BORGIA Alessandro Cronaca Fermana anni 1745 – 1746 traduzione di TASSI Emilio

ANNO 1745

1745.1    Grande rigore dell’inverno di questo anno.

Nonostante che, durante il viaggio verso Roma, avessimo cambiato la muta dei cavalli ad ogni stazione di posta, dovemmo registrare un certo ritardo a causa del rigore dell’inverno e delle difficoltà incontrate per le condizioni delle strade; e di fatto arrivammo a Roma solo il 3 di gennaio. Quest’anno il rigore dell’inverno è stato tale che, a memoria d’uomo, non ce ne fu un altro peggiore, non solo nel Piceno, ma neanche a Roma. L’inverno nel Piceno era stato esiziale per gli oliveti e specialmente per le piante che nell’anno passato avevano sofferto il gelo e il clima che le fece seccare.

1745.2    L’arcivescovo offre in dono a Benedetto XIV un prezioso reliquiario con una reliquia di san Marone martire.

Sono stato ricevuto da Benedetto XIV e a lui ho offerto in dono una teca d’oro, contornata da preziose gemme, contenente una reliquia di un osso di san Marone martire, con insieme la dichiarazione scritta. Gli ho spiegato anche che la reliquia era stato tratta dall’antica tomba nella ricognizione del sacro corpo, fatta proprio nella scadenza del primo anno del suo pontificato romano. Scrissi anche la ragione del mio dono. Il papa ha accettato con gioia il dono, disponendo che la teca fosse mandata in dono alla cattedrale di Ancona, dove egli era stato vescovo.  Ho chiesto a lui di concedere alla diocesi l’indulto di celebrare la Messa propria del santo, e l’ufficio con gli inni e le letture proprie. Per realizzare tutto questo molto era stato già fatto.

Per il resto Benedetto XIV contrariamente a ciò che, comunemente, si pensava non ignorava affatto, ma era consapevole delle sofferenze vissute e si manifestò amareggiato a causa delle vicende accadute nello Stato Romano e per i danni subiti dalla mia patria. Io tuttavia, per non rischiare di offenderlo, non accennai affatto a quanto successo a Velletri.

1745.3    Morte dell’imperatore Carlo VII.

Si era diffusa dalla Baviera la notizia della immatura morte dell’imperatore eletto Carlo VII. Il suo breve e infelice regno era stato segnato dalle frequenti guerre con gli Austriaci, mentre i Francesi erano alleati con lui. La Germania ne soffrì i danni e le devastazioni. Al là di questo fatto, Carlo fu un sovrano di preclare doti di animo, distintosi per la considerazione e il rispetto che nutriva per la religione cattolica. Non aveva però a sua disposizione sufficienti mezzi finanziari necessari per reggere l’impero. Aveva quindi la necessità di appoggiarsi ad altri e, sebbene malvolentieri, era stato costretto a sottostare alle decisioni dei Francesi, sulle armi e sulle finanze dei quali poggiava la potenza imperiale, contro la dignità degli Austriaci.  Già, subito a Roma si era cominciato a pensare di provvedere a designare un presule che potesse essere consigliere dell’imperatore. A svolgere tale compito, presso Carlo VII, fino ad allora era stato Giovanni Francesco Stoppani milanese; egli però non sembrava essere adatto perché spesso aveva assunto un atteggiamento offensivo nei confronti degli Austriaci e dei principi ecclesiastici della Germania, i quali lo consideravano non contrario al progetto di eliminare il principato ecclesiastico di Salisburgo o di un altro dei principati ecclesiastici, per assegnarlo all’imperatore per costituire una sufficiente dote a disposizione dell’imperatore stesso. Perciò la maggioranza dei cardinali ritenevano che per risolvere la questione era necessario che Benedetto XIV designasse, a questa legazione di consigliere imperiale, un altro presule che fosse originario dei territori pontifici e che fosse esperto conoscitore delle cose germaniche, lontano di ogni sospetto di parteggiare per una delle due parti in causa.

Si parlò molto di me; alcuni cardinali mi giudicavano idoneo a svolgere tale incarico e mi proponevano. Io non mi preoccupavo, né mi addoloravo per i danni subiti nel patrimonio della mia famiglia e sofferti dalla città di Velletri, e mi dichiarai disponibile. Tuttavia per non apparire attaccato a tale legazione, abbandonai Roma e me ne ritornai a Velletri. Accadde però che proprio lo Stoppani, nonostante fosse poco accetto a molti, e non originario dello Stato della Chiesa, ottenne la legazione e il suo stipendio raddoppiò, con i sussidi che pesavano sulle tasse dei sudditi, che erano state già pesantemente aggravate. Tale modo di agire era normale sotto i pontefici di origine esterna allo Stato Romano, e, avveniva sempre più spesso a causa di funzionari pontifici provenienti dall’esterno, ma non era spiegabile durante il pontificato di Benedetto XIV, che era originario dello Stato pontificio.

1745.4    Danni subiti dalla città di Velletri – Le truppe ausiliarie napoletane continuano ad  opprimere gli abitanti di Velletri – Muore a Velletri Diodoro Bartoli – Comportamento tenuto dal cardinale Tommaso Rufo vescovo di Velletri nei confronti degli abitanti della città nel periodo della guerra.

Appena mi sono recato in patria, ho dovuto vedere cose miserande. La casa paterna devastata, alcune altre case incendiate, quelle site nella zona suburbana crollate, i giardini, gli orti, le vigne e tutto ciò che aveva valore, dalla vetta di monte dei Faggi, fino alla città, e alla zona attorno alle mura era stato devastato; le selve tagliate per costruire le difese, e i fossati scavati. Le fortificazioni ancora si vedevano sulle alture, in quei luoghi dove erano stati gli eserciti, negli accampamenti che erano contrapposti, uno contro l’altro. Frequenti i decessi tra gli abitanti di Velletri, uno strano e immenso numero di pulci nel pieno dell’inverno, l’atmosfera appesantita dal gravissimo fetore dei cadaveri sepolti, in gran numero, nelle chiese. Per tutto ciò, gli infelici abitanti, prima avevano dovuto soffrire fame e sete per la guerra, adesso erano atterriti dal rischio della pestilenza. Le vicende della guerra e le conseguenti malattie avevano provocato la morte di duemila persone abitanti <nel territorio> e anche in città. Ed ancora non si poteva dire che si fosse ormai immuni dalle insolenze dei soldati Napoletani, dal momento che le loro truppe sussidiarie, frequentemente, passavano dalle nostre parti, per raggiungere il grosso dell’esercito e non smettevano di compiere violenze e danni per il fatto che non erano state adottate misure cautelative, né stabilito il modo per contenere la prepotenza dei soldati durante il passaggio nelle terre della Chiesa Romana. Fu veramente doloroso il fatto di quei cittadini che avessero ricusato di seguire i soldati, spesso erano stati trucidati con un colpo di fucile.  Dai tetti delle nostre case, venivano rubate travi ed assi utilizzati dai soldati per accendere e far ardere i fuochi, mentre bivaccavano durante l’intera notte.

Si verificò la morte di Diodoro Bartoli da Morrovalle, ottimo sacerdote e dottore in diritto canonico e civile, che da circa dieci anni viveva nella mia abitazione per curare l’educazione e l’istruzione dei figli di mio fratello Camillo e contemporaneamente curava l’amministrazione di miei beni.

Compiuto tutto ciò che la pietà cristiana mi suggerì a favore dei defunti e dei poveri, insistente-mente avevo consigliato le autorità che pretendessero dalle truppe di occupazione il risarcimento dei danni sofferti dai privati cittadini.  Tali enormi danni erano stimati in 200.000 scudi di moneta romana dal cardinale Tommaso Rufo, vescovo di Velletri e perpetuo governatore  della città . Per la verità superavano di molto questa cifra; ma non c’era modo che fossero risarciti. Del resto nelle presenti circostanze in nessuna città dello Stato pontificio i danni venivano compensati dall’erario pubblico. Il cardinale Rufo considerava il pubblico denaro di Velletri come se fossa una sua cosa privata, per cui voleva che restasse integro; pertanto faceva aumentare di molto il disagio dei cittadini, ai quali non solo erano state ridotte all’estremo le proprietà, a causa delle devastazioni delle loro case, ma essi erano stati depredati persino di ogni cosa per dover soddisfare le esigenze delle truppe per il fieno, il frumento e per tutto ciò che era servito, ad uso pubblico, per il sostentamento della vita dei militari. Agli abitanti, spogliati dai furti, però, non veniva restituito il valore di quanto avevano perduto. Chiaramente Rufo non mancò di dare elemosine ai poveri, ma queste riguardarono pochi.

Per giunta nella città molti consideravano cosa grave che nella elezione del nuovo vescovo suffraganeo e nelle concessioni dei benefici ecclesiastici ai sacerdoti, il cardinale Rufo non teneva in alcun conto quello che veniva detto dai cittadini.

1745.5    L’arcivescovo tiene la predicazione a Ferentino.

Il 7 marzo, mi ero recato da Velletri a Ferentino, presso mio fratello Fabrizio, vescovo della città, dove ancora si trovava la maggior parte della mia famiglia e dove, il 31 di gennaio, era nato un figlio che si era salvato dalla strage di Velletri. A Ferentino, il predicatore della quaresima, chiamato a spese della comunità e del vescovo, come da tradizione, per predicare nella chiesa cattedrale, si era ammalato. Venni invitato a sostituirlo nei giorni di festa. Lo feci, memore dei tempi passati nei quali per un’antica usanza, allorché il vescovo della città aveva come ospite un vescovo di altra diocesi, subito gli chiedeva che rivolgesse la sua parola al popolo e spiegasse le Scritture sacre. Predicai solo per pochi giorni, poiché mi recai a Roma dove era imminente il tempo di proporre presso l’uditore della sacra Romana Rota la causa sui nostri confini nel territorio di San Claudio. Dovevo stare a Roma affinché non accadesse qualcosa di dannoso per la mensa, a causa della furbizia degli avversari. Il 24 marzo è stata proposta la causa, ma la sentenza fu rinviata.

1745.6    Obbligo di conseguire il dottorato nello Studio di Roma – Il Ginnasio Fermano                 nella costituzione di Benedetto XIV.

Nel frattempo, era stata emanata e pubblicata una costituzione apostolica di Benedetto XIV nella quale si disponeva che nessun dottore in diritto potesse essere ammesso ad operare negli uffici della curia Romana se non avesse conseguito i gradi del dottorato in diritto nello Studio di Roma. Tale decisione rappresentava un grave pericolo per il nostro Studio Fermano.[1] Trattai la faccenda con l’uditore del Pontefice, e chiesi che anche coloro i quali, dopo aver compiuto un lungo curriculum di studi, avessero conseguito il dottorato nel nostro Studio di Fermo, potessero essere compresi, nei casi previsti dalla detta costituzione, tra quelli ammessi ad essere chiamati a lavorare nella curia Romana. Non ottenni alcun risultato dal momento che non era stata fatta alcuna eccezione, neppure per lo Studio (Ginnasio alias università) di Bologna.

Feci comunque osservare che qualche cosa doveva pur essere riconosciuta e concessa al nostro Studio, tenuto conto di quanto era antico. Il papa Bonifacio VIII, infatti, aveva istituito lo Studio di Fermo ancor prima di istituire quello di Roma. Soprattutto c’era la ragione che molti secoli prima, la nostra città era stata scelta come sede ufficiale per gli studi letterari dall’imperatore Lotario I. L’imperatore aveva determinato, stabilendole per legge, le città, da frequentarsi per gli studi, al fine di ottenere il dottorato, come si legge nel suo Capitolare “si rechino a Fermo dalle città Spoletine”.

1745.7    L’arcivescovo presenta una petizione con la quale difende presso il papa l’immunità dei  vescovi e dei cardinali – Questi non possono essere messi sul medesimo livello con gli  altri in materia di pagamento dei tributi – L’imprescrivibile difesa dell’immunità  ecclesiastica.

Compiuta la visita alla santa Sede , ho presentato a papa Benedetto la relazione sulla situazione  della mia Chiesa. Da essa, in modo chiaro, il lettore si poteva rendere conto delle condizioni e dei nostri problemi. Ma poiché, in questo tipo di relazioni scritte, non è consentito avanzare delle richieste, a voce ho esposto una sola richiesta della massima importanza. Mi espressi in questi termini: Beatissimo padre, io che nel servizio vescovile prima e arcivescovile poi sono il più anziano tra tutti gli altri vescovi in tutto lo Stato della Chiesa, sono costretto a presentare e a suggerire a Te con filiale ossequio le lamentele dei miei fratelli vescovi, che Tu, nella Tua sapienza e prudenza vorrai esaminare e valutare. I vescovi si rammaricano che nella curia Romana sta diffondendosi una nuova e strana prassi, allorché viene introdotta una nuova tassa o un peso inconsueto ai sudditi. Tale prassi sembra inconcepibile anche alla nostra esperienza di pastori. Il motivo è che per far fronte alle spese dei conflitti tra i principi cattolici, si obbliga immediatamente e si impongono oneri non solo ai chierici e ai sacerdoti, ma anche ai cardinali, ai vescovi e agli arcivescovi, ponendoli senza alcuna differenza sullo stesso piano di tutti gli altri. Confermano questo fatto i chirografi, gli editti e tutti gli altri documenti pubblicati a stampa e eseguiti da coloro che esercitano l’autorità laicale con una modalità di esecuzione tale che, non solo sul piano della quantità della somma da versare o degli oneri da sopportare, ma anche sul piano del metodo della riscossione, non pongono distinzione tra persone sacre e laici e non tengono in alcun conto la dignità dei vescovi, degli arcivescovi e dei cardinali. E’ noto anche che le possibilità finanziarie dei laici sono talmente diminuite, da non essere essi più in grado di sostenere ulteriori imposte.

