Giovanni Boccaccio dalle lezioni del prof. Mancini don Dino a Fermo

GIOVANNI  BOCCACCIO             (1313-1375)

La spiritualità borghese.

L’Alighieri è il poeta cristiano che preoccupato delle sorti della Respublica Cristiana la quale sta miseramente decadendo e dal punto di vista morale e dal punto di vista politico, lancia all’umanità un grido di allarme e di richiamo simile a  un profeta (e tale egli si stima) a cui Dio abbia affidato il compito di rigenerare la Chiesa e l’Impero.

   Ma il grido dell’Alighieri non trovò alcuna eco: nuove forze lavoravano alla trasformazione della civiltà medioevale mistica in civiltà naturalistica: la forza nuova era costituita dalla classe borghese in cui l’Alighieri individuava la causa della corruzione, delle discordie nelle città (canto VI°). La parte selvaggia è uguale al partito dei Bianchi costituito da mercanti del contado inurbati. Canto XVI°: si fa una distinzione fra le bestie fiesolane immigrate in Firenze e la semenza santa dei Romani. Canto XVI°: “la gente nova e i subiti guadagni – orgoglio a dismisura han generato – Fiorenza in te si che tu già ten piagni”. (Inf.c.XXVI vv.73-75)

    Cacciaguida antenato e trisavolo di Dante parlando della corruzione della Firenze moderna, attribuisce la causa ai mercanti in essa immigrati: “ma la cittadinanza ch’è or mista – di Campi, di Certaldo e di Figghine – pura vedeasi nell’ultimo artista…” (Parad.c.XXVI vv.49-51).  “Sempre la confusione delle persone – principio fu del male della cittade – come’ del corpo il cibo che s’appone”

                               (Parad.c.XXVI vv.67-69).

   La borghesia è una classe attiva, dinamica, avida di vivere e di vivere bene; la sua spiritualità è caratterizzata dalla concezione della vita intesa come attività di guadagno e il principio che permette di guadagnare spregiudicatamente è quello dell’utilitarismo: tutto ciò che è utile è buono. Della vita, intesa come godimento dei beni guadagnati, principio giustificatore è l’edonismo: è buono tutto ciò che è piacevo­le. Della vita intesa come capacità di creare cose belle, principio giu­stificatore è l’estetismo: è buono e prezioso tutto ciò che è bello. Insomma nella concezione borghese la vita è espressione piena, dinamica e spregiudicata di tutte le energie della natura, energie fisiche e spi­rituali. Per realizzare con tranquillità di coscienza questo programma di vita piena e libera, lo spirito borghese sente il bisogno di liberar­si dalle preoccupazioni religiose e morali. Dio non viene negato, ma è concepito più comprensivo e più condiscendente nei confronti degli uomini: egli ha creato la natura umana potenziandola più o meno nei sin­goli individui e ha voluto che i singoli individui esprimano con pienez­za tutte le energie del loro piccolo mondo; quindi Egli non solo non è avversario ad una espressione integrale delle energie della natura, ma si compiace che gli uomini sfruttino e godano i suoi doni. Certo il Dio cristiano ha imposto limitazioni alle espressioni delle energie naturali nel senso che non permette l’uso di esse se non per i beni a cui Egli le ha destinate né permette che ciò che è mezzo diventi fine.

   Ma il borghese acquieta facilmente la sua coscienza. E’ chiaro che impegnare la propria coscienza con la professione religiosa cristiana significa per il borghese accettare limitazione ai propri guadagni e ai propri godimenti; per questo il borghese afferma che la religione vera è quella che ognuno crede vera e che il Cristianesimo vero è quel­lo che appare vero a ciascuno. Il Cristianesimo definito dai preti con norme morali ben definite, con gli incubi dell’oltretomba, non è tale da permettere libertà allo spirito borghese: perciò del cristianesimo si dà quell’interpretazione che si considera più adatta a favorire la espressione libera della propria natura. Tale atteggiamento nei confronti della religione si chiama soggettivismo religioso. Al soggettivismo religioso va strettamente connesso il naturalismo morale il quale ha come principio fondamentale l’affermazione che la natura è buona e che quindi il bene consiste nel seguire la natura; due sole leggi deve os­servare chi segue la natura:

*  La legge dell’utilità: nel seguire gli impulsi non bisogna sacri­ficare il proprio utile.

* La legge della finezza e della eleganza:  nel seguire gli impulsi bisogna evitare la grossolanità.

   La morale naturalistica si può riassumere, dunque, in questi prin­cipi:

a)- Assecondare le esigenze della natura.

b)- Non resistere alla natura,

c)- Chi resiste alla natura pecca e alla fine viene anche egli travol­to dalle

forze della natura.

d)- Nell’assecondare la natura evitare il danno della grossolanità.

   L’intelligenza messa a servizio della utilità, del piacere, della finezza abbandona le speculazioni teoriche della filosofia e della teo­logia e si specializza nelle astuzie e nelle compilazioni elegantemen­te ingegnose. Insomma diventa abilità, capacità di saper fare.

   Cosi secondo la concezione borghese la vita è espressione totale, spregiudicata e serena di tutte le forze della natura (concezione naturalistica della vita). Tale concezione si oppone come è evidente al­la concezione mistica la quale subordina la natura alla soprannatura non per soffocarla ma per disciplinarla ed elevarla. Questa nuova mentalità entrò nel campo della cultura in quanto i borghesi come si è vi­sto erano desiderosi di affinarsi col culto della letteratura; delle arti e delle scienze, quindi entravano in gran numero degli intellettuali apportandovi la loro mentalità; mentre nello stesso tempo veni­va meno in quel mondo il numero degli ecclesiastici per la decadenza del clero dovuta alla schiavitù avignonese e al successivo scisma di Occidente. La decadenza del Sacro Remano Impero contribuì anche essa alla decadenza della spiritualità mistica medioevale e quindi alla affermazione della spiritualità naturalistica. Anche il passaggio dal Comune alla Signoria, cioè da una vita politica in cui il tono della mentalità e dei costumi è definito dal signore che in genere è di ori­gine borghese e adotta lo stile elegante e gaudente ed in fine con­tribuisce alla affermazione della spiritualità naturalistica, anche l’evoluzione generale della civiltà dovuta all’aumento della popolazio­ne, alla migliore organizzazione delle città, nei comuni prima, e nelle signorie dopo, agli accresciuti rapporti fra città e città, fra nazione e nazione: con la conoscenza reciproca le varie popolazioni si influenzano, anche reciprocamente; crescono i bisogni, crescono le iniziative nel campo industriale e commerciale, cresce il benessere  (si mangia meglio, si veste meglio, si parla meglio, si nutre simpa­tia per la cultura e per l’arte, si assume un tono un po’ spregiudica­to nei confronti della religione e della morale).     

   I giovani giudicano i loro padri e i loro nonni arretrati materialmente e spiritualmente, troppo modesti, essi invece sono progressisti e sanno sul serio vivere la vita nella sua pienezza.

   Si afferma così una mentalità più libera più aderente ali interes­si terreni, meno religiosa, più mondana, più disposta a criticare che ad accettare passivamente, più disposto a godere che a far penitenza, più amica degli scherzi che delle meditazioni serie. Espressione fede­le e vivace di questa mentalità è il Boccaccio.

Motivi  della spiritualità boccaccesca.

Concezione della vita.

