiche minori).

11)- Nuove esigenze spirituali e misticismo più umano. L’entrata dei laici nel mondo della cultura e dell’arte genera nuove esigenze e nuovi indirizzi. I laici, infatti, per quanto fedeli alla religione hanno un campo di aspirazioni e di interessi più vasto di quello dei religiosi, i quali, professando i voti, hanno escluso dalla loro sfera spirituale svariati motivi che pur fanno parte della vita vissuta dai più. Ad es., nel campo della giurisprudenza, i giuristi religiosi tendono ad affermare la superiorità della Chiesa in tutti i campi e ad esagerare le applicazioni pratiche di questa superiorità; mentre i giuristi laici sentono il bisogno di affermare che anche il potere civile è sovrano ed ha i suoi diritti indipendentemente dalla Chiesa. La lotta tra giuristi laici e giuristi ecclesiastici esplosa per la prima volta al tempo del contrasto tra Federico Barbarossa ed Alessandro III°. Nel campo letterario vicino alle composizioni mistiche dei religiosi si affermano quelle profane che svolgono i motivi dell’amore e dell’avventura.

   Quest’affermarsi delle esigenze dei laici induce gli ecclesiastici, che tengo­no la direzione del mondo culturale, a preoccuparsi anche dei problemi profani e a conciliare le giuste aspirazioni della natura con la fede e la morale cristia­na. In un primo tempo, difensori estremisti della natura o della soprannatura propugnano o un misticismo svalutatore delle esigenze e delle attività naturali dell’uomo a solo vantaggio del soprannaturale o oppongono (non osando negarlo) il soprannaturale al naturale.

   Ben presto però, specie nel sec. XIII°, la conciliazione fra il mondo sopran­naturale e quello naturale, tra fede e ragione, tra religione e vita si realizza pienamente in quanto i mistici si valgono della natura per ascendere a Dio e i laici si valgono del lume della fede per individuare il vero valore della natura. Sebbene nel mondo della cultura si inseriscano i laici e le soluzioni dei pro­blemi religiosi, morali, giuridici, letterari, debbano assumere un’ampiezza mag­giore, cosicché rispondano alle legittime esigenze della natura umana, tuttavia gli ecclesiastici conservano la direzione spirituale della Respublica Christia­na e danno a tutte le attività che in questa si svolgono l’impronta religiosa.

   La gerarchia ecclesiastica, purificata in seguito alla riforma di Gregorio VII, ripreso il contatto con il popolo e da feudaleggiante diventata democratica, imprime alle sue attività un ritmo dinamico e realizza opere preziose non solo nel campo religioso, ma anche in quello civile. Alla fine del sec. XI°, poco dopo la morte di Gregorio VII°, viene organizzata la prima Crociata: in questa e nelle successive è da vedere non solo un’iniziativa della Chiesa per riconquistare il Santo Sepolcro o per prevenire un attacco dei Turchi alla Respublica Christiana, ma anche un’espressione del rinnovato sentimento religioso nelle varie classi del mondo sociale europeo.

   Infatti alle Crociate presero parte imperatori, re, feudatari, cavalieri, popo­lani; e, pur ammettendo che tutta questa gente si sia mossa da casa e sia andata a penare lontano per motivi economici, come pretendono alcuni storici moderni, tuttavia un fenomeno così imponente non si può spiegare che come effetto di un idealismo religioso intenso e attivo. Oltre che sulle masse, la Chiesa esercitò l’influsso della sua supremazia anche sui sovrani. Gregorio VII° scomunicava En­rico IV°, e con questo provvedimento lo avrebbe eliminato dalla scena politica, se egli non si fosse ravveduto; Alessandro III° si alleava con i Comuni e frenava le ambizioni imperiali del Barbarossa; Innocenzo III°,  il papa regale per eccellenza, riscuoteva tributi da tutte le nazioni cristiane e si vantava di educare un futuro imperatore modello: Federico II° (che poi avrebbe dato tanti dispiaceri alla Chiesa).

   Quando sorgono i Domenicani e i Francescani (agli inizi del sec. XIII°) le popola­zioni delle campagne e delle città, le scuole medie e universitarie sono sotto l’in­flusso energico dei religiosi.

   Le comunità cristiane nelle varie nazioni d’Europa, dal tempo di Gregorio VII° in poi sono strettamente vincolate a Roma, in quanto il pontefice si è riservato il diritto di nominare i vescovi e i primati. Così si realizza in pieno l’unita del mondo cri­stiano sotto la supremazia del pontefice; e, nello stesso tempo è garantita l’unità dell’indirizzo culturale in tutta la Respublica Christiana.

   Fu questo (specie i secoli XII0 e XIII0) il periodo più glorioso della storia della Chiesa e, bisogna riconoscerlo, della storia della civiltà europea nel medioevo. La respublica Christiana al tempo di papa Innocenzo, sebbene per pochi anni, diede veramente l’impressione di un organismo politico spirituale veramente poderoso.  II pa­pa è considerato come il supremo direttore spirituale ai cui ordini operano tutte le potenze terrene in difesa e in avanzamento della civiltà cristiana.

   All’inizio del secolo XIII° si organizza una crociata contro i Turchi e una contro gli Albigesi.  Così la Respublica Christiana è assicurata dagli attacchi interni ed esterni. Le città, particolarmente quelle che si reggono al regime democratico comunale, compiono una meravigliosa avanzata in tutti i campi del progresso. Fioriscono le in­dustrie e i commerci sotto limpulso delle corporazioni nelle quali le forze del la­voro associate producono con intelligenza, con gusto,  ed anche con abbondanza.

   Fioriscono anche le arti. Il centennio 1150-1250 si può definire il periodo glorioso dell’architettura romani­ca ancora semplice di linee, ma ricca di spunti mistici e suggestiva per la sua mode­stia aggraziata e gentile.

   Il centennio 1250-1350 rappresenta il periodo più glorioso dell’architettura ogiva­le (detta gotica cioè barbarica dai rinascimentisti) la quale si afferma e si impone per la grandiosità della struttura, per la sapienza per cui risolve i problemi della statica, per l’originalità, ricchezza, e la finezza dell’ornato.

   La pittura incomincia ad idealizzare con disegno e colorito naturale, visioni di vita umana e visioni religiose.

   Cimabue è il primo a farsi onore nel campo della pittura, e Giotto si dimostra così abile e così ricco di risorse nel modellare ed idealizzare le forme secondo criteri di naturalezza e di mistica spiritualità, da meritare giustamente la denominazione di Dante nella pittura.

   La scultura nel secolo XIII° inizia anche essa il suo cammino, cimentandosi nella creazione di figure e di scene modellate con naturalezza e con grazia, Giotto, Andrea e Nicola Pisano sono maestri, che, messi a confronto con gli oscuri autori di basso rilievo, rozzi di forma e poveri di  ispirazione, dei secoli passati, rivelano una au­tentica capacità nel concepire e nel plasmare figure isolate e in gruppo, in atteggiamenti che vogliono esprimere ed esprimono di fatto stati d’animo vivaci e spontanei.

   La musica, durante il secolo XXII°, abbandona il ritmo, per così dire, sillabico del canto fermo, per assumere le forme sciolte di una melodia che sgorga dal significato delle parole. La tecnica musicale abbandona la notazione gregoriana troppo limitata e statica e adotta quella più naturale più estesa, più mobile di Guido d’Arezzo.

   Alla fine lei secolo,  l’“ars nova” fiorentina elabora le prime forme dell’armonia e del contrappunto: sorge così la polifonia,  la cui tecnica sarà sviluppata dalle scuole musicali fiamminghe e nel secolo XVI° servirà come mezzo di espressione al nostro Pier Luigi da Palestrina.

   Sorge e si sviluppa anche la musica strumentale, specialmente nelle città più fiorenti, come ci attesta lo stesso Dante il quale nella Commedia accenna più volte a stru­menti a corde e a fiato. Così la vita cittadina è rallegrata dal fervore dell’attivi­tà industriale e commerciale, dal fiorire dell’architettura, della scultura, della pittura, dal moltiplicarsi delle feste, dal diffondersi della pittura attraverso l’isti­tuzione di scuole elementari, medie, e universitarie e attraverso circoli letterari.

   Alla fine del 1200, cioè al tempo di Dante e Giotto,  il Medioevo raggiunge la matu­rità, caratterizzata da complessità e profondità di ispirazione e da concretezza, naturalezza e gentilezza di forme. Dopo averci dato nel campo della cultura la “Sum­ma Teologica” di S. Tommaso, nel campo della poesia la “Divina commedia” di Dante, nel campo dell’arte gli affreschi e le sculture di Giotto, le cattedrali gotiche, nel campo della musica le prime simpatiche espressioni della polifonia; e nei campi politico, civile e sociale, il Sacro Romano Impero, il Comune, la Corporazione, il Medioevo non poteva darci di più.

    Dante chiude l’epoca medievale di cui avverte ormai la crisi e di cui invano si sforza di sostenere il programma spirituale e le strutture organizzative. Gente nuova arricchitasi con l’industria e i commerci (cioè la borghesia) introduce menta­lità nuove, aspirazioni nuove, gusti nuovi, costumi nuovi. Qua e là la vita comunale agitata dalle discordie civili viene disciplinata e pacificata dal signore. Il Sacro Romano Impero,  dopo il fallito tentativo di Arrigo VII°, decade. Il papato dal 1305 passa all’obbedienza dei re di Francia in Avignone, perde il contatto con l’Italia, perde la fiducia dei fedeli, le nazioni cattoliche che formavano un’unica famiglia, nel seno della Respublica Christiana, iniziano ciascuna una nuova storia ispirata ad un particolarismo estremistico. Gli individui e le nazioni potenziate dal benessere economico, dalla esperienza, politica ed artistica, sentono ormai di poter far da sé e di poter procedere lungo le vie più diverse fidando nelle forze proprie, senza più bisogno di comunità associative, né di carattere religioso, né di carattere poli­tico, né di carattere letterario ed artistico.

Giudizio sul Medioevo – Medioevo e Rinascimento.

   Gli uomini del Rinascimento, guardando all’epoca che li aveva preceduti e precisa­mente all’epoca che intercorre fra il tramonto dell’età classica e quella in cui vivevano essi, ebbero l’impressione di trovarsi di fronte ad una civiltà quasi primiti­va: mortificata e semplificata la vita, rozze, semplicistiche e disarmoniche le forme dell’espressione. Un giudizio così negativo pronunciato senza distinzione nei riguar­di di tutta l’epoca medievale, e soprattutto, formulato senza fare alcun conto delle circostanze storiche, è ingiusto.  Infatti, se è vero che la civiltà fu in ribasso nell’alto Medioevo, non si può fare a meno di riconoscere che nel basso Medioevo, specie al tempo di Dante, essa rivelò una ricchezza e una maturità tali da gareggiare con quella delle epoche più evolute; S. Tommaso, Dante, i templi gotici, Giotto, il Comune, le Corporazioni sono espressioni di una civiltà veramente poderosa e tali da poter sostenere vittoriosamente il paragone con il Rinascimento.

