Ugo FOSCOLO appunti dalle lezioni del prof. Mancini don Dino

UGO FOSCOLO           (1778-1827)

Spiritualità del Foscolo.

   Il Foscolo vive negli ultimi decenni del secolo XVIII e nei primi decenni del secolo XIX: in un periodo storico agitatissimo in cui avviene una svolta decisiva per la storia moderna, ed ha inizio la nostra azione rinascimentale; egli riassume in sé la dirittura di carattere del Parini ed il furore eroico dell’Alfieri, ed incarna la figura del poeta soldato, cioè dell’uomo che vive intensamente, combinando insieme l’ideale e l’azione.

   Il mondo spirituale del Foscolo, infatti,  è caratterizzato dalla fusione fra una mentalità idealistica ed una realistica, ambedue di tono intenso, ambedue decisive.

   La filosofia enciclopedistica aveva spazzato via l’assoluto dalla vita: ora l’anima va in cerca di esso, perché senza di esso non può vivere. Foscolo lo ricostruisce per illusione assolutizzando il finito.

   Benché educato in seminario egli, fin da giovane, assimilò il pensiero filosofico dell’ideologia enciclopedistica, che gli fece concepire la realtà come materia in continua evoluzione, sotto la spinta di una forza interiore, che la fa passare di forma in forma.

   In questa concezione materialistica e meccanicista egli inquadra anche il suo pensiero circa l’uomo e il destino umano. L’uomo è materia vivente, anche essa in continua evoluzione, anche essa soggetta alle ferree leggi della materia i n genere. Tra l’uomo e l’universo esiste lo stesso rapporto che intercorre tra la parte e il tutto: l’uomo è il piccolo ingranaggio di una macchina spaventosamente enorme, i cui movimenti avvengono secondo leggi di una fatale necessità: “Pare che gli uomini sieno fabbri delle proprie sciagure; ma le sciagure derivano dall’ordine universale e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente ai destini….. le vicende umane sono comuni e necessari effetti del tutto…… la terra è una foresta di belve. La fame, i diluvi e la peste sono nei provvedimenti della natura come le sterilità d’un campo che prepara l’abbondanza per un campo veniente, e chissà ? Forse anche le sciagure di questo globo apparecchiano la prosperità di un altro” (dallo “Jacopo Ortis”).

   Il principio vitale del corpo, cioè l’anima si dissolve con il dissolversi della materia: il  Foscolo non accoglie il concetto che l’animo sia immortale: “Abbiate pace o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce. Umana sorte ! Meno infelice degli altri chi non la teme”.

   Oscuro è il mistero della nostra origine, oscuro quello del nostro fine, oscuro quello del significato della nostra vita: si può solamente affermare che noi e le vicende della nostra vita siano una produzione necessari del movimento del tutto. Nel buio di questo mistero, l’esistenza individuale si riduce ad una serie di esperienze dolorose e l’esistenza collettiva  ad un procelloso susseguirsi di sciagure: “E tu onore di pianto Ettore avrai….finché il sole risplenderà sulle sciagure umane”; “Beata! Ancor non sa come agli infanti provvido è il sonno eterno e quei vagiti presagi son di dolorosa vita”.

   Ma il cuore dell’uomo che sente nobilmente non si adatta ad una concezione di vita di questo genere: recitare la parte di piccolo ingranaggio è umiliante per l’uomo che ha coscienza della sua dignità; fluire insieme alle cose, come una di esse, verso una meta ignota, demoralizza l’uomo che ha l’ansia dell’assoluto e dell’eterno. E allora è necessario superare in qualche modo la posizione pessimistica. La ragione e l’esperienza ci dicono che la vita è un complesso di fenomeni necessari, che nessuna delle cose e neanche noi stessi abbiamo un valore degno di considerazione, noi cessiamo di vivere col venir meno della nostra esistenza attuale: il cuore per poter vivere esige di sentire la soddisfazione di creare liberamente il proprio destino e di contribuire al miglioramento delle sorti dell’umanità, ossia vagheggia la soddisfazione dell’io che crea e che si afferma liberamente; il cuore esige qualche cosa di eterno e di assoluto e si rifiuta di accogliere la possibilità di un annientamento totale. Chi vuol vivere, pur tenendo presenti le voci della ragione e dell’esperienza,  deve ascoltare le voci del cuore e credere solo ad esse. Questa fede nelle aspirazioni del cuore si chiama “illusione”.  

   La vita è brutta, ma per chi riesce ad immaginarla bella, è veramente bella . “Illusioni grida il filosofo…or non è tutto illusione ? Tutto ! Beati gli antichi che sacrificavano alle bellezze e alle grazie; che diffondevano lo splendore della divinità sulle imperfezioni dell’uomo, e che trovavano il bello e il vero accarezzando gli ideali della loro fantasia ! Illusioni ! Ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o, cosa che mi spaventa ancor di più, nella rigida e noiosa indolenza; e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo scaccerò come un servo infedele”.

   In forza dell’illusione, quindi, noi siamo capaci di sentirci immortali e liberi, di sentirci persone autonome, capaci di dirigere il nostro e in parte l’altrui destino; siamo capaci di diffondere il bello dove è l’orrore della bruttezza, di vedere il sublime dove è uno sfondo di bello e di bene.

   L’illusione o afferma quel che non esiste (immortalità e libertà) o dà forme superlative a ciò che esiste in forma minore; l’uno e l’altro modo vengono incontro all’esigenza di un cuore che dalla negazione è straziato e dal poco è avvilito. Il nostro spirito ha insita l’ansia dell’assoluto ed ogni qualvolta che di questo scorge una tenue immagine, non solo si rallegra, dimenticando la miseria a cui l’ha condannato il destino, ma sente il bisogno di ingrandirla, idealizzandola superlativamente.

   Così è possibile il sollievo nel dolore attraverso una visione di bellezza o naturale o umana o artistica o attraverso una visione di bontà; così è possibile la certezza nel dubbio o addirittura nella negazione; così è possibile l’azione pur nella constatazione che tutto ci sfugge e ci domina nello stesso tempo.

   Ricostruito così, attraverso l’illusione, il complesso delle certezze, è possibile l’azione e ci si può riconciliare con la vita, la quale in sé stessa sembrava intollerabile.

   Le attività che maggiormente distolgono l’anima dalla visione triste della realtà, e infondono in essa la gioia del vivere sono due: quella poetica e quella eroica. Attraverso l’attività poetica si viene a costruire un mondo ideale, ove i motivi della vita reale vengono talmente abbelliti e resi assoluti che perdono della loro caducità e povertà, da soddisfare lo spirito bramoso del perfetto. Attraverso l’attività eroica, in cui l’uomo spende le sue energie a servizio degli ideali della libertà, della patria e del progresso, è possibile dimenticare il valore meschino delle  azioni quotidiane e trasferire, su un piano ideale, la vita reale.

   Quando le circostanze rendono impossibile il sogno del cuore perché i fatti arrestano il corso dei moti ideali dello spirito, è bene rinunciare alla vita.

   Jacopo Ortis, la cui esistenza è sostenuta dall’ideale dell’amore e della patria, quando vede crollare e l’uno e l’altro, ritiene che non sia più possibile, per lui, continuare a vivere e decide di porre termine alla sua vita.