    Tutto ciò, beatissimo padre, offende gravemente l’immunità delle chiese e si allontana di molto dai sacri canoni. Nel concilio generale convocato da Innocenzo III, infatti, e precisamente nel capitolo intitolato ”Adversus”, a proposito dell’immunità ecclesiastica venne stabilito: “Se in qualche caso il vescovo insieme con i chierici avesse individuato una grande necessità o utilità tale che, senza coazione non possa essere superata, ove i mezzi messi a disposizione dai laici non fossero sufficienti, i contributi debbono essere dati traendoli dai beni delle chiese e i laici li accetteranno  con devota umiltà, esprimendo la loro gratitudine”. Pertanto da parte degli esattori laici non si deve mettere in atto alcuna coazione nei confronti del clero, senza aver consultato il vescovo, come si fa allorché viene obbligata qualsiasi persona del popolo. Pertanto per far salva e rispettare l’immunità ecclesiastica nel caso di una urgente necessità o utilità comune e allorché non siano sufficienti i contributi imposti ai laici, il vescovo stesso versi il contributo raccolto dalle chiese che saranno accettate dai laici preposti con umiltà e devozione, esprimendo gratitudine. In tal maniera certamente nel dare il proprio contributo in base alle condizioni del tempo, si evita ogni discriminazione, rispettando sempre però il modo da dover usare nella esecuzione della riscossione. Non è mai consentita ai laici la possibilità di invadere i luoghi sacri e religiosi al fine di farvi entrare i militari senza consultare il vescovo il quale dovrà ben considerare la necessità e l’urgenza e dovrà vigilare e regolare le cose in modo che siano sempre rispettati l’immunità, il culto divino e la devozione dovuta.

1745.8   Non si difende efficacemente l’immunità ecclesiastica, se praticamente da parte dalla Santa Sede si agisce contro di essa <secondo il Borgia>.

    Non sembra peraltro che ci si interessi abbastanza del rispetto da portare nei confronti dell’immunità ecclesiastica, e del decoro dovuto ai vescovi, se la questione viene affrontata in modo diverso per l’autorità della prima sede apostolica. So bene che si pensa che non si debba discutere di questo; tuttavia sono certo che ogni autorità che viene da Dio è finalizzata allo sviluppo e non alla distruzione del corpo mistico di Cristo. Anche Paolo scrisse  “Tutto mi è lecito, ma non tutto giova” (1 Cor 6,12). Noto infine quanto è contenuto nelle Decretali; “A causa dell’imprudenza di alcuni, prima è necessario consultare il romano pontefice”. Ciò viene precisato per garantire maggior cautela e non per togliere il criterio deciso dal concilio generale.

1745.9    L’immunità ecclesiastica viene rispettata altrove  non più che a Roma.

       Allorché nelle terre che appartengono alla Chiesa Romana è invalsa una nuova prassi per cui i sacri vescovi sono posti sullo stesso piano di qualsiasi altra persona, immediatamente anche gli altri sovrani hanno preso coraggio e hanno introdotto nei loro domini lo stesso nuovo uso. Pertanto non si può nutrire alcuna speranza che l’immunità venga rispettata negli altri stati più che a Roma. Se noi, di fronte alla utilità comune o ad una necessità, non soltanto ci pieghiamo a dare il tributo, ma accettiamo di metterci al servizio, rinunciando a porre la dovuta distinzione tra noi e i laici; i sacri vescovi verrebbero costretti a pagare o perché richiesti o perché estorti o perché imposti, presumendo o non curando se l’autorizzazione sia concessa dall’autorità apostolica. Perché allora meravigliarci se, una volta sovvertita l’immunità ecclesiastica e tenuta in nessun conto l’autorità dei vescovi, ne seguirebbero, come inevitabili conseguenze, le vicende alle quali non senza lacrime dobbiamo assistere e di cui ci lamentiamo fortemente?

   E’ tuo dovere, beatissimo padre, risollevare le sorti prostrate dell’immunità ecclesiastica e questa è la condizione perché tu possa tutelare efficacemente i tuoi e i nostri diritti. Noi infatti non siamo formati come per combattere una guerra di lance, di spade o di altri strumenti bellici, ma ci sono stati consegnate dagli ordinamenti divini le immunità delle persone e delle cose sacre, senza schieramenti di battaglie. Quando per una volta o più volte, ci avessimo rinunciato, è fatale che soccombiamo, siamo superati e ridotti in servitù.

1745.10   Risposta al memorandum dell’arcivescovo (cfr. n. 7) – La causa dell’immunità da   trattarsi a Roma è un’impresa disperata.

La mia petizione, secondo l’uso della Curia, viene trasmessa dal papa al prefetto della sacra congregazione del Concilio Tridentino. Essa fu sottoposta ad un lungo ed attento esame, fino all’inizio dell’anno seguente, allorché lo stesso cardinale prefetto, dopo un’apprezzabile valutazione delle vicende accadute, ha brevemente risposto alla mia petizione eludendo però l’essenza della questione, piuttosto che affrontare il tema vero. Rispose, comunicandomi la seguente decisione: Per ciò che concerne quello che ci hai esposto, poiché grazie a Dio sono scomparsi dalle nostre parti gli accampamenti e gli stazionamenti dei soldati, è da sperare che tali eventi dolorosi non si ripetano più. Se però essi si ripetessero, l’eccellenza vostra potrà rivolgersi alla Sede Apostolica, affinché la ragione di ciò che tu ci hai proposto, sia affrontata.

Senonché io non avevo protestato né denunciato soltanto gli attentati commessi contro la sacra immunità ecclesiastica, a causa degli accampamenti militari o degli stazionamenti delle truppe, ma soprattutto perché nelle nuove imposizione di tasse, che venivano facilmente decise da Benedetto XIV, non era previsto alcun riguardo verso le persone sacre degli ecclesiastici e non veniva fissata alcuna differenza di trattamento tra la casa di Israele, la casa di Levi e la casa di Aaron, per il fatto che gli eccellentissimi vescovi e gli eminentissimi cardinali erano messi sullo stesso piano di ogni comune persona dell’infimo popolo. Da questa risposta e da altri elementi che ho capito a Roma, mi veniva il sospetto che purtroppo in ambiente romano il problema del rispetto della sacra immunità e della libertà ecclesiastica era considerata una causa disperata.

1745.11    L’arcivescovo non parla a Benedetto XIV delle vicende private, ma delle vicende della    città di Velletri per i danni arrecati agli abitanti nel periodo della guerra.

Prima di tutto ho affrontato, inutilmente, l’argomento dei danni subiti dagli abitanti di Velletri parlandone con il cardinale Rufo, chiedendogli di far sborsare all’erario pubblico il denaro per risarcire i danni causati dalle truppe alle case e alle campagne. In seguito ho riferito a Benedetto XIV della situazione di Velletri ed egli si mostrò comprensivo ed equanime. Volle ascoltare dalla mia voce le mie considerazioni e valutazioni, mi invitò però a mettere tutto per iscritto per poter conoscere con precisione il problema. Gli consegnai pertanto lo scritto. Non scrissi però né di me né dei danni subiti dalla mia famiglia e dai miei congiunti, che peraltro erano molto più ingenti in confronto di quelli sofferti dagli altri e ammontavano a più di 15.000 scudi. Di questo non avevo scritto perché non si trattava di una faccenda privata, ma di una causa comune. Prima di tutto volevo, per amor di patria, che si fosse provveduto a risarcire gli altri.

Ciò era stato molto apprezzato da Benedetto il quale ne parlò subito con il cardinale Rufo, affermando che non si poteva permettere che i cittadini fossero defraudati del risarcimento dovuto. Il cardinale Rufo però eseguì la volontà del papa malvolentieri, con ritardo e intervenendo nelle cose molto limitatamente.

1745.12    Decisione della causa sui confini  di un campo in Rota Romana in favore della Chiesa   Fermana.

Il 24 maggio, presso il collegio della sacra Rota, venne di nuovo proposta la causa, diligentemente e decisamente istruita da Lorenzo Origlia e finalmente venne decisa a favore della mia Chiesa. Da parte mia, in qualità di parte agente, l’avevo sostenuta per iscritto e a voce di fronte ai giudici, affinché i documenti prodotti dagli avversari, non fossero o falsificati o esagerati, o non chiariti nel significato, ma fossero rettamente interpretati. Alla fine venne emanata una sentenza abbastanza corposa, elaborata da Giovanni Battista Visconti, uditore di Rota ponente della causa, poi discussa dal collegio degli uditori.

1745.13    L’arcivescovo riscatta il diritto degli spogli.

A Roma, pendeva a mio favore anche un’altra controversia, sul riscatto del diritto degli spogli, che la Camera del Romano pontefice esercitava nei confronti dei vescovi defunti, rivendicando per sé i beni spettanti su di essi. Questo perché spesso dai sub collettori degli spogli i riscatti venivano eseguiti in modo così disordinato, che ne scaturivano lamentele, controversie con gli eredi e scandali nel popolo. Io peraltro godevo della facoltà a me data da Benedetto XIII, in qualità di vescovo assistente pontificio, di fare testamento dei beni acquisiti dalle rendite ecclesiastiche fino alla somma di mille ducati d’oro di Camera; inoltre mi ero riservato il diritto su molta suppellettile, pecore e altro, come molte cose trasferite in arcivescovato, dopo averne compilato l’inventario, come è prescritto, munito di visto della curia Romana.

Nonostante tutto, ciò non era stato sufficiente per sfuggire all’intervento del sub -collettore. Per questo avevo chiesto insistentemente a Benedetto XIV la facoltà di poter fare un documento di tutto, anche dei beni inconsunti o perenni, anche se incommisti (separabili), purché fossero separati dai possedimenti terrieri, anche beni invenduti, dopo aver fatta una offerta in denaro in mille scudi onde raggiungere un accordo con la camera Apostolica. Sulla quantità della somma la discussione non fu molto difficoltosa. Gaspare Murgia compilò l’atto che fu dato al tesoriere generale il 5 luglio.

<Nel ms. 285 della Biblioteca comunale di Fermo di questa Cronaca del Borgia , si leggono alcuni altri enunciati: “Ho pagato la somma della tassa secondo la sentenza del tesoriere generale di mille scudi, di cui 800 per la camera Apostolica e gli altri per i cosiddetti ‘giocali’ e altri scudi annessi alle spese. (…) Un po’ complessa fu la discussione su quanto non riscosso. La costituzione di Urbano VIII stabilisce che il fruttato non riscosso che per qualunque privilegio, è stato concesso anche ai cardinali della Chiesa Romana , viene riservato alla camera Apostolica. Nella  transazione che si fece si lasciò a me il potere di attestare ogni cosa, non solo i frutti separabili riscossi da parte mia, anche quelli venduti o dati in prestito che erano da esigere o che restavano da recuperare, con dichiarazione fedele del prezzo. Gaspare Murgia trattava a nome mio con il tesoriere generale, secondo il chirografo di Benedetto XIII, e il documento stipulato il 9 giugno è stato accolto dalla Camera apostolica.>

1745.14    Il permesso di esportare il grano arriva sempre tardivamente e quindi risulta inutile – L’arcivescovo a Roma si impegna affinché Benedetto e i suoi ministri comprendano  che le licenze per le esportazioni marittime debbono essere concesse tempestivamente.

Nel mio soggiorno a Roma avevo trattato anche la questione delle esportazioni del grano della mia mensa arcivescovile, ma Benedetto XIV tentennando rimandò la questione. Tuttavia,  a me, primo fra tutti, concesse uno speciale privilegio di esportare il grano, però soltanto alla fine di aprile e solo la seconda specie di frumento detto ‘marzatello’. Alla fine di maggio, poi, sia a me, che agli altri, fu concesso di esportare anche il grano, tuttavia non utilizzai queste tardive facoltà. Ma a Roma feci in modo che Benedetto e i suoi ministri capissero che, per il futuro, le facoltà venissero concesse più prontamente, in particolare dopo la nuova raccolta del grano, come fu ottenuto per me e per gli altri.

1745.15    L’arcivescovo fa ritorno a Fermo.

Sistemate così le cose, il primo di giugno, ho lasciato Roma e, siccome non avevo mai visto Rieti sul Velino nella Sabina, mi sono recato là. Da Rieti, poi, sono sceso verso Terni da dove ho raggiunto il paese di Galliano, nel quale mons. Bonaventura Savini, vescovo di Montalto, mi aspettava nella campagna della sua famiglia. Quando ripartivo per venire a celebrare la festa di Pentecoste nella cattedrale di Fermo, purtroppo venne giù una pioggia così violenta, che mi trattenne là, per cui arrivai a San Claudio sul tardi, dopo il vespro di Pentecoste e nel giorno successivo, il 7 giugno, giunsi a Fermo, dove il martedì dopo Pentecoste amministrai solennemente la cresima ad alcune centinaia di ragazzi e di ragazze. Il sabato dopo Pentecoste tenni le ordinazioni presbiterali. Durante la quaresima avevo affidato a questo vescovo di Montalto le ordinazioni quaresimali per i miei diocesani.

1745.16    Camillo Borgia con sua moglie giunge a Fermo per farmi visita.

Mio fratello Camillo Borgia, con sua moglie, nel mese di luglio, dopo aver lasciato Ferentino e dopo esser passato in patria, a Velletri, per vedere la desolazione esistente, venne da me. Durante i più che venti anni da quando mi trovavo a Fermo come arcivescovo, mai era venuto a trovarmi. La città di Fermo li ricevette con molto onore, mandandoli ad accogliere, fuori la porta della città, da alcuni nobili: Alberto Rosati e Giovanni Francesco Guerrieri che tennero loro compagnia, fino a notte inoltrata. I due coniugi rimasero da me fino all’inizio del mese di settembre per poter assistere alla festa dell’Assunta e assistere alla grande fiera della città durante il mese di agosto.