   Si può dare un giudizio sul valore della civiltà nei vari momenti della storia, ma è anche doveroso tener presenti i fattori che in ciascuno dei momenti stessi han­no contribuito ad indirizzare lo spirito umano verso una forma piuttosto che verso un’altra; e in tal senso, pur restando vero che l’alto Medioevo non ci ha dato una civiltà di gran valore, tuttavia bisogna riconoscere che anche in quel periodo lo spirito umano si è espresso come poteva esprimersi, e che anche quel periodo ha esercitato una funzione necessaria ed utile nella preparazione e nello sviluppo del­la civiltà moderna.

Come non sarebbe possibile avere la continuità nello sviluppo delle generazioni, se per ipotesi assurda, si interrompesse la loro serie per un vuoto non colmato, così non avremmo avuto né il Rinascimento né l’età moderna, se la storia post-classica non fosse stata avviata dall’attività nascosta, ma reale ed efficace  delle genera­zioni medievali.

CARATTERISTICHE GENERALI DELLA SPIRITUALITA’  MEDIEVALE

1)- IL MISTICISMO.

   Il misticismo è un modo di considerare il reale caratterizzato da una stretta armonia fra natura e soprannatura; è il modo di considerare la realtà naturale alla luce del soprannaturale e di convogliarla verso le esigenze supreme dell’etica e degli ideali religiosi.

   Tutte le manifestazioni della vita medioevale sono inquadrate nella vi­sione cristiana e  sono promosse e permeate dallo spirito soprannaturale. Basta ricordare manifestazioni già precedentemente elencate per  rendercene conto:

– la cavalleria è organizzata dalla Chiesa ed ha fini religiosi;

– le crociate sono   guerre religiose;

– l’impero è in funzione della Respublica Christiana;

– i Comuni hanno tutti uno statuto in cui è riconosciuta come religione vera ed unica quella cattolica, apostolica, romana, e i delitti contro la religione vengono considerati come delitti contro il popolo;

– le corporazioni hanno non solo finalità economico-sociali, ma anche finalità religiose quali la formazione spirituale e l’assistenza carita­tiva dei lavoratori, e nella loro origine si rivelano ispirate al sen­so dalla fraternità cristiana;

–  l’architettura, la scultura, la pittura, la musica sono al servizio della religione

– la letteratura si propone come fine quello di educare moralmente e religiosamente; 

– la filosofia è considerata come l’ancella della teologia e le scienze considerate come parti della filosofia, sono indirettamente riallacciate alla teologia;

– tutti gli avvenimenti umani, tutte le cose che cadono sotto i segni dell’esperienza vengono interpretati secondo il  pensiero cristiano.

E’ chiaro che dovesse affermarsi un tal modo di intendere la realtà, se ricordiamo che la cultura è in mano della Chiesa e che i laici finora sono semplici scolari degli ecclesiastici; e che i due grandi istituti dei Papato e dell’Impero, talvolta in collaborazione, talvolta segando vie diverse, si sforzano di dare un’impronta cristiana a tutta l’Europa centro-occidentale che è sotto il loro influsso.

2) – UNIVERSALISMO.

Tutte le manifestazioni della vita medievale sono universali in tre sensi:

a)- nell’estensione di rapporto.

b)- nell’estensione di luogo.

c)- nell’estensione di contenuto.

d)- sono estese nel rapporto nel senso che ogni attività è intimamente connessa con numerose altre o almeno con lo spirito che le anima: ciò si verifica particolarmente nel campo della  cultura ove la teologia tiene il primato e ad essa si subordinano in stretta collaborazione la filosofia, la scienza, la giurisprudenza.

  L’arte non è considerata come pura tecnica, ma trae alimento dalla teologia, dalla filosofia, dalla scienza. Frutti di questa universalità di rapporti nel campo della cultura sono le “SUMMAE”, specie di enciclopedie in cui è raccolto sistematicamente  tutto lo scibile del Medioevo.

   Esempi di universalità di rapporto si hanno anche nel campo sociale  ove le corporazioni, come si è detto, non hanno soltanto funzione economica, ma anche una funzione religiosa, morale, assistenziale.

   Nel campo internazionale gli esempi più evidenti sono dati dal tentativo di papi come Innocenzo III° di sottoporre al loro controllo tutte le espressioni della vita nel mondo della Respublica Christiana e il tentativo analogo dell’imperatore allorché risorge il concetto classico della sovranità.

a)- Sono estese nel luogo nel senso che: non vi è un’espressione notevole della vita che, affermatasi in un luogo della Respublica Christiana, non si estenda a tutte la parti di essa. 

   Le esemplificazioni in questo senso sono numerosissime:

– la teologia e la filosofia scolastica si diffondono in tutti i cen­tri culturali dell’orbe cattolica;

– la giurisprudenza ha impostazioni e principi uguali in tutte le scuole;

– la musica gregoriana è in uso in tutte le chiese per i più svariasi bisogni della liturgia;

– l’architettura romana e gotica si diffondono in tutte le nazioni dell’Europa centro-occidentale e sorgono gloriosi templi nell’uno e nell’altro stile: in Italia (duomo di Milano, di Firenze, di Siena, di Orvieto, di Parma, di Verona, S.Marco di Venezia); in Spagna (cattedrale di Burgos); in Francia (Notre Dame di Parigi, cattedrale di Reims); in Germania (cattedrale di Colonia, di Magonza, di Spira);

– i Comuni non costituiscono un’organizzazione politica cittadina esclusiva dell’Italia, ma fioriscono anche in Francia, nei Paesi Bassi, in Germania, in Inghilterra; 

-le scuole letterarie e cicli d’ispirazione non sono limitati dall’ambiente dove sorgono, ma hanno diffusione in tutti gli ambienti culturali dell’Europa ad esempio le Chansons des Gestes e i Romans, sia della “Tavola rotonda”, che del ciclo classico e morale, benché fioriscano nella Francia del nord, sono conosciuti anche In Italia, ove sono let­ti e imitatati. La scuola Provenzale ha le sue diramazioni in Italia e una specie di filiale nella scuola siciliana. 

b)- Sono estese nel contenuto nel senso che non si inquadrano e non si
ispirano soltanto alle esigenze, del  luogo in cui fioriscono ma alle aspirazioni, ai bisogni e al pensiero di tutto il mondo cristiano.

   Basta a questo proposito addurre l’esempio della Divina Commedia che sarebbe erroneo definire poema italiano perché abbraccia tutta la vita del mondo cristiano.

   Gli autori di storie o di cronache in questo periodo pur trattando ar­gomenti locali inquadrano la materia nella storia universale e non sono rari gli esempi di cronisti che si riallacciano alle origini della umanità.

SPIRITO DEMOCRATICO.

   Nella società dell’Alto Medioevo, l’elemento attivo è il signorotto feudale o, prima del feudalesimo, il duca barbarico: il popolo è massa che non conta nulla.

   Col sorgere dell’istituto comunale il popolo assume la gestione dei suoi interessi e si amministra da sé. E’ chiaro che in ambiente comunale tutte le espressioni della vita pubblica sono frutto della iniziativa collettiva e che gli esponenti della cultura in quell’ambiente riflettono le aspirazioni, gli ideali e le situazioni del popolo.

   Le leggi sono frutto di decisioni collettive, come gli statuti comunali riassumono i principi giuridici, morali e religiosi che vivono nella coscienza della comunità.

   L’architettura sia religiosa che civile fiorisce per decisione del pubblico che vuole esprimere con belle costruzioni il suo omaggio collettivo alla divinità o al comune; e spesso vuol gareggiare con le città vicine.

   Le composizioni letterarie o esprimono sentimenti comuni in mezzo alle masse in forme popolari o (come l’Alighieri nella Divina Commedia) interpretano i bisogni spirituali e correggono i costumi dell’ambiente, inquadrandoli in una visione universalistica.

   E’ interessante notare la differenza tra le composizioni letterarie degli ambienti ancora rimasti feudali e quelle degli ambienti comunali.

   Le prime (ad es. quelle provenzali) sono al servizio dei signore e del la sua famiglia: e, quindi, se sono molto elaborate nella forma, difet­tano di spontaneità, di sincerità e si riducono in genere ad eleganti complimenti in versi; le seconde, invece, pur essendo talora prive di fi­nezze tecniche e linguistiche sono tuttavia sincere e vive, e quando intervengono poeti colti, uniscono insieme l’elevatezza e la complessità dell’aspirazione, dell’idealizzazione fine, la delicatezza e l’ardore dei sentimenti e la semplicità decorosa del linguaggio (come avviene ad es. nelle composizioni del “Dolce stil nuovo”).

SPIRITO ASSOCIATIVO.

   Non v’è stata un’epoca nella storia della civiltà moderna in cui più che nella medievale si sia affermato lo spirito associativo, e ciò forse dipese dal fatto che lo spirito cristiano, il quale   è alimentato dal principio della solidarietà fraterna, permeò e fermentò tutta la società del basso medioevo.

   Associazione è il     Comune (Commune = neutro di communis significò appunto l’associazione): esso infatti sorse come associazione di tutti i cittadini per la difesa della libertà e degli interessi comuni con­tro le sopraffazioni del feudatario e di forze irregolari brigantesche. Sorgono le più svariate confraternite religiose con compiti e attività ben definiti.

 Le attività artigiane e commerciali si svolgono in cooperazione fra tutti gli individui che esercitano la stessa professione: sorgono così le corporazioni e arti.     

   Nel seno di ogni corporazione vigeva la più stretta collaborazione fra i PRIORES che erano i direttori di tutta una particolare attività artigiana, i MAGISTRI che erano  direttori di lavoro,  i SOCI che erano i lavoratori provetti, i DISCIPULI che erano apprendisti.

   Gli architetti e i muratori erano associati insieme in SCHOLAE; ogni scola aveva i suoi segreti d’arte e i suoi statuti.

   A costruzione finita, sulla lapide, che ricordava gli autori dell’opera, si poneva il nome della “schola” con il nome talvolta del maestro che si era distinto nella preparazione dei disegni.