       Vivere significa assecondare con intelligenza e con finezza le esi­genze della natura per garantite alla nostra esistenza sensazio­ni piacevoli, numerose e stabili il più possibile. La rinuncia ad as­secondare le esigenze naturali anzitutto è dolorosa e in secondo luo­go è impossibile ad attuarsi, e in terzo luogo dispiace a Dio stesso che ci ha donato i beni per facceli godere. Chi vuol vivere secondo la volontà di Dio autore della natura, e vuole garantire a sé la feli­cità, deve sfruttare il più possibile le occasioni che gli si offro­no dalle comodità di godimenti facili e ricchi di soddisfazioni.

   Il fatto che intorno a noi ci siano delle persone che soffrono non deve immalinconirci: il male altrui non deve compromettere la nostra se­renità; del resto se volessimo piangere con coloro che piangono non faremmo che aumentare il numero di coloro che piangono: è bene evita­re il più possibile scene di dolore, ambienti tristi e far del tutto per circondarci di cose e di persone che ci allietino.

   A consolare gli afflitti si dedicano persone speciali, ecceziona­li, degne di rispetto, ma non imitabili; così coloro che non concepi­scono la vita in modo normale possono considerarsi come esonerati dal peso di curare i mali altrui.

   Espressione evidente della vita intesa come piacere, è tutta la produzione letteraria del Boccaccio, salvo quella erudita. Ma il “Decamerone” è certo l’espressione più significativa. Il poeta lo compone per dilettare le donne stanche della vita domestica dichiarando esplicitamente che non vuole destinarlo a quelle che preferisco­no il fuso e l’arcolaio.

   Il gruppo dei dieci novellatori si allontana da Firenze ove infuria la peste, ove si muore, ove tutto ha aspetto funereo, per rifugiarsi in un mondo ricco di salute, di salubrità, di profumi, di belle visua­li, di vivande prelibate, e scegliendo tra le preoccupazioni quella del novellare si allontana sempre più dal mondo dolorante di Firenze, si disperde in un mondo di sogni che attraggono e dilettano.

   Affinché il piacevole incanto reale e fantastico non sia turbato, la brigata da ordine ai servi di non riferire mai notizie relative alla città appestata. Il piacere di cui si parla il Boccaccio non è li­mitato ad una sola specie: tutto ciò che è piacevole costituisce i1 piacere del Boccaccio (quindi piaceri della mensa, piaceri sessuali, piaceri dell’avventura, piaceri dello scherzo …).

   La vita dunque per il Boccaccio è amabile e sereno godimento di ciò che piace.

Concezione morale.

   Il Boccaccio accetta la concezione morale naturalistica che è propria della mentalità borghese e che è già stata illustrata nei suoi prin­cipi. Basterà quindi, esemplificare richiamando le affermazioni più notevoli nelle opere del Boccaccio circa la morale naturale. Il “Nin­fale fiesolano” ha questo significato generale: le ninfe per quanto facciano voto di castità e siano vigilate da Diana, tuttavia non pos­sono resistere all’impulso della natura.

   La legge di Diana e i suoi interventi punitivi generano una tragedia dolorosa: due morti e un bimbo senza genitori. Tale bimbo, frutto di un amore sacrilego, non è affatto l’esemplare di natura perversa (ad es. deformità fisiche o cattiveria d’animo) come potrebbero pensa­re coloro che deprecano l’idillico amore di Mensola e di Africo; ma e un bambino, poi un giovinetto, più bello, più buono e più bravo de­gli altri bambini e giovinetti.

   Nella introduzione alla quarta giornata del Decamerone il Boccaccio giustificandosi di fronte ad alcuni lettori, che avevano scorso le no­velle delle prime tre giornate pubblicate a parte, dell’accusa di es­sere troppo ligio e troppo condiscendente con le donne, racconta una novelletta dalla quale risulta che anche coloro che sono vissuti in ere­mitaggio fin dai primi anni, al primo contatto con il mondo, non pos­sono fare a meno di sentire la forza dell’amore, cioè non possono re­sistere ad una esigenza insopprimibile della natura: i preti, i frati e le monache, nel Decamerone sono spesso presentati come vittime più o meno comiche della forza della natura a cui hanno pur deciso di resi­stere con un proposito della forza del voto di castità. Nella novel­la di Nastagio degli Onesti, si afferma un principio morale del tutto coerente con la mentalità edonistica della borghesia: chi non corrispon­de all’amore va all’Inferno, chi corrisponde si salva. E quindi non è peccato amare ma è peccato non amare.

   Nella novella di frate Cipolla troviamo un certo Cuccio Imbratta che sentendo odor di cucina e pensando che a cucinare vi sia una cuoca, si dirige di filato colà, mosso quasi da un istinto insopprimibile.

   Da molte novelle di avventura nelle quali si svolge il motivo dell’uo­mo che da poverio diventa ricco o riesce a superare gravi rischi e a giungere ad uno stato di felicità, si deduce che la virtù, secondo la con­cezione del Boccaccio, è abilità, cioè saperci fare; saper fare il be­ne come saper fare il male.

   Tutti coloro che si propongono forme di vita impossibili, cioè con­tro natura pur essendo forniti di virtù, tutti gli ipocriti, gli im­broglioni, che vogliono dare ad intendere di essere superiori alle e­sigenze della natura mentre ne sono vittime deplorevoli, dal Boccaccio vengono spassosamente comicizzati. Tuttavia le forme vere e serie della virtù si impongono anche al poeta borghese, e non è raro trovare nelle suo opere accenti di seria ammirazione per qualche espressione di virtù autentica.

   Come si concilia questa ammirazione con la vera concezione morale del Boccaccio, cioè la sua morale naturalistica che in nome della na­tura permette tutto, salvo le norme della prudenza e dell’eleganza?

   E’ evidente da tutte le opere dello scrittore che egli distingue una morale teorica, cioè quella religiosa tradizionale, e una morale pratica, o della vita vissuta. La prima è senza dubbio degna di rispet­to, ma troppo difficile da praticarsi, perché superiore alla capacità umana; la seconda più vicina alle possibilità dell’uomo comune, è più facile e più spigliata: se tutti gli uomini vivessero secondo i precet­ti dalla prima, il mondo si ridurrebbe a un convento di Santi padri nel deserto o a una assemblea di Catoni: è una fortuna perciò che gli uomini comuni considerino la morale della natura come la loro morale: un santo padre o un Catone stanno bene nel mondo come esemplari decorati­vi e come un venerando ammonimento all’umanità birichina.

Concezione religiosa.

   Dio esiste, ha creato la natura e l’ha fornita di energie e vuole che gli uomini le sfruttino completamente per trarne tutte le possibilità di piaceri. Egli è buono, condiscendente  e concede agli uomini l’aiuto per soddisfare le esigenze della loro natura; per cui gli uomini possono rivolgersi a lui anche per chiedere assistenza nella realizzazione di un complicato e difficile adulterio.

   In una novella il Boccaccio ci presenta un certo Pirro che impegnato nella seduzione della moglie di un certo Nicostrato, invoca l’aiuto di Dio per riuscire nel suo intento. E la novella stessa, dopo aver descritto la felice conclusione di quel progetto, si conclude con la frase: ” e Dio ce ne dia anche a noi”.

   Si tratta, dunque, di una divinità ad uso dei borghesi, dei gauden­ti. Come poteva il Boccaccio conciliare questo concetto della divinità con la professione della fede cattolica a cui egli, almeno, esterna­mente, rende omaggio?