   E’ chiaro che se tutti adottassero la soluzione di Jacopo, l’ideale non avrebbe servitori fedeli e tenaci e verrebbe meno per mancanza di sostenitori: perciò il Foscolo, dopo aver romanticamente sostenuta la necessità del suicidio per impedire che il cuore procedesse invano di illusioni in illusione, decide di affrontare la vita sino in fondo, col sostegno di una coscienza netta  e di ideali imperituri.

   Amore, contemplare la bellezza, creare realtà perfette con la poesia, combattere con animo indomito la tirannide, lavorare per l’avvenire della patria, sono le attività che rendono possibile al Foscolo il continuare la vita fino alla conclusione naturale.

Influssi che contribuiscono alla formazione della spiritualità foscoliana.

1)- La filosofia enciclopedistica francese. L’Illuminismo si era proposto di razionalizzare e di rendere chiara tutta la realtà; e la scienza in collaborazione con la ragione si era proposta di chiarificare i fenomeni stessi del mondo umano con la scoperta delle leggi scientifiche che li regolano.  Ragione e scienza avevano concluso che l’uomo è un meccanismo vivente in cui i fenomeni fisici e spirituali, sono da spiegarsi allo stesso modo con cui si spiegano tutti i movimenti della materia. Di qui il fatalismo, cioè il concetto che nella nostra vita tutto avviene in forza di combinazioni chimiche e di fenomeni fisici che si verificano necessariamente.

Il Foscolo, come abbiamo visto, accetta questa concezione, ma non avverte l’aridità e compiange la natura umana scoperta nella sua vera realtà.

2)- L’influsso del Rousseau, del Parini e dell’Alfieri. Il Rousseau aveva affermato che l’essenza dell’uomo è da individuarsi nel cuore, cioè nel sentimento. Il Parini aveva riassunto l’uomo nella coscienza “dignitosa e netta”. L’Alfieri aveva individuato il principio dinamico della vita nell’impulso naturale, che spinge incessantemente verso forme spirituali sempre più elevate.

Il Foscolo accetta il pensiero di questi tre grandi: come il Rousseau egli oppone alla logica arida dell’intelletto, la logica del cuore; come il Parini e l’Alfieri, raccoglie nel suo cuore gli ideali dell’onestà, dell’indomita fierezza, della libertà, della patria, dell’amore e dell’arte. Così, vicino all’arida e desolata concezione della vita inculcata in lui dalla filosofia materialistica, si afferma una concezione idealistica ed eroica, vicino ad una ragione spietata e spregiudicata, si afferma un sentimento accorato, ardente, proteso verso mete infinite.

3)- Il Romanticismo. In Italia il  Romanticismo, prima che si affermasse come movimento letterario, si affermò come atteggiamento spirituale. Il Foscolo non aderì mai  alle teorie estetiche del romanticismo, ma si compiacque di assumere gli atteggiamenti appassionati, di sentire pessimisticamente e drammaticamente la vita, di condensare nel suo intimo il fremito di passioni esplosive.

   Nello Jacopo Ortis, si compiace di mettere  in opposizione motivi desolati e aspirazioni ardenti; presenta i commoventi tentativi di un giovane che ha l’ansia di vivere e si sforza di vivere, ma che è disfatto dalla realtà delle cose e, disperatamente, si sforza di entrare in un mondo ideale, nel mondo del cuore, senza riuscire a rimanervi stabilmente.

   Anche il Foscolo, come Jacopo, visse per metà nel buio di una coscienza disperata, e per l’altra metà nel sereno di una coscienza redenta e pacificata dall’ideale. Egli invoca la morte e non sa darsela; invoca quiete nello stesso porto a cui è giunto il fratello che si è suicidato, eppure passa di amore in amore, di attività in attività, come l’uomo più avido di vivere; ama la sera perché è l’immagine della “fatal quiete”, eppure desidera con ardore la vita dinamica e tempestosa. In questo contrasto tra la ragione e il cuore, tra l’ideale ed il reale, in questo vivere fremendo e sognando, avvolto nelle nubi nere della disperazione e nelle luci dell’amore, dell’arte e della gloria, consiste il tono romantico della spiritualità foscoloniana.

   La tempesta psicologica del Foscolo era destinata ad esprimersi in forme regolare e scomposte, cioè con quello stile irruento, capriccioso ed enfatico che era stato messo in voga dagli sturmisti tedeschi, cioè della poesia ossianica (poesia che ricorda lo stile del bardo scozzese Ossian), e un pochino anche dal Rousseau e dall’Alfieri.

   Quello dello Jacopo Ortis è un saggio dello stile a cui naturalmente e costantemente avrebbe aderito il Foscolo, se in lui non avesse avuto il sopravvento l’educazione classicista. Lo stile neoclassico che egli assimilò attraverso la lettura delle opere greche e romane e di tutti gli autori italiani che si erano preposti di comporre con armonia, concretezza e lucidità al modo dei Greci e dei Romani, riuscì a frenare il moto turbinoso del cuore entro i limiti di una espressione decorosa, chiara e gentilmente ornata.

   La sua anima sconvolta dagli impulsi più violenti, è capace di placarsi nella contemplazione serena di una realtà ideale, in forza delle illusioni, trova nella forma classica l’espressione più perfetta e più efficace.

   Le opere migliori del Foscolo, dai sonetti, alle odi, ai Sepolcri, alle Grazie, piacciono in forza di questa compostezza e di questa armonia sotto cui ferve uno spirito appassionato e accorato, uno spirito che vive tra il turbine delle passioni e delle ansie del cuore e l’olimpica serenità di una illusione elaborata nelle forme più ideali.

4)- L’influsso del neoclassicismo. Il Foscolo coltivò da giovane le lettere greche e romane; disse egli stesso di aver ereditato da sua madre greca il gusto per la bellezza fine e lucida, per la proporzione e l’armonia.

   Il Parini dette a lui esempio di arte concreta e finissima, di adesione alla vita e di idealizzazione perfetta. I pittori, gli scultori e gli architetti neoclassici gli insegnarono come si potesse trattare temi moderni, esprimere una mentalità moderna con le vecchie forme classiche,  cioè come si potesse incarnare in forme composte ed eleganti, la psicologia drammatica e dinamica dell’uomo moderno.

   Stretto nelle angustie della concezione materialistica, lo spirito del Foscolo si sente in disagio: il suo cuore tenta di evadere creando il mondo delle illusioni; l’arte classica gloriosamente famosa per la sua tecnica di idealizzazione luminosa e colorita, viene incontro al cuore assetato di bellezza e di perfezione, rasserenando e ricoprendo di bellezza realtà, per sé stessa desolata e meschina.

5)- Il momento storico. Il Foscolo, come si è detto, visse in un periodo storico estremamente movimentato, ricco di avvenimenti e di mutazioni, di illusioni e di delusioni. Egli partecipò alla vita pubblica e agli eventi della nazione col suo animo di idealista, educato alla scuola del Parini e dell’Alfieri e delle idee della rivoluzione.

   Credette fermamente nella libertà, nella democrazia e nell’unità e nell’indipendenza dell’Italia; d’altra parte dovette assistere al tradimento di questi ideali da parte di uomini mediocri e di Napoleone stesso. Di qui le alternative continue del suo spirito, fra la speranza e la delusione; ma essendo il suo carattere saldo e adamantino, è evidente, in queste alternative, una ossatura ideale che gli permette di resistere alle lusinghe del tiranno e di esprimersi con la massima libertà contro tutte le forme della meschinità e della viltà.

   Le continue mutazioni, i contrasti violenti del momento storico in cui egli vive, gli chiarificano e gli allargano la visione delle sorti umane che, in forza della sua concezione enciclopedista, egli aveva individuato come fluire incessante ed immane.