   Similmente sorgono le scuole pittoriche: la scuola di Cimabue, la scuo­la di Giotto. Cimabue e Giotto sono i creatori di una determinata maniera (cioè di un particolare modo di disegnare e di colorire), ma gli esecutori di moltissime opere a loro attribuite furono i loro discepoli.

   Si formarono associazioni anche di studenti (le già ricordate UNIVERSITATES), i quali si scelgono lo studium presso cui recarsi  e i maestri da cui apprendere.

   Si formano perfino scuole poetiche: cioè più autori si ispirano agli stessi argomenti, agli stessi ideali, alle stesse forme, alla stessa tecnica di stile e di linguaggio. Sono famosi in Francia i cicli Carolingio e Bretone e la scuola Provenzale; sono famose in Italia la scuola Siciliana e quella del “Dolce Stil nuovo”.

   Così con l’unione delle forze, la civiltà medievale, sebbene non ab­bia potenti risorse di tecnica e di tradizione, riesce a realizzare opere meravigliose.

ASPETTI PARTICOLARI DELIA SPIRITUALITA’ DEL MEDIOEVO

  1. 1.                  ESIGENZA DI ARMONIA.

A)-ARMONIA TRA NATURA E SOPRANNATURA.

   All’inizio del basso Medioevo abbiamo notato una rinascita vigorosa dello spirito   cristiano. In alcuni gruppi della massa, o per ignoranza o per interesse, il fervore religioso diventò talvolta fana­tismo e le aspirazioni ascetiche giunsero alle forme esasperate della maledizione di tutto ciò che è natura.

   I Catari, gli Albigesi, i Flagellanti rappresentarono l’estremismo dell’ascesi. I Catari e gli Albigesi in modo particolare cercarono dì giustificare con teorie pessimistiche, tratte forse dal vecchio manicheismo, il loro disprezzo assoluto del corpo e di tutte le attività terrene: per essi il mondo era una specie di emanazione di Satana.

   Pur rimanendo dentro i limiti dalla retta fede, altre espressioni del l’ascetismo raggiunsero forme esagerate. Dall’iniziativa di Pietro l’Eremita, che capeggia gruppi di crociati senza organizzazione e li porta incontro al disastro, all’affermazione dei pensatori della scuola mistica, i quali hanno come motto: “CREDO UT INTELLIGAM” e svalu­tano totalmente le forze della ragione per esaltare solamente la Fede e la Grazia, all’atteggiamento dei Francescani spirituali che propugnano l’interpretazione rigida del programma di povertà e di ascesi profes­sata da S. Francesco, alle stranezze mistiche di fra Jacopone da Todi, ci troviamo di fronte a manifestazioni di fervore religioso che tentano di varcare i limiti dell’equilibrio.

   La fede è talmente radicata nelle anime dei medievali che anche i razionalisti che si notano qua e là in questa epoca (Abelardo, Bacone, Sigieri di Brabante) rispettano le affermazioni della fede ricorrendo magari al principio della doppia verità (cioè affermando che un’asserzione può essere falsa dal punto di vista razionale ma vera dal punto di vista dalla rivelazione).

   Ma sia la posizione del misticismo estremista sia quella del razionalismo dualista non rispondevano alle esigenze vere dell’anima cristiana e della natura umana. 

   La conciliazione fra Fede e ragione, tra Grazia e libertà, viene illu­strata e definitivamente affermata dalla   scolastica del sec. XIII°.

   S. Tommaso riconosce alla ragione la capacità di raggiungere il vero nel campo naturale e di illustrare quei concetti che aiutano il cre­dente a capire il significato delle verità soprannaturali, cioè ricono­sce alla ragione la funzione di ancella della Fede.

   Dante si fa accompagnare da Virgilio (simbolo, della ragione) fino a Beatrice (simbolo della Fede) e da questa fino a Dio. Nessun contrasto dunque tra   ragione e fede; nessuna umiliazione inflitta dall’una all’altra, ma collaborazione fra le due guide dell’uomo per condurre questi alla verità assoluta.

   Similmente il contrasto fra la libertà dell’uomo e la Grazia di Dio viene risolto con il concetto del libero assoggettamento dell’uomo all’influsso reale e positivo dell’aiuto divino: l’uomo opera liberamente e per questo acquista meriti; ma a condurlo all’azione e a sostenerlo durante il compimento di essa è la Grazia di Dio.

   Così l’uomo e il cristiano, cioè l’animale ragionevole e il figlio adottivo di Dio si armonizzano tra loro in modo che la natura umana, sen­za perdere nulla delle proprie energie, viene potenziata in modo da su­perare se stessa diventando mezzo per l’esplicazione di attività soprannaturale.

B)- ARMONIA TRA SACRO E PROFANO.

In forza della collaborazione fra ragione e fede, viene affermata una stretta collaborazione anche tra la cultura profana e quella sacra.

   Abbiamo già visto come avvenne la riconciliazione fra la Chiesa e gli scrittori pagani all’inizio dell’Alto Medioevo, ma abbiamo visto anche come in questo stesso periodo la cultura profana sia decaduta e l’attività culturale si era dedicata prevalentemente ad argomenti sacri.

   Quando nel secolo XI°, con la rifioritura della vita religiosa, con l’affermarsi del predominio morale della Chiesa su tutta l’Europa, risorge la cultura cristiana col proposito di mettersi a servizio di tutti i fedeli che vogliono partecipare al convito della vera sapienza, si impone ai clerici, cioè ai dotti del mondo ecclesiastico, la necessità di allargare il più possibile il campo alle ricerche e di rendere più umane le scienze divine.

   L’elemento laico, meno abituato alle dimostrazioni per fede, sente il bisogno di dimostrazioni razionali e, impegnato in attività terrene, oltre che di una cultura religiosa propriamente detta ha bisogno di una cultura umana: perciò i maestri degli “studi” ecclesiastici si sentono in dovere di prendere contatto anche con i grandi pensatori del mondo non cristiano. Perciò non entrano più nelle scuole soltanto la Sacra Scrittura o le opere dei Padri, ma anche Aristotele.

   Dante definisce Virgilio il suo maestro e il suo autore ed afferma espressamente di conoscere tutta quanta l’Eneide; e nel canto IV° dell’Inferno riserba un posto speciale nel Limbo (e precisamente in un castello luminoso) ai grandi ingegni del mondo non cristiano.

   Catone Uticense, benché suicida, viene proposto alla vigilanza dell’Anti-Purgatorio.

Stazio viene posto nel Purgatorio e afferma di lui che si convertì in forza della luce che gli aveva comunicato Virgilio profetando nella IV° Egloga la venuta del Messia.

   Traiano, uno dei più severi persecutori del cristianesimo, viene salva­to per merito della sua giustizia e si trova nel cielo di Giove tra i giusti.

   Infine miti e leggende del mondo greco e romano vengono accolti e introdotti nella “Commedia” non solo per decorare con rievocazioni classiche le varie scene, ma anche talvolta per rinforzare la dimostrazione di verità cristiane.

   Ad esempio non è certo il caso di credere che Dante fosse convinto dell’esistenza di Enea e del suo viaggio nell’oltretomba, tuttavia nel se­condo canto dell’Inferno egli considera questo viaggio come voluto dalla Provvidenza per preparare l’avvento della Chiesa.

   I nomi degli dei pagani come quelli delle muse, di Apollo, di Giove, sono usati nel senso di poesia, ispirazioni poetiche e Dio. Gli dei inferi pagani e certi mostri della mitologia classica diventano demoni dell’In­ferno dantesco.

   L’Impero romano, che per ben quattro secoli aveva perseguitato il cri­stianesimo, viene considerato come Istituzione voluta da Dio per raccoglie­re, quando ne fosse venuto il tempo, in un organo politico unitario, gli eletti, cioè i cristiani.

   Non è il caso di ripetere quello che si è detto circa l’impronta reli­giosa che caratterizza nel Medioevo le più svariate attività profane (la cavalleria, le crociate, le corporazioni, la vita politica comunale, le arti, la letteratura).

   E’ necessario tuttavia insistere su una armonizzazione tra sacro e profano che può sembrare la più ardita, ma che, inquadrata nell’atmosfera mistica del Medioevo, è naturalissima e storicamente rappre­senta una delle più fini conquiste dello spirito umano: l’armonizzazione tra l’amore della creatura e quella del creatore.

   S. Francesco vede nelle creature i riflessi della potenza, della bontà, della bellezza del Creatore; e alla luce di quei riflessi trova la via per ascendere alla causa prima di tutte le cose.

   Le creature non sono espressioni del demonio, ma voci fraterne che in­vitano alla contemplazione di Dio.

   Per gli stilnovisti e particolarmente per Dante la creatura che più delle altre riflette gli attributi di Dio e con voce più efficace invita chi la contempla a sollevarsi verso l’alto è la “DONNA-ANGELO”.

   Beatrice è “lada di Dio vera” (Inf. c. II° v. 103): è “l’angiol venuto da cielo in terra a miracol mostrare” (Vita nuova – sonetto “Tanto genti­le e tante onesta pare”): Beatrice e colei “che all’alto volo vestì le piume” a Dante ( Parad. c.XV° v. 54): è colei che ha liberato il poeta da tutte le bassezze terrene, lo ha sollevato verso l’alto in modo che da lassù egli domini col suo spirito la realtà finita: “quando da tutte queste cose scio1to – con Beatrice s’era suso in cielo – contento gloriosamen­te accolto” (Parad. C. XI° vv. 10-12): lei ha tratto il poeta dalla schiavitù alla libertà, lo ha condotto dalla selva oscura al paradiso terrestre, cioè dal peccato alla purificazione servendosi dell’opera di Virgilio, cioè della ragione e dal paradiso terrestre lei lo conduce fino a Dio esercitandolo nel perfezionamento soprannaturale : “tu m’hai di servo trat­to a libertade – la tua magnificenza in te custodi” (Parad. c. XXXI° vv. 85-88); perciò amare Beatrice non solo non è una colpa, ma è dovere e sommo inte­resse spirituale: è colpa quindi non amarla (Purg. c. XXX-XXXI).

   In questa armonizzazione tra sacro e profano né il sacro perde della sua dignità,  né il profano perde della sua concretezza e del suo fascino: si tratta di una esaltazione e di una elevazione entusiastica di tutto ciò che di bello e di buono ha la terra, non in quanto è frutto della terra, ma in quanto è riflesso della luce divina che “per l’Universo penetra e risplende – in una parte più e meno altrove”(Parad.c.I° vv 2-3).

   Dio è il centro di tutto l’universo, ad ogni creatura è stato assegnato un porto da raggiungere, più o meno lontano dal centro e tra le creature all’uomo è stato assegnato come porto l’empireo cioè il luogo ove Dio si manifesta più apertamente in un oceano che “solo amore e luce ha per confine (Parad. c. XXVIII° v. 54).