Dioneo dopo aver diretto per una giornata la narrazione di novelle oscene, vuole concludere con una novella di cui egli stesso dice che non concorda con ciò che si deve credere; il succo di essa è questo: i peccati di lussuria non entrano nel conto delle responsabilità che noi poveri mortali contraiamo con la giustizia divina: “nel mondo di là delle comari non si tien conto”.

   Nonostante che Dioneo abbia affermato che questo principio è contrario alla fede, tuttavia del personaggio che valendosi di questo principio passa da una lussuria timida ad una lussuria sfrenata si dice che passa dalla ingenuità alla saviezza.

   Sicché per tranquillizzare la sua coscienza di cristiano, il Boc­caccio ricorre ad un interpretazione più blanda e quasi pagana del Cri­stianesimo: si tratta di una interpretazione personale, e il fatto che questi sia in contraddizione con l’interpretazione ufficiale della Chie­sa non lo sgomenta anzitutto perché i preti stessi pur sostenendo a pa­role l’interpretazione della fede cristiana, in pratica soggiacciono a tutte le miserie che a quella interpretazione sono opposte; in secon­do luogo perché non si riuscirà mai a sapere quale delle religioni sia la vera.

   Per ognuno, infatti, è vera la religione che egli professa e che lo soddisfa e lo tranquillizza spiritualmente.

   Significativa a questo proposito è la novella di Melchisedec Giudeo e il Saladino, che manco a farlo apposta, è proprio tra le prime novelle dei Decamerone, quasi ad avvertire il lettore, che se troverà nel libro una mentalità diversa da quella tradizionale del Cristianesi­mo, non dovrà scandalizzarsi, perché quanti sono gli uomini, tante sono le teste e quante sono le teste tante sono le religioni.

   Si afferma così anche nel campo religioso quell’atteggiamento in­dividualistico che raggiungerà la sua massima espressione con la “religione di coscienza” di Lutero.

Martellino ed i suoi due amici commettono una audace scorrettezza in luogo sacro; si tratta di una burla al fanatismo del popolo che giun­ge spesso al ridicolo, ma resta sempre la gravità di aver voluto fare una pagliacciata in chiesa.

   Eppure gli spregiudicati mattacchioni in conclusione ricevono un rega­lino dal signore di Verona. Questi, infatti dalla mentalità larga, e, direbbe il Boccaccio non fanatica, considera il gesto come uno scher­zo spiritoso e, in fin di conti, piacevole e arguto.

   I giudici poi sono rappresentati come cattivi e vendicativi; tra il signore e i giudici il lettore sente simpatia per il primo. Un’altra caratteristica della religiosità borghese è una specie di rispetto esteriore di alcune pratiche non eccessivamente impegnative e nello stesso tempo rivelatrici di un attaccamento alla fede.

   Ad es., in ossequio alla passione del Signore, la compagnia dei no­vellatori si astiene dal raccontare nei giorni venerdì e sabato; ma que­sto ossequio non impedisce che negli altri giorni siano raccontate novelle oscene e immorali, al termine delle quali, in genere, il giovane narratore o la giovane narratrice conclude con esortazione a seguire il principio di vita messo in evidenza nel racconto, anche se esso è contrario alla dottrina cristiana.

   Non mancano certo nel Decamerone qua e là riconoscimenti aperti della santità della nostra religione, ma è presente si può dire ovun­que la voce di una morale naturalistica di ispirazione pagana.

   Talvolta il Boccaccio, mettendo in evidenza i vizi degli ecclesia­stici, ci sembra animato dal desiderio di apportate un contributo di rinnovamento spirituale della Chiesa. Ad esempio nella settima giornata Dioneo, il più spregiudicato dei dieci novellatori, prende lo spunto dal lusso e dalla mondanità di un certo frate Leonardo, per deplorare con tono di persona rammaricata e preoccupata del bene della anime, la corruzione dei frati che, “invece di rassomigliare a colombi rassomigliano a galli con la cresta ritta”.

   Sembra addirittura di sentire Dante Alighieri che nei canti XI, XII, XXII, XVII del Paradiso inveisce aspramente contro la corruzione dei prelati e dei Pontefici per purificarli dai loro vizi.

   Ma il principio che gli ecclesiastici son destinati a soggiacere ai vizi comuni, perché hanno abbracciato un programma insostenibile, è diffusamente commentato in svariati punti del Decamerone.

   Sembrerebbe una contraddizione, ma forse il Boccaccio vuol dire agli Ecclesiastici che se non hanno la forza di mantenere gli impegni pre­si, potevano fare a meno di assumerli, benché data l’assolutezza del­la dottrina naturalistica, nessuno, secondo il Boccaccio, potrebbe e dovrebbe assumerli. Del resto neanche i laici i quali possono unirsi in matrimonio riescono, secondo il Boccaccio a sfuggire alle esigenze di un istinto che non conosce limitazioni. I mariti e le mogli adulte­ri nel Decamerone sono addirittura sovrabbondanti.

  Quindi si può concludere che la satira del Boccaccio contro la corruzione degli ecclesiastici non è vera satira, né è mossa da inten­zioni serie: i vizi dei preti, dei frati e delle monache più che altro sono spunti per intrecciare novelle saporite in cui vengono messi in evidenza le furberie dell’istinto e si deridono le imprudenze e le gros­solanità di coloro che inesperti della vita restano vittime della natu­ra in forme clamorosamente ridicole.

   Un altro motivo riguardante la mentalità religiosa del Boccaccio è quello relativo ai fantasmi e alle superstizioni del popolo. Svariate novelle mettono in ridicolo la dabbenaggine  del volgo o la in­genuità di certi pii religiosi o la  grossolana devozione di certi fra­ticelli allo stato spirituale ancora primitivo.

   Sembrerebbe anche qui che il Boccaccio voglia correggere certe for­me di religiosità materialista; ma l’indulgenza che egli rivela nei con­fronti di certi personaggi che beffano il fanatismo, ci dice che il Boccaccio non ha intenzione di correggere né di disapprovare i mali della vita cristiana, e che ha soltanto intenzione di vivere; il che ci induce a credere che da buon interprete della spiritualità borghese il Boc­caccio fosse fuori da qualsiasi preoccupazione ideale religiosa sia con­formistica che rivoluzionaria.

   Quel che si nota è il desiderio di persuadere i let­tori attraverso buone risate che la vita va vissuta con pienezza e sen­za eccessive preoccupazioni morali o religiose.

Il motivo dell’amore. 

       Il Boccaccio concepisce l’amore generalmente come istinto sessuale e pre­cisamente come il più potente fra gli istinti, come quello che miete più piacevoli vittime; si rivela il più dinamico, il più astuto promo­tore di iniziative e anche spesso il più coraggioso.

   Savio è colui che in giovinezza e finché può non lascia sfuggire al­cuna occasione per fare le più svariate esperienze amorose.

In una novella una vecchia molto devota e che diceva sempre “paterno­stri” consiglia con convinzione quasi religiosa una giovane moglie a non sprecare il tempo concesso dal Signore ed afferma che per i vecchi non v’è pentimento maggiore che quello di aver perduto il tempo.

   L’amore, dunque, attrattiva sensuale sorge spontaneo in tutti gli uomini e in tutte le donne in qualsiasi età e condizioni e chiede alla persona amata non tanto la bellezza spirituale congiunta alla bellezza fisica, angelica o almeno decorosa, ma tutte le malie con cui gli uomi­ni riescono ad innamorare le donne, e le donne riescono ad innamorare gli uomini.