   Sui campi di battaglia egli poté direttamente avvertire quanto sia fragile il filo che sostiene la nostra vita ed ebbe la sensazione che la nostra esistenza, nello spaventoso turbine degli avvenimenti, è cosa di nessun valore; ma, nello stesso tempo, poté constatare che lo spirito è in grado, qualora sia ben potenziato, di domare le circostanze.

Il Foscolo realizzò quel tipo di letterato che aveva sognato l’Alfieri, cioè quel tipo di uomo che sdegna gli ambienti chiusi ed inerti in cui languisce la cultura erudita, per combinare insieme pensiero ed azione, vagheggiamento ideale di bellezza e lotta eroica a vantaggio di una società umana e razionale, più libera e più civile.

   Questo poeta-soldato trovò nell’azione un impegno spirituale che gli fece dimenticare le tristezze e le miserie della vita e gli diede le possibilità di superare la noia di una esistenza pessimisticamente concepita.

   L’azione, infatti, non solo costituiva per lui un mezzo per realizzare i suoi ideali politici, ma assorbiva talmente il suo spirito, da distrarlo dalle meditazioni malinconiche a cui fatalmente la sua concezione filosofica lo conduceva. Amore ed azione, arte e guerra, meditazione e tensione polemica, costituiscono i binomi della vita intima ed esteriore del Foscolo.

   Dire che il Foscolo fu indotto alla azione solo dal proposito di attuare i suoi ideali politici e dal desiderio di evadere dai suoi tristi pensieri sulla vita, è giusto, ma non è tutto. Egli stesso ci dice che il furore della gloria, cioè il desiderio della fama, lo ritrasse dal pensiero del suicidio e lo indusse ad affrontare pericoli e ad assumere atteggiamenti di opposizione contro persone politicamente temibili.

   Nel pericolo e nella polemica, egli aveva la sensazione di vivere una esistenza ideale, sia perché impegnava le sue energie in attività nobili, sia perché poteva rendersi conto di che cosa egli fosse capace.

   L’ansia di affermare la sua personalità e sul mondo suo interiore impulsivo e sregolato  e sulle cattiverie e furfanterie altrui, è l’espressione di un’anima che, come quella dell’Alfieri, tende a signoreggiare con magnanimità uomini e cose.  Ufficiale dell’esercito napoleonico, egli conservò uno stile tra rivoluzionario e signorile, tra militaresco ed estetizzante: vero tipo di quella ufficialità napoleonica che si dichiarava serva della democrazia e nello stesso tempo ambiva  le amicizie ed i ricevimenti delle contesse e delle principesse.

   Ad ogni modo questa specie di contrasto nel Foscolo, assume un tono di simpatica galanteria di militarismo lucido e per così dire classico. Così ancora una volta possiamo cogliere in questo personaggio il tentativo di idealizzare una vita, che egli stesso sinceramente deplorava: “Dal dì ch’empia licenza e Marte – vestivan me del lor sanguineo manto – cieca è la mente e guasto il core, ed arte – l’umana strage, arte è in me fatta, e vanto”.(dal sonetto “Di sé stesso”).

   La vita raminga a cui egli diceva di essere stato condannato dal destino fu in parte voluta da lui stesso. E’ vero che la sua tempra adamantina, la sua fedeltà all’idea, lo costrinse dapprima ad esulare dal territorio veneto e prendere parte alle prime campagne napoleoniche, e più tardi, lo indussero a preferire l’esilio piuttosto che giurare un impegno di servizio all’Austria: ma è anche certo che il Foscolo provava una specie di gusto nel ramingare.

   Si può dire che la sventura costituiva per lui u n motivo di vanto, perché in essa si vedeva come uno dei tanti “Illustri sventurati”. Ricordati dalla storia; e sentiva più vivo il bisogno “delle vergini Muse e dell’amore”, cioè dell’illusione.

   Il Foscolo anticipa quel tipo di romantico che si compiace di penare, perché nella pena trova un motivo per desiderare, per idealizzare, per lottare e quindi per dare a sé stesso la sensazione di vivere.

Ispirazione del Foscolo.

1)- Ispirazione drammatica. L’ispirazione dei grandi poeti è strettamente connessa con la loro concezione della vita: è evidente, perciò, che, ad una concezione drammatica, corrisponda una ispirazione poetica drammatica.

   E’ noto che i poeti sommi sono stati tutti pensatori profondi, anime ricche di motivi rapportabili tutti ad un nucleo centrale, artisti, capaci di esprimere i significati ultimi della realtà in quadri sensibili ed evidenti in cui si riflettono tutte le risorse del loro spirito.

   Il Foscolo, come si è detto, distinse la realtà in oggettiva e soggettiva, in razionale ed affettiva o illusoria: tra i due aspetti c’è netta opposizione:  di qui l’essenza drammatica della ispirazione foscoliana. Ad una affermazione desolata della ragione reagisce immediatamente il cuore; ad una visione tetra offerta dall’esperienza si contrappone una visione luminosa creata dall’illusione.

   Nelle sue composizioni il Foscolo non insiste mai con esclusività né su motivi pessimistici né su motivi ottimistici: come nella sua meditazione di pensatore ragione e cuore si oppongono, così anche nella sua elaborazione poetica si oppongono la desolazione e l’ansia di evadere vin un mondo assoluto, il disprezzo della vita e la brama di vivere con pienezza.

2)- Ispirazione armonica. L’armonia si ha tra motivi diversi ed anche tra motivi fra loro opposti: per raggiungere la proporzione e l’equilibrio anche nel più vasto complesso d’ispirazione, baste che sulla dispersione delle diversità si affermi la capacità unificatrice di una personalità saldamente organica.

   Ragione e cuore, realtà ed illusione, sono nel Foscolo due termini opposti, ma strettamente connessi fra di loro, infatti è la ragione che provoca la reazione del cuore, è la realtà che provoca l’evasione nel mondo del sogno. Il poeta, perciò, tiene presenti i due termini opposti e non li abbandona mai esclusivamente e separatamente all’interpretazione dell’uno e dell’altro: tempera la durezza e gli orrori della realtà oggettiva con la preziosità della realtà illusoria: tempera gli ottimismi e le assolutezze del mondo creato dal cuore con le crude visioni colte dall’esperienza.

   In forza di questa armonizzazione degli opposti, il Foscolo riesce a fondere insieme reale e ideale, riesce a sentire la vita nei suoi aspetti più svariati e, sebbene il suo spirito sia impegnato a disseminare spunti di eternità e di assoluto nel campo del tempo e del finito, e quindi tenda a far prevalere le forme della vita del cuore su quelle della ragione, tuttavia non si verifica mai il distacco tra i due opposti e quindi non prevalgono mai  né gli urli del disperato né le allucinazioni retoriche dell’entusiasta incosciente.

   Anche nello “Jacopo Ortis”, ove l’interpretazione pessimistica della vita costituisce la sostanza dell’ispirazione, appaiono qua e là tentativi di evasioni ideali, tanto più drammatici quanto più triste è la realtà da cui il protagonista tenta di uscire.

   Da questo perfetto  connubio tra realtà ed illusione, deriva un meraviglioso effetto poetico: un tono appassionato ed ideale, un soffrire ed un godere, un intendere le miserie della vita ed una grande ansia di consolarla. Quando il poeta si abbandona agli incanti della sua fantasia idealizzatrice, avverte la miseria della realtà in cui vive; quando posa il suo sguardo sulla tristezza della realtà trova una infinità di risorse per redimerla e renderla accettabile.