   Affinchè le creature raggiungano il porto a cui sono state destinate, Dio ha infuso in esse un istinto che le porti alla meta: tale istinto nell’uomo è l’amore cioè la tensione verso il bene e precisamente l’aspi­razione al bene assoluto: “tutte nature – più al principio lor e men vici­ne – si movono a diversi porti – per lo gran mar dell’essere ciascuna – con istinto a lei dato che la porti (Parad. c. I° vv. 110-114).

   Così secondo la concezione medievale, che è poi la concezione cattolica, le creatore venute da Dio a lui ritornano messe ed attratte da lui stesso.

C)- ARMONIA TRA VITA INTERIORE E VITA ATTIVA.

   E’ stato detto che i medievali, tutti intenti alle indagini teoriche, abbiano trascurato la pratica: ma tale giudizio è falso: pensiero ed azione nel Medioevo si armonizzano in un modo perfetto: la speculazione serve ad orientare secondo il vero l’azione, e questa serve a realizzare la verità nel campo della storia individuale e collettiva.

   S. Pier Damiani, Gregorio. VII° furono asceti e combattenti nello stesso tempo.

   S. Bernardo, sebbene esaltasse la superiorità assoluta dalla vita contemplativa e dimostrasse una certa diffidenza versa quella attiva, pure si dedicò a compiti che richiedevano capacità pratiche e impegnavano lo spirito in una polemica ardente con gli uomini.

   S. Domenico, S. Francesco, S. Tommaso sono asceti che vivono io mezzo al mondo e lavorano attivamente alla rigenerazione di esso o con la predicazione o con l’esempio o con gli scritti.

   Dante, salito al cielo delle stelle fisse, ritorna con gli occhi per tutte le sette sfere sottostanti,

                  “e vidi-egli dice-questo globo

                  tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;

                  e quel consiglio per migliore approbo

                  che l’ha per meno; e chi ad altro pensa

                  chiamarsi puote veramente probo”

                  (Par. c. XXII° vv. l34-l38):

e  pure l’Alighieri per riportare la felicità ”nell’ “aiuola che ci fa tanto feroci” (Par. c. XXII° v. 151) combatte una battaglia a fondo contro il male e contro i re­sponsabili   del male attraverso la sua Commedia.

   Egli ha coscienza di essere un profeta mandato da Dio a rigenerare moralmente la umanità e a trattenere dal suo precipitare verso l’abisso la Respublica Christiana.

   E’ per questo che egli si permette, col rischio di farsi dei nemici, di dir cose che ” a molti fia sapor da forte agrume” (Par. c.  XVII°  v. 117); è per questo che egli sdegna di essere “al vero timido amico” (ibidem v. 118); è per questo che Cacciaguida lo esorta al combattimento con le seguenti parole:

                “…..coscienza fusca

o della propria o della altrui vergogna

pur sentirà la tua parola brusca.

Ma non dì meno, rimossa ogni menzogna,

tutta tua vision fa manifesta;

e lascia pur grattar dov’è la rogna.

Che se la voce tua sarà molesta

nel primo gusto, vital nutrimento

lascerà poi, quando sarà digesta.

Questo tuo grido farà come vento,

che le più alte cime più percuote”

(Par. c. XVII° vv. 124-134).

Lo stesso S.Pietro, concludendo l’invettiva contro certi papi 

responsabili delle sciagure della Respublica Christiana si rivolge a 

Dante:

“E tu, figliol che per lo mortal pondo

ancor giù tornerai, apri la bocca,

e non asconder quel che io non ascondo”

(Par. c. XXVII° vv. 64-66).

   Alla Respublica Christiana son venute meno le due forze direttrici create da Dio per condurla lungo le vie della felicità temporale ed eterna, cioè l’efficace dire­zione del papato e dell’impero: perciò Dante, “buon cristiano” (Par. c. XXIV° v. 52), che sente la sua responsabilità sociale, si assume, benché semplice laico, il com­pito di predicare all’umanità cristiana.

    Egli non è né Enea né Paulo (Inf. c. II), ma, terzo dopo Enea e Paulo, egli immagina di essere andato nell’oltretomba per riportare luce, minacce e conforti al mondo a lui contemporaneo.

   Anche l’esperienza amorosa, vissuta nelle forme soavi e contemplative del misticismo stil novistico, è per Dante fonte di azione. Egli infatti, per rendersi degno di Beatrice, cioè della considerazione e dell’affetto di una donna sublime, attraverso l’esercizio dell’arte e delle attività speculative e pratiche più gloriose, si sforza di elevarsi fino a lei ( (Inf. c. II° vv. 104-105). “ché non soccorri quei che t‘amò tanto, – ch’uscì per te del­la volgare schiera?” (Inf.c.II vv.104105). L’amore dunque è fonte di attività nobile e di perfezionamento instancabile.

   Alla passione amorosa, che con il caldo della voluttà inebetisce l’uomo e rende incapace di azione, l’Alighieri oppone la passione per tutto ciò che è sublime ed eleva lo spirito.

   Nel canto XIX° del Purgatorio, il poeta immagina di sognare e di vedere una femmina balba (simbolo della voluttà), guardando la quale egli resta incantato e stordito: improvvisamente appare Beatrice la quale si scaglia contro l’ammaliatrice e

 “dinanzi l’apria

fendendo i drappi e mostravano il ventre:

quel mi «vegliò col puzzo che n’uscia” (vv. 31-33). 

   Disingannato cosi da Beatrice, egli immagina tuttavia di rimanere stordito dalla visione,   e si fa dir così da Virgilio:

“vedesti quell’antica strega

vedesti come l’uom da lei si slega.

Bàstiti, batti a terra le calcagne!

li occhi rivolgi al logoro che gira

lo rege eterno con le rote magne!”

(vv. 58, 60-63).

   Le forme chiuse e affocate della passione, che inebetisce, non sono mai saltate nel Medioevo: lo spirito normalmente cerca di evadere dal piccolo e dal chiuso ver­so mondi vasti e sereni.

D)-ARMONIA TRA SPECULZIONE  TEORICA E ATTIVITA’  PRATICA.

   L’uomo che è stato dotato di capacità intellettuali notevoli, sente come dovere sacro   il bisogno di sfruttarne a beneficio della umanità; e l’attività quindi, per giungere alla scoperta del vero è considerata come un obbligo per chi è capace di esercitarla.

   Nel canto XXVI° dell’Inferno, Dante pone in bocca ad Ulisse la seguente dichiarazione:          

“Considerate la vostra semenza

fatti non foste a viver come bruti

ma per seguir virtute e conoscenza” (vv. 118-120).

   L’indifferentismo, cioè la comoda neutralità, di fronte ai grandi problemi teorici e pratici, viene condannato dall’Alighieri nel III° canto dell’Inferno, ove la vita è definita azione e lotta ideale, mentre l’inattività e il pacifismo egoistico vengono identi­ficati con la morte.

   Similmente viene bandito lo scetticismo, cioè l’atteggiamento di coloro che si accingono alla scoperta della verità o procedono nella scoperta di essa con la persuasione che non si potrà mai raggiungere la certezza in alcun campo e che quindi le più svariate e anche opposte asserzioni intorno al medesimo problema hanno tutte lo stesso valore.

   Per S. Tommaso e per Dante la verità è unica e di due affermazioni contraddittorie, se è vera l’una è falsa l’altra.

   L’uomo del Medioevo, concependo l’indagine teorica come una missione a vantaggio dell’umanità intera, difficilmente perde tempo nella trattazione di questioni inutili.

   Qualche volta, è vero, gli stessi sommi pensatori del Medioevo hanno dato importan­za a certe questioncelle che oggi ci sembrano sciocche; ma nel complesso la specula­zione medievale ha carattere serio ed è indirizzata ad illuminare la vita pratica.

   Tutta la grandiosa e complessa speculazione della ‘”Summa” di S. Tommaso mira a chiarire i rapporti che legano l’uomo a Dio, e a suggerire alla creatura razionale la via sicura per raggiungere il suo Creatore.

   L’Alighieri non solo si dedicò ad attività pratiche, accettando incarichi pubblici ed affrontando lotte dalle quali uscì sconfitto, ma ideò e compose, come s’è detto l’opera maggiore con propositi concreti e ben definiti.

   Qualcuno (ad esempio il Machiavelli) ha affermato che la speculazione medievale non ha tenuto conto delle esigenze pratiche della vita e che si è perduta dietro alle nuvole: niente di più falso. I ragionamenti dei pensatori medievali partono sempre da una costatazione di fatto, e concludono sempre ad affermazioni di principio che illuminano di luce più viva e più vasta il reale e danno all’uomo la possibilità di orientarsi con più sicurezza.

   Se poi si è voluto affermare che i medievali sono andati all’azione con un comples­so di principi teorici (o pregiudizi, come li chiamano gli avversari) e non si sono mai permessi di agire senza principi o di definire le norme dell’azione in base ai risultati utilitari dell’azione stessa, si è detta una cosa vera. Ma per i medievali, era mostruoso il tentativo di sostituire l’utile pratico al giusto.

   Se l’esagerazione di qualche mistico, che ha svalutato l’azione o l’ha presentata come pericolosa per chi voglia ascendere a Dio ha dato motivo ad alcuni maniaci del­le generalizzazioni di affermare che il Medioevo “maledisse all’opre della vita e dell’amore, e delirò atroci congiungimenti in rupi e in grotte”, è da tener presente tuttavia che poche epoche della storia hanno pensato ed operato, hanno lottato e costruito come quella del basso medioevo.

IL CONCETTO DEL LIMITE.

   Se i medievali hanno sentito il dovere dell’indagine e dell’azione e come uomini e come cristiani, hanno tuttavia anche sentito il dovere di contenere entro dei limiti la loro attività teorica e pratica.

   Tali limiti sono costituiti: nel campo della speculazione teorica dalla legge del buon uso della ragione, dal mistero e dalla tradizione; nel campo dell’attività pra­tica sono costituiti dalla legge morale e dalla utilità pubblica.

A)- NEL CAMPO TEORICO.

a)- E’ imposto ad ogni uomo il dovere di sfruttare le sua facoltà conoscitive, ma
tale sfruttamento è retto e legittimo solo nel caso che sia indirizzato al fine naturale dell’indagine stessa, cioè al vero e al bene.

