Francesco Petrarca dalle lezioni del prof. MANCINI don Dino a Fermo

FRANCESCO PETRARCA              (1304-1374)

 SPIRITUALITÀ DEL PETRARCA

Spiritualità in crisi.

L’Alighieri riassume e conclude l’epoca medioevale; dopo di lui ha i­nizio l’epoca che viene denominata rinascimento: ad una spiritualità mistica o religiosa, succede una spiritualità naturalistica; ad una visione soprannaturale della vita succede una visione umana; ad un programma di coinvolgimento dell’attività terrena verso il fine ulti­mo, cioè verso Dio, succede un programma di utilizzazione edonistica di tutte le risorse dalla terra per garantire all’uomo un soggiorno piacevole, il più possibile, in quella che i mistici avevano definito “valle di lacrime”.

L’uomo dell’epoca nuova non considera più sé stesso come pellegrino incamminato verso la patria celeste, né come combattente che si disciplina per superare gli attacchi e le resistenze del male e merita­re così di partecipare alla vita divina; ma considera sé stesso come essere privilegiato cui la natura ha fornito tutte le capacità per individuare le energie della terra e utilizzarle ai fini del suo  poten­ziamento fisico e spirituale.

Di qui lo stile meditativo e idealista, l’ansia di perfeziona, il tono vigoroso e appassionato del genio medioevale da una parte; e lo stile concreto e utilitarista e la mentalità spregiudicata, il costu­me elegante e vivace del genio rinascimentale dall’altra.

Non è detto che la fase religiosa della civiltà romanza cessi im­provvisamente dopo la scomparsa dell’Alighieri, come non è detto che la nuova fase, cioè quella umana, della stessa civiltà si affermi in pieno con tutte le sue caratteristiche subito appena sorta: è norma­le procedimento della natura che tra le forme di vita che si esauri­scono a quelle che da esse rinascono non vi sia soluzione di continuità o di distacco netto.

Evidentemente in quel punto della storia in cui avviene la giuntura tra la spiritualità vecchia che tramonta e la spiritualità nuo­va che sorge, è fatale che si verifichi una crisi, un contrasto, ap­punto perché due anime diverse e forse opposte, l’una senile e quindi pensierosa e preoccupata, l’altra giovanile e quindi spensierata, gaia, vengono a trovarsi di fronte.

Normalmente in questi periodi di passaggio troviamo spiritualità in cui vivono due anime in evidente contratto fra loro, incapace l’una di superare l’altra. Spiritualità di questo genere non si può di­re che non abbiano una fisionomia definita, perché hanno ben chiara la forma della crisi, del dramma, e dell’incertezza. Esistono spiri­tualità unitarie e spiritualità in crisi o intimamente contradditto­rie: non si può dire che solo le prime abbiano una fisionomia ben definita solo perché essa è più evidente e più impressionante; e che le seconde non abbiano fisionomia perché il loro mondo è in continua oscillazione: la contraddizione è anch’essa una forma spirituale ben definita e vitale quanto quella a struttura unitaria.

Secondo alcuni, la spiritualità della crisi conterrebbe energia più vivace di quelle della spiritualità unitaria; senza far discussioni del più o del meno, ci basti dire che la vita può raggiungere la sua pienezza sia quando è convogliata in direzione unitaria, sia quando si fraziona in sé stessa; l’essenziale è che nell’uno e nell’altro caso non manchino le energie attive le quali costituiscono la sorgente di tutti i motivi vitali.

Spiritualità in dissidio.

Il Petrarca è la tipica espressione tra il modo di pensare, di sen­tire e di esprimersi del Medioevo, tutto ispirato ad una concezione religiosa della vita, e il modo di pensare, di sentire e di esprimersi del Rinascimento, tutto ispirato ad una concezione umana della real­tà e della vita: il Petrarca presenta evidentissima la fisionomia spirituale dell’uomo in crisi; si potrebbe dire che nel suo mondo interio­re vivano in contraddizione perpetua due Petrarca: quello religioso e quello laico, quello mistico e quello mondano.

Tutta le opere del Petrarca, essendo espressione di un’anima che parla di continuo con sé stessa, si esamina, si rimprovera, si conforta, costituiscono il più prezioso documento per individuare la storia del suo mondo interiore; ma soprattutto il “Secretum” in prosa e il “Can­zoniere” in versi, costituiscono il riflesso più completo e più since­ro della sua fisionomia spirituale.

Vediamo in che cosa consiste questo dissidio fra i due Petrarca e come si svolge la logica di questo contrasto.

– a) Dissidio fra l’amore a Dio e l’amore alla creatura.

Il Petrarca è convinto che Dio è sommo Bene e somma Bellezza, che l’anima umana può solo in lui trovare l’appagamento dalla sua ansia di infinito.

Nello stesso tempo è convinto che le creature per quanto abbiano di bontà e di bellezza costituiscono valori limitati e caduchi e che nessuno di esse può garantire la felicità al cuore umano.

Nonostante queste convinzioni il Petrarca, come tutti i poveri mortali sente l’attrattiva delle creature che si vedono che non l’attrattiva di Dio che non si vede. Senza dubbio anche per il Petrarca, ciò che di bene e di bello è nelle creature, è opera di Dio; ma quel be­ne e quel bello esercitano nello spirito del poeta, avido di godimen­to, un’attrattiva così potente che lo assorbono tutto e concentrano su le stesse tutte lo sue aspirazioni, in modo che lo distolgono dal risalire alla fonte di ogni bontà e di ogni bellezza. L’Alighieri vede in Beatrice un esemplare dell’immagine divina, ma la copia è per lui solo un mezzo per intravvedere qualche cosa del­la perfezione del Bene Sommo; per il Petrarca la copia diventa una specie di entità autonoma, la quale invece di inviare a Dio ac­centra su di sé lo spirito di chi la contempla. E’ per questo moti­vo che la Beatrice di Dante è tutta angelica e celestiale e compie la funzione di collegare l’uomo a Dio; mentre la Laura del Patriarca è tutta grazia e signorilità umana e invece di promuovere nell’uomo affetti ed aspirazioni soprannaturali, ammalia il suo spirito e lo costringe a godere e a soffrire di sé. Laura può essere definita donna estetica a differenza di Beatrice che possiamo definire donna mistica; nell’una si sintetizza quanto di più fine, di più armonico, di più decoroso abbia la terra; nell’altra si sintetizza quanto di soavità e di candore soprannaturali possa accogliere in sé una crea­tura mortale; l’una è il più splendido esemplare della perfezione terrena, l’altra il più splendido esemplare di perfezione di natura o di soprannatura mirabilmente unite.

Laura non ha dunque una fisionomia celestiale e mistica, tuttavia non ha neanche la fisionomia della donna di mondo, esperta delle comuni arti femminili: lei è la bellezza, ossia l’armonia, che ha origine cele­ste, ma dimora terrena. Si tratta di armonia di linee nel corpo, di armonia tra le facoltà dello spirito, di armonia tra corpo e spirito; questa bellezza è pura e chi ama questa bellezza coltiva la più fine e la più gentile delle idealità terrene. Quest’amore estetico esclude qualunque forma di passionalità volgare; e quindi, di per sé non genera alcun turbamento né alcuna crisi in un’anima di sensibilità religiosa comune.

Eppure il Petrarca è in continua crisi di coscienza a causa del suo amore per Laura. Infatti, benché la bellezza della donna da lui vagheggiata sia opera del Creatore, tuttavia appare elaborata da uno studio di singolarità che la caratterizza più forma terrena che visione celestiale: insomma Laura è più donna che angelo; e il Petrarca cosciente dell’esigenza della vera religiosità, cioè della necessità di aderire a Dio senza compromessi e riserve, ha l’impressione di precludersi la strada che lo conduce a Dio, qualora si soffermi a vagheggiare e a sospirare quel­la bellezza, Laura non avvia a Dio né allontana da Lui, ma tiene fermo il cuore che lo ama a mezza strada tra l’Empireo e l’Inferno, in un mondo che soddisfa il povero mortale perché gli offre lo spettacolo dell’armonia, ma nello stesso tempo non lo appaga, perché si tratta di una en­tità finita e mortale.

Confrontato con l’amore di Dio, quello per Laura, appare troppo im­perioso ed esigente, per lasciar tranquilla una coscienza che abbia an­cora il senso esatto dei valori: il Petrarca, avverte di amare senza mi­sura un bene che, per quanto fine e prezioso, è tuttavia secondario e caduco.

“O Dei, che ascolto?… Nel mio amore non ci fu nulla di disonesto e sconveniente; soltanto fu senza misura. Anzi, costei allontanò il mio a­nimo giovanile da tutte le bassezze e lo spinse verso l’alto”. Così ri­sponde il Petrarca a S. Agostino, cioè il Petrarca esteta al Petrarca asceta, il quale gli rimprovera di essersi lasciato vincere dalla passione amorosa.

“Infelice! Meglio è tacere che dire tali cose. A che non potevi tu riuscire se costei con gli allettamenti della sua bellezza non ti fosse stata di ostacolo! Quello che tu sei te lo ha dato la bontà della natura, quello che potevi essere, costei te lo ha tolto… costei non ti fa me­sti o lieti i giorni secondo la pace.. . Sei uno schiavo! quando la tua donna morirà, allora ti vergognerai di aver piegato l’anima immortale ad un debole capriccio e ricorderai con rossore la strana ostinazione che ti muove a scusare le tue colpe”, così S. Agostino, cioè il Petrarca a­sceta, critica e controbatte la giustificazione speciosa del Petrarca esteta.