   Il Foscolo utilizza il motivo della miseria per fare apparire più preziosa la ricostruzione ideale; utilizza il motivo della bellezza assoluta per dare alla realtà oggettiva un aspetto più accettabile.

3)- Ispirazione eroica. Eroica perché, mentre gli sarebbe facile restare nel mondo della realtà oggettiva, ove, col pretesto della nullità della vita, potrebbe adagiarsi in un epicureismo inerte, egli tenta con decisione di evadere nel mondo dell’ideale, con l’intenzione non solo di godere di una pura contemplazione di bellezza, di forma, di affetti, ma soprattutto col proposito di impegnare fino a fondo le sue energie nel servizio delle grandi idealità.

4)- Ispirazione appassionata. Infatti il dramma interiore del Foscolo non è generato da un contrasto tra passioni opposte dell’intelletto, cioè da un dubbio, ma da una contraddizione permanente tra intelletto e cuore: essendo il cuore l’insoddisfatto, essendo proprio esso a piangere delle scoperte della ragione e a tentare l’evasione in un mondo superiore, è evidente che l’ispirazione confluendo dall’intelletto nel cuore, debba riflettere i toni, le iniziative tempestose di un mondo affettivo in agitazione.

5)- Ispirazione estetica. Il mezzo con cui rende bella l’illusione, cioè la rende tale da dargli forme assolute, quasi divine, è l’arte. Così, vicino alle visioni desolate, belle anche esse pur nei loro colori funebri e nella loro struttura disorganica si distendono immense visioni di bellezza  fatta di armonia di luci, di colori, di profumi, di ritmi; cioè costituita da tutti quei fattori che naturalmente attraggono e beatificano lo spirito umano.

   Il carme dei “Sepolcri” è l’opera in cui gli aspetti della ispirazione foscoliana maggiormente si rivelano e si armonizzano. Il Foscolo ha scelto il motivo più nero di una concezione desolata della vita;  cioè il motivo della morte  conosciuta come annientamento. Proprio alla vista di questo motivo, che lo inorridisce e lo angoscia, il cuore si propone di esaltare la vita presente e di perpetuarla dopo il superamento del fosco traguardo.

   Così il carme dei “Sepolcri” è l’esaltazione della vita nelle sue forme più ideali, celebrata in ambiente cimiteriale: è come un oratore, chiamato a svolgere un motivo funebre in un cimitero, volgesse tutte le sue energie ad esaltare la vita, per soffocare l’arida realtà della morte.

Forma della poesia foscoliana.

   La forma nei grandi poeti è strettamente connessa con l’ispirazione: del resto essa non è che il modo con cui viene impostata e sviluppata la vita intima dei soggetti che il poeta interpreta.

   All’ispirazione foscoliana desolatamente realistica e appassionatamente idealizzatrice corrisponde una forma che, rispettando l’oggettività del reale, colto nella sua miseria, tende a correggere, ad elevare e a sublimare le visioni terrene.

   E’ per questo motivo che gli sviluppi poetici del Foscolo procedono per accenni desolati e per aperture luminose: qua e là spunta il motivo angoscioso, ma nel complesso trionfa la volontà di creare un mondo di bellezza, di affetti, di eleganze i cui si consoli e si tranquillizzi il cuore angosciato dai ragionamenti dell’intelletto e dalle prove dell’esperienza. La poesia del Foscolo, dunque, procede per ombre e luci, con il deciso sopravvento della luce sull’ombra, allo stesso modo che  nell’ispirazione il mondo del cuore o dell’illusione si afferma su quello dell’esperienza e della ragione.

   Il dramma insito nell’ispirazione è di per sé stesso incline a manifestarsi in forme impulsive e teatrali, viene frenato da una disciplina artistica che impone alla ragione di non compiacersi spregiudicatamente di visioni orride e comanda al cuore di non urlare le sue angosce. Il Romanticismo, allora incipiente, poteva indurre il Foscolo ad accogliere un indirizzo formale esagitato, impulsivo ed interessante per la sua passionalità. Il Foscolo alla tentazione di adottare una forma tragica seppe resistere in forza della sua educazione classica.

   Il Classicismo è armonia, semplicità, nitidezza; è controllo ed  elaborazione pacata del pensiero e del sentimento: perciò, ogni composizione del Foscolo pur essendo pervasa da un tono disperato, tuttavia procede con una pacatezza e con una compiacenza estetica così controllate che sembrano prodotte da un artista olimpico. L’unica opera in cui il Foscolo indulge all’espressione drammatica,  quasi ad ostentazione di immediatezza e di serenità, è lo “Jacopo Ortis”; ma in questo romanzo epistolare i motivi, sebbene ricchi e suggestivi, perdono la loro forza a causa di una enfasi che vorrebbe essere ed è il più delle volte sentita, ma disturba e confonde la trama generale e qualche volta si riduce a retorica di mediocre valore. In tutte le altre opere, dai Sonetti alle Odi, ai Sepolcri, alle Grazie, il Classicismo si afferma con i suoi sviluppi logici, concreti e fioriti di svariati spunti decorativi veramente eccellenti.

   Questo stile controllato e lucido costituisce nel Foscolo poeta  una specie di seconda natura, per cui nel suo lavoro non si notano forzature o incertezze di alcun genere.

   Il Foscolo da bravo neoclassico, concepì l’arte come creazione della bellezza e concepì la bellezza come  armonia e plasticità. E’ per questo motivo che anche le visioni orride, nel dipingere le quali è necessario l’uso di colori foschi, sono elaborate con una precisione e nitidezza di motivi essenziali, che sono redente dall’arte e costituiscono anche esse esemplari perfetti, ma condotti sempre con la stessa arte hanno gli stessi pregi dei quadri più luminosi e più affascinanti.

   Nello Jacopo Ortis afferma che gli antichi per correggere le imperfezioni umane diffondevano su quelle le forme divine: ecco il valore del mito, dare valore assoluto alla realtà imperfetta.

Carme: “I Sepolcri”  Cause dei Sepolcri:

a)- causa occasionale: editto di S Cloud. Il Foscolo vede in questo editto un tentativo del Bonaparte di soffocare l’ultima voce libera, quella dei grandi morti che spingono i vivi al culto dell’ideale.

b)- causa spirituale: solo i poeti mediocri sono spinti a comporre da una causa occasionale: i grandi poeti si valgono della occasione per esprimere una loro concezione della vita. Foscolo vede nel sepolcro, cioè nella morte, il fenomeno piùdesolato dell’esistenza umana: “anche la speme ultima dea fugge i sepolcri”; ma il cuore, che per suggestione ode la voce dei morti (superando il concetto  razionale dell’annientamento totale, vede nel sepolcro una fonte di vita sublime, cioè di vita ideale.

L’esempio dei poeti cimiteriali inglesi, l’impostazione pessimistica della sua filosofia, dovevano indurre il Foscolo il tema dei Sepolcri con una serie di concetti, di sentimenti, di visioni disperate e desolate; perciò l’eroico sforzo del suo cuore di vedere l’assoluto dove è il mediocre, l’eterno dove è il caduco, fa sì che il Foscolo interpreti il tema della morte con un complesso di ispirazione che contribuisce meravigliosamente ad esaltare la vita a ad innamorare di essa chi non sperava da lei più nulla.