1745.17    Le luminarie che si accendono nella vigilia della festa dell’Assunta.

Era stata introdotta una nuova usanza, quella di accendere luminarie nelle vigilie della feste dei santi. Anche se tale uso in sé poteva sembrare originato dalla devozione religiosa, nella pratica, diventava una occasione di licenziosità per il popolo. La gente girava per strada in modo promiscuo, maschi e femmine, a zonzo, e ciò facilmente costituiva un pericolo per l’onestà dei costumi. I pastori di anime si lamentavano vigorosamente di questo nuovo uso perché sospettavano che si commettesse qualcosa di immorale nella oscurità della notte e in quello stato di promiscuità.

Per tale ragione nella festività dell’Assunta, rivolgendomi al popolo, durante la celebrazioni del pontificale, toccai questo argomento, facendo riferimento agli antichi Statuti della città di Fermo i quali nel libro I rubrica 2 disponevano che i cittadini nella vigilia dell’Assunta possono avere in mano le luminarie accese e con esse accedere in processione verso la cattedrale, ma soltanto di giorno, non di notte. Peraltro io non ho proibito di farlo anche di notte a condizione però che le donne rimanessero in casa.

1745.18    Inizio della quarta visita pastorale – L’eredità di Pietro Antonio Marefoschi;                   discussioni sulle disposizioni testamentarie a favore della città di Monte Santo.

All’inizio di settembre, dopo che era partito mio fratello Camillo con sua moglie per recarsi a Loreto e ad Ancona e poi ritornare in patria, ho dato inizio alla quarta visita pastorale della diocesi, cominciando dalla chiesa metropolitana. Subito dopo mi sono recato a Sant’Elpidio a Mare, a Civitanova, a Montecosaro e a Monte Santo. Qui ho dovuto affrontare molte discussioni con i priori del luogo, sulla eredità di Pietro Antonio Marefoschi, dopo la morte di Guarniero Marefoschi, l’ultimo maschio della famiglia con il diritto di fideiussione esecutiva, per la istituzione di un seminario per i chierici e di un monastero di monache, da parte dei sacerdoti della Compagnia di Gesù di Macerata. Ma i Compagnoni di Macerata, pronipoti dei fratelli Marefoschi, Guarniero e Francesco, da parte della figlia di costui, si erano fatti assegnare in anticipo l’eredità e c’era il non lieve sospetto che gli stessi sacerdoti della Compagnia di Gesù, trattando la transazione con i Compagnoni distorcessero la provvida volontà del testatore onde appropriarsi dei beni ereditari in favore del Collegio Casino di Macerata, con la concessione però ai cittadini di Monte Santo soltanto del diritto che alcuni giovani del luogo fossero accolti gratuitamente nel Collegio di Macerata e alcune monache fossero accettate gratuitamente nei vari monasteri esistenti a Monte Santo.

Per rendere vano questo progetto, vero o falso che fosse, si dovette lavorare molto Scrissi innanzitutto al preposito generale della Compagnia di Gesù e ho incaricato, a titolo pubblico, Lorenzo Origlia a Roma, di interporre un’opposizione presso i giudici e di tutelare quanto meglio possibile la volontà del testatore e i diritti della città di Monte Santo.

1745.19    Costruzione di un ponte di legno sul fiume Ete presso Santa. Maria a Mare – Giovanni Paolo Borgia viene annoverato tra i giovani del Gran Maestro dell’Ordine         Gerosolimitano e l’arcivescovo gli impone la spada e la croce benedetta.

Completata la visita a Monte Santo, il 7 ottobre, mi sono recato a Santa Maria a Mare, chiamatovi a motivo dell’inizio della costruzione del nuovo ponte sul fiume Ete. Fin dagli antichi tempi, vari ponti costruiti in muratura erano stati travolti dalla furia delle acque. Recentemente anche un secondo ponte di legno, costruito con i soldi della stessa chiesa, da Raffaele Fabbretti, poco tempo dopo la costruzione, era crollato. Della cosa ho parlato in questa cronaca nel testo relativo all’anno 1732.

Un parroco della diocesi, memore del fatto che la sua famiglia in quel luogo aveva realizzato molti progressi, ha destinato la somma di 1500 scudi alla costruzione del nuovo ponte, ben fatto. Sollecitava l’inizio dei lavori, Filippo Caucci di Ascoli, che aveva richiesto e ricevuto da Benedetto XIV l’incarico di sistemare la via vicina al mare Adriatico tra Ascoli e Loreto con i soldi degli abitanti della provincia, ai quali venne imposto un nuovo balzello, messo assieme con i diversi altri balzelli, per fare quest’opera, che oltretutto appariva difficile e intempestiva.  La difficoltà era però quella della scelta del luogo più opportuno per costruirvi il ponte, in modo tale che resistesse a lungo, e decidere la tecnica da usare nel costruirlo e con quali fortificazioni, e su questo non fu richiesto il mio parere. Fatte le debite ispezioni sul luogo, richiesi il parere dei periti insieme all’arciprete della chiesa metropolitana e al canonico Montani incaricati dal capitolo. Non fu facile esprimere una decisione chiara perché in tutti c’era il timore che si potessero commettere errori. La questione quindi fu rimandata in attesa di una più matura consultazione.

Subito dopo sono andato a villeggiare un po’ nella villa di San Martino, per riposarmi fino alla vigilia della festa di Tutti i Santi. Mentre mi trovavo lì, ebbi la notizia che mio nipote (da parte del fratello) Giovanni Paolo Borgia, di tredici anni, che abitava con me fin dal 1741, era stato annoverato all’Ordine Gerosolimitano, come giovane nobile al servizio del Gran Maestro, dopo che erano state superate alcune obiezioni avanzate dal gran priorato di Roma di questo ordine, relative alla nobiltà della famiglia materna Gagliardi. Pertanto il 10 ottobre, nel giorno in cui la Chiesa fa memoria di san Francesco Borgia, nella cappella di San Martino l’ho benedetto e gli ho imposto la croce e la spada, secondo il rito previsto per coloro che si consacravano alla difesa della fede cattolica e al recupero della Terra Santa. Il giovane partì subito per far ritorno a Velletri; poi si recò a Malta dove giunse il giorno 13 gennaio dell’anno seguente.

1745.20    Proibizione di tenere i mercati nei giorni di festa – Vengono tollerate le fiere nei giorni  di festa, non però nelle ore in cui si celebrano i divini uffici – Editto del camerlengo  con cui viene lesa la giurisdizione dei Vescovi circa la celebrazione delle feste.

Dopo aver celebrato, secondo l’uso, la festa di Tutti i Santi, durante il mese di dicembre, mi è sopraggiunto un altro problema. Benedetto XIV stava ancora esaminando le varie proposte di come ridurre le feste da celebrare con l’obbligo di astenersi dai lavori servili, argomento a cui ho già accennato nelle pagine di questa cronaca all’anno 1742 al n. 22. Il parere da me allora espresso era stato richiesto e accettato da molti a Roma. Poiché però altri vescovi e teologi si erano espressi formulando disparati pareri, Benedetto XIV non era giunto ad alcuna decisione conclusiva. Scrisse, tuttavia, una lettera enciclica a tutti gli arcivescovi e vescovi del suo Stato per comunicare a loro che egli non aveva preso alcuna decisione, poiché avrebbe desiderato che gli fossero giunte proposte concordi da parte dei vescovi, per non correre il rischio che si notasse una marcata disparità nel culto tra popolazioni confinanti.

Egli dava disposizioni in materia di mercati e di fiere che si svolgevano nei giorni di festa di precetto. Decise che non era consentito di tenere i mercati nei giorni di festa, mentre le fiere erano tollerate anche nei giorni festivi, purché si rispettassero gli orari stabiliti dai vescovi per le liturgie mattutine e serali, durante le quali i banchi <delle vendite> non fossero aperti e si interrompessero i commerci.  Inoltre era consentito che la fiera proseguisse anche nel giorno seguente, purché anche questo non fosse festivo. Con queste disposizioni, il papa aumentava il tempo per lo svolgimento delle attività commerciali, e per fare svolgere il commercio più comodamente faceva fruire dell’intera giornata. La lettera si chiudeva con l’esortazione rivolta ai vescovi: Vigilate affinché tutte le cose vengano pienamente e fedelmente rispettate.

Oltre alla lettera enciclica era stato pubblicato anche un editto del cardinale camerlengo della Chiesa Romana. Con esso non solo si ribadiva la concessione del prolungamento dei tempi delle fiere ma, dopo aver dato esclusivamente ai vescovi il potere di dichiarare quali erano le ore in cui si svolgevano le funzioni liturgiche, ai contravventori, veniva irrorata la pena del sequestro della merce in vendita con una la multa di 300 scudi da versare in parte alla camera Apostolica, in parte ai delatori e agli esattori, in parte infine era riservata alle opere pie. Tali pene venivano ad essere applicate contro chiunque, secolari o ecclesiastici di qualunque grado o dignità, i quali, nelle ore proibite, praticassero le attività commerciali. L’esecuzione di questo editto era demandata, sotto altre gravissime pene, ai governatori ed ai giudici, non ai vescovi. Ciò a molti sembrò una presa in giro verso i vescovi. Sembrava, infatti, che la giurisdizione ecclesiastica di stabilire e di fissare i giorni festivi, cosa che, da sempre, era stata prerogativa dei vescovi, fosse sottratta a loro e trasferita ai giudici laici, e con ciò era violata l’immunità delle persone sacre e  ogni problema era trasferito e affidato alla competenza dei funzionari della curia Romana.

Ricevuta la lettera enciclica del papa, ed esaminato il decreto del camerlengo che fu pubblicato dai governatori, ho scritto al cardinale Di Girolamo, prefetto della sacra congregazione dei Vescovi dichiarando che avrei fedelmente ubbidito alle disposizioni date dalla lettera enciclica, ma nello stesso tempo facevo osservare che l’editto emanato dal cardinale Camerlengo era in aperto contrasto con la lettera papale. Infatti l’aver attribuito l’insolita potestà ai giudici laici era contrario alle norme del diritto e si metteva in contrasto contro le persone sacre; era contro l’antica consuetudine di questa provincia, secondo la quale i giudici ecclesiastici in modo privativo e non già quelli laici si occupano del culto delle feste religiose. Se poi nello Stato pontificio si adottavano questi sistemi, in breve tempo tutti gli altri sovrani, specialmente quelli degli stati confinanti, avrebbero usurpato questo diritto, contro il diritto ecclesiastico. Il cardinale prefetto della congregazione dei Vescovi, al quale pensavo che la cosa stesse a cuore, appena gli venne consegnata la mia lettera, si sentì male e fu colpito da leggera apoplessia. Della cosa scrissi anche ad altri, ma non ricevetti risposta da alcuno di loro. Da ciò compresi che la sorte della immunità e della libertà ecclesiastica nell’ambiente romano era compromessa.

1745.21    Francesco, duca della Lotaringia viene eletto imperatore – Gages elude gli Austriaci e  nella Liguria riunisce le truppe con Filippo principe di Spagna – I Genovesi temono di non poter recuperare Finale Ligure dal re di Sardegna, perciò accolgono gli       Spagnoli, i Francesi e i Napoletani con i quali si alleano.

Durante tutto l’anno,  senza interruzione alcuna, si era combattuto aspramente tra i principi cristiani in Italia, in Germania e in Belgio. Gli Austriaci erano specialmente interessati al fatto che Francesco di Lotaringia, duca di Toscana e marito di Maria Teresa, regina di Ungheria e di Boemia, nella dieta di Francoforte ottenesse la dignità imperiale, contro gli intrighi e la volontà dei Francesi. Raggiunsero ciò felicemente. Il 13 settembre, Francesco venne eletto imperatore con il voto contrario di due grandi elettori: il conte del Palatinato e il marchese di Brandeburgo, detto già re di Prussia, con i quali comunque alla fine fu raggiunto un accordo. Con il marchese di Brandeburgo ciò si rivelò dannoso per i cattolici. Infatti a quel principe, non cattolico, fu ceduta la Slesia, regione ricca di risorse e strategicamente utile per la casa d’Austria. Mons. Stoppani, nunzio pontificio presso la dieta di Francoforte, si era comportato in maniera infelice, senza preoccuparsi abbastanza di tutelare i diritti e la dignità della Sede Apostolica; il che era prevedibile se si tiene conto di quanto ho detto in precedenza sul comportamento di questo nunzio mons. Stoppani. Intanto il neo eletto Imperatore, non senza un certo ritardo, aveva presentato al pontefice Romano i tradizionali atti di omaggio.

Nel Belgio le cose procedevano in favore dei Francesi, anche perché lo stesso re di Francia guidava l’esercito. I Francesi si impossessarono di città importanti e ben munite, lontane dal territorio del loro regno, sparse ampiamente. In Italia, Gages, eluse a Modena le aspettative degli Austriaci che credevano che lui ponesse gli accampamenti in quella città. Egli salì sui monti che si ergono di fronte, senza temere né l’asprezza del cammino né i rigori dell’inverno, esortando le truppe a non lasciarsi impaurire per il tempo e per la fatica del cammino e ciò non soltanto a parole, ma dando anche lui stesso l’esempio. Infatti lasciò il cavallo e alla testa delle truppe,  camminando a piedi tra la neve e il gelo, percorrendo lo stesso difficoltoso itinerario, giunse fino al territorio di Lucca e subito dopo passò in Liguria, dove ricongiunse le sue truppe con quelle di Filippo, sovrano di Spagna, che era arrivato al litorale della Liguria, traversando, dalla sua parte, le Alpi. Nel frattempo l’esercito francese si stava muovendo,  per aiutare Filippo, contro le province Cisalpine <= lombarde> del re di Sardegna.