Evidentemente qui si delinea una frattura fra il buono e il bello assoluto e il buono e il bello finito: la preziosa e simpatica armonia tra fi­nito e infinito tra natura e soprannatura, tra vita del cuore e vita religiosa, così bene specializzata nella fase matura del Medioevo, appare ormai definitivamente compressa. Petrarca ammira il cielo, ma predilige la terra, vagheggia la perfezione, la fede religiosa, ma preferisce i soavi affanni dall’amore terreno, si dichiara in errore perché si la­scia suggestionare dalla creatura, ma è convinto che senza quell’erro­re, cioè senza quella suggestione, non riuscirebbe a vivere.

A questo contrasto tra l’amore di Dio e l’amore di Laura va connesso, dunque, il contrasto fra la coscienza di peccare e il bisogno di pecca­re, fra l’ansia di liberarsi dai legami terreni che impediscono di ele­varsi verso il cielo o il bisogno di intrecciare il più possibile lega­mi di affetti umani sulla terra. Egli sa che se esiste un solo Dio, eppu­re sente il bisogno di una dea che sostenga con la sua grazia la sua a­nima assetata di dolci emozioni, ma egli avverte la sua posizione quasi di idolatria e se ne dispiace; anzi, quando parla al vero Dio, si compiace di manifestare i difetti dell’idolo terreno.

Tuttavia sente che se Dio col suo aiuto lo liberasse dalla suggestione di quella dea terrena, egli più che ricevere una grazia, sarebbe colpito da una disgrazia: “Ti assicuro che la tua coscienza ti ha commosso spesso fino alle lacrime, ma non ti ha veramente fatto mutar di proposito. Tu non hai pregato umilmente; e sempre poi hai riservato un po’ di spazio alla passione che cercavi di tirare in lungo con le tue preghiere: concedimi la purezza, ma non ora, lascia passar la giovinezza; allora ci sarà modo di allontanarsi dal vizio, quando sarà meno sensibile a questo cose per l’età invecchiata”.

Petrarca dunque vede ed approva la perfezione e segue ciò che è imperfetto; non si tratta di un contrasto intellettuale, cioè di dubbio per impossibilità di scoprire il vero, ma di un contrasto fra due aspi­razioni opposte del cuore, cioè di un contrasto affettivo che la volon­tà debole non riesce a definire. Infatti il Petrarca, sebbene pretenda di giustificare certi suoi atteggiamenti spirituali di tono mondano, pur vede con chiarezza l’infinita superiorità dei valori soprannaturali ri­spetto a quelli terreni; quel che, invece, non riesce a controllare e regolare è la capricciosità del suo cuore, il quale, talvolta è tutto di Dio talvolta è tutto della creatura, e quasi sempre è tra Dio e la creatura. La volontà debole, più che imporre una disciplina al cuore, subi­sce la sua tirannide. Potremmo aggiungere che anche l’intelletto, per quanto veda chiaro nella cerchia dei valori, tuttavia per condiscendenza allo esigenze del cuore si sforza, come già si è detto, di trovare motivi per persuadersi che in fondo nel culto dei valori umani non c’è nulla di peccaminoso. Il cuore vuol fare a suo piacere; la volontà non riesce ad imporgli una disciplina; l’intelletto mentre deplora la necessità dell’uno o la debolezza dell’altra, pare che sia disposto a benevo­la comprensione, quasi che sia umanamente impossibile frenare quella ec­cessività o curare quella debolezza.

Possiamo riassumere così questo complicato contrasto interiore: il cuore vuole tutto, sia il cielo che la terra, ma non li vuole insieme, perché gli piace gustare il cielo senza affezioni terrene, e gli piacerebbe gustare la terra­ senza preoccupazioni soprannaturali; per conclu­dere in fine col barcamenarsi tra l’uno e l’altra.

 La volontà sta a guardar il cuore che non trova pace, l’intelletto disapprova il cuore e la volontà, ma è disposto a compatire. Psicologia fiacca, dunque, nel complesso; ma questo non vuol dire che non sia una psicologia poetica; c’è anche una poesia della debolezza nella quale si avvertono più i valori che tengono in agitazione il cuore, perché le co­se proibite o impossibili appaiono sempre le più attraenti e provocano di più il cuore umano.

Il Petrarca stesso, forse, si compiace di questo stato d’animo, per­ché nella crisi e nel disagio egli aveva la sensazione di vivere: l’inerzia del cuore(“taedium”), cioè una vita interiore senza contrasti, a lui, avido di emozioni, doveva apparire come una specie di diminuzione o esau­rimento del suo esistere. Egli ha orrore del “taedium vitae” e cerca di tener desto il suo cuore con tutte le emozioni più robuste e più serie, accogliendo con una certa voluttà specie quelle che sono, in contrasto tra loro, perché da questo urto egli si sente scosso, tenuto desto, costret­to alle lacrime e allo sfogo poetico.

E’ vero, dunque, che il Petrarca non riuscì a risolvere il suo dissi­dio interiore per debolezza di volontà, ma è legittimo sospettare che egli non l’abbia risolto anche per esigenze vitali della sua natura psicologica. A lui l’abbandono del mondo, per aderire nell’intimità ascetica a Dio, appariva un gesto eroico e magnifico, ma avvertiva che esso avreb­be inaridito i giorni del suo cuore; vivere senza Laura, senza la compagnia dei grandi scrittori latini, senza lo amicizie, gloriose, senza il plauso degli ammiratori, era  per lui un sacrificio troppo duro, una spe­cie di morte morale.

D’altra parte vivere senza Dio, rinunciare alla tranquillità e alla sicurezza della vita soprannaturale, abbandonare le altezze per svolaz­zare rasoterra, appariva a lui stoltezza, empietà e forma di morte più pericolosa e peggiore della precedente? Mosso da un’indomita brama di vivere, egli lotta contro l’una e l’altra forma di morte, ma finisce col combinare insieme le esperienze terrene e quelle soprannaturali in una forma di accomodamento di cui egli avverte l’impossibilità e il tragico rischio, ma, siccome la lotta e il disagio aumentano in lui la sensazio­ne del vivere, finisce col compiacersi del suo stato pur tra le deplo­razioni e le lacrime.

Il Petrarca è, dunque, un pover’uomo che tenta di conciliare l’inconciliabile, cioè lo spirito religioso e il peccato, e, cosciente della propria debolezza di fronte agli impegni sublimi della coscienza cristiana, cerca di barcamenarsi tra i pentimenti e i propositi vani.

E’ facile per noi comprendere una psicologia tribolata e nello stes­so tempo facile a consolarsi come quella del Petrarca, se osserviamo la nostra stessa psicologia, la quale è caratterizzata da una incertezza continua tra il male e il bene, tra il meglio e il meno bene, e dallo sforzo di giustificare la nostra debolezza con l’intenzione di non scontentare il cielo e di godere nello stesso tempo i doni della terrà.

Evidentemente una psicologia di questo genere avrebbe ripugnato all’Alighieri, volitivo e deciso come era, sapeva armonizzare la natura con la soprannatura, le attività profane con quelle religiose, la vita tempo­rale con la vita eterna.

Se il Petrarca non riesce più a conciliare l’uomo ed il cristiano, vuol dire che egli non ha i concetti chiari circa la natura e la sopran­natura, o, pur vedendo chiaro, non ha la forza sufficiente per decider­si a realizzare una conciliazione non solo possibile, ma facile e fecon­da di vaste aperture spirituali, come dimostrava l’esempio dell’Alighie­ri. Ma il Petrarca ci si rivela troppo intelligente perché noi, possiamo pensare che egli non abbia veduto chiaro circa i rapporti tra natura o soprannatura; ma sarà meglio pensare che egli abbia di proposito insistito sulla confusione tra religiosità o ascetismo monacale o sulla debolezza ­della natura umana per avere il pretesto di giustificare e deplorare nel­lo stesso tempo la sua incertezza spirituale, per acquietare la coscien­za  e rimproverarla ad un tempo.

Il Petrarca sotto questo aspetto sembra incarnare quel tipo di cristiano che non sentendosela, di accogliere con integralità coscienziosa tut­te le conseguenze di una adesione piena alla religione, esagera a bella posta le richieste del soprannaturale per aver motivo di dichiararsi in­capace a soddisfarle, senza tuttavia pretendere di aver ragione, anzi riconoscendo esplicitamente e umilmente di essere nel torto.

Come si vede questa è la forma psicologica della debolezza che si ac­cusa e cerca pietà e perciò appare anche simpatica. Possiamo definire, dunque, la psicologia del Petrarca psicologia di debolezza, e la sua poe­sia: poesia della debolezza.

Nel motivo del contrasto tra spiritualità umana e’ spiritualità religio­sa è interessante notare un modo di vivere nuovo la religione: non è più tutto lo spirito ad essere investito del senso religioso, cosicché l’in­telligenza percepisca le realtà soprannaturali, il cuore le ami appassio­natamente, la volontà si sforzi di riprodurle nel mondo della storia individuale e collettiva, ma è una facoltà solo di esso, il cuore, ad es­sere impegnato, nell’esercizio della religiosità.

Evidentemente siccome il cuore, quando non è illuminato dal pensiero e non è disciplinato dalla volontà cambia facilmente atteggiamento a se­conda della potenza di attrazione delle cose, la religiosità di sentimento è per sé stessa vaga e fluttuante.

Ha inizio col Petrarca quel modo di sentire la religione che possia­mo chiamare estetico o per attrattiva , caratterizzato, senz’altro da intensità e sincerità affettiva, ma soggetto troppo ad un soggettivismo che ha da fare i conti con la debolezza umana e che quindi si permette di scendere a facili concordati con le esigenze pratiche della vita.