   In questo carme si riassume l’essenza  della spiritualità e dell’arte foscoliana: per un disperato, il sepolcro rappresenta il punto più nero di un destino già nero di per sé stesso e potrebbe costituire un soggetto che si presta a fare esplodere le impulsività del sentimento e a suggerire i colori più foschi della descrizione.

   Ci troviamo, invece, di fronte ad un carme in cui la morte è come soverchiata dal desiderio che ha l’uomo di vivere e a cui le visioni funeree sono soverchiate dallo splendore della bellezza, dalla dolcezza degli affetti, dall’immortalità dell’eroismo.

   Così il carme della morte diventa canto di esaltazione della vita: chi promuove questo miracolo è l’illusione, chi lo realizza artisticamente è la tecnica classica.

Riassunto del carme.  Il carme si può dividere in quattro parti:

a)- Introduzione

b)- Polemica contro la legge di Saint-Cloud

c)- Funzione civile del sepolcro

d)- Funzione civile della poesia.

1)- Introduzione. Sepolcro e lapide non compensano il morto della irreparabile perdita della vita, cioè dell’essere (in quanto l’esistenza dell’uomo è limitata all’esistenza terrena). Sepolcro e lapide hanno funzione commemorativa, costituiscono una specie di baluardo che gli uomini oppongono all’avanzata dell’oblio: ma sepolcro e lapide saranno travolti dalla forza evolutiva dell’universo, che tutto seppellisce in un mare di rovine. Introduzione, quindi, desolata.

2)- Polemica contro la legge di Saint-Cloud. La legge di Saint-Cloud (1806) isola i cimiteri in luoghi remoti ed abbandonati; proibisce la tomba personale, proibisce la lapide commemorativa. Il Foscolo vede nella legge un ultimo assalto della tirannide francese alla libertà dei popoli.: la voce dei grandi morti, potente ispiratrice di grandiose cose e quindi alimentatrice dello spirito dei vivi viene soffocata con la demolizione del sepolcro, perché il colloquio tra i morti ed i vivi è possibile solo sul sepolcro.

La parte polemica si suddivide in tre affermazioni:

a)- la legge si Saint-Cloud è contraria alle esigenze del cuore umano, ossia è disumana.

Benché la ragione tenti di convincersi che con la morte noi siamo annientati, tuttavia il cuore non può separarsi dai cari con i quali ha intrecciato dolci rapporti di affetto: il cuore segue il morto, vuol parlare con lui, vuol consolarlo. Il sepolcro ha la pietosa funzione di facilitare questo colloquio, questa illusione, questa riaffermazione della immortalità negata dalla ragione. Dunque la legge di Saint-Cloud  è contro l’esigenza intima,  contro una aspirazione umanissima e degna del rispetto di tutti i cuori gentili.

   Solo le persone selvagge  e che non lasciano eredità di affetti  si disinteressano del loro sepolcro; la legge di Saint-Cloud suppone che tutti gli uomini siano selvaggi.

b)- La legge di Saint-Cloud  è contraria alla giustizia. Infatti, imponendo la fossa comune,  favorisce la criminosa unione delle salme dei grandi e dei cadaveri dei malviventi. Esempio l’ingiustizia compiuta contro i resti mortali del grande Parini.

c)- La legge di Saint-Cloud è contraria alla civiltà. Infatti il passaggio dallo stato di primitività allo stato di civiltà è storicamente caratterizzato presso tutti i popoli oltre che dall’affermarsi del culto religioso, dall’istituzione del matrimonio e del tribunale, anche dal culto dei morti: infatti il ricordo ed il rispetto dei trapassati sono espressioni di sensibilità evolute.

   Terminata la parte polemica, prima di passare alla illustrazione della funzione civile del sepolcro, il Foscolo vuol chiarificare le sue  intenzioni: opponendosi alla legge di Saint-Cloud , egli non intende affatto sostenere il vecchio sistema delle  sepolture nelle chiese, deplorevole anche essi sia per motivi igienici, sia per motivi psicologici. Tra i due estremi, cioè tra i cimiteri campestri con la fossa comune imposti dalla legge di Saint-Cloud e le sepolture nelle chiese, c’è il cimitero giardino, bellamente sistemato nei suburbi in uso presso i Romani e i Greci e, al giorno d’oggi, presso gli Inglesi. In questi cimiteri giardino meravigliosi, e per la salubrità e per la bellezza della decorazione floreale, l’orrore della morte non si sente affatto, anzi si ha l’impressione di essere nei “beati elisi”. In questo ambiente il colloquio con la persona cara defunta, la meditazione sulla tomba di un eroe, la rievocazione delle memorie più soavi, sono facilitati dall’atmosfera gentile ed affettuosa.

   I cimiteri giardino che promuovono l’intima intesa fra i vivi e i defunti, impegnando i primi a coltivare la virtù e gli esempi dei secondi, non si trovano presso le nazioni che siano spiritualmente morte. Le plebi stordite dal terrore o dal clamore di superbi tiranni, ridotte a vivere senza speranza e senza aspirazioni, vedono nel sepolcro solo uno spauracchio dell’oltretomba; le classi abbienti, sepolte nell’ozio e nei vizi e soddisfatte dei loro titoli, poco si preoccupano della loro sepoltura e tanto meno curano quelle degli uomini illustri.

3)- Esaltazione della funzione civile del sepolcro. L’opposizione fra il culto dei defunti vive in mezzo ai popoli civili e la miseria, in vita e in morte, che caratterizza i popoli sepolti nell’ignoranza e nel vizio, offre al poeta lo spunto per passare a discorrere della sublime funzione commemorativa ed educativa che esercita il sepolcro di un uomo illustre in mezzo a persone civili.

   Tutto il concetto  che ora il poeta svolge si può riassumere nei famosi versi: “A egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti…. e bella e santa fanno la terra che li ricetta”. Firenze, ad esempio,  che ad pera dei Francesi ha perduto tutto, anche l’Italia, cioè la madre sua naturale,  nella sua incalcolabile miseria, possiede ancora preziosi tesori in Santa Croce: le tombe del Machiavelli, di Michelangelo, di Galilei.

   Dalle tombe dei grandi, a chi ben l’ascolti, viene una voce che esorta al culto degli ideali, a cui essi in vita dedicarono tutte le loro forze: è come la voce di un nume, sacra e persuasiva. In Santa Croce ascoltò questa voce Vittorio Alfieri, il cui sepolcro è diventato, a sua volta, un altro altare uguale a quello dei grandi che egli venerava.

   Anche i Greci avevano sepolcri-altari: il più famoso era quello dei prodi morti in Maratona: tale suggestione provocava la vista di quel sepolcro, specie durante la notte, che chi lo scorgeva passandogli dinanzi, aveva l’impressione di vedere riaccendersi nell’ampia pianura la zuffa fra i Greci e i Persiani: da quell’altare parlava un nume che  accendeva la “virtù greca e l’ira” (verso 201 dei Sepolcri).

   Sempre a proposito della suggestività rievocativa del sepolcro, il poeta cita un altro esempio: Ippolito Pindemonte in un suo viaggio in Grecia si è inoltrato fino alle coste della Troade, ove un tempo era il sepolcro di Aiace (suicidatosi per non sottostale alle ingiustizia inflittagli da Agamennone e da Ulisse): nonostante che quel sepolcro glorioso sia stato distrutto dal tempo, tuttavia al solo pensiero  che esso una volta sorgeva presso quelle sponde, Ippolito ha rievocato certamente, nell’intimo del suo spirito la tragedia dell’eroe ed il profondo significato di essa: “a’ generosi – giusta di glorie dispensiera è morte” (vv. 220-221 dei Sepolcri”).