I Genovesi a ragione temettero l’intervento del re di Sardegna; infatti il 13 settembre 1743 nel trattato di Worms, si era concordato tra gli Austriaci e il re di Sardegna il diritto di quest’ultimo di rivendicare il possesso di Finale sulla costa Ligure, famosa città per il titolo di marchesato che l’imperatore Carlo VI, il 20 agosto 1713, aveva venduto alla repubblica di Genova per 800.000 nummi di moneta genovese.  Questa repubblica accolse le truppe spagnole, francesi, napoletane alle quali si congiunsero le truppe ausiliarie arruolate dai Genovesi che fornivano anche un apparato di molte macchine da guerra. Tutto ciò avvenne affinché i tre sovrani, quello francese, quello spagnolo e quello delle due Sicilie si impegnassero a difendere la città di Finale in quanto territorio della repubblica di Genova. Quindi questi tre sovrani e i genovesi quindi attaccarono la Gallia subalpina e la Gallia cisalpina (Insubria), difese dai Sardi e dagli Austriaci. Le truppe però non erano di pari forza. I Sardi e gli Austriaci furono costretti a cedere in poco tempo molte zone, come Parma e Piacenza e altre città della Cispadania e della Gallia cisalpina (Insubria) nonostante che la flotta inglese ne appoggiasse la difesa nel litorale ligure, ma con scarso successo.

Questa situazione fu molto gravosa per il Piceno, poiché la presenza della flotta inglese impedì il libero commercio del grano dall’Adriatico verso il mare Mediterraneo. La conseguenza fu che il prezzo di qualsiasi tipo di granaglie, mentre aumentò specialmente nelle coste del Mediterraneo e della Liguria, da noi si mantenne basso. Alcuni commercianti abbandonarono l’attività di trasporto nel timore che la mercanzia finisse nelle mani degli inglesi, altri invece non temendo tale pericolo acquistavano il nostro grano ad un prezzo molto basso.

1745.22   Costruzione di barriere di contenimento sui fiumi Chienti ed Ete – Al terreno della  mensa detto di Felceto sono state aggiunte altre costruzioni.

Nel corso di quest’anno, presso San Claudio, dato il timore delle esondazioni, sono state rinforzate le barriere di contenimento costruite l’anno scorso per contenere le gravi inondazioni dell’acqua del fiume Chienti. Per queste aggiunte ho fatto gravi spese. A Santa Croce inoltre furono rinforzate le barriere vecchie, costruite contro il torrente Ete. Nel terreno detto Felceto, che si trova tra Sant’Elpidio a Mare e Montegranaro e che appartiene alla mensa arcivescovile, e in precedenza era del monastero di Santa Croce, ho fatto costruire nuovi edifici fatti con laterizi a calce, ad uso dei coloni, che finora si erano serviti di capanne. Quantunque il terreno non sia esteso, per cui non occorrono più di due buoi per l’aratura da fare con alternanza, tuttavia ho pensato di far questa costruzione per aumentare il valore del campo e per stimolare la diligenza dei coloni.

1745.23    Viene istituita una nuova parrocchia nella chiesa di Santa Maria della Corva                  – Per la zona della Corva, all’interno del territorio di Sant’Elpidio a Mare,                 viene nominato  il cappellano curato.

Infine, durante quest’anno, nel compiere la visita pastorale a Sant’Elpidio a Mare, avevo notato che la piccola chiesa di Santa Maria della Corva era stata ampliata sufficientemente e che, in massima parte, era stata ultimata la casa destinata a un sacerdote che ivi si dedicasse alla cura delle anime. Per costruirla anch’io avevo offerto molti soldi. Il 6 novembre, giorno del mio compleanno, ho completato l’iniziativa degli anni precedenti ed ho firmato il documento col quale disponevo la separazione delle famiglie dei coloni che abitavano nei dintorni della Corva e nelle sue vicinanze dalla cura delle anime della collegiata di Sant’Elpidio fino al torrente Tigno, facendo però eccezione per l’amministrazione dei battesimi che ho voluto riservare alla chiesa collegiata, in quanto considerata Chiesa madre.

Ho anche assegnato alla nuova chiesa un sacerdote, col titolo di cappellano curato, che esercitasse la cura delle anime nella nuova parrocchia. Per il suo sostentamento ho destinato, oltre alla solita assegnazione di cinque rubbi di grano, che i contadini sono tenuti a fornire per la celebrazione delle Messe, anche la corresponsione di altre tre rubbi di frumento da parte della confraternita chiamata della Misericordia di Sant’Elpidio, ho anche aggiunto i beni alla chiesa curata rurale della Corva. Il capitale in dote a questa cappellania raggiunge i 600 scudi che erano ceduti in usufrutto al nuovo cappellano curato, a cui però competeva l’onere delle Messe prescritte che debbano essere celebrate in quella cappella.  Ho così provveduto, in certo modo, a garantire la cura delle anime in una zona del territorio di Sant’Elpidio a Mare.

ANNO 1746

1746.1    Filippo principe di Spagna occupa la città di Milano, ma subito dopo è costretto ad abbandonarla.

Il nuovo anno ha offerto un’ampia e triste materia alla narrazione. Il popolo cristiano si era ormai assuefatto alle guerre reciproche, senza alcun intervallo. I combattimenti non erano diminuiti di intensità nel pieno dell’inverno: i Francesi combattevano acremente in Belgio e occuparono Bruxelles; gli Spagnoli in Italia insieme con i Napoletani e con i Liguri, loro alleati, sotto il comando del principe Filippo e del duca di Gages occuparono la Lombardia, la Gallia Cisalpina e la capitale Milano, con forze ineguali e con grande sforzo per dover conservare e mantenere la conquista contro gli Austriaci e i Sardi. Erano impreparati a difendere il territorio conquistato. Pertanto a causa dell’imprevisto violento avanzare dei nemici che stavano sopravvenendo, in breve tempo furono costretti ad abbandonare Milano e la maggior parte delle città e dei paesi di quello Stato.

Si raccontava che il re Filippo, che si era troppo facilmente insediato a Milano, stava allegramente gozzovigliando con i maggiorenti e le nobildonne della città, allorché si verificò l’improvviso rovesciamento della situazione; egli quindi più che ritirarsi fu costretto a fuggire precipitosamente. Nessuno peraltro se ne addolorò, mentre egli si lamentava della sua triste sorte e dei consigli errati suggeritigli dai suoi comandanti. Agli uomini saggi, che non abbiano la testa vuota e abbiano presente o ricordino l’antica maestà dei re di Spagna, Filippo sembrò in tale occasione privo della dignità. Fu infatti costretto a fare il sovrano profugo, vagando per l’Italia in cerca di nuove sedi. Era preoccupato di trovare per sé nuovi regni, come se nei vasti territori paterni non fosse esistito un posto dove poter risiedere in sicurezza e con dignità. Su tale vicenda competerebbe ad altri fare le opportune considerazioni.[2] Filippo, ritiratosi da Milano, si fermò a Piacenza dove avrebbe dovuto affrontare le fatiche di un lungo assedio, ma su questo argomento torneremo più avanti.

1746.2    L’arcivescovo acquista il mulino di Cicarella nel territorio di Ripatransone.

Proseguiamo nella trattazione delle nostre cose. Tra le varie proprietà della mensa arcivescovile, si contavano due mulini per il grano che si trovavano presso la chiesa di San Martino,  nel castello di Grottammare, anticamente chiamata Cupra Marittima. Da questi si ricavavano parecchi proventi.  Negli anni precedenti, era nata una lite, con una forte gelosia, tra il mugnaio di questi due mulini, e quello di un’altra mola, distante tremila passi, ma nel territorio di Ripatransone, nella contrada di Penna, in una zona che per la sua piccolezza chiamano Cicarella, perché il mugnaio ripano, violando il nostro diritto, spesso veniva nel paese di Grottammare in cerca di grano da trasportare al suo mulino e che sarebbe dovuto essere condotto nei due nostri mulini. Il nostro mugnaio infatti pagava alla comunità ogni anno una certa quantità di frumento per garantirsi il diritto che gli abitanti del luogo fossero obbligati a servirsi, per la molitura, di questi due mulini della mensa. Queste controversie e liti erano molto frequenti tra i due gestori. Per evitarle, il 7 febbraio, acquistai, come privato e a mio nome, il mulino di Cicarella dal proprietario Teodoro Condivi, nobile cittadino di Ripatransone per la somma di 1350 scudi d’argento, stabilendo con il conduttore di tale molino la condizione che non ne derivasse alcun pregiudizio alla nostra mensa. L’atto della compravendita fu rogato da Elpidio Maiorana notaio della mia curia per la cifra pattuita e pagata con i miei beni personali.

1746.3    Viene occupato e danneggiato un campo della mensa arcivescovile; dal fatto è nata una controversia con Nicola Ravenna che perse la causa.

Mentre mi ero impegnato a fare in modo che in quella zona i rapporti della mensa si svolgessero in modo pacifico, avvenne che Nicola Ravenna, abitante a Grottammare, invase e danneggiò un campo della Mensa chiamato Moregnana, non distante dalla chiesa di San Martino e dai miei mulini. Era questi un uomo di animo agitato, aveva seguito le schiere degli Austriaci nel periodo della guerra e da loro aveva ottenuto un regio diploma di benemerenza. Affermava che la riva del canale dell’acquedotto, anche nella parte che era sul terreno di proprietà della nostra mensa, spettava a lui. Invase quindi il campo e tagliò gli alberi piantati tempo addietro dai miei coloni e già abbastanza grandi. Egli con un monitorio dell’uditore di Camera, tentò di difendere i suoi abusi. In conseguenza di tali fatti, fu inoltrata a Roma una controversia; la sentenza lo dichiarò perdente e fu condannato a rifondere il valore dei danni arrecati nei danneggiamenti degli alberi e fu riconosciuta  che la proprietà su questa riva, nella nostra terra con il canale che conduceva l’acqua, spettava unicamente alla mensa arcivescovile, come risultò dalla sentenza emessa da mons. Cenci, luogotenente dell’uditore di Camera e riportata negli atti dal notaio Cesare. Dopo che fece altre interpellanze, alla fine il Ravenna si dovette convincere e fu costretto ad obbedire.

1746.4    Soppressione del Collegio Illirico di Fermo e trasferimento degli alunni a Roma.

Nel corso dell’anno, si è verificato un fatto grave e increscioso, sia per me, sia per i Fermani. Il collegio Illirico di Fermo, che aveva la finalità di promuovere la fede cattolica in Illiria, istituito a Fermo da circa un secolo, nel mese di febbraio era stato soppresso con un decreto emanato dai cardinali della sacra congregazione che si occupa della Propagazione della Fede (Propaganda Fide). Per conseguenza i dieci alunni che vi erano ospitati per ragione di studio, il 13 febbraio, furono trasferiti a Roma, nel collegio urbano di Propaganda per continuare la loro formazione. Non appena la notizia venne ai miei orecchi, scrissi una lettera al papa Benedetto XIV il quale nell’anno precedente, mentre mi trovavo a Roma, mi espresse il suo nobile proposito di ampliare e sviluppare il nostro collegio degli Illirici. Gli chiedevo di annullare l’imprevisto e inopportuno decreto emanato dalla sacra congregazione di Propaganda. Gli esponevo anche le mie osservazioni. Questa nostra città di Fermo poteva essere considerata come una rocca di difesa della religione, com’era posta di rimpetto alla regione dell’Illiria; era quindi di facile collegamento perché separata solo dal breve braccio del mare Adriatico. A Fermo i giovani alunni trovavano la salubrità dell’aria, qui potevano avere tutto il necessario per un vitto ricco e sano, qui potevano fruire di seri studi letterari e di esercitazioni, partecipare alle frequenti sacre azioni liturgiche celebrate con riti maestosi e avere molti esempi e incitamenti per coltivare lo spirito di pietà in quanto vi era la sede metropolitana ben sistemata e la città aveva una celebre e antica Università nella quale i giovani potevano trovare tutte le facoltà per approfondire gli studi.

Aggiungevo anche il fatto che gli alunni che erano usciti dal nostro collegio Fermano, anche se erano giunti giovanissimi e pressoché digiuni di studi delle lettere, in breve tempo avevano ottenuto una buona preparazione nelle lettere, esperti nelle scienze e erano diventati infaticabili operai del vangelo. Anzi molti erano stati mandati ad essere vescovi ed arcivescovi presso le popolazioni Illiriche. Da questo ambiente in cui potevano disporre di tante fortunate possibilità, i giovani studenti erano in grado di crescere e di raggiungere la piena maturazione. Non si capiva perciò alcuna ragione di trasferirli. Andava considerato anche il fatto che da molte persone erano state offerte e consegnate alla sacra congregazione alcune somme di denaro come legati per costruire in questa città altri locali per ampliare questo collegio Fermano; purtroppo i lavori non erano stati neppure iniziati.

Nonostante questa mia iniziativa, poiché nessuno nutriva la minima speranza su questo problema che ormai veniva da tutti considerato risolto in negativo, a causa della decisione presa da quella sacra congregazione, non ci fu nessuno che desse riscontro alla mia lettera ed alle richieste rivolte dalla città al papa. Benedetto XIV ben conosceva ciò e se ne stava occupando. I cardinali e gli officiali della congregazione di Propaganda prendevano come pretesto il fatto che l’organizzare questo collegio, separato da Roma, causava un maggiore dispendio. Se a Fermo il numero degli alunni mandati non fosse stato così esiguo, ma più congruo, ad esempio se fossero stati venti gli alunni ospitati, sarebbe diminuita la quota delle spese, perché distribuite tra molti.