Per l’Alighieri la religione è fedele amore e la religiosità è vita indirizzata direttamente e decisamente verso gli ideali soprannaturali e sostenuta da un costante ardore di entusiasmo e di coraggio; per il Petrarca e i Rinascimentali la religione è attività e sensibilità per certi aspetti veramente belli del Cristianesimo, e religiosità è senti­mento del soprannaturale senza impegni precisi, ma piuttosto con la ten­denza ad accogliere motivi mondani, a pretendere di conciliarli con quel­li della fede.

Siamo di fronte ad un indirizzo religioso che si compiace di evitare teorie e leggi per vantarsi di essere concreto e sincero in quanto ade­risce alle esigenze del cuore, ma che non può nascondere la reale inten­zione di giustificare e di accogliere col pretesto del cuore tutto ciò che al cuore piace: siamo cioè di fronte ad un inizio di soggettivismo religioso che avrà la sua conclusione nel protestantesimo.

Questo modo di vivere la religione nel cuore, in forme ricche di sen­timento fu proprio di S. Agostino e Petrarca appassionato cultore e am­miratore di S. Agostino imparò da questi il colloquio continuo con Dio, con le creature, con se stesso, colloquio in cui esalta con entusiasta ammirazione la sublimità e la bellezza del soprannaturale, si lamenta con le creature che abbiano troppa forza per ammaliarlo, accusa e compiange la propria miseria. Evidentemente il richiamo a S. Agostino vale sol­tanto per il modo di vivere la religione non certo per l’indirizzo sog­gettivo e per il tono fiacco che il mondo affettivo assume nel Petrarca.

– b) Dissidio fra l’avidità di vivere con pienezza e la sensazione della vanità e della caducità della vita.

Il Petrarca è un innamorato della vita di cui vorrebbe fare tutte le esperienze; come quello di S. Agostino anche il suo cuore è in cerca dell’infinito sulla terra tuttavia non solo non riesce mai a trovare l’infinito, ma deve, momento per momento, costatare che ogni conquista esige sofferenza e si rivolge in delusione, perché anche la cose terrene­ più elevate non hanno alcuna capacità di saziare il cuore dopo che siano state conseguite, esse interessano quando sono vagheggiate da lontano, ma quando arrivano e vengono superate, appaiono meschine; hanno, si può dire, la sola funzione di tormentare il cuore finché esso è in ansia di raggiungerle. Il Petrarca è cosciente di questa nullità e di questa sofferenza insita nelle nostre aspirazioni: tuttavia non può fa­re a meno di sognare e quindi di soffrire: il sogno, la sofferenza, la delusione, il bisogno di procedere sempre a nuove esperienze se tengono agitato il cuore lo tengono almeno occupato. Il Petrarca ha bisogno di riempire i suoi giorni, ha paura della noia: attraverso la sofferenza egli percepisce di vivere, cadendo nella noia, egli teme di perdere la coscienza di sé stesso. Per questo motivo pur deplorando gli  affanni della vita, egli piange allorché tramonta un giorno, si dispera quando tramonta un anno e più ancora quando tramonta una intera fase della vita, come la giovinezza o la maturità e .si avvicina la vecchiaia.

Ha orrore della morte, pur accogliendo le speranze cristiane, il pen­siero di venir meno alle bellezze della terra, alle attività quotidiane, per quanto affliggenti, lo sconvolge e lo angoscia.

– c) Contrasto, fra ideale e reale.

Il Petrarca, sensibilissimo e fine, educato dalla religione e dalla cultura classica, vagheggia una esistenza perfetta, in cui natura e so­prannatura possano esprimersi con pienezza e intima armonia fra loro.

Ma in pratica egli vede sfumare il suo sogno e per la debolezza del­la sua volontà a cui non sa quale rimedio approntare e per le difficoltà che un programma di perfezione naturale e soprannaturale presenta an­che a persone eroiche e decise come sono i santi.

Egli vagheggia una vita quieta e decorosa, e in verità dalla fortuna è favorito nel suo sogno, ma per la mancanza di pace interiore e­gli non può gustare il piacere delle sua agiatezza.

Vagheggia un’Italia unita entro i suoi confini naturali, organizza­ta a regime repubblicano con Roma capitale, con cittadini simili in virtù agli uomini della Roma repubblicana; ma in pratica. deve assistere alla visione di un’Italia divisa, funestata da lotte fratricide, inco­sciente della sua dignità e della sua missione.

Abbiamo definito l’amore del Petrarca “amore estetico” cioè amore alla bellezza pura; ma non dobbiamo pensare né che a tale amore non tentasse di mescolarsi la passione né che esso si accontentasse di va­gheggiamenti interiori senza bisogno di soddisfazioni sensibili; Laura però non può né permettere manifestazioni intemperanti e focose, né può posare di continuo come modello dinanzi agli occhi del suo vagheggia­tore.

A ciò si aggiunge il fatto che ogni amore e travagliato dal dubbio della corrispondenza, e si capirà bene perché il sentimento dell’amore che è il più intenso e il più costante del cuore del Petrarca sia an­che il più tormentoso. Infatti, allorché Laura teme che le imprudenze del suo innamorato possano nuocere al suo onore, si sente in dovere di eclissarsi per placarne l’ardore. Quando Laura è lontana il cuore del Petrarca, suggestionato dalla lontananza stessa e dalla privazione, si strugge di rivederla e invano cerca di pascersi con immagini, che le ras­somigliano; quando Laura viva gli si presenta nel piano della sua bel­lezza, egli pensa con accoramento che quella magnifica fioritura pre­sto o tardi sfiorirà.

“Quando la tua donna morirà… allora ti vergognerai di aver piega­to l’anima immortale a un debole corpicciolo e ricorderai con rossore la strana ostinazione che ti muove a scusare le tue colpe. Già anche ora la leggiadria delle sue membra è scemata per le malattie e i frequenti parti; ad esse non hanno già più il primitivo vigore” (Secretum).

Basta che la donna assuma un atteggiamento più riservato del solito perché egli si accori e si senta disfatto cosicché la dolcezza dei suoi sogni d’amore si tramuti in amarezza sconsolata.

“E costei non ti fa mesti o lieti i giorni secondo che le piace? Se ella compare risplende il sole, se parte torna la lotta; se cambia il suo volto muta anche il suo animo; ti fa lieto o mesto secondo che essa ti tratta.” (Secr.).

Così l’ideale contemplazione sognata e bramata con tanta ansia e trepidazione, si trasforma in sofferenza che, per quanto dolce, dà tut­tavia al poeta l’impressione di essere un povero naufrago cui è impos­sibile raggiungere mai la riva.

” Pace non trovo e non ho da far guerra; – e temo e spero; et ardo e sono un ghiaccio; – e volo sopra il cielo e giaccio in terra; – e nulla stringo e tutto il mondo abbraccio”.

Egli aspira a realizzare nella sua vita una forma perfetta per ar­monia e eleganza. Organizza i suoi ritiri di Valchiusa, di Selvapiana, di Arquà, secondo un ideale di decorosità classica in cui austerità e eleganza siano combinati insieme. Coltiva amicizie illustri; con riser­bo ma anche con decisione aspira alla fama e la ottiene: tuttavia, in questo mondo che ha architettato con ingegnoso buon gusto e con felici risultati, non trova la soddisfazione del suo spirito: dopo che l’ha costruito lo vede troppo piccolo, troppo caduco, solo sente sfuggire troppo rapidamente per trovare in esso la sua vera compiacenza.

Sembra che il destino del Petrarca sia quello di creare facendo ap­pello a tutto le risorse del buon gusto, della cultura classica, del­la sua cultura mistica, i castelli più luminosi e più armonici; di con­templarli solo per breve attimo in deliziosa pace; di scorgere troppo spesso in essi aspetti insoddisfacenti, disarmonie inconciliabili e so­prattutto di scorgere la fragilità delle loro fondamenta: sono fondati sul tempo e il tempo influisce di continuo come fiume inarrestabile.

Egli potrebbe utilizzare un’infinità di fattori ideali per rendere piena e perfetta la sua vita, ma è cosciente dalla sua miseria e del­la sua tendenza più a sciupare che a valorizzare gli elementi di per­fezione che la natura e la soprannatura gli offrono.

Di fronte alle sue creazioni ideali; egli, ammaestrato dall’espe­rienza, teme sempre di esorbitare, di apparire volgare, di esser trop­po vile per servire con adeguato decoro i più sublimi valori della vi­ta.

Il Petrarca vagheggia dunque una vita piena, si sforza di costruir­la utilizzando tutti i motivi naturali o soprannaturali, ma non riesce. mai a gustarla con tranquilla soddisfazione: il dissidio inconciliabi­le tra i motivi naturali o quelli soprannaturali, la sensa­zione che il tempo logora anche le cose più sublimi, che la noia ren­de vili anche le cose più belle dopo che siano state sperimentate, che la limitatezza di tutto il reale affievolisce qualsiasi entusiasmo in­ducono il Petrarca a commiserare i suoi sogni e a piangerli dove si piangono le cose più care e preziose allorché sfuggono.

– d) Contrasto fra l’aspirazione a maggiore libertà spirituale e la paura di abusarne.

Il Petrarca, figlio di una generazione che non è più capace di soppor­tare i limiti della disciplina cristiana, perché avida di godere la vi­ta, sente il bisogno di libertà interiore: ha bisogno che gli si conceda qualche divagazione mondana e si rallenti la tensione di una spiri­tualità mistica troppo esigente.

Tuttavia egli stesso ha paura della libertà a cui aspira, perché non si sente sicuro di poterne fare uso moderato. Si vede che l’anima non è sicura di sé, che sente il bisogno della disciplina e della libertà ed ha nello stesso tempo paura dell’una e dell’altra; dell’u­na perché è difficile a moderarsi e rischia di esaurire, di avvilire e di sprecarsi i doni più preziosi della natura e della soprannatura.