  Fiammetta, simbolo della donna seducente, esemplare perfetto della donna mondana, ha “capelli d’oro e crespi su li candidi e delicati ome­ri ricadenti; ha il viso rotondetto con colore di bianchi gigli e di vermiglie rose mescolate, tutto splendido, e ha in testa due occhi che paion di falcon peregrino, ammaliatori e rapaci”.

   Il poeta l’ha chiamata Fiammetta perché ha simboleggiato in lei la donna che arde e che incendia insinuando il suo fuoco nei cuori con le fini astuzie della femminilità più seducente; non Fiamma perché questo nome non esprimerebbe la grazia e l’agilità e farebbe pensare ad una passione tutta ad un pezzo, ma Fiammetta cioè fiamma volubile, capric­ciosa, maliziosa e birichina.

   Dante invece aveva chiamato la sua donna Beatrice, perché purificava, elevava ed immergeva lo Spirito nella luce e nell’amore di Dio. Petrar­ca aveva chiamato la sua nobile donna Laura poiché donna dell’alloro, ossia donna gloriosa nella maestà della sua grazia; piena d’amore e capace di-suscitare ardore di poesia, quindi desiderio di gloria immortale in cui la contemplava a l’amava.

   Dante chiede a Beatrice che lo innamorasse con la sua purezza, con la sua dolcezza, con la sua umiltà, con i suoi occhi lucenti e il suo color di perla. Il Petrarca aveva chiesto a Laura che lo innamorasse con la vivacità e l’ardore del suo spirito, con la saggezza dei suoi costumi, con l’armonia delle sue forme fisiche, ossia che lo innamorasse con le espressioni più belle dell’eleganza, spirituale e fisica .

Boccaccio chiede alla sua donna che lo ammalii con le sue attratti­ve che la psicologia naturale e l’arte hanno suggerito nel corso dei secoli alla donna per piacere agli uomini.

   Le sfacciate donne fiorentine dell’Alighieri diventano le “graziosis­sime donne” del Boccaccio. In Beatrice si incarna l’ideale della don­na angelica; in Laura l’ideale della donna gentile e innamorata, in Fiam­metta l’ideale della donna piacevole e seducente.

   Beatrice è un dono del cielo alla terra affinché la terra trovi il cam­mino verso Dio. Laura è un prodotto della natura che mette in imbaraz­zo l’uomo che si trova a scegliere fra la terra e il cielo.

   Fiammetta è un dono di un Dio buono e comprensivo agli uomini af­finché ne godano serenamente e pienamente, perciò l’amore è un obbligo sia nella concezione dell’Alighieri sia nella concezione del Boccaccio, ma è evidente l’opposizione tra il significato e il fine dell’amore nella concezione dell’uno e in quella dell’altro: per uno è forza che eleva “gloriosamente” alla contemplazione del vero sommo e al godimen­to dell’amore sommo; per l’altro l’amore è fonte inesauribile di pia­cere concepito come esigenza suprema della esistenza umana, l’amore viene presentata dal Boccaccio come forza indomita che piega tutti i giovani e le giovani, i vecchi e le vecchie, le ninfe, i monaci, e le monache, i preti, gli uomini e le donne sposate, i vedovi, e le vedo­ve. E’ chiaro che i toni e le espressioni di questa forza variano col variare dei soggetti; ora è istinto crudo e quasi animalesco, ora è desiderio di nuove esperienze e di nuove avventure, ora è piacevole di­versivo in una vita senza gioia ora è gentile e patetica ansia di tro­vare un placido e sereno affetto; ora è chiassoso e festoso, ora è occulto, astuto e malignetto, ora è vendicativo e geloso, ora è ingenuo e liberale, raramente l’amore è tragico; per il Boccaccio l’amore è fonte di vita e non di morte; egli sembra quasi impegnato ad insegnare uno stile più generoso ai Cuori umani, a persuaderli che è indegno di una persona civile far soffrire o addirittura spegnere un cuore innamorato per incorrispondenza. Non è degno di una persona che conosca la bellezza e il valore della vita non corrispondere con entusiasmo al gri­do di un cuore innamorato. Il Boccaccio sembra vagheggiare una umani­tà in cui si ama e si è riamati, in cui la convivenza è resa piacevole da vivacità di corrispondenza e da generosità nel cedere ai propri di­ritti; solo la convivenza barbarica, secondo il Boccaccio, è caratte­rizzata da crudeli egoismi, da feroci vendette da gelosie spietate.

Concezione della storia umana.

       Se la vita è espressione piena di tutte le energie della natura e se Dio per così dire, ha caricato di energie ciascun uomo affinché le sfrutti per il suo piacere fino ad esaurirle, è chiaro che la storia umana è osservata dal Boccaccio come un bellissimo e divertentissimo spettacolo di incontri, di scontri, di congiungimenti sempre spigliati e piacevoli delle forze di cui sono forniti i singoli individui allor­ché questi nel giuoco dell’esistenza si incontrano.

   Non si parla nelle opere del Boccaccio di Provvidenza Divina intesa come la intende il Cristianesimo e come la concepisce l’Alighieri (cioè come volontà divina che formula e realizza i piani valendosi della libertà degli uomini per giungere a conclusioni che sfuggono al­le capacità umane), ma di una forza misteriosa chiamata fortuna e crea­ta dal buon Dio per combinare gli incontri e gli scontri, i congiungi­menti e le separazioni dei vari mondi degli individui in modo da gene­rare su questa terra i movimento e varietà sì da perpetuare il gioco del­le forze umane nei secoli.

   La Fortuna mette alla prova l’intelligenza umana, dà occasione a ciascuno di rivelarsi per quel che vale, dà occasione ai cuori di conoscersi: raramente la fortuna del Boccaccio è cattiva e maligna; quasi sem­pre opera con intenzione benefica.    

   Della storia umana, il Boccaccio non coglie le espressioni collettive, cioè le vicende e i destini dei popoli, ma coglie gli individui e il piccolo gioco di forze che operano nei piccoli mondi: più che l’umanità egli studia gli uomini, cioè più che la fisionomia, il destino, le responsabilità e più che l’uomo in genere egli si compiace di osservare i vari tipi individuali; di qui l’assenza quasi completa nelle ope­re del Boccaccio di ideali politici e sociali; di aspirazioni e di iniziative dirette e a sollevare le miserie fisiche e morali dell’umani­tà. Il mondo del Boccaccio per quanto fedele alle vere forme dalla vi­ta vissuta, riproduce solo alcuni aspetti della reale esistenza umana e precisamente il complesso degli aspetti lieti, giocondi gentili, sor­ridenti; doveri famigliari, politici, sociali, misteri che circondano la nostra vita, le tristi smentite nei fatti delle nostre aspirazioni limitate non rientrano nella storia umana che conosce e riproduce il Boccaccio.

Concezione dell’arte.

L’arte, secondo la concezione del Boccaccio consiste nel combinare visioni di vita umana fedeli il più possibile alle forme vere della vi­ta vissuta e nell’atteggiare tutti i vari elementi che le compongono in modo tale che con le loro vivaci espressioni contribuiscono tutti a mettere in luce il motivo in esse incarnato.