1746.5    Morte di mons. Dionigi Pieragostini vescovo di San Severino – Successore è Giuseppe Vignoli.

Fui molto rattristato per la morte del vescovo Dionigi Pieragostini, mio suffraganeo. Lo amavo perché nel governo della sua Chiesa era stato diligente, zelante, e nel collaborare con me si era mostrato sempre pronto e disponibile. Morì all’età di settanta anni per una improvvisa apoplessia capitatagli nella sua età di vecchiaia ancora valida e buona.

Benedetto XIV nominò come successore mons. Giuseppe Vignoli della diocesi di Camerino. Suo padre che era stato chiamato a Fermo per esercitare la professione di medico come aiuto gregario e dove la esercitò, lo aveva portato con sé in città. Qui gli fece frequentare gli studi nei quali fece molto profitto, sotto la guida di mons. Nicola Calvucci, primicerio della metropolitana, mio vicario generale e uditore generale. Per mio consiglio il giovane seguì, mons. Francesco Durini di Milano, uditore, inviato a Malta come inquisitore. Da qui, in seguito, lo seguì come nunzio apostolico prima a Lucerna, poi a Parigi. Giuseppe Vignoli, dopo creato vescovo di San Severino,  nella sua prima lettera pastorale al clero e al popolo mi ha ricordato, esprimendo nei miei confronti la sua venerazione e la sua gratitudine ed anche nei confronti di mons. Calvucci.

1746.6    Cause che hanno determinato la diminuzione dei tributi nella città di Fermo                – Sospensione dei contributi alla mensa dei priori della città.

Mi è giunta una lettera da parte dell’uditore del sommo pontefice nella quale mi si chiedevano spiegazioni per chiarire le cause che avevano determinato la diminuzione dei proventi derivanti dalle tasse che si dovevano pagare sia alla camera Apostolica sia al comune di Fermo. Infatti i proventi erano diminuiti, a tal punto che le risorse disponibili non erano più sufficienti per le spese correnti e su questi due aspetti del fenomeno si facevano molte insinuazioni.

Subito e accuratamente mi sono informato, al fine di trovare la risposta ad ogni aspetto e ho scoperto che la causa principale di questa diminuzione era chiara ed era causata dalle autorità centrali di Roma. Queste infatti spesso concedevano con facilità a varie località soggette alla città le esenzioni dal pagamento di diversi tributi ordinari e consueti, oppure il loro ammontare veniva diminuito. A provocare naturalmente la diminuzione delle entrate tributarie previste, c’era il fenomeno ascrivibile al fatto delle frequenti contestazioni e liti, con le sospensione del dovuto. Si aggiungeva poi  <per le riscossioni> il fatto che, in molti tratti della città di Fermo, e specialmente nella parte orientale di essa, c’era facilità di uscite non controllate, perché le mura o erano crollate o erano diroccate, per cui aumentava il rischio che, nel commercio, si verificassero frequenti frodi fiscali. Erano anche diminuite  le esportazioni marittime. I debiti pubblici contratti erano aumentati a dismisura a causa del passaggio, del vettovagliamento e dello stazionamento delle truppe straniere e anche per le altre nuove pubbliche calamità che avevano colpito il territorio.

Su tutto ciò ho fatto una dettagliata relazione all’uditore del papa e ho avanzato anche alcune proposte, specialmente in relazione alla riparazione delle mura cittadine. Occorreva ricostruire i tratti crollati, restaurare quelli rovinati e conservare le parti ancora restate in piedi. La discussione sulle cause della diminuzione delle entrate fiscali proseguiva all’infinito, ma non c’era speranza che venissero presi efficaci provvedimenti. L’amministrazione centrale, di fronte a tale fenomeno, non era capace di trovare altro rimedio, se non quello di sospendere e tagliare i contributi che normalmente versava alle casse dei priori della città.[3]

Quest’ultimo provvedimento adottato non fu affatto consigliato da me, anzi scrissi esplicitamente che tale decisione a me sembrava assolutamente da escludere nel trattare le cose pubbliche.[4]

1746.7    Sentenza della Rota Romana che conferma la precedente decisione sui confini di                 San  Claudio.

Frattanto i frati dell’ordine degli Eremitani Agostiniani di Santa Maria della Fonte, nei pressi di Macerata, andavano sollecitando la sentenza per la definizione dei confini della proprietà della mensa a San Claudio e si erano rivolti all’uditore della Rota Romana mons. Visconti, che, l’anno precedente, con suo decreto aveva dato ragione a noi. Il 28 febbraio, il ricorso inoltrato dai frati contro la prima decisione, fu respinto dalla nuova sentenza emessa. Lo stesso giudice mons. Visconti confermò il primo verdetto e difese i nostri vecchi confini.

1746.8    Francesco Antonio Gervasi dei frati Minori Conventuali predica la quaresima a Fermo– L’arciconfraternita del Gonfalone di Roma chiede che vengano consegnate ad essa le offerte raccolte per la liberazione degli schiavi – La congregazione dell’Oratorio    Filippino di Sant’Elpidio a Mare inutilmente chiede che vengano assegnati ad essa i            beni del pio ospedale di Santa Maria della Misericordia di Sant’Elpidio a Mare.

Nella quaresima di questo anno, nella cattedrale, abbiamo avuto come esimio predicatore della parola di Dio, il teologo p. Francesco Antonio Gervasi, dell’ordine dei frati Minori Conventuali che ha predicato più volte nelle principali città dell’Italia. Egli, ormai avanzato negli anni, ha accettato di venire da noi e ha predicato per tutta la quaresima ad un numeroso pubblico soddisfatto di lui.

Ho ricevuto una lettera da parte del cardinale Francesco Ricci e dagli officiali della arciconfraternita del Gonfalone di Roma con la quale mi veniva comunicato che le offerte raccolte per la liberazione degli schiavi, che fino ad allora erano state sempre consegnate ai religiosi dell’ordine della SS. Trinità di Roma, da ora in poi, per un esplicito rescritto del sommo pontefice, dovevano essere consegnate in mano alla arciconfraternita del Gonfalone di Roma che si interessava di quella pia opera nel territorio della Chiesa Romana. Perciò ho scritto un decreto con cui ho disposto la consegna da eseguire in conformità alla disposizione papale. Pertanto, alla fine dell’anno, abbiamo consegnato le offerte a questa arciconfraternita romana del Gonfalone.

I preti della congregazione dell’Oratorio Filippino, da me istituita, in seguito ad un lascito testamentario del signor Sapiti, a Sant’Elpidio a Mare, nel 1731, non aveva a disposizione una chiesa ed un’abitazione che fossero ampie ed adatte alle loro esigenze, mentre usavano un piccolo oratorio. Essi si erano rivolti al papa chiedendo che assegnasse agli stessi preti dell’Oratorio la chiesa e i beni del pio ospedale di Santa Maria della Misericordia di Sant’Elpidio a Mare. La domanda era stata resa nota al prefetto della congregazione per l’interpretazione del Concilio di Trento. Fu richiesta anche una mia relazione e il mio parere. Io non ero affatto favorevole alla domanda formulata dagli oratoriani ed espressi il parere che, per venire incontro alle esigenze dei Filippini, bisognava trovare altra soluzione. Aggiungevo che se si fosse stata esaudita la loro richiesta, si rischiava di depauperare eccessivamente e per una seconda volta i beni della confraternita e nello stesso tempo di non affrontare adeguatamente il problema degli oratoriani. Infatti poco tempo prima i beni della confraternita erano stati in parte falcidiati da me per la dote della nuova parrocchia di Santa Maria della Corva, creata per l’utilità spirituale delle popolazioni campagnole della zona. Si era trattato, in quel caso, di utilizzare le rendite di un deposito di oltre quattrocento scudi di argento, appena sufficienti per costituire la dote della nuova parrocchia. La confraternita da parte sua, dato che era costituita in “suolo Lateranense”, godeva dei privilegi della basilica Lateranense, e aveva espresso con forza la propria contrarietà. Nella riunione del 2 febbraio pertanto la suddetta sacra congregazione rispose negativamente alla richiesta dei religiosi dell’Oratorio con questa formula: “non si faccia alcuna innovazione”.

1746.9    L’arcivescovo acquista un piccolo campo ad uso di orto.

Dopo la Pasqua, mi sono recato a Grottammare per visitare il mulino Cicarella, da me acquistato nei mesi precedenti. In esso, come negli altri beni dalle mensa, ho disposto che si eseguissero gli ordinari lavori di manutenzione, secondo la necessità. Sono andato poi in visita pastorale a Montegiorgio; da lì sono passato al castello di Francavilla, dove, accanto agli edifici e agli orti della mensa, che precedentemente avevo comprato, il 31 marzo ho acquistato dalla parrocchia del luogo, un piccolo frustolo di terra, ad uso di orto. Da Francavilla sono salito a Monte San Pietrangeli per benedire una nuova campana, poi ho proseguito andando nei castelli vicini, a Magliano, Alteta e Cerreto, dove mi sono occupato della visita pastorale.

1746.10    L’arcivescovo, invitato da Benedetto XIV, predispone il viaggio per recarsi a Roma per  partecipare alla solenne canonizzazione di cinque santi.

Tornato a Fermo, dopo compiuta l’ordinazione, il 4 giugno, sabato delle quattro tempora, lo stesso giorno,  dovetti intraprendere il viaggio per Roma. Ero stato invitato là da Benedetto XIV a partecipare alla celeberrima canonizzazione di nuovi cinque santi, che egli onorava. Passai la prima notte a San Claudio e il giorno successivo ho pernottato a Camerino dove ho fatto visita a Pietro Benedetto Savini, vescovo di Montalto e mio suffraganeo, che era malato da molto tempo. Proseguendo il viaggio, con i cavalli a spron battuto, sono arrivato a Roma il 9 giugno. Lo stesso giorno vi era giunto anche mio fratello Fabrizio, vescovo di Ferentino, qui venuto per la stessa ragione. Già il papa, il giorno precedente, aveva tenuto il primo dei cinque concistori con i cardinali e con i vescovi presenti a Roma. Era prescritto, prima della cerimonia di canonizzazione, un concistoro per ciascuno di questi beati che venivano iscritti nell’albo dei santi. Intervenni solo a quattro di essi, però presentai in scritto i miei pareri per tutte e cinque le proposte. Non sembra fuori luogo riferire in questa cronaca il testo dei pareri da me espressi il 9 giugno 1746.

1746.11    Voto dell’arcivescovo di Fermo per la causa di canonizzazione del beato Felice da Sigmaringen, martire.

Voto consegnato per il concistoro a cui non intervenni,

tenutosi il giorno prima del mio arrivo a Roma:

9 giugno 1746                                                                            Beatissimo padre,

Scomparsa nei più recenti secoli la palma del martirio dall’Italia e dalle nazioni vicine, nel secolo passato essa è stata restituita dal martire Fedele da Sigmaringen nella Rezia (= Svizzera), dove egli aveva iniziato e guidato l’azione missionaria dei suoi confratelli Cappuccini, in forza dell’autorità a lui concessa dalla congregazione di Propaganda Fide, istituita allora. Un empio manipolo di crudeli eretici fu feroce  nei confronti di questo uomo generoso che, come medico, cercava di curare gli uomini dalla falsa dottrina, per riportarli, con sommo zelo, nel seno della Chiesa cattolica.  La sua vita nel mondo si distinse per l’onestà dei costumi, nella campo sociale per l’esimia integrità di costumi nel mondo, nella fraternità conventuale per l’assoluta austerità. Coraggioso e zelante nell’attività della diffusione del Vangelo e della difesa della fede cattolica tra gli eretici, egli fu letteralmente fedele fino ad affrontare la morte. Ti chiedo quindi, beatissimo padre, che tu voglia iscriverlo nel canone dei santi martiri, dopo che il tuo predecessore Benedetto XIII, la cui memoria è in benedizione e sempre lo sarà, gli aveva a suo tempo dichiarato il culto ed il nome di beato.

Questo nuovo santo sarà di esempio a tutti coloro che sono inviati dalla congregazione di Propaganda con la finalità di dover predicare il Vangelo agli infedeli. Dio, autore della nostra fede, ha sempre e chiaramente mostrato che questa eccellente opera missionaria, se mai altre opere mancassero, oppure esistesse questa sola opera, a lui è ben accetta e gradita.  San Fedele sia quindi dichiarato protettore delle attività missionarie, lo sia anche di tutta la cattolicità in questi periodi in cui essa è esposta a gravissime difficoltà e oppressa in molte parti. Sia egli anche di aiuto e sussidio a coloro che negano la verità, affinché possano tornare alla fede, cosa che egli ha sempre cercato di attuare con le proprie fatiche e con l’effusione del suo sangue. Lo ottenga ora dal cielo con le sue preghiere.

1746.12     Voto dell’arcivescovo di Fermo nella causa di beatificazione del beato Camillo de Lellis.

10 giugno 1746.                 Beatissimo padre,

Camillo de Lellis nacque in Abruzzo, ma fu avviato verso la santità nella mia Chiesa Fermana. Egli infatti voleva tornare a fare il soldato e per questo era partito per Venezia. Perdette però il padre in un paese della mia diocesi, a Sant’Elpidio a Mare. Restando per qualche tempo a Fermo, rimase colpito e ammirato dagli esempi offerti dai frati di san Francesco detti Cappuccini, fece le prime esperienze spirituali ed espresse il desiderio di seguire il Signore entrando in quell’ordine francescano. Dopo un po’ di tempo, per una crisi propria dell’adolescenza, dimenticò il proposito. Meditando di nuovo, tornò nel proposito e scelse anche l’ordine religioso in cui stare, ma fu costretto ad abbandonare il proposito a causa di una ferita alla tibia. In seguito però egli riuscì a fondare una nuova congregazione religiosa di chierici, che aveva come specifica finalità quella di dedicarsi alla cura dei malati e potenziò la Chiesa. Tuttavia la sua nuova istituzione non si dedicava soltanto alla cura e all’assistenza dei malati nel corpo, ma con una particolare dedizione si interessava della salute delle anime, perché di preferenza prestava aiuto e conforto ai fedeli malati gravi che versavano nell’ultima lotta della vita.