   La funzione civile del sepolcro, dunque, si riassume nel compito che esso esercita di eternare la memoria dei personaggi gloriosi e di rendere più efficace la voce di essi  attraverso l’amplificazione di una suggestione naturale e provvidenziale: funzione commemorativa ed educativa, dunque, quella dei sepolcri in messo ai popoli civili.

4)- Funzione civile della poesia. L’accenno al sepolcro di Aiace, che un tempo esisteva ed oggi non è più, richiama alla mente del Foscolo il pensiero, già espresso nella introduzione, che l’irresistibile forza dell’evoluzione distrugge e trasforma di continuo tutte le cose e quindi abbatte ed annienta anche i sepolcri. Ma, al tempo che avvolge nell’oblio tutte le cose distrutte dall’evoluzione, si oppone la poesia: i grandi allorché cessano di vivere nei monumenti commemorativi, riprendono vita nelle rievocazioni immortali dei poeti. Le Muse sono capaci di perpetuare la vita là dove l’evoluzione ed il tempo  hanno fatto il deserto: la funzione eternatrice del sepolcro passa alla poesia. Omero interrogò le urne  degli eroi troiani custodite nel glorioso sepolcro di Elettra, interpretò le voci di un amor di patria glorioso me sfortunato e garantì alla loro forza emotiva l’eternità presso le generazioni future fino a che “…il sole risplenderà sulle .sciagure umane “ (Sepolcri” vv. 294-295)

Conclusione

Dalla esposizione del carme risulta dunque, confermato quel che si è detto della ispirazione del Foscolo, cioè l’evidenza di un tentativo costante di superare una realtà triste con una illusione consolante. Nel carme si susseguono affermazioni desolate della ragione e reazioni coraggiose ed appassionate del cuore: ombre e luci. La ragione afferma che l’uomo è annientato dalla morte, il cuore reagisce a queste affermazioni instaurando una “corrispondenza d’amorosi sensi” col  morto (“Sepolcri” v. 30); la ragione ci fa mortali, il cuore ci vuole immortali.

   La ragione espressa nella cruda legge di Saint-Cloud può accettare il cimitero desolato e la fossa comune col pretesto che i cadaveri non sono che ammassi inutili di materia in disfacimento; il cuore, che sente ancora palpitare nel sepolcro il morto, diffonde nell’orrore del cimitero tutte le risorse di bellezza che offre la natura: ancora l’orrore della morte è sopraffatto dalla luce di una atmosfera elisiaca.

   La morte ha spento la voce del defunto, ma il cuore, per suggestione, sente quella voce più viva che se la persona esistesse ancora: il silenzio della tomba è vinto dalla voce dell’ideale cui il morto sacrificò l’esistenza e il sepolcro fa oggi da altare.

   Volendo individuare nello sviluppo de’ “I Sepolcri” una specie si successione logica che richiami le linee seguite dal Petrarca ne’ “I Trionfi”, potremmo parlare di tre vittorie: il trionfo del cuore e del sepolcro sulla morte annientatrice, il trionfo del tempo sul sepolcro, il trionfo della poesia sul tempo.

Il pensiero estetico e critico del Foscolo

   Il Foscolo concepisce l’arte come creazione del bello, cioè come composizione di svariati motivi che si richiamano tra loro in unità armonica.

   L’arte ha la funzione di infondere nello spirito dei lettori l’idea, di accendere in essi magnanime passioni, di indurli ad operare con stile eroico.

   Per rigenerare uno spirito e formarlo è necessario giungere a persuaderlo, perché la convinzione è fonte di iniziative spontanee: per persuadere l’intelletto è necessario giungere ad esso attraverso la fantasia e il cuore.

   La verità concretizzata, incarnata nelle forme sensibili di un quadro idealizzato, non solo è accessibile anche alle menti poco fornite di capacità raziocinativa, ma si presenta con aspetti piacevoli e attraenti.

   Siamo, dunque, di fronte al concetto che della poesia ebbero i classici, i quali videro nei “vates” gli intermediari fra il mondo ideale e quello sensibile, capaci di comunicare ai mortali le sublimi verità apprese dagli dei. E le forme del mito che gli antichi poeti classici  adottarono per dare forma sensibile alla verità, anche al Foscolo appare la più adatta per giungere, attraverso la fantasia e il cuore, all’intelligenza dei lettori.

   Oltre che dall’esempio dei classici il Foscolo è indotto a preferire questo metodo anche dal Vico, di cui egli assimilò il pensiero circa la poesia, contenuto nei “Principi di scienza nova”.

   Per vedere in che senso e fino a che punto il Vico abbia influito sul pensiero estetico e sul metodo critico del Foscolo, è necessario esporre brevemente il pensiero dell’illustre filosofo circa la poesia.

   Il Vico scorge nella successione delle generazioni umane un procedimento costante, assai simile a quello che notiamo nella vita dell’individuo: come questi dalla fase della pura sensibilità in cui vive nell’infanzia, passa a quella della fantasticità, così le generazioni umane attraverso le fasi di una civiltà tutta sensi, di una civiltà tutta fantasia,  di una civiltà tutta ragione; e, compiuto questo percorso trifase, lo ricominciano in un piano superiore al primo, per ripeterlo incessantemente in direzione ascensionale.

   Nella prima età, cioè in quella “dei sensi”, le generazioni, come gli infanti, sono impressionati dal mondo che le circonda, ma non riescono ad elaborare in nessun modo l’impressione ricevuta: delle loro attività non rimane alcuna traccia nella storia.

   Nella seconda età, le generazioni incominciano ad elaborare le impressioni sensitive attraverso l’attività “della fantasia”. Gli uomini di questa età, come i fanciulli, antropomorfizzano tutto, cioè trasferiscono tutte le caratteristiche del mondo umano al mondo della natura: attribuiscono, ad esempio, la vita agli esseri inanimati, attribuiscono intelligenza e passioni agli animali, attribuiscono le cause dei fenomeni naturali ad esseri umani più o meno straordinari e stravaganti. Sorge in questa età il linguaggio, il quale evidentemente riflette la tendenza antropomorfizzatrice della psicologia fantastica.

   Nella terza età gli uomini, superate le strettoie della sensibilità e della fantasticità, attraverso la “ragione” prendono contatto diretto con l’essenza e le proprietà specifiche delle cose, individuano le cause reali dei fenomeni, catalogano i vari settori del reale secondo criteri di affinità, sintetizzano i procedimenti della natura in leggi: insomma danno scienza ed adottano un linguaggio puramente scientifico.

   Una volta terminato il ciclo o corso a tre fasi, le generazioni umane riprendono da capo il loro cammino, cioè ripetono le tre età, ma in un piano progressivamente superiore, cosicché, ad esempio, la seconda età dei sensi si rivela più evoluta della prima; e così via per le altre età e per i singoli numeri della successione.

   Fermiamo la nostra attenzione particolarmente sulla seconda età: Vico la chiama “età poetica”. Infatti, secondo lui, la poesia consiste nell’elaborare, cioè nel trasfigurare la realtà con la fantasia; in altri termini consiste nel pensare e nel parlare per immagini.

   Il mito che fiorisce nell’età della poesia rappresenta una elaborazione fantastica di questo o quel fenomeno naturale o di fatti importanti della storia; perciò del mito bisogna che tengano conto anche gli storici, in quanto esso non è che un modo di esporre le cose, caratteristico di gente ancora ferma alla elaborazione fantastica.