Perché il Petrarca non risolve mai il suo dissidio interiore?

I motivi si possono riassumere così:

a – Perché gli manca la forza della volontà per superare sé stesso. Egli in tutto le sue opere si confessa e il motivo centrale delle sue confessioni è questo: “io sono un debole” e la sua poesia si può definire poesia della debolezza.

b –  Perché nella perenne alternativa tra l’Assoluto e il finito si realizza una forma di vita che al poeta piace e non piace nello stes­so tempo; e che si adatta perfetta alle sue possibilità limitate vo­litive. Per ogni uomo c’è una forma di vita che gli si adatta per naturale costituzione, sia per responsabile elezione a scelta.

Al Petrarca, timido e incerto per natura, oscillante per colpe­vole debolezza si adattano le forme delle alternative incessanti.

c – Perché il Petrarca si accorge di vivere solo se soffre e siccome la sofferenza è generata dal dissidio, sente che per vivere a lui è necessario perpetuare quel dissidio. Vivendo da cristiano ha l’im­pressione di non poter vivere da uomo; vivendo da uomo ha l’impres­sione di non poter vivere da cristiano. Arida sembra a lui la vita senza la bella fioritura degli ideali terreni, pericolosa e vana sembra ­a lui la vita senza la fioritura degli ideali soprannaturali.

Non rinuncia alle gioie terrene per non morire nel tempo, non ri­nuncia agli impegni soprannaturali per non morire nell’eternità.

d –  Perché si illude che concedendo alla terra qualche cosa di più di quanto non sia stato fatto nel passato, si possono meglio conci­liare le aspirazione delle generazioni nuove al godimento con le e­sigenze della spiritualità religiosa tradizionale: egli ha la sensazione pur tra le apparenti proteste della sua coscienza, di essere un uomo nuovo iniziatore di una spiritualità cristiana più aperta, più liberale, più umana, meno teologica, meno fratesca.

E realmente Petrarca nella storia della spiritualità italia­na rappresenta il primo esemplare di un cristianesimo romantico sen­timentale, in cui la forza dei principi si affievolisce e quel che conta non sono i fatti, ma le aspirazioni sincere anche se mai realiz­zate.

e – Perché il dissidio contribuisce a sentire più vivamente gli idea­li. Sembra quasi che il Petrarca per sentire più potentemente Dio abbia bisogno di esaurire il suo cuore in dispersioni mondane e che per sentire con più intensità la suggestione colorita e accorata del­le cose terrene abbia il bisogno di astenersi per un certo tempo da queste rifugiandosi in un ritiro ascetico di tipo monacale. Laura non gli appare mai così bella come quando si sforza di staccarsene; Dio non è mai da lui sentito con tanta ansia e tanto accoramento come quando se ne è allontanato.

La stessa caducità delle cose terrene è potente fattore di suggestio­ne. Come le cose che amiamo ci appaiono infinitamente più belle e le sentiamo infinitamente più care allorché vi si delinea il pericolo di perderle, o allorché sono ferite, così la bellezza, l’amore, l’arte, la fama, l’amicizia, l’agiatezza, la salute, allorché sembrano impallidi­re o addirittura spegnersi in forza di una meditazione realistica sul­le loro caducità, diventano tanto care che perderle significa morire.

Di qui si spiega l’intensità della suggestione esercitata sullo spi­rito del Petrarca da quelle realtà terrene di cui egli così spesso sem­bra mettere in evidenza le miserie e le vanità con eroico compiacimen­to.

f – Perché il poeta è persuaso che se venisse meno quel dissidio verreb­be meno, anche la parte della sua poesia. Infatti la poesia. è l’espres­sione della vitalità dello spirito; e lo spirito del Petrarca trova la pienezza della sua vitalità nel dolce-amaro o amaro-dolce, del suo dis­sidio interiore. Egli stesso più volte dichiara che il pianto gli è dol­ce, il suo stato dolente lo appaga. E in realtà il motivo centrale e più vitale della poesia Petrarchesca è innegabilmente il dissidio.

Spiritualità armonica.

Sembrerebbe una contraddizione parlare di armonia nei riguardi del Petrarca che abbiamo delineato come l’uomo in perpetuo dissidio interio­re. Tuttavia la contraddizione scompare allorché si precisi il senso vero di armonia. L’armonia nasce dal rapporto proporzionato tra svariati motivi: questi motivi nella loro varietà possono essere tutti diret­ti verso lo stesso senso o possono anche essere in contraddizione tra loro; l’essenziale è che nell’uno e nell’altro caso essi contribuiscano a generare una intonazione unitaria dello spirito, ossia a creare una fisionomia ben definita della personalità di un uomo.

Orbene, nonostante le contraddittorietà dei motivi, il Petrarca ha una fisionomia spirituale ben definita: egli è il tipo del cristiano in crisi cosciente e dolente del suo stato di crisi.

Come si vede la contraddizione non solo non nuoce alla unitarietà della fisionomia spirituale del Petrarca; ma costituisce la sostanza di essa. Non è detto che debba essere considerata armonica ad esempio solo la spiritualità dell’Alighieri, in cui tutti i motivi sono convo­gliati verso una meta unica, cioè verso Dio; è unitaria anche la spiritualità del Petrarca, in cui i motivi più opposti concorrono a crea­re uno stile spirituale ed artistico di indubbia nitidezza.

Il Petrarca, come tutti i geni, riesce a controllare il suo mondo interiore, cioè ad individuare tutti i moti del suo animo, a viverli con maggiore o minore intensità, a seconda del loro significato e del loro valore, a raccoglierli e a comporli in unità. Egli praticamente, infatti, sebbene con intensità diversa, sento l’amore di Dio e l’amore di Laura, la bellezza delle cose terrene e la loro vanità, la sua felicità e la sua infelicità, le esigenze e i richiami della natura e quelli della so­prannatura.

Si tratta di un mondo interiore in oscillazione in cui ogni elemen­to componente è al suo posto, in stretto rapporto con gli altri, anche se il rapporto è di contraddizione. Abbiamo visto infatti, come l’attac­camento alla terra contribuisce a rendere più viva l’ansia del cielo, e come il culto dell’Assoluto e dell’Eterno, rendendo obbligatorio, nel­la mentalità del Petrarca, l’abbandono della terra, contribuisca a rendere più accesa e più accorata la nostalgia della bellezza caduca.

Questo rapporto reciproco fra i vari motivi genera l’armonia della contraddizione e quest’armonia, viene a costituire il fattore sostan­ziale dell’unità spirituale del Petrarca. Se si potesse esprimere questa situazione con una formula, si potrebbe dire che il Petrarca “sa vivere e sa cantare la contraddizione”.

Dal rapporto proporzionato dei motivi risulta l’armonia; dall’armonia l’unità; dall’unità la compostezza. L’anima dal Petrarca è veramen­te un mare effervescente a causa delle forze intime in contrasto che lo sommuovono: ma non si notano né fieri contrasti di venti, né paurosi cavalloni, né si deplorano tragici naufragi. Pur agitato da un’intensa ed assidua pena il poeta non grida mai, non prende né drammatiche deci­sioni da disperato, né eroiche risoluzioni da convertito, non freme; tanto meno ruggisce: sospira soltanto. Di qui il tono pacato di ogni sua espressione e quella specie di compiacimento con cui osserva, analizza e rappresenta il guazzabuglio del suo mondo interiore. E’ stato detto che il Petrarca è il primo dei romantici italiani; e chi ha detto ciò ha inteso identificare Romanticismo con “crisi” e “malinconia”.

Ma se si dovesse accogliere questa identificazione, si dovrebbe concludere che il 90% dei poeti sia costituito da Romantici. Nei riguardi del Petrarca poi non è proprio il caso di parlare di Romanticismo: que­sti infatti, almeno, nella sua forma più generale, è caratterizzato dal proposito di utilizzare ai fini dell’arte anche la disarmonia e la di­spersione.

Spiritualità malinconica.

La malinconia è quell’atteggiamento di abbandono che assume lo spirit­o allorché viene privato di una cosa che era entrata a far parte della sua vita o è trattenuta dal raggiungere una meta a cui ansiosamente aspira. La malinconia è un sentimento incerto fra il dolore e il com­piacimento per uno stato che si approva e si disapprova nello stesso tempo, fra il buon desiderio del meglio e la sensazione che la conqui­sta del meglio è impossibile, tra la volontà di fare e il compiacimen­to del non fare.

Il Petrarca può ripetere l’espressione di Ovidio: “video bona proboque, deteriora sequor” e non avendo il coraggio di decidersi assume l’atteggiamento degli incerti, cioè vive in perpetua malinconia.

L’espressione della malinconia è il sospiro. Il Petrarca è l’uomo senza pace (Cfr. La canzone. “Ne la stagion che il ciel rapido inchina”):

Sebbene S. Agostino, cioè la fede gli ripeta che lo spirito suo può trovare quiete solo in Dio, tuttavia non ha la forza di ascendere in questa fonte inesauribile e malinconicamente si ferma a metà strada tra il finito e l’Assoluto.

Spiritualità solitaria.

E’ caratteristica delle anime tormentate, specie di quelle che per indole sono inclini alla timidezza e al riserbo, la cura di evitare la compagnia umana. Sono anime convinte che, non essendo riuscite in sé stes­se a trovare un rimedio alla loro situazione, ogni contatto con gli uo­mini non ha alcun fine utile, anzi non servirebbe che a far conoscere al pubblico indiscreto una situazione di cui non sono soddisfatte e che quindi vogliono celare soprattutto a coloro che non sanno comprendere e com­patire.