Questa nostra città  <di Roma>, che fu uno dei principali luoghi dell’impegno di Camillo e nella quale egli raggiunse la corona della santità e che ancora oggi, grazie ai suoi seguaci, può esperimentare, quotidianamente, l’amore e la carità verso i bisognosi, giustamente desidera venerare Camillo, annoverato tra i santi. La stessa cosa chiede anche la mia Chiesa Fermana; che l’ha immesso nell’atletica della santità, e mentre è tanto devota a lui, vuole poter plaudire per la sua esaltazione. Sono certo di dover esprimere il mio consenso con queste due Chiese, specialmente perché Dio onnipotente, da quando tu hai proclamo beata questa grandissima persona, per la sua intercessione, beatissimo padre, sono avvenuti altri miracoli; il che dimostra che Dio ha ratificato la tua decisione.

1746.13    Voto dell’arcivescovo di Fermo per la canonizzazione del beato Pietro Regalati.

                 11 giugno 1746.                          Beatissimo padre,

La famiglia dei Minori di san Francesco, in questi tempi luminosi, tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie. Non soltanto ti presenta i beati Fedele da Sigmarigen e Giuseppe da Leonessa del secolo passato, da onorare con il titolo di santi, ma anche Pietro Regalati, spagnolo, morto da oltre tre secoli, a cui hanno prestato il culto i re insieme con l’intero popolo e ora è proposto per ricevere l’approvazione della Sede Apostolica per l’iscrizione nel canone dei santi.

Fu uomo di ammirevole santità e presso i suoi confratelli fu esempio di fedeltà all’antica e più severa disciplina francescana e fu un riformatore più con l’esempio, che con la parola. Mentre ancora era in vita, Dio onnipotente volle sottomettere gli elementi alle sue preghiere, e dopo la sua morte vuole che se ne riconosca la santità che oggi è espressa, come lo fu da vivo in terra. Pertanto sono favorevole alla sicurissima decisione che si renda a lui un maggiore grado di culto e abbia il più alto titolo da te, padre santo. Se, infatti, in tali decisioni la Chiesa è solita chiedere le testimonianze degli uomini del suo tempo, non ha forse maggiore forza la pia testimonianza di tre secoli? E ancora: se la Chiesa non si accontenta delle testimonianze degli uomini, ma richiede anche testimonianze divine, cioè segni e prodigi, forse che attraversare i fiumi a piedi asciutti, compiere un viaggio di quarantamila passi in un’ora, cambiare in fiori i frammenti di pane e di carne e il gesto di dare un pane compiuto dalla mano di un morto ad un mendicante, non sono fatti che testimoniano e dichiarano abbondantemente la santità e la gloria di un così grande uomo?

1746.14   Voto dell’arcivescovo di Fermo per la causa di canonizzazione di san Giuseppe                  da Leonessa

13 giugno 1746                           Beatissimo padre,

Tra le famiglie che formano la professione francescana, quella chiamata dei Cappuccini, rappresenta più da vicino l’antica disciplina del suo fondatore ed è rimasta molto famosa per l’austerità della vita. In questo contesto, che dire del beato Giuseppe da Leonessa che, tra tutti i Cappuccini, eccelle per il suo stile di vita, per i digiuni, per le veglie, per l’impegno nelle sofferenze affrontate? Nella sua vita, il mondo fu crocifisso per lui ed egli per il mondo; egli non solamente dominò la carne, ma in modo costante e durissimo l’ha resa perpetuamente schiava; considerò infatti il suo corpo come un giumento sottomesso. A ciò si aggiunga che, completamente distaccato dalle cose, si è dedicato ai doveri della vita contemplativa unendo questi insieme con gli impegni della vita attiva. Univa intensamente l’intenso amore a Dio con l’impegno della carità verso il prossimo. Si aggiunga il desiderio sincero del martirio che ha ricevuto dalle mani dei pagani subendo la morte tra molte e atroci sofferenze in modo che la sua vita apparisse come un inno elevato, alla maniera degli antichi confessori della fede. Se queste sono le notizie che di lui noi possediamo, senza dubbio il beato Giuseppe, gratificato da Dio con eccelsi doni e ammirevoli miracoli, da te, beatissimo padre deve essere insignito del titolo di santo, e, come tale, proposto al culto dei fedeli, proprio nei tempi attuali nei quali la società cristiana è scossa da continue e atrocissime guerre, delle quali noi non solo siamo testimoni, ma le sperimentiamo direttamente mentre coinvolgono la Chiesa e gli Stati e vanno provocando innumerevoli mali. L’apostolo mostrava come gli uomini si mordono tra loro e si divorano e noi siamo distrutti. E’ sicura la speranza che san Giuseppe da Leonessa il quale, quando ancora era in vita, fu il pacificatore non solo delle singole famiglie, ma anche di interi popoli divisi tra di loro da violentissimi odi e che si facevano guerra, ora che è stato ricevuto in cielo interceda a nostro favore presso Dio, affinché Egli ascolti finalmente i lamenti degli oppressi, asciughi le lacrime delle vedove, ci risparmi le disgrazie dei governi, faccia terminare  le guerre, comporre i dissidi, estinguere le contese e doni la pace nei territori della Chiesa.

1746.15    Voto dell’arcivescovo di Fermo per la causa di canonizzazione della beata Caterina Ricci.

14 giugno 1746                                           Beatissimo padre,

Tra le vergini scelte da Dio per renderle conformi all’immagine del Figlio suo, si è distinta la beata Caterina Ricci da Firenze, dell’ordine Domenicano. Tale conformità in lei nasce dalla mente, viene desiderata dal cuore, viene conservata dall’anima, viene manifestata nel corpo, le è donata dallo sposo celeste che l’ha scelta come dimostrazione di questa perfetta conformazione a lui, attraverso i segni esteriori impressi miracolosamente nella sua carne. Se è lecito misurare la grandezza dell’amore in base ai doni ricevuti, certamente possiamo dire che Caterina è stata accesa da un immenso amore per il Signore Gesù, la cui immagine ricevette, non in un quadro con dipinta l’immagine dalla mano di un artista, ma nelle membra del suo corpo, inciso dalla mano di Dio.

Certamente questo è un grande privilegio, concesso soltanto a pochi. Grazie alla assidua meditazione della passione di Cristo, alla quale cercò in sommo grado di conformarsi, lei conseguì tale frutto. Inoltre alla croce di Cristo volle essere crocifissa per la grande carità e lo meritò non per il martirio del corpo, ma per il fuoco della mente e l’ardente desiderio del cuore. Una tale donna quindi, beatificata da Clemente XII tuo predecessore, onorata da Dio con nuovi miracoli, deve essere da te proclamata ad un superiore giudizio, beatissimo padre, ed elevata al massimo grado della glorificazione dei beati. Quindi mentre la ascrivi tra le sante vergini lei viene proposta alla venerazione di tutti i fedeli ed essi siano eccitati alla virtù, mediante il suo esempio e grazie alle sue preghiere d’intercessione e al suo patrocinio, e vengano tutti stimolati a meditare sempre la passione di Gesù.

1746.16   Il Papa Benedetto XIV, lavorando intensamente a preparare le cinque canonizzazioni,  ha conseguito molti meriti e molte lodi.

Nella festa dei santi apostoli Pietro e Paolo, Benedetto XIV pubblicò il solenne decreto delle cinque canonizzazioni e pronunciò una ricca e bella omelia. La sua sapienza e la sua pietà si sono evidenziate al massimo nei vari momenti delle sue azioni che precedettero e accompagnarono questo importante fatto. Il pontefice è stato innanzitutto colui che proponeva in ogni singolo concistoro in modo chiaro ed erudito la causa da discutere. Dopo che i singoli cardinali, gli arcivescovi e i vescovi avevano espresso il proprio parere, egli concluse con un breve ed elegante discorso.

Quantunque ogni singolo concistoro si protraesse per circa sei ore, il papa è stato attentissimo con la mente, senza dare neppure l’impressione di essersi annoiato, senza mai sottrarsi ad alcuna fatica, specialmente allorché doveva ascoltare gli arcivescovi e i vescovi durante ogni singolo concistoro, ed erano venuti moltissimi da tutta l’Italia a Roma. Anche quando li doveva ricevere singolarmente, ascoltava i loro desideri. Tutto questo impegno certamente gli ottenne molti meriti di fronte a Dio e gli ha procurato molta stima e lode dagli uomini.

1746.17    Approvazione dell’ufficio e delle letture per la festa di san Marone – I canonici che   fungono da convisitatori del vescovo per compiere la visita pastorale e sono quindi    assenti dal Coro, possono percepire regolarmente le distribuzioni corali                – L’arcivescovo propone a Benedetto XIV la riduzione delle feste.

Con il papa Benedetto ho trattato soltanto alcune cose, e molte ne ho chieste. Sono stati approvati dal pontefice i testi liturgici per celebrare la festa di san Marone martire. Ho ottenuto anche l’indulto con il quale mi è stato consentito che i due canonici del capitolo metropolitano, che accompagnano il vescovo durante la visita pastorale e che quindi risultano assenti all’ufficio corale, possano percepire ugualmente le distribuzioni corali quotidiane, come se fossero presenti ai riti liturgici, cosa che nel passato si usava sempre fare. Invece qualche anno fa, a causa di un decreto dei cardinali della congregazione degli interpreti del Concilio Tridentino, tale consuetudine era stata erroneamente abolita. In verità i decreti del Concilio Tridentino non andavano contro tale antica e accettata consuetudine dato che al cap. XII, sess. 24  “Sulla riforma” prevedono, in forza di una costituzione di Bonifacio VIII, proprio tale prassi nel capitolo  “Consuetudine del clero non residente” al 6, su cui lo stesso concilio si appoggia. Si scusavano gli assenti ovviamente a causa di urgenti utilità della diocesi; ora quale utilità sarebbe più urgente di quella che provenga dalla visita pastorale?

Ho consegnato a Benedetto XIV anche un testo di richiesta fatta per abolire l’obbligo di astenersi dai lavori servili in alcune feste dei santi che io e i vescovi di Ascoli, di Montalto e di Ripatransone abbiamo sottoscritto, anche per le pressioni che insistentemente mi fece lo stesso vescovo di Ascoli. All’inizio papa Benedetto mi disse che difficilmente egli avrebbe potuto concedere tale indulto, poiché i padri del concilio provinciale di Tarragona antecedentemente avevano consigliato a Benedetto XIII che non era opportuno di consentirlo a chi lo aveva chiesto; pertanto gli era difficile poter sperimentare un’altra via di uscita. Gli risposi che la solennità delle feste era misurata più dalla frequentazione della gente, che non dal valore e dalla sostanza della celebrazione. La festa della santa Croce e quelle del terzo giorno di pasqua e di Pentecoste, per esempio, erano state cancellate proprio dai Tarraconesi, noi pertanto, che manteniamo quelle solennità, potremmo a buon diritto abolire altre feste che i Tarraconesi conservavano. Noi poniamo una netta distinzione tra le feste che riguardano i misteri della nostra redenzione e quelle che riguardano soltanto il culto dei santi. Infatti le prime debbono essere conservate con maggiore severità rispetto alle seconde, sulla base della proposta sullo stesso oggetto da me presentata in una altra causa, di cui ho già parlato in questa cronaca nel corso dell’anno 1742.

Benedetto XIV comprese il valore della mia risposta e subito, nel mese di luglio, con una lettera apostolica permise a me e agli altri predetti vescovi che avevano sottoscritto la nostra richiesta, la facoltà di dispensare dal precetto di astenersi dai lavori occupazionali nelle feste dei santi, secondo le modalità contenute nella nostra richiesta, fatto cioè salvo l’obbligo di partecipare in quei giorni alla Messa.

1746.18    La prepositura dei santi Giovanni e Benedetto di Montegiorgio viene considerata  di libera collazione.

All’inizio dell’anno, era morto Giuseppe Boncori, preposto della chiesa dei santi Giovanni e Benedetto nel paese di Montegiorgio, il quale aveva restaurato dalle fondamenta una grande parte della vecchia chiesa di san Giovanni, che era vicina al paese di Montegiorgio. Questa prepositura, che l’abate di Farfa anticamente rivendicava alla sua giurisdizione, nella lite mossa contro l’arcivescovo Cenci presso l’uditore della Rota Romana fu conclusa in senso favorevole alla Chiesa Fermana. Nonostante ciò, il cardinale Passionei, nuovo abate commendatario di Farfa, rivendicando a sé il diritto di collazione, aveva presentato presso la dataria Apostolica la richiesta che il decreto di nomina non fosse consegnato a Francesco Agliati, da me, che già lo avevo nominato dopo il regolare concorso previsto dal concilio di Trento, ma dall’abate di Farfa, cioè da lui. Sono intervenuto presso la dataria Apostolica affinché la spedizione della lettera apostolica di nomina non fosse ulteriormente ritardata. Mi sono rivolto anche al cardinale Passionei affinché smettesse di fare continue opposizioni, per le quali ero molto preoccupato.

Il papa Benedetto, da parte sua, stava seriamente pensando a separare le chiese che l’abate di Farfa aveva sotto la sua giurisdizione, ma erano poste nel territorio di altre diocesi, in modo che esse fossero restituite ai rispettivi vescovi, dietro il pagamento di un congruo annuo censo. Ho colto al volo l’occasione che mi si offriva per risolvere la questione. Fortunatamente il cardinale Passionei, a causa della grave pensione che pesava sulla sua commenda di Farfa, rinunciò all’abbazia che fu data in commenda al cardinale Federico Landi, con la condizione aggiunta che acconsentisse alla progettata separazione. Finalmente il datario, da me pressato, diede ad Agliati il decreto di collazione, considerando quella prepositura di libera collazione dell’arcivescovo di Fermo. Il datario mi diede l’incarico, dopo che fossi ritornato in sede, di inviargli una relazione sulla situazione delle chiese della mia diocesi, che fino ad allora erano state soggette ai Farfensi, per elaborare un meditato piano al fine di realizzare in concreto la separazione.