   Fedeltà alla varietà psicologica, evidenza e vivacità di atteggia­mento costituiscono i fattori essenziali dell’arte. Il fine, infatti, che il poeta si propone è quello di dilettare se stesso e i lettori con la visione di scene umane che interessino per la loro vivacità, per il gioco di energie che in esse si realizza, per certe conclusioni che possono essere utili a coloro che attendono sagge indicazioni non tanto dalle indagini teoriche, quanto dalle esperienze pratiche.

   Le indagini teoriche sono troppo difficili e lunghe e portano con­clusioni lontane dalle esigenze della vita vissuta. Il poeta perciò viene incontro ai lettori che vogliono imparare a vincere presentando loro le scene più significative del “saper vivere” cioè del saper de­streggiarsi per sfruttare di tutte le occasioni le varie risorse di pia­cere che esse presentano. La prima caratteristica dell’arte dunque è il realismo a cui va aggiunta l’idealizzazione così che la visione poeti­ca risulti vera e tipica nello stesso tempo. Al poeta è necessaria una vasta e intelligente conoscenza dei fatti umani e particolarmente della psicologia caratteristica dei più svariati individui, delle diverse classi, dei diversi ambienti; è necessaria la conoscenza delle inizia­tive in cui sogliono sfociare certe aspirazioni, delle complicate combi­nazioni che sogliono risultare dall’incontro di più mondi individua­li e perfino dei gesti con i quali si esprimono i vari stati d’animo.

   Questa esperienza della vita umana non deve essere complicata con problemi religiosi, morali, politici, filosofici perché anzitutto i problemi teorici appesantiscono la composizione poetica e in secondo luogo non sono necessari; basta ad istruire il lettore la visione stessa della realtà vissuta. Il poeta è maestro di vita non in quanto trasferisce il lettore in un mondo di idee che non saranno mai attuabili nella pra­tica, ma in quanto lo pone di fronte alle forme vere dell’esperienza quo­tidiana la quale lo preoccupa molto di più dei cosiddetti ideali astratti. Realistica, dunque, deve essere la rappresentazione della vita e con il realismo va strettamente congiunta la varietà dei toni e l’a­gilità, la spigliatezza delle scene. La vita come è vagheggiata dal Boc­caccio è tutto moto perpetuo. Siccome però le visioni che il poeta rap­presenta devono rimanere bene impresse nello spirito del lettore e pro­cura dei momenti di svago e di diletto nei quali le immancabili tristezze della vita possono essere dimenticate è necessario caratterizzarle con tanta ricchezza di motivi da presentarle come forme tipiche di e­sistenza. Al realismo dunque va aggiunta l’idealizzazione. Paesaggi di carattere deficiente nel Decamerone appaiono veri e tipici nello stesso tempo, in forza appunto di questa congiunzione dei due motivi: ideali­stico ed idealizzatore. E’ chiaro che se per una buona applicazione del metodo realistico è necessaria una vasta conoscenza delle varie for­me della vita umana, per un buon uso dell’idealizzazione sono necessa­rie: capacità fantastica e buon gusto nella stesso tempo; con la fan­tasia infatti si combinano i vari elementi offerti dalla realtà e dal­la esperienza; col buon gusto si realizza la combinazione con proprie­tà e proporzione.

   E’ proprio questo senso della proporzione, questo stile di buon gusto che fa evitare al Boccaccio l’insistenza su motivi osceni, o schifosi così frequenti nelle sue novelle; per cui le visioni anche le più oscene e le più immorali sono presentate con arguta signorilità così da strappare il sorriso anche alle persone più serie. Il Boccaccio ci fa l’impressione dell’uomo che, arguto ed esperto, con tono sornione, narra calmo e serio, ai lettori che curiosi si addensano intorno, le piacevoli avventure create dalla sua fantasia.

   Egli si propone di i­struirli e di dilettarli; di istruirli attraverso visioni di vita con­creta, cioè attraverso esempi eloquenti del “saper vivere”; di dilettar­li con la presentazione di intrecci interessanti e comici che quasi sempre anche nei casi alquanto drammatici, si concludono con una clamo­rosa risata. Quando è sicuro che il lettore riderà o sorriderà, il Boccaccio è anche sicuro di aver indovinato l’ispirazione e il modo del suo racconto.

   Come il vivere non è indagine intorno ai principi e ai fini della nostra esistenza, ma solo fare, muoversi, combinare qualcosa; così l’arte non è pensosa rielaborazione della realtà umana e non umana, nei quadri e alla luce della filosofia o della religione o della politica, ma riproduzione del vivere stesso nelle sue forme più complete e ottimi­sticamente completate; bensì insomma la vita nell’arte del Boccaccio non colta nei suoi rapporti con la verità esterne né inquadrata nei suoi immutabili destini, ma è riprodotta nel suo farsi, nel suo divenire continuo, ricco di complicazioni sempre nuove e piacevoli.

 

   Sono appunto questa novità e questa piacevolezza e questa concretezza che dilettano il lettore, attraggono il suo interesse e lo migliorano nel senso che lo rendono più esperto del mondo, più uomo insomma.

   La lingua deve seguire le forme della ispirazione, cioè deve adat­tarsi alle diverse tonalità delle scene secondo il loro sviluppo; e sic­come tale sviluppo come si è visto, procede per realismo e idealizza­zione insieme, è evidente che anche la lingua riproduca le forme reali dell’espressione viva con le sue spezzature, con la sua immediatezza, con la sua volgarità, ma si elevi quanto è opportuno alla forma piena e solenne dell’architettura del linguaggio classico di cui il Boccac­cio era espertissimo. Essendo un bravo appassionato cultore della let­teratura latina nella lingua del Boccaccio si fondono mirabilmente in­sieme le forme della sintassi volgare, tutta concretezza e celerità, con quelle delle sintassi dotta, tutta solennità e nobiltà.

Conclusione circa la spiritualità del Boccaccio.

   Il Boccaccio rappresenta la conclusione di un processo spirituale storico che costituì il passaggio dal mondo medioevale al mondo rinasci­mentale. In Dante natura e soprannatura si riguardano amandosi e com­piacendosi a vicenda; l’una apprezzando e lamentando nello stesso tempo le esigenze dell’altra.

   Nel Boccaccio la soprannatura si risolve nella natura in quanto il fine ultimo dell’uomo per volontà stessa di Dio si esaurisce nel godimento dei beni terreni: Dante è eroicamente deciso ad ascendere verso l’alto e a rapire con sé l’appesantita umanità.

   Petrarca è eternamente incerto tra la via del cielo e quelle della terra e chiede pietà e comprensione ai suoi lettori. Il Boccaccio gode spensieratamente gli spettacoli della terra ed è contento e soddisfatto di sé, della vita a dei suoi simili.

Decamerone.

   E’ una raccolta di cento novelle raccontate da un gruppo di sette don­zelle e tre giovani in un meraviglioso ritiro di campagna nel territorio fiorentino, durante la peste del 1348. Le novelle sono incorniciate nel­la giornata che conducono i dieci novellatori; per cui sono frequenti interventi diretti di colui o di colei che racconta, per commentare, per consigliare, per approvare o disapprovare in modo che intorno al piccolo mondo che il narratore o la narratrice presenta sembra di vedere il grup­po dei dieci attento interessato in atto di sorridere e specie al termi­ne di novelle comiche in atto di arguta e clamorosa risata.

   Insomma lo spirito dei novellatori è messo a contatto diretto con quel­lo dei personaggi che vengono presentati. E par di vedere ora approvare e incitare i personaggi, ora far gesti di disapprovazione come di fronte a cose nefande.