Il Petrarca preferisce vivere nella solitudine a contatto solo con sé stesso per conoscersi, per deplorarsi, per compatirsi ed anche per vagheggiarsi. Non è contento di sé, però nel complesso si compiace di sé, perché la intensa vitalità interiore e sopratutto la capacità di esprimerla in accurate forme d’arte, gli danno la sensazione di bastare a sé stesso e di essere lontano quanto mai dal volgo. Non solo per evitare il “manifesto accorrere delle genti”, o per pascersi in segreto della dol­cezza delle sue lacrime, il Petrarca evita il pubblico, ma anche perché nella solitudine egli trova un ottimo fattore che favorisce le sue me­ditazioni.

Egli non è uno spirito capace di pensare e tanto meno di poetare nel tumulto della vita e della azione: la sua poesia trae alimento dal suo dramma segreto e il suo dramma è di tono pacato e delicato; perciò deve stare in ascolto di sé e per percepirsi ha bisogno di non esser distrat­to dalle cose esterne.

Dante era capace di far poesia nel frastuono della vita perché egli traeva ispirazione dal mondo che la circondava, e le vibrazioni del suo cuore erano talmente intense che per percepirle non era affatto neces­sario ritirarsi in solitudine.

Petrarca invece ha bisogno di raccogliersi per sentire con intensità le cose; egli infatti ha bisogno di trasfigurare la realtà, di darle la forma del suo spirito per coglierne il significato; e per compiere questa trasformazione deve suggestionarsi; e per suggestionarsi ha bisogno di solitudine; il modo con cui reagisce alla realtà lo spirito di Dante si potrebbe definire “immediato” e il modo con cui reagisce il Petrar­ca si può definire “immediato e ammorbidito”.

La realtà per il Petrarca è tutta nell’intimo del suo cuore perciò, affinché la percepisca e la senta, è necessario che si ritiri nel segre­to.

Qui, lontano dalle cose, è nella condizione migliore per idea­lizzare quella realtà che osservata invece da vicino, gli apparirebbe o insignificante o meno suggestiva. Laura nel sogno della meditazione solitaria diventa infinitamente più bella: i ricordi diventano più accesi e le immagini diventano più vive.

Nel segreto egli ascolta più distintamente i palpiti del suo cuore turbato, ha la possibilità di vedere più nitidamente sé stesso, e di com­piangersi e di vagheggiarsi nella sua dolce sofferenza. Egli non è capa­ce di pensare e di sentire quando è a contatto con il mondo: la presenza delle cose e degli uomini è per lui fattore di dispersione e di diva­gazione.

Tuttavia il fascino della solitudine diventa ben presto incubo: infat­ti quel sé stesso da cui non può separarsi, con le sue pene lo afflig­ge e non gli da pace. Quella sua crisi ineffabile e perpetua, che nel­la solitudine vi appare più grave, lo angoscia: il Petrarca, cristiano, nel silenzio del raccoglimento, si fa più austero e più impietoso, rim­provera ed esige con implacabile durezza; il Petrarca mondano, avido di sensazioni e di divagazione, non può tollerare a lungo lo parole scandi­te e severe del mistico, né può resistere alle attrattive dei volti fem­minili, dai circoli degli amici e dei dotti, dagli applausi dei suoi am­miratori che lo attendono fuori del suo rifugio. Quella Laura, la cui im­magine nella solitudine lo suggestiona, lo invita a uscire fuori affinché possa, magari per un attimo, contemplarla direttamente.

Di qui il continuo alternarsi nella vita del Petrarca di apparizioni nel mondo e di ritiri nella solitudine; sembra quasi che un misterioso istinto lo spinga a compiere con foga trepida e timida il maggior nume­ro di sensazioni possibili, durante le brevi ma intense soste nel mondo; e di nuovo lo spinga nella solitudine per rielaborare in atmosfera di sogno e di suggestione quanto ha captato nelle sue escursioni mondane.

Non possiamo fare a meno di paragonarlo all’ape, che, dopo aver rac­colto il nettare dai fiori, lo elabora nel segreto della sua celletta dividendo così il suo tempo tra il volo e la quiete laboriosa.

Spiritualità idillica.

La cameretta è il normale porto-rifugio del Petrarca in cerca di quiete per meditare e piangere. Ma egli nella sua cameretta non può parla­re che con sé stesso, non può sfogare che piangendo e poetando.

Quando, invece “solo e pensoso i più deserti campi va misurando a pas­si tardi e lenti”, ha la possibilità di parlare con “monti e piagge e fiu­mi e selve”. Egli immagina che la natura ascolti le sue parole, compren­da il suo stato d’animo, compianga le sue pene. Il paesaggio non è solo uno sfondo in cui si muove la figura del poeta, ma è soprattutto un a­mico con il quale il poeta può sfogare il suo cuore. Inoltre, la bellezza delle visioni che si presentano allo sguardo del poeta, esercita un benefico influsso mitigatore delle sue pene; le innumerevoli voci che, come da un coro complesso e delicato, giungono al suo cuore dai ruscell­i, dai verdi margini, dai boschetti, dalle rupi, dagli uccelli, sono voci di amici che lo distraggono e lo invitano a sorridere.

In fine il poeta considera la natura come ispiratrice di immagini soavi e gentili per ornare l’immagine della sua donna. Egli sembra invitare gli alberi, i fiori, le acque a far festa a colei che riassume in sé tutte le più fini bellezze della terra.

Spiritualità estetizzante.

Il Petrarca in tutte le sue espressioni rivela uno studio costante e geniale di signorilità e di grazia.

Non essendo riuscito a conciliare la terra e il cielo in sede teolo­gica ed oggettiva (come vi era riuscito Dante), il Petrarca tenta la con­ciliazione in sede estetica: ossia si sforza di cogliere nella terra gli aspetti più ideali e più graziosi e di sintetizzarli in una visione complessa, armonica e unitaria di bellezza, cosicché il culto della cose terrene troppo in contrasto con le sue aspirazioni soprannatura­li, e la sua coscienza possa in qualche modo rassicurarsi col pensiero, che, in fin dei conti, amando la bellezza pura, non solo non rischia di involgarire, ma è su una strada che può condurre al cielo o almeno non allontana troppo dalla strada del cielo.

A S. Agostino che gli rimprovera l’amore per Laura, egli, per giustifi­carsi risponde che in quell’amor, ha trovato la forza per tenersi lonta­no dalla volgarità in cui suole cadere la maggior parte degli uomini; afferma infatti che egli ha amato nella sua donna solo la bellezza, non altro. Tuttavia S. Agostino gli dimostra che pur rimanendo in un piano puramente estetico, quell’amore è stato eccessivo e quindi ha intenerito la vigoria del vero amore, cioè dell’amore di Dio. Questa eccessività preoc­cupa il Petrarca, tuttavia, come già si è visto, non ha la forza di mo­derarla.

Quasi per attenuare dunque la colpevolezza di questa e eccessività, e­gli si sforza di dare alla terra lo forme ideali del cielo.

Lo sforzo è lodevole, ma i risultati sono insoddisfacenti. Infat­ti, egli non parte dal proposito di mettere in luce i riflessi del cie­lo in una creatura (come li vede Dante in Beatrice), ma dal proposito di rendere la creatura il più possibile uguale al Creatore. E’ così, che nella foga della suggestione e della idealizzazione, gli sfugge, al proposito di Laura, la parola “dea”. Francesco Petrarca è un signore pacato e gentile creatore e adoratore quasi maniaco del bello. Il suo cuore è avido di vita e per lui come per tutte le anime sensibili e delicate, non è possibile la vita senza bellezza e soprattutto senza la com­pagnia affettuosa di una creatura che con la grazia delle forme allieti i sensi e lo spirito e con la comprensione gentile e affettuosa sappia alleviare la pene segrete. E’ per questo che egli in Laura sintetizza il complesso delle perfezioni che rendono piacevole la dimora terrena e riempiono i giorni che pur trascorrono così rapidamente.

Egli non chiede alla sua donna quel che chiedono lo anime volga­ri alle loro amanti, perché troppo aristocratico o troppo gentile è il suo animo per turbare la creatura graziosa vagheggiata dal suo cuore e per smentire, con una impulsività sfrenata, lo stile nitido e fine che si è proposto di eseguire nella vita.

Ma neanche chiede a lei, perché è cosciente di non poterlo chiedere, che lo sollevi alla contemplazione delle altre verità e ispiri a lui la forza per affrontare lo lotte di una vita dinamica e attiva, come pote­va chiedere Dante a Beatrice. Egli vorrebbe, che Laura gli fosse sempre dinanzi perché possa contemplare lo sue forme fini ed eleganti, i suoi capelli d’oro, i suoi occhi innamorati, il suo collo candido come neve, le sue mani morbide e delicate, i suoi gesti delicati, il suo abbigliamen­to di buono gusto, perché possa sentire la sua voce soave esprimente una sola parola d’affetto e sappia che lei comprende le sue pene interiori e anche ammira le sue capacità artistiche.

Non solo il Petrarca idealizza Laura, ma tutto ciò che lo circonda: i paesaggi sono belli; con criteri di nitidezza e di grazia sono composti i suoi ritiri di Valchiusa, Selvapiana, Arquà; fotografata, per co­sì dire, in atteggiamenti è la sua persona che egli contempla nelle po­se più svariate; bello è perfino il guazzabuglio del suo mondo interiore.

Che cos’è  la bellezza per il Petrarca? E’ armonia: armonia di linee se si tratta di bellezza fisica: armonia di pensieri, di affetti, di e­spressioni (armonia della saggezza) se si tratta di bellezze spirituali.

Laura è esemplare di armonia fisica e spirituale. L’armonia risulta dalla proporzione tra i vari fattori che entrano in relazione per costi­tuire una determinata realtà.

Qual’ è  il tono della bellezza vagheggiata dal Petrarca?