   Non è questo o quell’individuo soltanto, ma è tutto il complesso degli uomini viventi in questa fase che pensa e parla per immagini: è tutto il popolo che fa la poesia; e se qualche genio si distinguer fra la massa, egli non è che il sintetizzatore di tutta una elaborazione compiuta in tono minore e frammentariamente dalla collettività.

   Omero, ad esempio, se è esistito come persona, fu un poeta geniale che raccolse, elaborò e perfezionò l’immensa produzione degli “aedi” relativa ai vari personaggi della guerra greco-troiana; se invece non è esistito come persona il suo nome fu creato come simbolo dell’età poetica della Grecia: nell’un caso e nell’altro Omero presuppone una attività poetica generale in mezzo ad un popolo dalla psicologia nettamente poetica.

   Dante, secondo il Vico, è l’esponente dell’età della fantasia della storia dell’Italia post-romana, in quanto l’età medievale che egli chiude fu età barbare ed eroica, e quindi poetica, come quella a cui aveva posto il sigillo Omero nella storia della Grecia antica.

   Tre concetti molto interessanti risultano da queste dichiarazioni del Vico:

a)- la fantasia è la facoltà elaboratrice della poesia;  e il mito è la forma più genuina della espressione poetica, in quanto espone in forma fantastica i fenomeni della natura e della storia.

b)- le menti primitive sono più adatte alla poesia che non le menti adulte; quindi la grande poesia è quella elaborata dal popolo, il quale, restando normalmente nello stato di primitività, pensa con la fantasia e si esprime con linguaggio fantastico.

c)- i grandi poeti sono gli esponenti o le espressioni vive dell’età in cui vivono; e quindi non possono essere compresi pienamente se non vengono studiati e interpretati in rapporto al mondo in cui lavorarono.

   Il Foscolo utilizzò, per la sua concezione estetica, il concetto vichiano che la poesia è una attività conoscitiva, la quale invece di procedere lungo la via della razionalità pura, segue un indirizzo più modesto, ma più facile ed efficace, cioè un indirizzo fantastico.

   Il poeta , per quanto colto, per quanto avanzato sulla via della razionalità, si adatta a ritornare indietro per fermarsi nello stadio della fantasia e imparare a pensare ed esprimersi come se egli avesse raggiunto soltanto quel grado di elaborazione interiore del reale.

   Da qui sgorgano due principi:

a)- l’attività poetica è una attività conoscitiva che si svolge per via fantastica; è attività conoscitiva perché con la fantasia viene percepito ed elaborato il reale; e percepire ed elaborare significa conoscere.

b)- la poesia si propone di insegnare il vero, il bello e l’utile ai lettori  penetrando nel loro intelletto attraverso la fantasia e il cuore: cioè la poesia è conoscenza in sé stessa e mezzo meraviglioso per promuovere conoscenze.

   Ma l’utilizzazione più feconda dei principi vichiani fu dal Foscolo felicemente tentata nel campo della critica: qui egli si vale della affermazione che il poeta è l’interprete o la coscienza e la voce dell’età in cui vive.

   Al tempo del Foscolo dominava ancora la critica letteraria umanistica, la quale definiva ben riuscita o mal riuscita un’opera a seconda che questa presentasse o no uno stile elevato e dotto, e a seconda che fosse o no strutturata in armonia con le regole della retorica. La critica umanistica è detta anche “critica formale”, in quanto assume come unico criterio di giudizio la perfezione della forma e del linguaggio, cioè,  in fondo, della tecnica.  Se il poeta è riuscito ad armonizzare i motivi, se ha proceduto con logicità di passaggi, se è riuscito a dare una salda organicità allo sviluppo, se ha rispettato l’unità di tono,  se ha saputo trovare immagini appropriate per abbellire il suo linguaggio, e, soprattutto, se ha saputo abilmente imitare i gradi modelli classici, sia nella struttura dell’opera che nella tecnica della espressione linguistica, il giudizio favorevole della critica formale è assicurato.

  Come si vede una critica di questo genere dimentica che l’opera d’arte, oltre ad essere un esemplare di tecnica, è anche, e soprattutto, un documento di spiritualità; oltre ad essere un modello di stile, è anche fonte di ideali e di magnanimità.

   La letteratura ha una funzione altamente civile, ed è proprio in base alla sua capacità educativa, che deve essere definito il valore di un’opera d’arte; non si esclude certo che la perfezione della espressione non costituisca anche essa un criterio  essenziale di valutazione.

   Il Foscolo vuol dire soltanto che il criterio non deve fermare la sua attenzione solo sui pregi formali di un’opera, ma deve anche mettere in luce i tesori di pensiero e di affetti che essa contiene.

   Per individuare esaurientemente il contenuto spirituale dell’opera, è necessario inquadrarla nel mondo interiore del poeta; e per capire il mondo interiore del poeta è necessario inquadrarlo nella spiritualità dell’epoca in cui è vissuto.

   Si potrebbe instaurare questa successione: l’opera d’arte è figlia dell’animo del poeta, questi è figlio dell’epoca in cui vive.  Stringere in così intimi rapporti il poeta con il suo tempo, è certamente il metodo del Vico; questi, infatti, aveva affermato che per  conoscere lo spirito umano è necessario conoscere l’attività di esso: “verum ipsum factum” cioè la vera psiche  si conosce attraverso le sue espressioni pratiche, tra le quali la più significativa e la più fedele è  la poesia.

   E’ merito del Foscolo l’avere avviato, in una epoca in cui la storia italiana aveva bisogno dell’appoggio della letteratura, un metodo delle letture delle opere che valesse a mettere in luce non solo la genialità tecnica dei grandi artisti ma soprattutto la profondità del loro pensiero e la magnanimità delle loro passioni.

   Si riflette in questo nuovo indirizzo di lettura il proposito del Parini, dell’Alfieri, del Foscolo stesso e del Romanticismo allora sorgente, di smetterla con la erudizione e con l’accademismo, sia nel comporre che nel criticare, per guardare di più alla sostanza spirituale e alla efficacia pratica della poesia.

   La critica del Foscolo è chiamata “critica storica” appunto perché mette la poesia in stretto rapporto con la storia e si propone di penetrare nel mondo spirituale dell’opera attraverso lo studio della biografia dell’autore e della mentalità dell’epoca in cui questi visse.

   Come si vede tale critica mira a mettere in luce le risorse ideali del contenuto, ma non definisce il criterio in base al quale si possa capire se un determinato contenuto sia o no poetico, cioè non definisce il criterio della bellezza. Spetterà alla critica estetica, a cui darà l’avviamento il De Sanctis,  mettere in luce tale criterio decisivo per procedere con esattezza nei giudizi letterari.

   In verità il fatto che un contenuto sia sostanzioso, cioè ricco di pensiero, di affetti, di utilità pratica, non costituisce di per sé  il bello, che distingue l’opera d’arte da un qualsiasi trattato. D’altra parte, neanche la forma, intesa in senso umanistico, cioè come abilità nel disporre le parti della composizione, nel collegarle, nell’intonarla a seconda della loro importanza, o nel delineare e colorire i quadri descrittivi, costituisce di per sé il criterio  decisivo nella valutazione letteraria.