1746.19   L’arcivescovo interviene inutilmente a Roma sui danni provocati a Velletri – Castruccio    Bonamici scrive un commentario sugli avvenimenti accaduti a Velletri – Che cosa  avrebbe dovuto fare il re delle due Sicilie per risarcire i danni causati.

Tentai di sensibilizzare a Roma gli animi dei funzionari della Curia al fine di farli interessare a quanto era accaduto alla mia patria e alla mia famiglia. Dopo avvenuta nel 1744 l’atroce e funesta guerra, dopo la devastazione della città e del territorio, dopo le ruberie commesse contro i beni dei cittadini, gli incendi provocati, assolutamente nulla era stato fatto per rimediare alle gravi disgrazie o per portare almeno un po’ di sollievo. Nulla era stato fatto: nessuna restituzione, nessun compenso né pagamento, né riparazione a tanti mali inferti. Non era per me facile trattarne. Difficilmente trovavo chi mi ascoltasse, pressoché nessuno che offrisse una qualche consolazione ai poveri cittadini.

Castruccio Bonamici aveva dato alle stampe un libro di commentario sui fatti accaduti a Velletri e lo aveva dedicato al cardinale Traiano Acquaviva.  Nel libro scritto in un elegante eloquio latino, egli tributava grandi elogi al re delle due Sicilie, ai suoi generali e ministri. In verità sembrava un mucchio di lodi. L’autore diceva che i Napoletani con la guerra non avevano oppresso la popolazione sottoposta al governo della Chiesa Romana, perché si erano astenuti dalle ruberie, perché non non si erano fatti abusi, perché risarcivano con un giusto prezzo le messi rovinate e i danni arrecati da loro e dai soldati per conto loro. Tutto ciò sarebbe dovuto avvenire almeno dopo il ritorno a Napoli, cosa che non è avvenuta e il re napoletano se ne stava tranquillo. Non avremmo avuto tante disgrazie se non gli fosse stato consentito. Restavano le molte cose da restituire. Prima di dare meriti inesistenti al re, il Bonamici avrebbe dovuto fare le valutazioni, con giustizia. In realtà le lodi tributate al re devono essere verificate ascoltando chi aveva visto come erano andate veramente le cose!

Il Grozio nella sua opera “Sul diritto della guerra e della pace” al libro III, capitolo XVIII fornisce chiari documenti ed esempi di come vanno queste cose, citando considerazioni tratte dai testi sacri e da quelli profani. Ho visitato per pochi giorni la mia misera patria, poi mi sono recato a Roma da dove sono ripartito insieme con mio fratello Fabrizio, vescovo di Ferentino, il quale, per consiglio dei medici, aveva la necessità di cambiare aria e quindi si era messo in viaggio insieme con me.

1746.20   Il governo politico ed economico di Fermo viene affidato alla Congregazione Fermana    – Quando le cause del foro ecclesiastico in base alla legge ordinaria possono essere  trattate nella Rota di Macerata.

Giungo a Fermo il 22 luglio. In precedenza, il 19 dello stesso mese, nella segnatura di Grazia era stato emesso il decreto secondo cui il governo politico ed economico di Fermo e della sua provincia veniva affidato giustamente alla Congregazione Fermana, alla quale in seguito, più volte ebbi a rivolgermi per definire le questioni che prima erano decise dall’uditore del sommo pontefice.

Il papa, inoltre, in una dichiarazione pubblicata il 3 agosto, per mano del suo uditore, stabilì anche che le cause di competenza della giurisdizione (foro) ecclesiastica dei vescovi della provincia Picena, in forza della legge del codice “Quando l’imperatore”, dovevano essere considerate di spettanza della Rota di Macerata. Per questo rimandava a me la causa di Giuseppe Bonagrazia contro Francesco Gizzi, perché doveva essere trattata nella Rota di Macerata e bisognava considerare abrogati i decreti emessi a Roma dalla segnatura di Giustizia, che non erano a noi contrari.

1746.21    Morte di Filippo re di Spagna – Gli Austriaci occupano Genova – Ferdinando VI succede a Filippo sul trono di Spagna – Carlo Edoardo, figlio primogenito di                  Giacomo III di Gran Bretagna, tenta senza esito una spedizione in Scozia.   Le ragioni dell’insuccesso.

Il 9 luglio morì Filippo, re di Spagna. Egli sarebbe potuto essere un sovrano fortunato se si fosse impegnato maggiormente per garantire la pace nella repubblica cristiana e non avesse invece cercato esclusivamente a procurare ai due figli, avuti dalla seconda moglie, il modo di accrescere i domini dell’uno e dell’altro, indebolendo in tal modo la monarchia, dilapidando i suoi beni, umiliando i suoi soldati e i sudditi, infine provocando rovine.[5]

Intanto gli Austriaci erano riusciti a cacciare del tutto i Francesi e gli Spagnoli dalla Gallia Cisalpina (Lombardia) e dalla Liguria e in parte si insediarono a Genova, città principale nelle coste della Liguria, e in parte si addentrarono nel territorio della provincia ligure per contenere la minaccia dei Francesi. Questi, da parte loro espugnarono la città di Namur nel Belgio. A Breda in Olanda si tentò di stipulare, senza successo, un trattato di pace.

Da più parti si credeva che Ferdinando, il quale sarebbe succeduto in Renania a Filippo, come figlio unico della prima moglie, non avrebbe accettato le decisioni, le alleanze e le guerre ratificate dal padre, al fine di allargare i possedimenti degli altri figli nati dal secondo matrimonio. Questa opinione della gente era sbagliata, dato che le decisioni del padre furono da lui accettate chiaramente.

Ha causato grande dolore l’infelice esito della spedizione in Scozia di Carlo Edoardo, primogenito di Giacomo III re della Gran Bretagna. In Scozia il giovane principe, sia per le sue doti, che per la simpatia e benevolenza che la dinastia si era guadagnata presso l’ossequiente popolo scozzese, aveva trovato molti sostenitori. Però, dopo aver aspettato invano gli aiuti dai Francesi e dagli Spagnoli, necessari per realizzare l’impari impresa, fu costretto ad abbandonare il campo. A stento riuscì a salvarsi, fuggendo in Francia. Perciò quelli tra gli Scozzesi che gli erano rimasti fedeli e gli avevano offerto la loro opera e il loro appoggio (e tra di loro c’erano molti cattolici) dovettero soffrire le conseguenze della feroce repressione scatenata dai vincitori. Essi, in molti modi, si accanirono contro di loro. Furono comminate condanne a morte contro i più ragguardevoli dei sostenitori, per gli altri furono usate torture. In apparenza i prìncipi cattolici volevano dare a vedere di voler difendere e salvare Edoardo con tutte le forze, invece in realtà intendevano soltanto arrestare l’avanzata degli avversari, e rivolgevano altrove le loro energie. Si capì allora che tutto il loro sforzo era teso ad ampliare i propri domini sul Reno e rafforzare la potenza delle proprie dinastie.[6]  Il risultato fu che il re e i suoi sostenitori furono sconfitti e le sorti della religione cattolica in Scozia andarono in rovina.

1746.22    La maggior parte delle feste dei santi non sono da celebrarsi osservando l’obbligo di  astenersi dai lavori servili – L’indulto emanato dall’arcivescovo riguardante la  cessazione dell’obbligo di astenersi dai lavori servili nelle feste dei santi.

Ricevuta, l’undici agosto, la lettera del papa, scritta per me, con cui egli mi invitava di definire con precisione l’indulto che riduceva le festività dei santi, nelle quali era tolto l’obbligo di astenersi dai lavori occupazionali, fatta eccezione, per tutta la provincia picena, della festività dell’Assunta, della solennità dei santi Pietro e Paolo,  di Tutti i Santi e della traslazione della Santa Casa di Loreto, il giorno 7 settembre ho pubblicato il testo dell’indulto con il quale intendevo fissare le norme e i criteri della riduzione e nello stesso tempo correggere gli abusi che si erano introdotti nelle celebrazione delle domeniche e delle altre feste. La cosa fu variamente interpretata secondo la mentalità di ciascuno. Coloro che criticavano la decisione, erano mossi da invidia, come se con l’indulto volessimo abolire le feste cristiane secondo gli antichi usi del popolo cristiano e la veneranda tradizione della Chiesa.

Al contrario chi si poneva a riflettere rettamente, comprendeva che il nostro indulto non voleva affatto ridurre le feste di precetto, ma eliminare le occasioni di peccato, non cancellare il culto verso la divina maestà, bensì togliere i frequenti rischi per la gente, a causa dell’ozio. Non si toglieva alcunché al senso religioso della gente e inoltre nulla delle tradizionali celebrazioni della sacra liturgia era tolto, poiché, in tutte le tradizionali feste dei santi, rimaneva comunque l’obbligo stabilito di partecipare alla celebrazione della Messa.

Per i casi di abolizione del riposo festivo, il tempo che restava disponibile poteva essere speso lecitamente in lavori utili per il sostentamento della famiglia e non speso nei bagordi e nell’ubriachezza, né al gioco e ai balli o nelle varie attrazioni di cose futili. Del resto non in tutte le feste era proibito di  lavorare; neppure nel Vecchio Testamento risultava imposto il divieto del lavoro e l’obbligo del riposo, non riguardava tutte le feste tranne che i giorni del sabato; in moltissime occasioni erano prescritti soltanto i sacrifici, la presentazione di offerte e gli olocausti.

Noi introducevamo la giusta distinzione tra le feste nelle quali si fa la memoria dei misteri della redenzione cristiana e le feste che riguardano celebrazioni in onore dei santi. Comunque in ambedue i tipi di festività rimaneva l’obbligo di partecipare alla celebrazione della Messa.

1746.23   La croce deve essere posta al centro dell’altare – Il confessore non può mai chiedere al penitente il nome del complice – L’estirpazione del vizio della bestemmia.

Mi è giunta la lettera enciclica di Benedetto XIV nella quale si ordina di porre in mezzo all’altare una Croce che superi in altezza i candelieri; ciò era già previsto nei decreti dei nostri sinodi. Così come in essi era contenuta la norma ricordata nella costituzione apostolica, nella quale è prevista la norma che il confessore, nell’eventualità, non potesse mai chiedere al penitente il nome del complice. Fu mio immediato impegno di far conoscere i due provvedimenti. E la cosa che mi fu più gradita era il fatto che dal papa avevamo ricevuto i sapienti ammonimenti e le severe istruzioni, con provvide indicazioni, per estirpare tra i fedeli il detestabile vizio della bestemmia e  pertanto ho provveduto a farlo eseguire. Durante la celebrazione della Messa solenne, ho tenuto un’omelia contro la bestemmia che ho fatto subito dare alle stampe. Ho emanato e fatto divulgare editti e istruzioni dettagliati su questo argomento. Ho assegnato in ogni luogo di tutta la diocesi il compito di impegnarsi nell’azione di correggere chi bestemmia, coinvolgendo ovunque, anzitutto le confraternite del santissimo Nome di Dio, una delle quali, da tempo antico, esisteva anche nella chiesa metropolitana, ricca di molti privilegi, ma anche le altre confraternite che per le loro finalità potevano essere più adatte per quest’opera.

L’attività, grazie a Dio, stava procedendo molto bene tanto che, mediante la comminazione di poche pene contro i bestemmiatori, che non si fossero ravveduti, la mala abitudine del bestemmiare fu allontanata, in breve tempo, in tutta la diocesi. Si vorrebbe far aborrire ogni sorta di bestemmia, anche contro le persone e contro le bestie. Del resto da noi questo vizio non era molto frequente.

1746.24    Le suore Oblate di Montegiorgio accettano i decreti della visita pastorale.

Dopo che ero ritornato da Roma, le suore oblate che vivevano secondo la regola di sant’Agostino e abitavano nel collegio del paese di Montegiorgio, mi avevano accolto per la sacra visita pastorale. Esse dovevano a me ogni loro privilegio e la stessa loro istituzione avvenuta nell’anno 1739, come ho scritto in questa cronaca, nello stesso anno. Avevano avuto la mia visita pastorale nel mese di giugno, secondo l’uso, ma non avevano voluto accettare i decreti di visita sulla base di un monitorio che avevano ottenuto dall’uditore della camera Apostolica, secondo il quale erano considerate dipendenti dai superiori dell’ordine di sant’Agostino e non dall’arcivescovo di Fermo. In realtà le monache furono indotte in errore dai frati dello stesso ordine agostiniano. Nel mese di settembre si ricredettero dal loro errore e, rinunciando al monitorio favorevole a loro, mi presentarono le loro scuse e accettarono i decreti di visita, promettendo di eseguirli.