   Gli abusi più comuni dell’intelligenza sono l’astuzia, la frode e l’artificio: tali abusi sono contrari al fine stesso delle facoltà conoscitive e sono proibiti da Dio:

                                      “più lo’ngegno affreno ch’i’ non soglio,

                                       perchè non corra che virtù non guidi

                                       sicché, se stella bona o miglior cosa

                                       m’ha dato il ben, ch’io stesso nol m’invidi”

                                                  (Inf. c. XXVI° vv. 21-24).

b)- Altro limite alle indagini è il mistero, cioè una verità che l’intelletto umano può illustrare, ma giammai dimostrare.

c)- S. Tommaso se illustra, in base ai principi della filosofia aristotelica i misteri della teologia cristiana, non pretende mai tuttavia di dimostrare razionalmente veri­tà che superano le forze conoscitive umane.

Dante riconosce l’impossibilità in cui si trova l’uomo a spiegare certi fatti pro­dotti dalla onnipotenza divina:

“matto è chi spera che nostra ragione

possa trascorrer la infinita via

che tiene una sustanza in tre persone.

State contenti, umana gente al quia;

che se possuto aveste veder tutto,

mestier non era partorir Maria”

(Purg. c.III° vv. 34-39).

   Nel canto XI° del Paradiso il poeta dichiara che la provvidenza governa il mondo con un piano

“nel quale ogni aspetto         

creato è vinto pria che rada al fondo” (vv. 29-30).

   Nel canto XIX° parlando del mistero della giustizia divina dice:

“Colui che volse il sesto

allo stremo del mondo, e dentro ad esso

distinse tanto occulto e manifesto,

non potè suo valor sì fare impresso

in tutto l’universo, che ‘l suo Verbo

non rimanesse in infinito accesso.

E ciò fa certo che l primo superbo,

che fu la somma d’ogni creatura,

per non aspettar lume, cadde acerbo” (vv. 40-48).

  E più oltre conclude

“Or tu chi se che vuò sedere a scranna,

per giudicar di lungi mille miglia

con la veduta corta di una spanna?” (vv. 79-81). 

   Altro limite all’indagine è costituito da alcune affermazioni storiche considera­te come certe, anche se non controllate attraverso una critica documentata.

   E’ noto che la teologia, ossia scienza della rivelazione divina, attinge le verità che espone ed illustra, dai libri della Sacra Scrittura e dalla tradizione.

   Ambedue queste fonti di verità, nel corso del Medioevo, vengono accettate senza discutere; e l’autorità della Chiesa, considerata come maestra della comunità dei cristiani, non viene mai contestata.

   Si protesta talvolta, da parte di qualche cristiano, contro colui che siede sul­la cattedra pontificale; ma la protesta non va diretta a lui come maestro, ma come uomo.

   Dante nel canto XII° del Paradiso ai versi 87 e 90, distingue tra la sedia, che è sempre simbolo di verità e di giustizia, e “colui che siede, che traligna”.

   E quel papa Bonifacio VIII° che è atteso nella bolgia dei simoniaci da Nicolò II° e nel canto XXVII° dell’Inferno è definito “principe dei farisei”, nemico dei cri­stiani, uomo arso “dalla superba febbre”, “il gran prete”, degno di maledizione, e nel canto XXVII° del Par. è definito da S. Pietro “usurpatore dello loco suo”, è tuttavia considerato da Dante come vicario di Cristo; e in forza della sua “re­verenza delle somme chiavi” (Inf. c. XIX° v. 101), protesta contro l’empio gesto di Filippo IV° che in  Anagni fece schiaffeggiare il detto pontefice:

“veggio in Alagna intrar lo fiordaliso

e nel  vicario suo Cristo esser catto;

veggiolo un’altra volta esser deriso;

veggio rinnovellar l’aceto e il fele,

e tra vivi ladroni esser anciso”

(Purg. c. XX° vv. 86-90).

   Non solo è accolta l’autorità della Chiesa e della tradizione cattolica in genere, ma anche la storia nel senso più vasto della parola, spesso mescolata anche a leg­genda.

   Se il Medioevo abbondò nella serietà speculativa, difettò assai nella critica razionale e storica) e spesso certe affermazioni tradizionali, anche errate, furono accolte senza discussione e limitarono la libertà dell’indagine stessa e l’iniziativa di scoperte, specie nel campo scientifico e geografico.

LIMITE DEL CAMPO DELL’AGIRE

a)- Il limite della legge morale.

   L’uomo è libero di fare quel che vuole, ma ha il dovere di fare solo quello che è lecito. Esiste una legge morale, scoperta dalla ragione o comunicata dalla rive­lazione, la quale definisce i limiti entro cui può muoversi la volontà umana senza venir meno all’ordine stabilito da Dio.

   Ed ancora:

                  “vegna per noi la pace del tuo regno,

                   ché noi ad essa non potem da noi

                   s’ella non vien, con tutto nostro ingegno”.

                  (Purg. C.XXI vv.6-9)

Per l’intelligenza delle verità soprannaturali è necessario il lume divino, senza del quale ogni luce è ingannevole:

                 “lume non è, se non vien dal sereno

                  che non si turba mai; anzi è tenèbra,

                  o ombra della carne, o suo veleno”

(Par. c. XIX° vv. 64–66 ).

   Anche nel campo delle pure attività naturali è sentita dai medievali l’insufficien­za della capacità umana. Dante, pur ponendosi sesto fra i grandi poeti del mondo Gre­co-latino-italiano (Inf. c. IV°  v. 102), pur avendo coscienza che al suo poema sacro hanno posto mano e cielo e terra (Par. c. XXV” vv.1-2), riconosce tuttavia, specie nel­la composizione dell’ultima cantica, la sua incapacità ad esprimere certi concetti e certe visioni: siccome

“la forma non s’accorda

molte fiate all’ intension dell’arte,

perch’ a risponder la materia è sorda”

(Par. c. I°   vv. 127-129),

“convien saltar lo sacrato poema,

 come chi trova suo cammin reciso”

          (Par. c. XXIII°  vv. 62-63).

Il poeta, cosciente che il suo omero è troppo debole per sostenere “il ponderoso tema”, non si vergogna di dichiarare al lettore che trema e vacilla sotto il carico eccessivo

(Par. c. XXXIII° vv. 64-66).

  Nel primo canto del Paradiso, sul punto di affrontare una materia ardua e superiore alle sue capacità intellettive e fantastiche, Dante oltre che alle Muse, chiede aiuto anche ad Apollo: (cioè si appella a tutte le risorse dell’arte) ma nonostante ciò, egli è convinto che riu­scirà appena a manifestare “l’ombra del beato regno’, e si consola al pensiero che la sua opera potrà essere di esempio a chi vorrà far meglio:

“poca favilla gran fiamma seconda:

 forse di retro a me con miglior voci

 si pregherà perché Cirra risponda”

                    (Par. c. I° vv. 34-36).

   I medievali, dunque, allorché si accingono ad un lavoro a cui li impegna il dovere di uomini e di cristiani, sentono il bisogno di invocare l’aiuto divino e schiettamen­te dichiarano che non pretendono di esaurire la perfezione, ma di fare quanto di meglio dettano loro la coscienza morale e le capacità tecniche.

CONCETTO DI PERFEZIONE.

   Secondo la concezione cristiana, quindi secondo la concezione medievale, l’uo­mo non è solo un animale che ragiona, ma è anche figlio adottivo della divinità.

  La perfezione, secondo la concezione aristotelica accettata da S. Tommaso, consiste nella realizzazione integrale della propria natura: essendo quindi il cristiano na­tura e soprannatura, la sua perfezione consisterà nel realizzare tutte le risorse del­la razionalità e della Grazia.

Ma, essendo la soprannatura superiore alla natura, anche se talvolta manca il perfezionamento integrale delle facoltà naturali, si può dichiarare un uomo perfetto, qualora in lui si attui lo sviluppo pieno della Grazia e delle virtù teologali (fede-speranza-carità).

   Quindi l’uomo ideale del Medioevo è il santo.     

   Tuttavia, in forza della armonia già accennata tra natura e soprannatura, tra profa­no e sacro, tra umano e divino, anche la sola perfezione delle facoltà naturali costi­tuisce un titolo al rispetto e alla venerazione dell’uomo medievale.

A questo proposito basta ricordare quello che già si è detto intorno alla stima e al rispetto dimostrato da Dante per Virgilio, per i grandi del Limbo, per Traiano e per Rifeo Troiano.

E’ chiaro, però, che il massimo della perfezione si realizza allorché si attuano, in ogni individuo, lo sviluppo pieno delle facoltà naturali e quello della soprannatura.

E, siccome la perfezione naturale raggiunge il massimo nell’affermazione della razionalità, consegue che l’uomo sapiente e santo nello stesso tempo, incarna il tipo superlativo della perfezione nel mondo cristiano.

Dante aspirò alla gloria di poeta filosofo e sognò un riconoscimento generoso dei suoi meriti di uomo sapiente anche da parte dei Fiorentini che avevano infamato il suo nome.

Ma il motivo di maggiore gloria per lui non è tanto quello che proviene dalla sa­pienza umana, quanto quello che proviene dal possesso della pratica delle virtù soprannaturali.

Nei canti XXIV° – XXV° – XXVI° del Par. si fa esaminare nella fede, nella speranza e nella carità dai tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni.

Alla domanda di san Pietro, che lo esamina nella fede, se egli possegga la moneta di questa virtù, risponde:

“sì, ho, sì lucida e sì tonda, 

che nel suo conio nulla mi s’inforsa”

(Par. c. XXIV° vv. 86-87).

   A san Giacomo, che gli domanda se possegga la speranza, risponde per lui Beatrice:

 “la Chiesa militante alcun figliuolo

non ha con più speranza, com’è scritto

nel sol che raggia tutto nostro stuolo:

però gli è conceduto che d’Egitto

venga in Ierusalemme per vedere,

anzi che il militar li sia prescritto” (Par. c. XXV° vv. 52-57).

A san Giovanni, che gli domanda se egli senta le attrattive dell’amore divino, risponde:

“…..tutti quei morsi

che posson far lo cor volgere a Dio,

alla mia caritade son concorsi;

ché l’esser del mondo è l’esser mio,

la morte ch’El sostenne perch’io viva,

e quel che spera ogni fedel com’ io,

con la predetta conoscenza viva,

tratto m’hanno del mar dell’amor torto, 

e del diritto m’han posto alla riva.

Le fronde onde s’infronda tutto l’orto

de l’ortolano eterno, am’io cotanto

quanto da lui a lor di bene è porto”.

 (Par. c. XXVI° vv. 55-66).

Le espressioni che abbiamo riferite non sono vanterie dell’Alighieri, ma aperte dichiarazioni di uno spirito cristiano che si gloria non del possesso di beni e di capacità terrene, ma di tesori soprannaturali.