E’ il tono fine e elegante. Nella scelta dei fattori da combinare per creare il bello, egli preferisce quelli piacevoli, nitidi, di colore non intenso, ma temperato, di forme levigate e sfumate, non robuste e chias­sose. A lui perciò non piace generare l’armonia mettendo in combinazio­ne anche i fattori brutti, come, nel suo realismo indiscriminato, sole­va fare Dante; e neanche gli piace mettere in combinazione fattori ecces­sivamente vistosi, per colore o grandezza; il tono della sua bellezza è la grazia, che è il risultato di una sapiente combinazione tra finezza ed eleganza. Questo tono di grazia che riesce ad assumere la terra, ras­sicura le anime che come il Petrarca, stanno uscendo dal misticismo medioevale e timidamente si affacciano alle soglie della civiltà edoni­stica del Rinascimento: la grazia non è peccaminosa, non provocante, è soltanto amabile.

Spetterà al Boccaccio il compito di presentare in forme apertamente seducenti le maliziose bellezze della terra e di invitare gli uomini a goderle senza preoccupazioni, essendo Dio lieto che gli uomini usufrui­scano dei suoi doni. Così dalla bellezza luminosa vagheggiata dall’Ali­ghieri si passa alla bellezza graziosa vagheggiata dal Petrarca e a quella seducente vagheggiata dal Boccaccio.

Spiritualità classicheggiante.

Il Petrarca, per rendere più nitida la bellezza che appassionatamente coltiva, si vale dei suggerimenti che gli vengono dal mondo classico romano. I Romani, specie nell’età repubblicana, si erano compiaciuti di uno stile semplice e decoroso, semplicità e decoro nella vita privata e nella vita pubblica, nelle arti e nelle lettere.

Dante, pur ammirando la civiltà romana nel suo complesso, aveva rivol­to in particolare la sua attenzione all’istituto dell’Impero, in cui e­gli aveva visto la conclusione del piano della Provvidenza a vantaggio di tutta l’umanità; e i grandi uomini della storia romana erano stati ammirati da lui quali creazioni dell’impero, cioè di quell’organismo universale in cui Dio aveva deciso di inquadrare le genti umane per pre­pararle a vivere nel più vasto organismo dalla Chiesa. Petrarca degli an­tichi ammira soprattutto lo stile: la saggezza e l’integrità di Fabri­zio, la genialità militare e l’amabile umanesimo di Scipione, il patriot­tismo dei letterati quali Cicerone e Livio, la sicurezza e la invincibi­lità di Cesare.

Lo stile intelligente dei “latini, sangue gentile” a cui egli appar­tiene lo entusiasma in modo che al di là delle Alpi egli non vede che barbari.

Dante ancora fermo ai principi dell’universalismo medioevale vedeva invece in tutti i popoli della Respublica Cristiana i membri rispettabili di un’unica famiglia, né esitava ad invocare l’intervento di “Alberto Tedesco” negli affari d’Italia o a favorire l’opera del grande Arrigo VII.

Nonostante i richiami di Dante l’istituto dell’impero decade definiti­vamente: in Italia pullulano ovunque signorie autonome, e fuori d’Ita­lia i regni si avviano alla rivendicazione della loro sovranità nazio­nale.

Roma, in seguito al trasferimento della sede papale in Avignone, ha perduto ormai ogni funzione universalistica. Il Petrarca appassionato let­tore di Virgilio, di Ovidio, di Cicerone, scrittori coscienti ed entu­siasti della grandezza di Roma si sente in dovere quasi di continuare nell’età moderna la loro missione di interpreti del destino e della grandez­za della gente latina. La cultura classica assume in lui come, già in Dante, la forma di una mentalità vera e propria cioè di un modo di vedere e sentire le cose ben definite e costanti.

Vede l’Italia del suo tempo divisa in svariate signorie continuamen­te in lotta fra loro; Roma abbandonata a sé stessa e vittima delle lotte incessanti fra le famiglie nobili di essa; il “latin sangue gentile” cioè la gente italica, senza fisionomia senza personalità, senza vita, in balia dei barbari mercenari tedeschi. Ebbene, la sua mentalità di so­gnatore alla classica gli fa vagheggiare l’antica Italia repubblicana, unita e guidata da Roma, onorata da uomini attivi e probi.

Vedendo che ormai l’istituto dell’impero non è più salvabile egli pensa ad una ripresa della gente latina (cui la natura ha assegna­to come dimora il “bel paese che Appennin parte e il mar circonda e l’Alpe”) per opera di un re: “questo io ho ben capito, o confesso che alla nostre malattie è necessaria la forza di un re”.

Per quanto lo riguardava personalmente, egli si sforzò sempre di rea­lizzare nella sua vita quello stile di saggezza e di probità civile che ammirava nei personaggi esemplari dell’antica Roma. Preferì usare la lingua latina classica, piuttosto che quella volgare o la lingua lati­na dotta medioevale.

Cicerone, Virgilio, Livio, sono i suoi maestri venerati; e il suo entusiasmo per essi si spinge così innanzi che la coscienza religiosa lo rimprovera di preferire autori pagani alla S. Scrittura e ai grandi pensatori del Cristianesimo.

Coltiva amicizie? Ebbene, egli si compiace di chiamare i suoi amici con i nomi gloriosi di Socrate, Lelio, Simonide.

E il ritiro di Valchiusa? E’ sistemato secondo un gusto squisitamen­te classico: la casetta richiama al poeta quella di Fabrizio. Il tenore della vita che egli conduce in quel grazioso severo romitaggio gli pia­ce perché somiglia a quella di Catone o di Cincinnato.

E’ accorato dalle miserie della vita? Cerca di consolarsi ricorren­do ai motivi della saggezza classica, quell’espressione controllata, quella serietà unita a grazia, lo avvicinano alle nobili figure del circolo degli Scipioni o del circolo di Mecenate ed egli si compiace del suo stile decoroso. A causa di questa signorilità sostenuta, il Pe­trarca non apprezzò, come si conveniva, l’Alighieri, né come poeta, né come uomo: gli era antipatica l’impulsività del grande esule fiorentino; e quanto alla poesia, notava che mentre l’Alighieri aveva preferito lo stile popolare per procurarsi una fama in mezza agli ignoranti, egli preferiva andare in compagnia di Virgilio e di Omero per guadagnarsi la fama presso i dotti.

Spiritualità sincera.

Lo stile delle persone che nelle loro espressioni si controllano troppo, fa talvolta sospettare che sotto di esso si nasconda uno spirito insincero. Anche il Petrarca con quella cura eccessiva di sé stes­so, con quell’aria da signore tutto preciso e lindo, con quel suo in­cessante oscillare tra pentimenti e peccati potrebbe sembrarci un po’ falso. Non è vero; Petrarca ebbe un suo tono particolare, consono alla sua indole e all’indirizzo della sua cultura: cioè un tono sostenuto e aggraziato.

Ma quello che interessa non è il tono, bensì quello che egli dice: e di sé stesso egli  ci ha detto tutto. L’analisi minuta e quasi spietata dei suoi stati d’animo, le sue con­fessioni continue, abbondanti, l’accoramento con cui egli mette in evi­denza lo sue debolezze, sono indizi non dubbi della sua sincerità.

Tutte le sue opere e particolarmente il “Secretum” e il “Canzoniere” possono definirsi “confessioni del Petrarca”: ammesso che nel confessarsi egli trovi un certo compiacimento ed abbia avuto l’intenzione di tra­smettere la sua figura ai posteri come quella del debole ideale, non si può negare che abbia dimostrato un’ammirevole coraggio nel rivelare ai lettori la sua debolezza.

Quali sono i motivi eternamente vivi della spiritualità del Petrarca?

       Il Petrarca è, come si è visto, il poeta della debolezza: è il ti­po del cristiano che vuole e non vuole, che propone e non riesce a mantenere i propositi, che ha coscienza di peccare, si dispiace delle sue colpe, aspira all’Assoluto, ma ha la sensazione, che se si distaccasse decisamente dalle cose terrene, verrebbe a trovarsi in una spe­cie di stato di morte spirituale. Quindi egli è un po’ il poeta di tutti quei cristiani (che sono la maggioranza) i quali aspirano al cielo ed amano la terra, sentono il dispiacere del peccato, ma nello stesso tempo lo amano e ne sentono la forza ineluttabile, si accusa­no o si giustificano, sono convinti che la vita terrena è vana e ca­duca, ma si danno da fare per riempirla con tutte le risorse che può offrire il mondo (bellezza, amore, arte, viaggi, amicizie, sogni, cul­tura).

    Al Petrarca piaceva sentire la vita in sogno, per cogliere più intensamente le risorse della grazia voluttuosa. Questa è un po’ la ten­denza di tutte le anime, essendo l’uomo per natura insoddisfatto del­le cose così come esse sono e tendono a realizzarle nel sogno per trovare in esse qualche traccia di Assoluto.

              In che senso Petrarca è precursore del Rinascimento?

 1.   Nel campo dei rapporti fra natura e soprannatura. Dante aveva convogliato tutte le attività naturali verso il sopranna­turale, al modo di S. Francesco e di S. Tommaso; Petrarca sente che la conciliazione tra natura e soprannatura è impossibile data la de­bolezza umana.

   Il Rinascimento, pur riconoscendo teoricamente e vagamente che la realtà soprannaturale è rispettabile, praticamente non tiene con­to affatto di essa, né se ne preoccupa, anzi si ingegna a dar valore assoluto alle cose terrene e si contenta delle risorse di felicità che esse possono offrire.

   Il Petrarca, dunque,  in questa progressiva discesa dalla soprannatura alla natura si trova a metà strada; sente l’esigenza della soprannatura, sente quella della natura, considera le sue esigenze come legittima­mente imperiose, ma non sa decidersi quale delle due accogliere.