1746.25    Restauro dei fabbricati della mensa arcivescovile nel Porto di Fermo.

All’inizio del mese di ottobre, mio fratello vescovo, recuperata la salute, lasciava Fermo pe far ritorno a Ferentino. A novembre mi recai alla mia villa di San Martino e al Porto di Fermo, dove mi stavo occupando dei restauri dei fabbricati, ivi esistenti, di proprietà della mensa arcivescovile e anche delle mura del castello, nello spazio in cui circondavano il mio orto. Negli stessi edifici ho fatto apporre la memoria dei lavori compiuti in una lapide con la scritta:

A DIO OTTIMO MASSIMO  \  ALESSANDRO BORGIA   \  ARCIVESCOVO E PRINCIPE DI FERMO  \  FECE RESTAURARE  \  LA FACCIATA  ESTERNA E LA TORRE ROVINATE  \  DAI DANNI DEL TEMPO   \  ANNO DEL SIGNORE MDCCXLVI

La rocca del castello al Porto veniva restaurata con i soldi stanziati dalla Camera Apostolica. Allora chiesi a Benedetto XIV che fossero comprese nei lavori di restauro anche le torri che stanno nelle mura, come punti di difesa del luogo. I ministri della camera Apostolica però si opposero a tale richiesta, dicendo che l’ulteriore spesa non poteva essere a carico della Camera. Si era ottenuto soltanto di intervenire sulle due torri che si trovavano nel tratto di mura al limite del mio orto. Una delle due era talmente rovinata che stava sul punto di crollare; l’altra era di eccelsa mole e ben solida; tuttavia nell’angolo in basso sul terreno era piuttosto rovinata, per l’ingiuria del tempo e per colpa della trascuratezza degli uomini. Ci fu l’autorizzazione soltanto per intervenire facendo abbattere la prima torre e restaurare la seconda, con il materiale ricuperato.

Nell’episcopio ho fatto costruire un portico sul lato settentrionale in forma corrispondente a quello costruito nel lato meridionale.

Presso il fiume Tenna, anticamente chiamato Tigno, nel mese di novembre si è profilata la minaccia del riflusso delle acque sotto il ponte in muratura. Il ponte era stato fatto costruire tempo addietro a cura del cardinale Giovanni Francesco Ginetti, arcivescovo di Fermo

1746.26    Collazione del priorato di Santa Vittoria – L’arcivescovo procede alla istituzione   di una nuova prebenda nel collegio dei canonici della collegiata di Santa Vittoria.

Nello stesso mese, morì Nicola Porfidi, priore del collegio dei canonici della chiesa di Santa Vittoria, nel paese che ha lo stesso nome. Questa era una delle più importanti parrocchie della nostra diocesi e si trovava sotto la giurisdizione farfense. Tuttavia il priore, dovendo gestire la cura delle anime, era soggetto alla giurisdizione dell’arcivescovo di Fermo. In forza quindi dei decreti del concilio di Trento, avevo bandito il concorso canonico per scegliere il successore e mandai i documenti e la mia scelta alla dataria Apostolica: Infatti, essendo il priore la prima dignità del capitolo, il beneficio era riservato alla dataria. Il priore scelto dall’abate però esibì il decreto di nomina emesso dal card. abate di Farfa, Landi, il quale, per la sua dignità cardinalizia, aveva il privilegio di nominare anche ai benefici riservati nelle chiese a lui soggette. Il cardinale rifiutò quindi di accettare la nomina fatta da parte mia.

Invece, io sostenevo che, anche se l’abate aveva formalmente il diritto di nomina del priore di Santa Vittoria, era obbligato a nominare il soggetto da me scelto in base al concorso da me indetto e svoltosi davanti agli esaminatori sinodali.  Egli, invece, testardamente, sosteneva che quel beneficio era di libera collazione, fondandosi su ciò che accadde l’ultima volta quando il beneficio era stato vacante e allorché la sede arcivescovile di Fermo era anch’essa vacante. In tale occasione il vicario capitolare si era astenuto dall’indire il concorso e l’abate aveva immediatamente proceduto alla nomina del nuovo priore Porfidio, autorizzandolo anche ad esercitare la cura delle anime.

Ero a conoscenza, comunque, che al datario romano dispiaceva che si sollevassero controversie e liti, d’altra parte temevo che una discussione tra me e l’abate, in quel momento, mettesse in pericolo la questione del separare, dall’abbazia di Farfa, tutte quelle sue chiese che si trovavano nel territorio di un’altra diocesi. La questione al momento era molto dibattuta. Ho evitato pertanto di protestare e di suscitare una nuova controversia. Ho concesso quindi a Francesco Discreti, scelto dall’abate in forza del metodo usato la volta precedente, l’autorizzazione ad esercitare la cura delle anime. L’abate cardinale Landi peraltro mi fece pervenire una sua lettera di scuse per non aver nominato nessuno di quelli che avevano sostenuto il concorso e era stato scelto da me, adducendo il fatto di non esserne stato informato. Comunque il priore Porfidio aveva fatto testamento con molti legati a favore delle pie istituzioni e particolarmente per l’istituzione di una nuova prebenda canonicale, nella chiesa collegiata di Santa Vittoria. Di essa l’abate rivendicava a sé il diritto di istituirla, ma ben presto ci rinunciò; perciò essa è stata istituita per mia autorità.

1746.27 – Necessità di esportare il grano con una autorizzazione esterna.

Abbiamo affrontato gravi difficoltà con il tesoriere della provincia. Dalla curia Romana, infatti, ci era stata data la speranza di ottenere la consueta autorizzazione di esportare, per mare, il frumento. Pertanto, ne avevo venduta una parte che era pronta per essere caricata sulla nave, in un giorno prestabilito. L’acquirente ne sollecitava la consegna, ma da Roma veniva differita l’autorizzazione; tuttavia la facoltà era accordata agli acquirenti a beneficio degli Austriaci per uso dei quali avevano comprato il nostro grano. Quindi io ero costretto a servirmi di una facoltà esterna, che chiedevo fosse approvata dall’economo della tesoreria, senza comunque pagare la gabella di 4 giuli d’argento per ogni salma o rubbio di grano, poiché avevo affermato che il frumento della mensa arcivescovile era esente dalle tasse qualunque fosse la ragione dell’esportazione. Ma l’economo mi aveva comunicato che egli non avrebbe mai consentito l’esenzione dal pagamento, a meno che non gli avessi presentato un indulto del sommo pontefice, concesso tramite una lettera del cardinale camerlengo con la quale veniva concessa all’arcivescovo la consueta facoltà di esportare il frumento. Ho riferito la cosa a Roma, ma non ne giunse alcuna risposta, mentre l’acquirente sollecitava la consegna della merce. Sono stato costretto allora a cedere e a far uso della facoltà straordinaria, dopo aver pagato però alla tesoreria la tassa prescritta. Contemporaneamente però ho presentato una dichiarazione di protesta affinché questo pagamento imposto non costituisse un pregiudizio nei confronti dei diritti e dei privilegi della mensa arcivescovile. Ho ottenuto, in breve spazio di tempo, le prescritte autorizzazioni, ed ho potuto continuare ad usufruire delle consuete facoltà di esportazione.

1746.28   Marco Antonio Savini viene nominato coadiutore dell’arcidiacono –Anche Giovanni  Antonio Leli viene nominato coadiutore del primicerio – Ai canonici della collegiata di Monterubbiano viene concessa da Benedetto XIV la facoltà di indossare il rocchetto.

Nel presente anno, Benedetto XIV, su mia richiesta, diede a Ippolito Graziani, arcidiacono della chiesa metropolitana che aveva gravi problemi di deambulazione, come coadiutore il sacerdote Marco Antonio Savini. Io ho assegnato a Nicola Calducci primicerio, come coadiutore, Giovanni Antonio Leli, nobile fermano e dottore in diritto, nipote dello stesso primicerio. Ambedue avevano il diritto alla successione.

Ai canonici della collegiata di Monterubbiano, da me istituita nel 1729, il papa Benedetto XIII, concesse l’uso della alba (che chiamano rocchetto) con un documento firmato da Saverio Giustiniani sotto-datario, il quale fu ringraziato dagli stessi canonici, nell’occasione che egli si recò a Monterubbiano per visitare l’abbazia di san Flaviano e di san Biagio che egli aveva ottenuto in commenda.

1746.29    Il preposito generale dei Gesuiti rinuncia alla cospicua eredità di Marefoschi.

Frattanto, a Roma si stava discutendo sulla ricca eredità di Pietro Antonio Marefoschi a favore del clero della Compagnia di Gesù, nel paese di Monte Santo, e della famiglia Compagnoni di Macerata, sul quale argomento abbiamo scritto in questa cronaca proprio nell’anno passato. Io stesso, a Roma, avevo avuto l’occasione di chiedere al papa se egli avesse qualche sospetto circa i Compagnoni, se presentassero suggerimenti contrari alle pie intenzioni del testatore. Poiché mi accorsi che il papa era completamente all’oscuro della vicenda, mi rivolsi al preposito generale dei Gesuiti che io esortai a seguire con somma attenzione l’importantissima causa che si andava discutendo; ma egli sembrava freddo e dubbioso poiché era convinto che l’asse ereditario, se si detraesse ciò che i Compagnoni avevano richiesto, sarebbe stato del valore soltanto di 18.000 scudi di argento e quindi non sarebbe stato sufficiente per costruire il seminario né il monastero previsti nel detto testamento. Invece io sostenevo con lui che l’asse ereditario ammontava a quasi 100.000 scudi e che per diritto le detrazioni erano poche o nulla. Non lo persuasi della verità. Lo vidi però poco interessato alla faccenda e poco convinto delle mie osservazioni. Rimase preoccupato di cose non vere. Alla fine, nel mese di dicembre, con una sua dichiarazione, rinunciava ai suoi diritti sulla cospicua eredità, cosicché i Compagnoni acquisivano, per sentenza, il diritto possessorio all’intera eredità. Non per questo però vinsero la causa. Essa, infatti, fu assunta in appello dalle autorità comunali di Monte Santo e dagli stessi cittadini che per testamento erano stati fatti esecutori testamentari a favore delle opere pie. Mi auguravo che il Signore assistesse la loro azione e la rendesse fortunata.

1746.30    I Genovesi cacciano gli Austriaci dalla città e riacquistano la libertà.

I Genovesi, irritati per le pesanti imposizioni con le quali erano oppressi dagli Austriaci che pretendevano imposte di miriadi di monete imperiali, si scrollarono dalle spalle il giogo austriaco.  Con una rivolta popolare catturarono alcuni austriaci e scacciarono gli altri dalla città e la Repubblica si riconquistò la sua antica libertà. Ciò avvenne il 10 dicembre, giorno in cui nel Piceno si faceva memoria della traslazione della santa Casa di Nazareth.

Questa rivolta popolare e i conseguenti combattimenti non soltanto compromisero la situazione degli Austriaci in Italia, ma determinarono anche il successo della spedizione in alcune zone della Francia. Molti per la verità avrebbero preferito maggiore solerzia nei comandanti e nei ministri Austriaci nell’apprestare maggiori difese della città. Da questa città erano  state mandate più del necessario, truppe nella spedizione in Francia. Le autorità Austriache esagerarono nel fissare la misura delle tasse che imposero. Il domini dei popoli, infatti, si prepara con la forza e con le armi, si mantiene però con la legge e con l’equità, e si perde con l’avarizia.



[1] Alessandro Borgia per il primo “Studio” a Fermo si riferisce al documento imperiale dell’anno 825 edito da MURATORI L. A., Rerum Italicarum Scriptores I, pars 2  p.151. Per la nuova fondazione, Michele Catalani, a proposito del vescovo di Fermo Alberico Visconti (1301 – 1314) parla brevemente dello Studio Fermano: Un avvenimento ben più importante accadde allorché Bonifacio VIII volle istituire a Fermo, come luogo il più degno ed adatto del Piceno, uno Studio generale a somiglianza di quello di Bologna per lo studio della teologia, del diritto e delle altre discipline. Egli diede al vescovo della città il privilegio che, dopo aver esaminato attentamente la preparazione e le capacità dei candidati, potesse concedere ad essi la laurea. Il diploma papale porta la data del 16 gennaio 1303 ed è registrato nel Bollario RomanoDe Ecclesia Firmana,  traduzione di E. Tassi, Fermo 2012, pp. 219-220. Sullo Studio fermano cfr. M. CROCI ed altri, Sisto V e lo Studio Generale di Fermo, in “Quaderni ASAF”, n. 3, a. 1987, Fermo, pp. 54-89; F. TREBBI – G. FILONI GUERRIERI, Erezione della Chiesa Cattedrale di Fermo a Metropolitana, Fermo 1890; anastatica 2003, pp.92-101;  G. BRIZZI, L’antica Università di Fermo, Fermo 2001. L’originale della bolla di Sisto V è nell’Archivio di Stato di Fermo –Arch. Comun. Fermo. Repertorio HUBART, pergamena n. 941. La maggior parte degli studiosi sostengono che la rifondazione dello Studio fermano  è avvenuta ad opera di Bonifacio IX;  nonostante che l’altra bolla di Sisto V riferisca la data del 1303 (Bonifacio VIII).

[2] Appare chiaro che il Borgia era decisamente contrario alla politiche di grandi potenza seguite dalla Spagna e dal Regno di Napoli, nonché della Francia, perché in esse vedeva un ostacolo alla realizzazione della pacificazione tra i prìncipi dei governi cattolici dell’Europa. Borgia era convinto che ogni politica che indebolisse la casa di Austria sarebbe stata esiziale per la pace e per la difesa della causa cattolica.

[3] Si evidenzia l’atteggiamento critico di mons. Borgia nei confronti della politica finanziaria e fiscale dell’amministrazione centrale dello Stato. L’arcivescovo individua le cause e i rimedi per superare i problemi,

[4] Tale rimedio, agli occhi di mons. Borgia, produceva recessione e avrebbe aggravato la situazione.

[5] In sintesi il Borgia fa intendere le motivazioni della sua posizione antispagnola. Secondo lui la monarchia spagnola  con la sua politica di potenza e di espansione, per motivi strettamente dinastici, favoriva il clima delle guerre tra le potenze cattoliche,  con la conseguenza che avvenisse l’espansione degli stati protestanti.

[6] Il caso del principe Carlo Edoardo d’Inghilterra viene citato dal Borgia per confermare il giudizio di condanna, da lui espresso poco sopra, riguardo alle guerre tra i sovrani cattolici.

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