   Per questo motivo, non ci fa mistero della sua devozione alla Vergine:

“il nome del bel fiore ch ‘io invoco

e mane e sera…” (Par. e. XXIII° vv. 88-89),

e che, nel parlare del Cristo, adotti le espressioni più grandiose: lo chiama infatti:

“Colui che in terra addusse

la verità che tanto ci sublima”

(Par. c. XXII°  vv. 41-42);

e altrove:

“…….la sapienza e’ la possanza

ch’aprì le strade tra ‘l cielo e la terrà”         

(Par. c. XXII° vv. 106-108).

   L’uomo, secondo la concezione medievale, è tanto più perfetto quanto più elevato è il motivo delle sue operazioni, quanto più integrale è la conquista della sua libertà.

   La perfezione naturale è garantita dal sopravvento della ragione su tutto il complesso irrazionale che costituisce parte della nostra natura: l’uomo, esercitato nella pratica del vero, è libero dagli influssi delle tendenze smoderate, e può muoversi con agilità e sicurezza in tutti i settori dell’agire umano.

   La perfezione soprannaturale è garantita dal sopravvento dell’amore di Dio sulla stessa ragione: operar bene per obbedire alla voce della ragione è umano; operar bene per amore all’Essere  infinito è sovrumano.

   Dante, dopo aver compiuto la sua purificazione attraverso l’Inferno e il Purgatorio, ove, sotto l’influsso del timore delle pene eterne ha reintegrato il suo spirito, sgravandolo dal peccato e inquadrandolo nelle esigenze della perfetta razionalità, si fa rivolgere da Virgilio (cioè dalla ragione che lo ha accompagnato nel cammino della purificazione) le seguenti parole:     

                                                     “il temporal foco e l’eterno

                                                       veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte

                                                        dov’io per me più oltre non discerno.

                                                        Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;

                                                        lo tuo piacere omai prendi per duce:

                                                        fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.

                                                        Purg. c.XXVII vv.127-132)

                                                        Non aspettar mio dirpiù  né mio cenno:

                                                        libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

                                                        e fallo fora non fallo a suo senno:

                                                        per ch’io te sopra te corono e mitrio.”

                                                        (Purg. c. XXVII° vv. 139-142)

        Eliminato l’irrazionale, cioè le cattive tendenze e il peccato, ristabilito il dominio della ragione nel suo mondo spirituale, il poeta é finalmente libero, ossia padrone di se stesso: egli è in grado di autogovernarsi, e di procedere  con facilità lungo la via del bene.

    Siamo ancora nel campo della perfezione razionale, il cui stile è dall’Alighieri stes­so descritto sobriamente, oltreché nelle annotazioni relative al carattere e al modo di fare di Virgilio anche nelle forme solenni con cui presenta “gli spiriti magni” del Limbo:

“genti v’eran con occhi tardi e gravi,

di grande autorità ne’ lor sembianti;

parlavan rado, con voci soavi” (Inf.  c.  IV°  vv. 112-114).

        Ci troviamo di fronte a tipi ideali di saggezza e di perfezione umana: ma la perfezione a sui aspira l’uomo del Medioevo è ben più elevata: una volontà mossa e regolata dalla ragione per il cristiano non è una volontà veramente perfetta; ma una libertà dal ma­le non è la realizzazione perfetta della libertà.

La volontà giunge alla sua perfezione suprema quando, oltreché per motivi razionali, opera per amore e precisamente per concordare con la volontà dell’essere supremo.

In tale armonizzazione della volontà umana con quella divina, trova la sua soddisfazio­ne piena non solo  l’intelletto ma anche il cuore.

La libertà raggiunge la sua perfezione quando non solo è purificazione dal male, ma volontario e positivo inquadramento dello spirito nell’ordine morale che è espressione della volontà divina. La spontanea ed affettuosa adesione all’ordine universale, cioè alla volontà divina, si chiama amore. Ed è appunto l’amore di Dio che eleva al più alto grado di nobiltà lo spirito umano.

Nel Purgatorio e nel  Paradiso Dante realizza una progressiva adesione di tutto il suo “spirito al vero, e al bene sommo fino all’adeguazione integrale della sua volontà alla volontà divina:

“all’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva il mio  disiro e ‘l velle,

sì come ruota ch’igualmente è mossa

l’amor che move il sole e l’altre stelle” (“Par. c. XXXIII° vv. 142-145).

Con l’aiuto di Virgilio, cioè della ragione, si giunge all’autonomia razionale; con l’aiuto di Beatrice, cioè della fede, si giunge all’adesione amorosa di tutto lo spirito all’Infinito.

In questa amorosa adesione al bene sommo, l’uomo si trasumana, il suo spirito  si effonde fuori di sé nell’oceano infinito del vero e del buono. Tutti i grandi problemi,  tutte le più alte visioni diventano l’alimento del suo spirito, l’uomo  assume forme ideali che realizzano un tipo di perfezione suprema.

Nel canto XXXII° del Par. Dante ci presenta, in visione generale ma sufficientemente concreta, lo stile dei cittadini della città celeste, cioè di coloro che hanno realizzato la perfezione soprannaturale, che hanno assimilato cioè le forme della vita di Dio che è amore:

“vedea di carità visi suadi,

d’altrui lume fregiati e di suo riso,

e atti ornati di tutte onestadi” (Par. c. XXXI°  vv. 49-51).

   La perfezione naturale e quella soprannaturale realizzano ogni ideale a cui aspira l’ansia umana e mistica del medioevo: il santo, la donna-angelo, il cittadino giusto e il cristiano ricco di fede, di speranza e di carità, sono le incarnazioni di quell’ideale sulla terra.

Dante ci presenta un esemplare di questa perfezione naturale e soprannaturale nel suo antenato Cacciaguida; e vagheggia la Firenze antica come la città giusta, pacifica, sobria e pudica.

Ma alla fine del sec. XIII°, cioè al tempo dell’Alighieri, all’ideale della perfezione cristiana viene sostituendosi un ideale di perfezione terrena, ristretto alle capacità naturali dell’uomo e caratterizzato da una abilità eccellente in tutte le espressioni della vita temporale.

Dante, che avvertì la deviazione del mondo cristiano, tentò di opporsi alla avanzata degli ideali terrestri e, come un profeta, richiamò la Respublica Christiana agli ideali umani e divini, la cui realizzazione riesce a soddisfare le aspirazioni del cuore e o ga­rantire la felicità terrena e quella celeste.

PENSIERI SU PECCATO E  PENE ETERNE.

        E’  stato detto, esagerando, che i medievali fossero sotto l’incubo continuo del peccato e delle pene eterne; e che quindi lo spirito medievale non abbia mai goduto della vera libertà d’azione, d’iniziativa e di movimento, essendo di continuo impacciata da preoccu­pazioni morali e dalla paura di punizioni misteriose.

        La visione di un Medioevo in terrore per i giudizi divini, l’affermazione troppo comune che i medievali conoscessero Dio solo come giudice e non come padre non corrispondono alla verità storica: san Domenico, san Francesco, san Tommaso d’Aquino, Dante Alighieri non sono certo i personaggi rappresentativi di generazioni terrorizzate da incubi morali e religiosi.

      Una cosa è certa però, che i medievali, avendo una coscienza morale viva e sensibile, e conoscendo lo fragilità della natura umana, trepidavano di fronte alla tentazione e al peccato; come è certo che in generale l’uomo del Medioevo, caduto nel peccato, sente il disagio del suo disastro morale, si preoccupa delle eventuali punizioni divine, si affretta a far penitenza e a ripararle.

        Frequenti sono i richiami degli scrittori dell’epoca, alla meditazione dei Novissimi (morte, giudizio, Inferno o Paradiso), cioè della morte, dei castighi e dei premi dell’oltretomba; frequenti sono e orride le descrizioni dell’Inferno e del Purgatorio per scuotere i peccatori. Bonvesin de la Riva (nel “Libro delle tre scritture”); Giacomino da Verona (nel suo “De Jerusalem coelesti et de babilonia infernali”); e lo stesso Alighieri presentano le visioni dell’oltretomba con l’intento di richiamare i lettori alla realtà di un futuro eternamente infelice o beato e di distoglierli così dalla colpa o confermarli nell’esercizio della virtù.

        I predicatori usavano insistere su fosche descrizioni delle pene dell’Inferno e del Purgatorio, su ripugnanti visioni   della morte e su drammatici esempi di peccatori puniti dalla giustizia di Dio o salvati dalla sua misericordia. (Notevoli sono a questo proposito le prediche di Jacopo Passavanti contenute nello “Specchio della vera penitenza”).

     Frequenti erano le pubbliche dimostrazioni di penitenza con processioni, canti lamen­tosi, abbigliamenti umilianti e talvolta con flagellazioni.

      In alcuni settori del popolo cristiano penetrò una vera mania della penitenza e della umiliazione: si ebbero ad es. famose espressioni di fanatismo, quali quelle delle compa­gnie dei “FLAGELLANTI”.

      Con tono più moderno e con intenzioni più serie fecero della povertà e dell’umiltà e della penitenza programma di vita i Domenicani e i Francescani.

     In ogni città non erano rari i casi di peccatori e di peccatrici, noti a tutti, che in circostanze più o meno drammatiche, o perché giunti all’età

“….ove ciascun dovrebbe

calar le vele e raccoglier le sarte”

(Inf. c.  XXVII° vv. 80-81),

si davano, con grande edificazione di tutti, ad una vita di penitenza e di riparazione.

    Nel Medioevo ci furono peccatori robusti e spregiudicati, come ci furono e ci sono in tutti i tempi: in quell’epoca, però, chi peccava era dal pubblico considerato come peccatore e, quasi sempre prima di morire, colui che aveva dato scandalo, riparava pubblicamente.

    A rendere più vivo l’orrore delle colpe, e particolarmente di certe forme di ribellione alla Chiesa, l’autorità religiosa ricorreva spesso a scomuniche e punizioni inflitte in vita e in morte.    

      Errerebbe però chi pensasse che nel Medioevo non si facessero che processioni di penitenza, che non si predicassero se non i terribili giudizi divini; che la Chiesa si compiacesse di scomunicare e di punire, che le anime fossero oppresse di continuo da incubi religiosi e morali.

    La penitenza, intesa come tortura del corpo avente fine à sé stessa, come umiliazione per l’umiliazione, è aliena dalla concezione che di essa ha la Chiesa. La vera penitenza consiste nella riprovazione del male e in un esercizio faticoso e costante dello spirito, per addomesticarlo al vero e al bene che nel tempo del peccato sono stati ripudiati e misconosciuti.