Approvano quando i personaggi sono d’accordo con essi nel concetto che la vita deve essere vissuta pienamente, disapprovano quando vedono un pazzerello o una pazzerella che avendo occasione di godere, rifiuta; ridono clamorosamente quando chi si dava le arie di dotto si rivela po­vero uomo come tutti, o quando i furbi la fanno agli sciocchi o i più furbi la fanno ai meno furbi.

   Talvolta il gruppo dei dieci si emoziona per qualche gesto cavallere­sco ricco di gentilezza e di umanità raramente sotto l’incubo di impres­sioni drammatiche, di impressioni tragiche.

   Al termine di ogni giornata si elegge il nuovo re o la nuova regina per il giorno seguente e l’ultimo saluto al giorno che tramonta pare vo­glia essere dato dalla ballata in cui torna di continuo il concetto che la vita é amore e che gode colui soltanto che sa amare e farsi amare. La giornata del grazioso gruppo è organizzata nel modo più intelligente e più piacevole: niente gioco perché provoca tristezza e tensione nervo­sa, ma solo piacevole novellare e giocose passeggiate.

I servi e le serve sono inappuntabili, gustosa e decorosa la mensa, belle le camere e belli i letti, splendidi i giardini e meraviglioso il cli­ma: tutto è bellezza, ordine e spigliatezza. Il fatto poi che il picco­lo regno è sotto la direzione delle donzelle e dei giovani è garanzia di perfetto andamento.

   Ogni donzella si impegna a far bella figura di fronte alle colleghe e specialmente di fronte ai giovani e ciascuno dei giovani ci tiene a far vedere le proprie capacità.

   Ci sono i mattacchioni e le mattacchione un po’ sfrenatelle, con tentenza all’eccesso, ma il poeta ha creato la saggia Pampinea che richiama all’ordine quello sfrenatello di Dioneo e quella scapestratrella Fiammetta. Insomma il poeta ci presenta un mondo pieno di grazia, di vivacità e si correttezza quasi ad indicare a coloro che rimproverano la vita dei mondani che anche lo stile mondano può essere perfetto.

   Il Boccaccio avrebbe ragione se i “piacevoli novellatori” fossero dav­vero corretti: ammettiamo pure che lo spirito dei novellatori sia impec­cabile all’esterno, ma la mentalità è spesso deplorevole.

   Volerli          giustificare dicendo che sono giovani e spensierati significa affermare che certe cose sconvenienti di per sé stesse, non sono sconvenienti per i giovani e, supponiamo, sono sconvenienti per i vecchi.

In conclusione tra il mondo dei novellatori e quello delle novelle c’è dunque un rapporto intimo costituito non solo dalla tensione, dall’attenzione e dall’interesse degli ascoltatori per le scene di vita umana che vengono successivamente presentate, ma da una concezione comu­ne del vivere: sia i personaggi delle novelle che i novellatori, conce­piscono la vita come piena espressione delle energie naturali.

   Del resto è sempre lo stesso Boccaccio che con la sua mentalità e con la sua arte compone sia il mondo dei novellatori che quello delle novelle.

Motivi principali svolti nel Decamerone.

Essendo il Decamerone diretto a divertire ed istruire donne monda­ne, cioè donne che vogliono godere la vita, è chiaro che la maggior parte dei motivi in esse svolti saranno di ispirazione lieta.

Come pure è chiaro che nel Decamerone il Boccaccio ha voluto esprimere la concezione della vita che egli raggiunse nella    maturità e ha voluto raccogliere tutti i motivi che secondo lui illustravano nel modo più chiaro quella concezione.

Non è il caso di ripetete come il Boccaccio concepisce la vita, ci ba­sti solo ripetere che per lui vivere significa godere con misura, con serenità, con arguzia, con spigliatezza. Perciò nel Decamerone vi saranno mo­tivi comici di svariato tono, motivi amorosi pure di tono svariato, motivi avventurosi, raramente motivi drammatici capaci di emozionare:

1)- Motivi comici (comico = capace di destare il riso).

La lieta compagnia dei dieci novellatori si è proposta di stare alle­gra e di passare quindici giornate davvero ideali: il riso fa buon sangue, e quindi essi preferiscono agli altri motivi quello comico, ché perciò nel Decamerone ha uno sviluppo più vasto degli altri.

   Il comico può risultare:

a)- dal contrasto fra lo sciocco e il furbo (le novelle di Calandrino; le novelle che svolgono il motivo della beffa in genere compiuta alle spalle di persone ingenue e ancora primitive).

b)-dall’arguzia e vivacità con le quali certe persone sogliono trar­si di impaccio (Chichibio e la grù).

c)- dal contrasto di ciò che uno si vanta di essere o dovrebbe essere e quello che effettivamente uno è (le novelle che svolgono il motivo della lussuria dei religiosi).

d)- dall’esagerazione di certe posizioni psicologiche che da luogo al ridicolo (sono le novelle assai rare che sviluppano motivi grotteschi).

e)- dal contrasto fra la serenità con cui una persona o un gruppo di persone crede fanaticamente ad una idea e la spensierata allegria con la quale spiriti arguti e bizzarri combinano beffe per mettere in ri­dicolo la stessa idea (ad es. la novella di frate Cipolla e di Ser Ciappelletto e di Martellino).

f)- da certe combinazioni inaspettate e strane, così abilmente conge­gnate dal caso da costituire esemplare di vivacità e di interesse qua­si fiabesco ( le novelle di avventure come quelle di Andreuccio da Perugia e molto congegnate sul motivo della moglie che tradisce il marito).

g)- dalla ingenuità grossolana o ingenuità finta.

h)- dalla sicurezza o dalla vivacità e dalla foga con cui si manifesta­no certi istinti (particolarmente quelle della lussuria), ben noti ai lettori i quali perciò sorridono come di fronte a movimenti che si tenta di frenare, ma scapestratamente rompono qualsiasi forza compres­siva.

2)- Motivi amorosi.

Come già si è visto, l’amore è concepito dal Boccaccio come la forza più vigorosa e travolgente della nostra natura. Egli mette in eviden­za nella maggior parte delle sue novelle:

a)-La istintività di questo moto nella psicologia umana.

b)-La sua capacità di signoreggiare anche sui più riottosi.

c)-Le astuzie che esso riesce a combinare per raggiungere i suoi fini.

d)- Le allegre vendette che esso si suol prendere quando non è corri­sposto o la

      corrispondenza è troppo languida.

e)- Le pazzie che esso induce a fare.

f)-  Il vigore di iniziativa che esso infonde.

3)- Motivi avventurosi.

   Nelle novelle d’avventura l’intreccio in genere è dominato dal caso. Esse servono a mettere in evidenza le risorse dell’intelligenza, dell’astuzia, degli istinti di una persona. In genere la loro conclusione è sempre lieta perché il Boccaccio preferisce presentare piuttosto l’uo­mo che batte la fortuna che non l’uomo battuto dalla fortuna. Esse quindi possono considerarsi come espressione del concetto rinascimen­tale che ciascun uomo è artefice della sua fortuna. Sull’intreccio degli avvenimenti umani non vigila più una provvidenza che premia i buoni e punisce i cattivi, il caso con le sue bizzarrie punisce tutti, buo­ni e cattivi se non sanno approfittare delle occasioni che egli offre. Le novelle d’avventura quindi, non solo mirano a dilettare la fan­tasia del lettore, ma ad infondere in lui fiducia nella vita in quanto gli presentano situazioni intricate e disagevoli che con l’audacia, la destrezza e la furberia possono essere risolte felicemente. Si nota in queste novelle una concezione ottimistica dell’esistenza umana,  uno sforzo di superare la visione triste della realtà con la fi­ducia nelle risorse di cui ciascuno è fornito dalla buona fortuna.