   La terra tanto cara al Rinascimento, benché deplorata dal Petrarca per la sua miseria, tuttavia  è giustificata nella sue attrattive. In­fatti, anzitutto riconosce che tra il cuore umano e le realtà terre­ne c’è un rapporto di simpatia naturale e quindi insopprimibile; e dall’altro lato si compiace di presentare il soprannaturale come trop­po esigente, come rinnegatore di ogni soddisfazione terrena anche legit­tima, cioè si compiace di confondere la religiosità con l’ascetismo intransigente di certi ordini religiosi; ed egli fa questo per con­vincersi che chi vuol essere veramente religioso, non può essere ve­ramente uomo e viceversa: insomma il Petrarca mondano sembra esagera­re le esigenze del Petrarca asceta, per dichiarare l’ascetismo impos­sibile: insomma la esagera le pretese del soprannaturale, la debolezza della natura umana per giustificare le sue incertezze.

   In secondo luogo si sforza di interpretare e di presentare la ter­ra nei suoi aspetti più fini o più gentili, affinché il culto di essa non contrasti troppo apertamente con la sublimità della professione cristiana integrale.

2.  La tendenza che ha il Petrarca di abbellire lo cose e a riviverle esteticamente, prepara la tendenza schiettamente estetica del Rinascimento e si conforma a quello stile di sincerità che nell’età sua si stava affermando in forza del sopravvento di una classe borghese e gaudente e fine e del sorgere delle signorie là dove aveva impera­to la democratica civiltà comunale.

3.  Come i Rinascimentali, così anche il Petrarca imposta e risolve i problemi da un punto di vista più pratico che teorico.

     Egli infatti con questo addio più col cuore che coll’intelletto e il cuore insieme, come avevano fatto S. Tommaso o Dante, vive il contrasto fra natura e soprannatura più da uomo che sente le esigenze del­la natura che da filosofo o da Teologo; imposta il problema politico con mentalità da classicista e non più con mentalità da storico che si sforzi di individuare nella istituzione dell’impero un disegno della Provvidenza a vantaggio della Chiesa.

4. Come i Rinascimentali, egli vagheggia l’armonia classica cioè l’ar­monia chi si ottiene combinando in proporzione fattori belli, cioè austeri e aggraziati nello stesso tempo.

     Egli è il primo esemplare del letterato rinascimentale, cioè del letterato che compone elaborando con cura le forme alla luce dei mo­delli classici, pur senza rinunciare a quella grazia malinconica che è innata nella sua spiritualità e nel suo gusto. Il Petrarca per così dire, è il primo poeta umanista, cioè il primo poeta italiano che, per comporre, ha bisogno di raccogliersi in pacata meditazione, di cir­condarsi di un’atmosfera signorile per sentire la vita al modo sereno ed elegante dei classici.

    Con Dante scompare dalla storia italiana la figura del poeta com­battente e subentra la figura del poeta di studio: figura che durerà fino alla seconda’ metà dell’ottocento.

    Il Petrarca può essere anche considerato come il primo umanista di tipo rinascimentale. L’umanesimo in generale è lo studio e il culto, l’imitazione della civiltà classica, cioè della mentalità, del gu­sto e delle forme di espressione propria dei greci o dei romani.

   La civiltà classica è stata sempre ammirata o tenuta presente co­me modello nel corso della storia italiana: ma col variare delle età e delle tendenze, anche l’umanesimo ha assunto diversi indirizzi.

   C’è un umanesimo medioevale, (di cui S. Tommaso e Dante sono i mas­simi esponenti) caratterizzato dal culto del pensiero o delle isti­tuzioni pubbliche della antica Roma e della Antica Grecia: le forme di espressione della poesia e dell’arte greco-romana, non vengono i­mitate; vagheggiando le particolari forme espressive del tutto ori­ginali e che si chiamano comunemente romanze, cioè ispirate dal gu­sto romano e germanico insieme; l’umanesimo medioevale si propone di mettere in evidenza il contributo arrecato da Roma e dalla Grecia attraverso la filosofia e gli studi politici, alla preparazione del­la civiltà cristiana, cioè della Chiesa.

   Di qui la tendenza degli umanisti medioevali ad interpretare la sto­ria e il pensiero classico in funzione dei principi teologici e mora­li del Cristianesimo e a forzare, per questo fine, il senso oggetti­vo dei fatti storici e delle opere letterarie secondo criteri alle­gorici.

   L’umanesimo rinascimentale è più oggettivo, non avendo bisogno di adattare la civiltà classica alla civiltà cristiana, in quanto ai suoi fini edonistici, ha più valore la prima che la seconda, e, data la sua mentalità mondana, lo interessa più la prima che la seconda.

   L’umanista rinascimentale non ha paura di mettersi a contatto con la civiltà classica, quale essa realmente fu perché lo spirito o le forme di essa appaiono a lui come sublimi o insuperabili. Egli dei Greci e dei Romani accoglie non solo il pensiero e il gusto, ma anche e so­prattutto le forme dell’espressione letteraria e artistica, che con­sidera come le più perfette e degne di essere imitate. Tutto ciò che appartiene al mondo classico (libri, sta­tue, quadri, monumenti, ruderi) tutto è venerato e quasi adorato dall’umanista rinascimentale con una passione che rasenta il fanatismo.

    Il Petrarca è il primo esemplare di umanista di questo tipo.

   Egli venera le opere di Cicerone, Livio, Virgilio; le commenta con po­stille accurate e di buon senso;  rimane estasiato di fronte ai fatti ed ai personaggi della storia italiana-romana; nell’”Africa” si propone di gareggiare con Livio e Virgilio: la sua mente è piena di ricordi classici e il suo stile decoroso di vita e d’arte che ha appreso dagli antichi, costituisce per lui un alto motivo di compiacenza e di superio­rità anche nei confronti dell’Alighieri, che a lui appare umile, popola­re, sretolato.

5.  Il Petrarca è il primo poeta italiano e il primo che ama introdurre nello sviluppo dei motivi psicologici il quadro idillico.

   Si tratta di una natura aggraziata e, per così dire, vicina al cuore del poeta. I Rinascimentali amarono anch’essi svolgere motivi di paesaggio di vita campestre: dal Boccaccio, al Sannazzaro, al Poliziano, al Tasso, alla Arcadia la poesia italiana si compiacerà di paesaggi più o meno floridi, più o meno graziosi, più o meno voluttuosi. Soprattutto il Rinascimento, con quel suo programma di godimento fine, serio e intenso, non si lascia sfuggire le delizie che sotto mille for­me la natura offre all’uomo.

 La forma del Petrarca.

       La forma è in generale il modo con cui l’artista esprime il suo mondo interiore. La forma del Petrarca ha lo seguenti caratteristiche:

a)                 Forma contraddittoria:

essendo il mondo del Petrarca in crisi, é naturale che egli svolga i motivi poetici col procedimento dei contrasti: contrasti fa i membri della stessa composizione, contrasti tra una poesia e l’altra (parlia­mo soprattutto del Canzoniere).

b)                 Forma idealizzata:

gli uomini e le cose non sono riprodotti nella realtà oggettiva, ma nei loro aspetti più significativi, più belli, vengono trascurati gli aspet­ti umili e spiacevoli, mentre vengono potenziati quelli belli e piacevoli. Il criterio di idealizzazione è quello della grazia, cioè del decoro o dell’eleganza: ossia il Petrarca quando vuole potenziare una bellezza, non ricorre come Dante ad annotazioni mistiche e realistiche insieme, ma utilizza fattori piacevoli per decoro ed eleganza.

c)                  Forma armonica:

il Petrarca cura con somma diligenza l’aspetto unitario pur nella varie­tà, e nella contraddizione dei motivi svolti: e l’ottiene questo effetto unitario disponendo e sviluppando i motivi con proporzione, quindi con armonia. La composizione petrarchesca piace soprattutto per il suo pa­cato e ordinato sviluppo, per la sua nitidezza e lucidità; ordine, ni­tidezza, lucidità sono effetti della proporzione e dell’armonia.

Così terminata la lettura di un passo petrarchesco, si riesce a ri­vivere con facilità il complesso dei motivi svolti dall’autore: questa facilità è certo dovuta all’effetto unitario che naturalmente sgorga dalla disposizione armonica.

d)                 Forma sentimentale:

il poeta ama svolgere i suoi temi utilizzando più le voci del cuore che quelle della ragione: egli mira più a commuovere che a persuadere ragio­nando: perciò la sostanza del pensiero nella poesia del Petrarca è mode­sta, mentre la sostanza sentimentale è quanto mai ricca.

e)                 Forma morbida:

il Petrarca ama le tinte sfumate, i contorni aggraziati; i colori mo­derati; egli, infatti, rivive tutto in sogno segreto e pacato, e quindi il reale non può che assumere forma evanescente e toni sommes­si, quali appunto sotto le forme del sogno e i toni di esso.

Le tinte forti nelle descrizioni, le esplosioni clamorose nei momen­ti di alta liricità, le figure scultoree e imponenti, non piacciono a lui che è poeta della grazia.

f)                   Forma analitica:

Il Petrarca è sempre in ascolto del suo cuore: il quadro che egli inces­santemente contempla è quello dalla sua anima travagliata: in esso egli vede susseguirsi, intrecciarsi, confondersi, oscurarsi, rasserenarsi senza sosta gli stessi motivi sentimentali: per capirci qualche cosa, egli ha bisogno di cogliere i singoli fattori, di seguirli nel loro svi­luppo contraddittorio nel loro ripresentarsi sotto aspetti nuovi e leg­germente diversi; di metterli in rapporto fra loro: e tutto questo per comprendere il significato essenziale ed unitario del suo spirito.