       La pena corporale è un castigo, che il penitente infligge a sé stesso, o che accoglie umilmente dall’autorità, per punire la sua ribellione alla legge.

     Nel Purgatorio Dante presenta le anime più che altro in questo atteggiamento di commossa adesione al vero e al bene, un giorno da essi disprezzati; allora il martirio diven­ta un:

“Io dico ‘pena’ e dovrei dir sollazzo

ché quella voglia alli alberi ci mena

che menò Cristo lieto a dire ‘Eli

quando ne libero con la sua vena”

(Purg. c. XXIII°  vv. 73-75).

      E’ evidente in questo passo che la penitenza è il “buon dolor ch’a Dio ne rimarita” (ibidem v. 8l): ossia è frutto dell’amore che riconosce e testimonianza della fedeltà che si rinnova.

    La povertà e l’umiltà di san Francesco sono vivificate dall’amor di Dio; e nello stesso Jacopone da Todi la mania della penitenza è spiegabile:

“con l’amor de caritade”: “quando iubilo ha preso lo cor enamorato, la gente l’ha en deriso”.

     Quanto alle pene spirituali e corporali inflitte dalla Chiesa ai fedeli indisciplinati l’Alighieri, pur riconoscendone la legittimità, ne critica l’abuso da parte dell’autorità ecclesiastica: la quale troppo spesso ad esse ricorre per spuntarla contro avversari politici:

“già si solea con le spade far guerra;

ma or si fa togliendo or qui, or quivi

lo pan che ‘l pio Padre a nessun serra”

                    (Par. c. XVIII° vv. 127-129).

     E Manfredi, morto scomunicato, ma ritornato a Dio nell’ultimo istante dice: “Per lor maledizion sì non si perde,

                       che non possa tornar l’eterno amore

                       mentre che la speranza ha fior del verde.

                       Vero è che quale in contumacia more

                        di   Santa Chiesa, ancor ch’al fin sì penta

                        star li convien da questa ripa in fore”

                                   (Purg. c. III° vv. 133-138).

    La scomunica dunque, per quanto inflitta ingiustamente, ha la sua efficacia nel cam­po disciplinare anche nell’oltretomba, ma la salvezza non è pregiudicata dalla punizione qualora sopravvenga un atto di resipiscenza nel cristiano indisciplinato.

     Perciò, se nel Medioevo ci furono delle anime piccine che fecero della penitenza, dell’umiliazione e degli incubi dell’oltretomba delle forme di vita aventi fine a se stesse; il pensiero ufficiale della Chiesa, però, e quello dei grandi spiriti, come san Tommaso e Dante, considerarono quelle forme come mezzi per riaccendere o accrescere l’amor di Dio.

     L’umiltà, del resto, non impedì alle anime grandi di assumere atteggiamenti regali di fronte alle supreme autorità: l’Alighieri si compiace di presentare san Francesco in nobile atteggiamento di fronte al più signore dei papi, cioè di fronte ad Innocenzo III° :

“Nè gli gravò viltà di cor le ciglia

per esser fi’ di Pietro Bernardone,

né per parer dispetto a  maraviglia;

ma regalmente sua dura intenzione

ad Innocenzio aperse”

(Par. c. XI° vv. 88-92).

       A tutti poi è noto l’atteggiamento fiero che l’Alighieri assunse nei confronti dei titolari delle potestà supreme: egli le criticò; inveì contro di esse con la franchez­za del cittadino libero e con l’autorità quasi di profeta.

   Basterebbe, dunque, pensare all’Alighieri, cristiano coscienzioso e libero disciplinato e magnanimo, per smentire l’affermazione che gli spiriti del Medioevo fossero vittime di una umiltà fatta di viltà, di servilismo e di paura.

VALUTAZIONE DEI BENI TERRENI.

      I beni della terra sono mezzi concessi da Dio all’uomo, perché questi ne usi per perfezionare   il suo fisico e il suo spirito. Nell’armonia fra natura e soprannatura, realizzata dalla spiritualità medievale, i beni temporali (la salute, la bellezza, la ricchezza, la fama) non sono considerati come cause di dannazione, ma come risorse da sfruttare per rendere più facile e più sicura l’ascesa dello spirito verso Dio.

     Il male, nell’uso dei beni terreni, si ha quando l’anima o ama beni proibiti o ama troppo i beni finiti, o ama poco il bene infinito. La stima giusta e l’uso moderato dei beni temporali sono caratteristiche dell’uomo saggio ed equilibrato.

     L’ascesi, a cui l’Alighieri sembra aspirare nel canto XI° del Par. (ove si esalta la figura di san Francesco e quindi vengono celebrate la povertà e l’umiltà), non è che un superamento della frenesia con la quale gli uomini si appassionano nelle loro attività terrene ed aspirano alle ricompense umane: non è affatto svalutazione del lavoro, del   travaglio e della lotta per realizzare il perfezionamento proprio e quello altrui.

     L’Alighieri amò là bellezza e la cantò come mai nessuno è riuscito a fare: ma con­siderò la bellezza umana come riflesso di quella divina. Rimproverò gli avari e i prodighi per il cattivo uso fatto da essi, in modi opposti, della ricchezza. Chiamò la fama:

“Non è il mondan romore altro che fiato

Di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,

e muta nome perché muta lato”

(Purg. c. XI° vv. 100-102):

    Eppure egli riservò ai benemeriti della civiltà umana, agli uomini virtuosi, le più alte espressioni della glorificazione; ed aspirò egli stesso ad una fama che lo compensasse delle dure fatiche affrontate nel comporre il suo poema e lo confortasse nella sua attività svolta a vantaggio del mondo cristiano.

    Che gli uomini del Medioevo amassero anch’essi l’eleganza del vestire, le feste ral­legrate da liete compagnie, suoni e fiori; che i giovani prendessero parte con entu­siasmo a cavalcate di gala lo dimostrano le descrizioni che della vita cittadina (spe­cie nel sec. XIII°) ci hanno lasciato svariati poeti, da quelli popolari a quelli del­lo “stil novo”.

    Che i medievali amassero le belle costruzioni e fossero orgogliosi di un’edilizia cittadina, che s’imponesse all’ammirazione, lo dimostrano gli innumerevoli edifici sacri e civili, che sorsero in tutte le città italiane, specie nel corso del sec. XIII°.

     Nel complesso, dunque, lo spirito medievale non rifiuta il godimento delle cose ter­rene, ma, nello stesso tempo, si sforza di non lasciarsi sopraffare dalla preoccupazio­ne di esse; e, quando lo richiede un ideale superiore, è disposto anche a sacrificarle.

     Dante esalta Daniello che “dispregiò cibo ed acquistò savere“; esalta il Battista che nel deserto si nutrì di

“mèle e locustefuron le vivande

Che nudriro il Batista nel deserto

perch’elli è glorioso e tanto grande

quanto per l’Evangelio v’è aperto” (Purg.c.XXII vv. 153-154);

e l’Alighieri stesso dichiara di aver sofferto di essere “per più anni magro” per condurre a termine

“il poema sacro,

al quale ha posto mano e cielo e terra

 (Par. c. XXV° vv. 1-2).

    Insomma lo spirito medievale, ricco com’è di sensibilità morale, considera i beni terreni come mezzi per la conquista di beni superiori: perciò, anzitutto fugge la “di­smisura” (Pur. c. XXII° v. 35) nel godimento di essi, e si attiene al principio che l’amore dei beni

“mentre ch’egli è ne’ primi ben diretto,

e ne’ secondi sé stesso misura,

esser non può cagion di mal diletto;

ma quando al mal si torce, o con più cura

o con men che non dee corre nel bene,

contra ‘l fattore adovra sua fattura”

(Purg. c. XVII° vv. 97-102);

in secondo luogo esalta coloro che, per rispondere alle esigenze di una missione supe­riore, sposano, come san Francesco e san Domenico, la povertà e l’umiltà.

    Ci furono, è vero, nel corso dei Medioevo varie sette ereticali che, rinnovando la mentalità manichea, considerarono le cose terrene come espressione di Satana e pro­pugnarono il disprezzo e la distruzione dei beni terreni (Albigesi-Catari-Valdesi), ma il pensiero ufficiale e la prassi comune dei cattolici (il che vuol   dire della stragrande maggioranza) si guardò bene dal seguire simili proposte di ascetismo fanati­co e furioso.

CONCETTO  DELL’ARTE.

   L’arte, secondo la concezione dei medievali, consiste nell’esprimere bene, o con la parola, o con il colore, o con altra mezzo, quello che di un determinato soggetto co­stituisce il significato morale più profondo.

    L’arte, perciò, è anzitutto interpretazione filosofico-religioso-morale del sogget­to, cioè individuazione del vero significato umano e sovrumano di esso ed è poi capa­cità di esprimere tale significato in forme concrete e vive, le quali forme sono vera­mente artistiche quando imitano perfettamente la realtà, cioè    quando sono verosimili.

    E’ da distinguere la riproduzione pura e semplice del reale dalla   produzione del verosimile: la prima è copiatura della realtà, tentativo di creare un doppione inutile di essa; la seconda è creazione vera e propria della fantasia, condotta sul modello delle realtà sperimentali.

    I medievali accolgono il concetto dell’arte elaborato da Aristotele, cioè il concet­to che l’arte è “mimesi”, o imitazione, o creazione del verosimile. Dante esprime questa concezione nel canto XI°  dell’Inferno:

“Fìlosofia….a chi la ‘ntende,

nota non pur in una sola parte,

come natura lo suo corso prende

da divino intelletto e da sua arte;

e se tu ben la tua Fisica note,

tu troverai, non dopo molte carte,

che l’arte vostra quella, quanto pote,

segue, come ‘l maestro fa il discente;

sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote” ( vv. 97-105). 

    La prima artista, dunque, è la natura, la quale imita Dio che è archetipo, o esem­plare di tutte le cose create: il secondo artista è l’uomo che, valendosi della fanta­sia creatrice e compositrice, e servendosi di una sapiente tecnica rappresentativa, gareggia con la natura nel produrre forme viste dall’idea.

    La natura è artista per eccellenza perché sa imitare in modo perfetto l’esemplare di­vino: e alla natura si avvicinano i grandi ingegni quando sanno imprimere alle loro creazioni atteggiamenti vivi ed eloquenti.

    Le figurazioni che l’Alighieri immagina scolpite nel primo girone del Purgatorio so­no perfette perché imitano, con verosimiglianza integrale, il vero:

                                                 “morti li morti e i vivi parean vivi:

                                                non vide mai di me chi vide il vero,

                                               quant’io calcai, fin che chinato givi”

                                               (Purg. c. XII° vv. 67-69). 