   Bisognerà, dunque, adottare un criterio che tenga conto e del contenuto, della forma e del linguaggio, considerati come tre fattori distinti sì, ma non separati, come sono distinti ma non separati il pensiero, il modo con cui esso si sviluppa, il termine linguistico che lo esprime.

L’ORTIS

   L’opera foscoliniana “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” è un romanzo epistolare, ossia un romanzo in cui la narrazione viene affidata al protagonista (Jacopo Ortis) che espone le vicende dei suoi ultimi due anni di vita, in una serie di lettere inviate al suo amico Lorenzo Alderani (G. B. Niccolini). Tra un gruppo di lettere e l’altro è inserita una notizia storica attribuita a Lorenzo stesso che, secondo l’invenzione del Foscolo, avrebbe raccolto quelle lettere. Usa la forma di del romanzo epistolare, perché la lettera si presta più facilmente all’espressione immediata e calda dei sentimenti.

   Il primo a scrivere un romanzo epistolare era stato in Inghilterra il Richardson in Pamela; in Francia Rousseau in Nouvelle Eloise;  in Germania il Goethe nei Dolori del giovane Werter. C’è una stretta somiglianza tra l’Ortis ed il Werter e il Foscolo stesso lo riconobbe bene, ma egli faceva notare che mentre Werter ha una sola passione, quella amorosa, il suo Jacopo ne ha due: quella amorosa e quella patriottica. L’Ortis  potrebbe essere definito il romanzo della prima generazione romantica, in quanto si ritrovano in esso il passionale culto dell’ideale, il senso pessimistico della vita, una specie di compiacimento nel considerarsi perseguitati dalla sfortuna e dalla cattiveria umana, l’ansia di evasione da un ambiente considerato come non adatto alla propria esistenza, la ricerca dell’assoluto: caratteristiche queste tipiche del primo romanticismo.

   Il Foscolo ha saputo scegliere i due motivi più adatti a commuovere la gioventù: l’infelicità nell’amore, e  l’infelicità del patriottismo. E veramente la gioventù, nell’epoca risorgimentale, considerò quest’opera come il romanzo proprio: per la sincerità, l’elevatezza e l’onestà dell’amore di Jacopo per Teresa; per la sdegnosa fierezza di Jacopo contro ogni forma di servilismo verso i tiranni; soprattutto per quel suo generoso slancio verso l’azione, pur mortificato e spento dalle circostanze avverse.

   Il Foscolo, poi, è riuscito ad evitare un difetto sentimentalistico in cui cadranno troppo spesso i romantici tardivi, ogni volta che tenteranno lo svolgimento del motivo patriottico insieme con quello amoroso. Quando si trattano questi due motivi congiuntamente, c’è sempre il pericolo di rendere patetico il patriottismo con l’amore, o di rendere eroico l’amore con il patriottismo. Il Foscolo non ha mescolato i due sentimenti, ma li ha lasciati ciascuno nella sua forma naturale, e li ha unificati solo con il motivo dell’infelicità, vibrante in ambedue.

   Patriottismo e amore non decadono nel sentimentalismo, ma conservano l’energia sana ed eroica degli ideali a cui si attacca un’anima generosa e disperata. Jacopo ama in Teresa, l’anima gentile, intelligente, pietosa, dotata dello squisito pregio del gusto artistico per cui suona meravigliosamente l’arpa. Insieme all’anima Jacopo ama anche il corpo, che non è una sintesi equivoca di attrattive voluttuose, ma è l’espressione più nitida degli ideali dell’armonia e delle grazie. Era proprio quello che andava cercando la gioventù del primo romanticismo: un amore ardente, ma cavalleresco; una bellezza che consolasse il cuore triste per le sue disperazioni ideali.

   Il sentimento patriottico si manifesta come sfiducia e avversione contro i responsabili della vita dei popoli; come disprezzo contro i venduti alla tirannide e allo straniero, contro i vili e gli indolenti; come isolamento dello spirito, sdegnato per la miseria evidente in quelle zone della storia italiana passata in cui singoli individui e intere masse erano capaci di morire per la libertà; come disprezzo del tempo presente ed ansia di anticipare il futuro.

   Il suicidio di Jacopo fu considerato dagli giovani lettori di quel tempo come la conclusione inevitabile della sconfitta morale inflitta dai tempi e dal destino ad un’anima generosa.

   Così, del resto, aveva voluto presentarla il Foscolo stesso: “ Se il padre degli uomini mi riprenderà perché ho abbandonato la vita, risponderò: – la vita era diventata per me un peso superiore alle mie forze; e se tu mi obbligati a sopportarla, dovevo pensare che fossi crudele; se tu mi autorizzavi a deporla, dovevo pensare che tu fossi giusto; ho preferito pensarti giusto”.

   Durante il Risorgimento l’ Ortis fu molto letto e si dice che abbia persino indotto alcuni giovani al suicidio. Ma non bisogna dimenticare che esso ha contribuito anche alla formazione di coscienze generose e forti. L’Ortis  fu imitato, in seguito, dall’Aleardi, che, però con il suo sentimentalismo morboso, rovinò sia il tema amoroso che quello patriottico.

    Le Grazie

   E’ un carme mitologico in cui il Foscolo intende svolgere poeticamente questo tema: Le Grazie sono civilizzatrici dell’umanità. Le Grazie sono figlie di Venere: Aglaia la nitida, Talia la fiorente, Eufrosine la lieta. Queste simboleggiano la luminosità, la floridezza, la gioia del bello. Il carme è diviso in tre inni:

1 ) Inno a Venere. Il poeta parla della nascita delle Grazie; del loro approdo in Grecia, della civilizzazione di questa regione. In un primo tempo, le accompagna la madre Venere; poi questa ascende al cielo e, in sua sostituzione, manda Armonia in terra. Venere è la bellezza e l’Armonia la sostituisce: significa che armonia e bellezza si identificano.

2 ) Inno a Vesta. Il poeta rappresenta un rito che si svolge sul poggio di Bellosguardo, davanti all’altare delle tre Grazie scolpite dal Canova. Tre donne care al Foscolo offrono ciascuna un dono alle Grazie: la prima offre un mazzo di fiori, simbolo della grazia della musica; la seconda offre un favo di miele, simbolo della grazia della parola; la terza offre un cigno, simbolo della grazia della danza.

3 ) Inno a Pallade. Il poeta svolge il tema del velo delle Grazie, intessuto e decorato da più dee (Flora, Psiche, Tersicore, Iride) sotto la protezione di Pallade,  in un’isola sperduta dell’Atlantide. Nel velo vengono rappresentate cinque scene: la giovinezza; l’amore coniugale; la pietà verso gli infelici; la generosità verso l’ospite; l’amore materno. In quest’ultima figurazione appare la madre che veglia presso la culla del suo bambino e, sentendolo vagire, teme che quei vagiti siano presagi di morte. Il poeta commenta: “Beata! Ancor non sa quanto agli infanti provvido è il sonno della morte; e quei vagiti presagi son di dolorosa vita”. Il concetto che il Foscolo intende svolgere in questo terzo inno è che le Grazie sono di per sé caste, e quindi possono essere anche ignude; ma non sono casti gli occhi degli uomini che le contemplano, per cui è necessario velarle. In altri termini il Foscolo vuol dire che l’arte deve essere sempre pudica, per non suscitare le passioni.

   I concetti svolti nel carme sono caratteristici del pensiero neoclassico: l’arte è armonia; e siccome l’armonia genera armonia, chi contempla l’arte viene liberato dalle passioni ed innalzato al mondo luminoso e consolante degli ideali.

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