4)- Motivi drammatici.

   Le novelle di ispirazione tragica e drammatica sono assai poche per­ché i novellatori, come si è già detto, preferiscono allietare il lo­ro spirito con visioni allegre e serene piuttosto che affannarlo con visioni che possono destare incubi o generare sfiducia nella vita.

   Molti novellatori, particolarmente dopo il Boccaccio, hanno pre­ferito i motivi tragici, perché questi scuotono e in tal caso il suo intreccio anche senza arte può generare l’interesse di chi legge: il Boccaccio però è veramente artista e ha sempre sdegnato questo metodo di destare l’attenzione con intrecci emozionanti e impressionanti; egli é convinto che l’interesse è generato non dal carattere complicato o dal tono pauroso dell’intreccio, ma dal fatto che ogni lettore ritro­va nella novella un quadro di vita umana in cui rivede o sé stesso o i suoi simili. Quindi il Boccaccio evita i motivi tragici e drammatici per due motivi: perché essi non rientrano nella concezione ottimistica che egli ha della vita, perché egli è alieno dal destare l’interesse con un mezzuc­cio così dozzinale qual è l’intreccio pauroso di cui fanno uso i favo­listi che vogliono terrorizzare i bambini cattivi.

   Il senso che egli ha delle vita e il buon gusto non gli permettono di sfruttare l’orrido come mezzo di effetto. I motivi tragici, dunque, avranno un’altra funzione: quella di porre in cattiva luce i tentativi che persone primitive e incomprensive osano fare per ostacolare il cammino legittimo e sereno dell’amore.

   Infatti le crisi drammatiche sono provocate sempre da persone che o tentano di soffocare gli affetti altrui per egoismo, per un concetto errato dell’autorità, per avarizia (e in genere queste persone sono i famigliari di qualche giovine o di qualche fanciulla innamorata) o da persone che appassionatamente amate intristiscono nei pregiudizi morali, religiosi e sociali e cocciutamente si rifiutano di rispondere all’amore provocando decisioni disperate da parte dell’innamorato. Incomprensione, incorrispondenza, grettezza sono, dunque, per il Boccaccio i motivi delle tragedie della vita; e le novelle che illustrano la responsabilità delle persone di mentalità meschina, ottusa e pedante, mentre deplorano certi metodi del vivere ancora arretrato esaltano la apertura, la liberalità, la giovialità del costume naturalistico.

5)- Motivi sentimentali e cavallereschi.

   Alla concezione edonistica e naturalistica della vita a cui il Boccaccio aderisce debbono ricondursi i motivi sentimentali e cavallere­schi che egli di frequente svolge nelle sue novelle. Infatti cavalleria è gentilezza, generosità, lealtà, liberalità; e tut­te queste doti non solo rendono piacevole la persona che le possiede ma rendono anche bello, sereno e facile l’ambiente in cui esse fioriscono. Ad es. Federico degli Alberighi ama follemente donna Giovanna: questa ama di affetto materno insuperabile il suo bambino. La gentilezza di Federico sacrifica il falcone all’amore della donna e costei esce pietosamente dal suo lutto per rispondere all’amore del suo gentile cavaliere. E’ una vicenda simpatica graziosa e commovente. Una persona sgarbata commette un’imprudenza nei confronti di una per­sona gentile questa pur richiamando l’attenzione dell’imprudente sul­la sua scortesia, tuttavia nel fare il suo rimprovero è così fine e comprensiva che non solo non provoca la reazione del rimproverato ma ne guadagna soavemente il cuore e lo libera da certe forme di scor­rettezza da cui egli forse non si sarebbe mai liberato.

 

In mezzo a personaggi spregiudicati ed avventurieri, ma viziosi ed a­stuti si muovono soavi figure di donzelle e di signore in alone di tri­stezza e di bontà che commuovono il lettore e quasi lo inducono ad es­sere più buono; si muovono gentili uomini, saggi, riservati e prudenti, tutti decoro e compostezza, che non rinunciano affatto alla vita ma sanno viverla dignitosamente e inducono perciò il lettore ad accogliere nella sua vita anche lo stile della signorilità.

   Il Boccaccio, che era vissuto nella corte di Napoli, si era innamorato di tutte le forme più belle e piacevoli della vita; benché tra queste preferisse quelle più spigliate e spregiudicate, tuttavia non si pote­va fare a meno di guardare con compiacenza quello stile di grazia e di affettuosità melanconica che rende così interessanti le donne e quello stile di decoro, di saggezza, che rende così interessanti gli uomini.

Valore estetico del Decamerone.

Alcuni critici, confrontando il Decamerone con la Divina Commedia, lo hanno definito “Commedia umana”, ed hanno ragione. Dante interpreta e giudica la vita alla luce dei principi sacri ed eterni della religione e della morale che superano la vita stessa; il Boccaccio si contenta di osservare la realtà umana nel suo farsi, preferisce ritrarre gli uomini come sono senza preoccuparsi di dire come dovrebbero esse­re: interroga il cuore umano, osserva con interesse gli intrecci delle passioni e si compiace di vedere che nel complesso la vita è un incessan­te irrompere di impulso; un susseguirsi simpatico di piacevoli esperienze. Egli è convinto che l’essere e il dover essere c’è tanta differenza che non vale la pena tentare idealizzazioni superiori, alle possibilità della nostra natura. Il Decamerone è stato definito “Commedia umana” anche perché i personaggi, le vicende, i paesaggi che ritroviamo in esso appartengono alla realtà che sperimentiamo ogni giorno. Sono più vicini a noi, sono più realisti di quelli creati dalla poesia pensosa e dotta dell’Alighieri. Le visioni dell’Alighieri per quanto ben delineate e ricche di significato appartengono, si può dire, ad un mondo straordinario, come straordinaria per la sua solennità, per il suo tono elevato è tutta la Commedia.

   E’ appunto, in questa aderenza alla vita comune, questo realismo argu­to che ci induce a definire umane le visioni del Decamerone.

   Il Decamerone in fine è definito “Commedia umana”, perché in esso tro­viamo i tipi più svariati del’umanità. Si può dire che il Boccaccio abbia passato in rassegna tutte le classi sociali ed abbia colto in ciascuna di esse le forme psicologiche più interessanti e più significative le qua­li insieme costituiscono un quadro complesso e svariatissimo di vita uma­na.

   Bisogna insistere sul concetto che il Decamerone è una specie di gal­leria degli aspetti più vivaci della natura umana; perché è proprio nello sviluppo della psicologia dei personaggi che consiste il fattore più deci­sivo dell’arte ancora primitiva, offre al lettore quasi soltanto l’intreccio più o meno interessante e talvolta più o meno ingenuo.

   Come già si è detto, il Boccaccio sdegna di produrre l’effetto con ar­tificio di intrecci che destino curiosità:  egli è l’interprete della vi­ta, un appassionato osservatore della Commedia umana e quindi si preoccupa di presentare uomini. Egli fa uso dell’intreccio della vicenda solo come di un mezzo per esprimere in modo concreto le sue gioviali visioni umane.