    La naturalezza, dunque, l’adeguazione perfetta alle forme fisiche, alla psicologia e alla mimica dell’uomo sono i fattori essenziali della buona tecnica d’arte.

    Quando l’imitazione artistica è così naturale che i sensi e la fantasia dello spet­tatore hanno l’impressione di essere di fronte ad una realtà vera, si può esser certi che quell’imitazione è perfetta. Ad esempio nel primo girone del Purgatorio, l’altorilievo nel quale è rappresentata l’annunciazione, presenta, l’angelo “sì verace” che “giurato si saria ch‘el dicesse ‘Ave’ “ (Purg. c. X° v.40); i due cori che circondano l’ar­ca santa, ben riprodotti nell’atto di cantare, fanno dir ai due sensi dell’Alighieri:

“l’un ‘No’, l’altro ‘Si’, canta” ( ibidem v. 60): 

è per questo motivo che quelle figurazioni sono chiamate dal poeta così perfette: “che non pur Policleto,

                 ma la natura li avrebbe scorno” (ibidem vv. 32-33).

    L’evidenza e la vivezza dell’imitazione non sono fine a se stesse: non si tratta di gioco di tecnica destinato o rivelare aridità tecnica e a provocare l’applauso; l’eloquenza della forma è un mezzo per comunicare al lettore e allo spettatore l’interpretazione che l’autore ha dato della vita intima del suo soggetto.

     Il vero della rappresentazione è un mezzo per esprimere il vero dell’ispirazione, cioè del pensiero e del sentimento che si vogliono comunicare al lettore.

    L’arte, dunque, è strettamente unita al vero, inteso non solo come verosimiglianza, ma anche come contenuto dell’ispirazione: è per questo che san Tommaso chiama l’arte “splendore del vero”, cioè presentazione attraente e suggestiva della verità.

    E Dante, nel primo canto del Paradiso, fa capire che attende fama di grande poeta e dal­la materia che tratterà, cioè dalle alte verità teologiche e scientifiche che esporrà, e dall’ispirazione, cioè dalla passione con la quale egli incarnerà in forme concrete il suo pensiero:

“ venir vedrà ‘mi al tuo diletto legno

e coronarmi allor di quelle foglie

che la materia e tu mi farai degno” (Apollo)

(Par. c. I° v. 25-27);

e nel canto XXXI° del Paradiso fa capire che i soggetti alti esigono ricchezza di immaginazione e ricchezza di parola:

“E s‘ io avessi in dir tanta divizia

quanta ad immaginar, non ardirei……”   (vv. 136-137).

    Il poeta, secondo la concezione medievale, non è un vagheggiatore di belle forme, ma un educatore di anime, cioè un maestro di verità teologiche, filosofiche, morali, che conosce l’arte di giungere all’intelletto e alla volontà dei lettori, attraverso la loro fantasia e il loro cuore.

    L’arte per l’arte, cioè la poesia fine a sé stessa, è ignota al Medioevo: in quell’età non si concepiva nessuna attività che non fosse al servizio dello vita; e fra le attività umane una delle più efficaci per elevare lo spirito del popolo cristiano era considerato quella artistico. I Padri della Chiesa consideravano la pittura sacra, co­me una predica perpetua ai cristiani che, entrando nel tempio, volgessero lo sguardo alle figurazioni che ne decoravano le pareti.

    E’ chiaro che, assegnando all’arte una funzione pedagogica, non si intendeva rinunciare alle finalità estetiche, ma al contrario si mirava ad un magistero più efficace attraverso forme estetiche perfette il più possibile: insomma, i fattori estetici erano considerati come mezzi per la realizzazione di un fine altamente umano e non come fini che dovessero esaurire tutto l’ impegno dell’artista. E’ evidente, infatti, che un discorso sarà tanto più persuasivo quanto più sarà bello, e che una pittura sarà tanto più eloquente e commovente quanto più sarà perfetta nell’ispirazione, nel disegno e nella coloritura.

    Nessuna apposizione, dunque, tra estetica e finalità educativa; ma, mentre la finalità educativa favorisce la serietà del contenuto di un’opera, l’impegno estetico ne fa­vorisce la ricchezza e l’efficacia espressiva.

    L’arte non è destinata ad un piccolo gruppo di intenditori, ad una cerchia ristretta di dotti, ma ad in pubblico tanto vasto quanto è vasta l’umanità. Dante si era impegnato nel “Convivio” a trattare argomenti scientifici in lingua volgare per  poter essere utile al maggior numero possibile di lettori: nella “Divina Commedia” egli si pone il fine di portar “vital nutrimento” alle anime dei contemporanei e ai posteri, e di esaltare  l’infinita grandezza di Dio, cosicché gli uomini, attraverso i suoi versi, si rigenerino moralmente e aspirino all’infinito:

“o somma luce …….

fa la lingua mia tanto possente.

ch’una favilla sol della tua gloria

possa lasciare alla futura gente;

ché, per tornar alquanto a mia memoria

e per sonare un poco in questi versi,

più si conceperà di tua vittoria”   

(Par. c. XXXIII°  vv. 70-75).

    L’Alighieri, mentre scrive, immagina se stesso come nocchiero di una nave che percor­re un oceano grandioso e che è seguita da un’infinità di “picciolette barche” desidero­se di giungere, dietro la sua guida, alle mete incantevoli del vero, del buono e del bello (Par. c. II°  vv. 1-3).

    La Divina Commedia, che è l’enciclopedia poetica della cultura medievale, è anche la espressione più viva delle aspirazioni, delle ansie, dei problemi del popolo cristiano (specie quello d’Italia) alla fine del sec. XIII° e agli inizi del sec. XIV°.

    Il fervore mistico aperto alle più vive aspirazioni soprannaturali, le ansie per i destini delle città dilaniate dalle discordie, le polemiche roventi circa i rapporti fra potere temporale e potere spirituale, la preoccupatone per l’avanzata di una menta­lità mondana e di uno stile paganeggiante di vita non commuovevano lo spirito dell’Alighieri, ma la grande massa della Respublica Christiana. E’ per questo che Dante nella sua Commedia cercò di scendere, il più possibile, al livello dell’intelligenza del popo­lo: cioè (come direbbe il Berchet) in tutti coloro che, quando leggono o sentono leg­gere, capiscono e si commuovono: al popolo inteso in questo senso egli porse le prime due cantiche,  riservando ai dotti la terza. Per farsi meglio intendere, nella sua gran­de opera, egli lasciò da parte il volgare illustre e adottò il dialetto fiorentino; né sdegnò di desumere paragoni ed espressioni dall’ambiente popolare.

    Il poeta medievale, insomma, se sì compiace di ispirazioni e forme elevate, care ai dotti, aspirava però anzitutto a farsi interprete e maestro delle masse.

 Perciò i rappresentanti più illustri del mondo letterario medievale mai si compiacque­ro di artifici, di imitazioni ingegnose, ma preferirono sempre un’originalità che, per quanto   talvolta primitiva, era tuttavia espressione immediata ed efficace di uno spi­rito ricco di ideali e di nobili passioni.

    Con ciò non si vuol negare che certe espressioni della letteratura medievali (specie in Provenza e in Sicilia) presentino forme artificiose e ingegnose che rivelano l’am­bizione dello scrittore di apparire un tecnico raffinato del linguaggio. E possiamo anche aggiungere certi sistemi di artificio (quali ad es. quelli proposti dalle “Artes dictandi”, cioè da quelle norme retoriche che insegnavano a costruire il periodo rit­mico e cadenzato per la redazione dei documenti curiali  o aulici in latino) erano, oltreché inutili, anche abbastanza meschini. Ma il Medioevo non è rappresentato né dai giochi di parole di certi Siciliani, né dagli stilisti delle curie: il vero Medioevo è quello dei grandi.

    Un fenomeno interessante della tendenza medievale a considerare la lingua come mezzo e non come fine di chi scrive, cioè a considerarla come un complesso di forme conven­zionali per esprimere il pensiero e il sentimento e non come ingegnosa architettura di parole, destinate a rivelare l’abilità tecnica dell’artista, è la libertà con cui i dotti maneggiano la lingua latina.

    Nell’alto Medioevo si compose sempre in latino dotto; nel basso Medioevo, accanto alle composizioni in volgare (che in Italia hanno inizio solo nel sec. XIII°), con­tinua a vivere la composizione latina. La giurisprudenza, la teologia, la filosofia, l’amministrazione civile ed ecclesiastica fanno uso del  latino. Si tratta di una lingua che segue la grammatica e la sintassi latina come modelli generali che non impegnano affatto ad un’ osservanza stretta delle loro regole. Vocaboli nuovi, fonie grammaticali e sintattiche nuove, dovuti all’evoluzione della civiltà, vengono creati sul modello del vocabolario, della grammatica e della sintassi dell’età classica.

    Il latino medievale così è vero latino perché segue le forme di questa lingua, ma è un latino vivo perché aderisce e risponde alle esigenze dell’evoluzione della civiltà: esso era uno strumento duttile, capace di perfezionarsi all’infinito e di esprimere tutte le forme dello spirito umano.

    San Tommaso e Dante ci presentano un latino che all’occhio di un classicista pe­dante può apparire spregiudicato e barbarico, ma si rivela intelligente ed anche di buon gusto a chi consideri la lingua come mezzo dell’espressione, adeguata e perfetta del pensiero.

    La concezione e la prassi artistica del Medioevo sono, dunque, orientate verso una concretezza di contenuto e di forma, verso finalità utili ed estetiche nello stesso tempo, e presentano un’originalità così schietta e libera che smentiscono l’accusa di barbarie, ripetuta contro di esse dagli umanisti esclusivisti delle va­rie epoche della nostra storia letteraria: quando agli inizi del sec. XIX° i nostri scrittori s’impegneranno a creare una letteratura per il popolo, sostanziosa, con­creta e semplice, ritorneranno ai modelli del Medioevo, cioè all’età romanza, e, proprio per questa simpatia, saranno chiamati romantici.

CONCLUSIONE

    Il Medioevo può essere benissimo considerato, come vollero gli umanisti, un’epoca di passaggio; ma non è il caso di considerarlo come un’epoca su cui bisogna passar sopra; quasi che non presenti nulla di lodevole e accettabile.

    Fu il periodo in cui si elaborò la civiltà moderna, cioè una civiltà che fondamentalmente è romana, cristiana e germanica; e fu il periodo in cui questa civiltà giovane, entusiasta e schietta, diede le prime prove della sua profondità di pensiero, della sua umanità di sentimento, del suo gusto decoroso e sensato.

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