E’ chiaro che, per condurre questo lavoro, per così dire di distri­camento delle spirito, egli ha bisogno di procedere con analisi psico­logica minuziosa e paziente.

Per questo il Petrarca è stato definito poeta psicologico, intro­spettivo, meditativo. In forza di questa ispirazione analitica, anche la forma presenta le caratteristiche dello sviluppo per annotazioni parti­colari minuziose, sia nelle descrizioni che negli sfoghi immediati dell’anima.

Non è il caso di chiedere al Petrarca visioni sintetiche e grandio­se: non ne sarebbe capace. A causa di questa analiticità del procedi­mento compositivo, il Petrarca ha dovuto scrivere una infinità di ope­re per dire come è il suo mondo interiore e in particolare le nume­rosissime liriche del Canzoniere sembrano non bastare al poeta per met­tere in chiaro la sua vita intima. E questo avviene perché a svolgere un solo motivo e talvolta di poca importanza il poeta deve utilizzare una lirica; e, per svolgere un motivo complesso e intrinsecamente con­traddittorio ha bisogno di svariate liriche per svolgere tutti gli aspet­ti di esso.

g)                 Forma lirica:

Lirismo in generale è immediatezza di espressione di uno stato d’animo. L’espressione di uno stato d’animo infatti può essere mediata ed imme­diata. E’ mediata quando il poeta incarna il suo pensiero, il suo sen­timento in una scena, in una vicenda o fa pensare, sentire, parlare uno o più personaggi come pensa, sente, parla di lui; è una forma indiret­ta di esprimere il proprio mondo,interiore (poesia narrativa e descrit­tiva). E’ immediata o lirica quando il poeta esprime lui direttamente quel che pensa e quel che sente: in tal caso la descrizione o la nar­razione ha la sola funzione di rendere più chiara, più colorita, più concreta l’espressione lirica.

Il Petrarca è un poeta essenzialmente lirico a causa della sua spiri­tualità tormentata e della sua sensibilità acutissima: per lui la poe­sia è sfogo e chi si sfoga non si perde in descrizioni o narrazioni, ma parla, per così dire, di getto. E’ per questo motivo che il, Petrarca ha fallito come poeta epico nell’“Africa”: l’epica, infatti richiede ca­pacità descrittiva e per di più motivi eroici e di passioni forti; mentre il Petrarca era di tendenza esclusivamente lirica e per di più un lirismo moderato e fine, non robusto, e temprato come quello di Dante e di Pindaro.

h)                 Forma, dialogica:

A facilitare l’espressione immediata dello stato d’animo contribuisce in modo efficacissimo la forma dialogica: infatti, non ci si sfoga che parlando con qualcuno che ci comprenda. Il Petrar­ca parla a sé stesso, ai lettori, alla natura, a Laura, agli angeli, a Dio, ai personaggi illustri del tempo antico e del suo tempo. Per ren­dere più facile il dialogo egli vivifica, e personifica anche le cose inanimate (la cameretta, l’usignolo, le acque del Sorga, gli alberi, la virtù, il vizio, etc.): metodo della personificazione.

i)                   Forma tendente all’artificio:

Non si può negare che l’ispirazione del Petrarca aggirantesi quasi costantemente intorno all’unico motivo della crisi interiore, sia una delle più difficili ad esprimersi, soprattutto perché esige forma minuziosa, complicata e contraddittoria. E’ appunto la minuziosità che fa cadere talvolta il Petrarca nella sottigliezza, cioè nel pro­lungamento di un motivo verso conclusioni strane che hanno solo un tenue rapporto col motivo stesso. E’ la complicatezza che costringe tal­volta il Petrarca a girare e rigirare intorno allo stesso motivo senza dirci nulla di nuovo e facendo anche confusione. E’ la contraddizione dell’ispirazione che induce troppo spesso il Petrarca ad abusare del procedimento per contrasti nel medesimo sonetto; nella medesima canzo­ne, nel distribuire gli sviluppi di uno stesso motivo in diverse liri­che e talvolta nello stesso verso (“pace non trovo e non ho da far guer­ra; l’amaro dolce; il dolce amaro“).

Per essere concreto fa straordinario uso di metafore e di personifi­cazioni: talvolta sono stiracchiate le metafore e le personificazioni sono ridicole (ad es. nella Canzone alla Vergine, il poeta dice: “con le ginocchia della mente inchine”: la mente fornita di ginocchia non è certo una immagine di buon gusto). Similmente la preoccupazione di essere elegante e fine, lo fa diventa­re talvolta lezioso, cioè la fa cadere nella grazia sdolcinata.

Il Petrarca piacque infinitamente a tutti i poeti umanisti nel cor­so dei secoli: dagli umanisti del ‘400 e del ‘500 agli Arcadici del pri­mo ‘700: non solo piacque, ma fu imitato, sorse così il petrarchismo, cioè la mania di imitare il Petrarca. Mancando assolutamente della spi­ritualità del maestro i petrarchisti imitarono la sola forma di lui e quel che è di peggio, della forma imitarono le invenzioni artificiose qua e là disseminate nelle opere. Un difetto del Petrarca strettamente collegato con la minuziosità della sua analisi psicologica è la insistenza o quindi la ripetizione.

Il poeta non sembra mai soddisfatto del modo con cui svolge gli in­numerevoli suoi motivi della sua ispirazione e quindi ritorna talvolta su alcuni di essi per spiegare, per ampliare, cadendo però troppo facil­mente in ripetizioni. Con la minuziosità dello osservazioni, va talvol­ta connesso il difetto dell’elenco. Svariate liriche non sono che veri e propri elenchi delle bellezze di Laura o delle cose a cui egli ha at­taccato il suo cuore: è evidente che, in tali composizioni, la poesia viene meno quasi del tutto, perché l’elenco di per sé manca di unità e quindi di vitalità poetica.

La lingua del Petrarca.

Il Petrarca scrisse tutte le sue opere in lingua latina classica, salvo il “Canzoniere” e i” Trionfi”.

La lingua latina: fino al Petrarca era adoperata dagli eruditi la lingua latina dotta medioevale, la quale era caratterizzata da una co­stante tendenza a rinnovare ed ad accrescere i mezzi di espressione (vocaboli, forme grammaticali e sintattiche) secondo le esigenze del pensiero e ne continua l’evoluzione: era una lingua che per la sua strut­tura generale ricalcava la lingua latina dotta classica, ma nei parti­colari si allontanava da questa assai notevolmente.

Il Petrarca si propose di riportate la lingua latina dotta alle for­me ciceroniane, liviane e virgiliane, essendo persuaso che il solo lati­no fosse quello dei grandi autori dell’età aurea di Roma, e non quello del basso impero o, peggio ancora, dell’età post imperiale o medioeva­le. Egli ignorava che una lingua per essere tale deve essere viva, e che una lingua viva è in continua evoluzione. Come nel campo del pensie­ro politico, della saggezza pratica, delle virtù civili, dello stile formale egli considerò esemplari perfetti solo quelli che offre la re­pubblica di Roma: così fece anche nei riguardi della lingua.

Evidentemente per quanto voglia attenersi alle pure forme dell’età d’oro di Roma, tuttavia si vede costretto a fare uso di forme e di vocaboli nuovi che egli riesce a modellare con ammirevole precisione sul­la lingua esemplare che tiene presente. Si può dire perciò che il Petrarca sia il primo e illustre cultore della lingua classica e che apra degnamente l’epoca dell’umanesimo rinascimentale.

La lingua italiana: Il volgare che adopera il Petrarca fondamentalmente è il dialetto toscano cioè la lingua che aveva adottato l’Alighie­ri. Tuttavia egli evita con cura le forme che hanno troppo di dialetto e sceglie quei vocaboli e quelle costruzioni che maggiormente si avvi­cinano alla lingua latina classica: insomma anche nella lingua egli si dimostra lindo e lucido. Data la complicatezza dell’ispirazione si presentava difficile al Petrarca anche la scelta del linguaggio con cui e­sprimersi; eppure egli è riuscito a trovare per tutti i suoi stati d’a­nimo l’espressione precisa ed efficace. In fine il suo linguaggio ha la caratteristica della spontaneità e della semplicità: egli evita con cura le espressioni complicate e dure essendo costantemente la frase e il periodo con quel ritmo dolce e armonico che caratterizza la pacatezza e la chiarezza del suo mondo interiore. Il suo è il linguaggio del col­loquio sostenuto sempre da una ricca intensità affettiva e abbellito dalle arti espressive di una cultura fine e nobile.

Per questi pregi di lucidità di espressione, di precisione, di spontaneità, di grazia, di nobiltà la lingua del Petrarca appare modello per­fetto e insuperabile al Bembo allorché più tardi agli inizi del ‘500 si propose il problema della lingua italiana.

La lingua che le persone colte italiane, disse il Bembo, debbono adottare nei loro scritti è quella degli autori toscani del ‘300, soprattut­to quella del Petrarca che è la più accurata e la più decorosa.

Il Vocabolario della Crusca che alla fine del ‘500 fu compilato sulla base della teoria del Bembo, accolse tutte le forme linguistiche del Pe­trarca e, siccome, il vocabolario della Crusca per tre secoli ha costi­tuito la parte linguistica delle persone colte italiane si può dire che la sostanza della nostra lingua nazionale sia di impronta petrarchesca.

E’ per questo motivo che noi leggiamo i “Trionfi” e il “Canzoniere” del Petrarca e abbiamo l’impressione di sentire una lingua moderna, cioè assai vicina alla nostra, e quindi facilmente intelligibile, mentre nella lettura delle opere di Dante, che accolse svariate forme dialettali, abbiamo bisogno di ricorrere spesso alle annotazioni.

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