   Molte novelle del Decamerone dal punto di vista dall’intreccio sono ben misera cosa; ad es. Cisti il fornaio, Chichibio e la gru, Guido Cavalcanti e la Compagnia fiorentina; ma se si guarda alla costruzione psicologica di esse, si osserva che lo sviluppo dell’azione e la conclu­sione di essa sono l’espressione naturale di un processo psicologico acu­tamente intuito, e nitidamente delineato, non si può fare a meno di consi­derare queste novelle come veri e propri capolavori.

   Questa precisione di psicologia, queste complessità e naturalezza di rappresentazione delle forme più svariate dello spirito umano, costitui­scono il pregio principale dell’arte boccaccesca: agli inizi della nostra letteratura nessuno mai si sarebbe aspettato una interpretazione così interessante se non profonda della vita umana. Per interpretare bene la vita e rappresentarla con oggettività è necessario superarla; ma il superamento non significa sganciamento dello spirito dell’artista dalla realtà.

   L’oggettività della rappresentazione generata e garantita dalla esperienza matura e intelligente riceve vita dalla passione dello scrit­tore. Abbiamo visto che la psicologia del Boccaccio non ha toni straor­dinari o eroici perché si riduce ad una simpatia cordiale e serena per tutte le espressione più vivaci della naturalità. Precisione psicologi­ca, rappresentazione oggettiva, simpatica adesione del poeta alle sue vi­sioni, sono i fattori essenziali dell’arte del Decamerone.

Opere minori.

Il Filocolo è un romanzo d’avventura amorosa composto dal Boccaccio nel­la prima fase di attività di scrittore, quindi in una fase di inesperien­za. Inesperto com’è della vera arte egli mescola insieme svariati motivi (quello amoroso, quello edonistico, quello autobiografico e anche quel­lo religioso) senza riuscire a fonderli in una visione precisa e chia­ra della vita: fa l’impressione di colui che vuole dire tutto quello che sa senza rendersi conto o meglio senza riuscire a interpretare il si­gnificato del suo mondo fantastico.

Anche la lingua risente della inesperienza giovanile: lo scrittore giovane che non si è formato uno stile proprio, si compiace di riprodur­re le forme linguistiche che sta apprendendo dai libri. Il Boccaccio che in quel tempo studiava classici latini rivela esplicitamente l’intenzio­ne di voler modellare il suo periodo su quello ciceroniano.

Ad ogni modo Filocolo rivela già lo spirito del Boccaccio. Il suo com­piacimento per le belle visioni di vita mondana, il suo desiderio e la sua intenzione di concludere lietamente la vicenda dei suoi due innamo­rati. La presentazione dell’amore come forza irresistibile che spinge all’eroismo, la rappresentazione di una umanità nel complesso assai com­piacente e pietosa verso gli amanti, preludono alla vera spiritualità del Boccaccio matura.

Il Filostrato fu scritto in un momento in cui Fiammetta era assente da Napoli. Il poeta, che conosce la volubilità della sua donna e le possibi­lità che lei ha di guadagnarsi i cuori, teme ed è in ansia.

Perciò in questo poemetto a lei dedicato, vuol dimostrarle quanto sia stata scortese Griseida nei confronti di Troilo e quale tragedia la sua scortesia è stata capace di suscitare. E’  in questo poemetto un   motivo che ritroveremo nella spiritualità matura del Boccaccio. Le vedovelle non resistono all’amore. Sono capaci di passare da un amore all’altro con troppa facilità, facendo sempre le loro cose con la massima segretez­za cosicché i loro tradimenti sono più cocenti. E’ riprodotto    il tipo della donna leggera ed esperta.

Teseide: il concetto fondamentale è questo;  cuore di una donna bella può esser considerato come premio, come conquista dell’uomo valoroso. E’ un concetto un po’  disumano, ed allora il poeta lo corregge introducendo il gesto generoso di Areita.; ed il pietoso intervento, diciamo così, del caso sempre pietoso verso gli amanti, prelude il motivo del Decamerone dell’amore generoso e liberale e del caso benigno agli amanti.

Fiammetta: questo romanzo è forse il migliore fra le opere minori se si eccettua il Ninfale Fiesolano. E’  importante per la riproduzione del­la psicologia femminile.  Inasprita dall’impossibilità di godere della presenza dell’amato, dalla nostalgia dei ricordi lieti, dalle ansie del­la gelosia.  Il poeta pare che si compiaccia di queste torture della don­na perché gli rivelano che lei è innamorata.

L’amorosa visione: in questa opera il Boccaccio si propone di imitare Dante; vuol presentarci Fiammetta, maestra di virtù come Beatrice; vi  so­no due castelli: quello del piacere e quello della virtù: uscito dal castello del piacere mentre sta per avviarsi a quello della virtù un gruppo di vezzose donne attrae la sua attenzione. Tra esse vi è Fiammetta che lo conduce da una parte e così il castello della virtù è dimenticato: infatti il poeta non riesce a considerare la sua donna come puro simbolo e proprio mentre gli sta dando buoni consigli, egli sente ancora l’ardore e l’impulso di una passione ancora terrena. Il Boccaccio non ama i simboli della virtù ama le Fiammette, vive e vere e, quasi scherzando, ci vuol dire che egli non saprà mai essere né un Alighieri, né un Petrarca.

Ninfale D’Ameto è un altro tentativo di presentare l’amore come pro­motore di elevazione spirituale: tentativo fallito anche questo. Il pa­store Ameto si innamora, sì, ma delle Ninfe che sono abbastanza mondanucce e non si innamora affatto di Dio. Del resto Dio, Uno e Trino, è  nientemeno simboleggiato da Venere : “Pasticcio di Giovedì grasso e di Ve­nerdì Santo” direbbe il Manzoni.

Il Ninfale Fiesolano:

Concetti fondamentali:

a)                 All’amore nessuno può resistere neanche una Ninfa.

b)                 Diana col suo costume crudele provoca tragedie e nient’altro.

c)                   Il bimbo che nasce dall’amore sacrilego non è affatto un delinquente, ma un ottimo figliolo, consolazione dei nonni, bello, generoso ed eroi­co fondatore di Fiesole.

Il Corbaccio: in questa opera, il Boccaccio che aveva chiamato dilet­tissime le donne e che si era impegnato a dilettarle con i suoi piace­voli ed istruttivi racconti, prende lo scudiscio in mano e colpisce sde­gnosamente una povera vedova.

E’  cambiata forse la mentalità del poeta? No, certo! E’ noto il suo principio che all’amore bisogna corrispondere e che è da annoverarsi tra gli esseri più rozzi e antipatici chi rifiuta tale corrispondenza. Una vedova ha rifiutato l’amore del poeta e questi allora si impegna a pre­sentarla   come un essere spregevole sotto tutti gli aspetti; ottimo chi ama, pessimo chi non ama.

La lingua del Boccaccio.

Il Boccaccio viene considerato come il creatore della prosa italiana, non perché egli sia stato il primo scrittore, ma perché ha composto un’opera di larghissimo respiro come il Decamerone facendo uso di un lin­guaggio così agile e così solido nello stesso tempo da costituire il primo esemplare della prosa artistica italiana. La prosa del ‘200 risen­te ancora nella sua struttura gli influssi della sintassi in volgare, ca­ratterizzata come è noto, dall’uso costante della coordinazione: è una prosa semplice, quasi infantile, simile a quella che si consiglia ai ragazzi che cominciano a scrivere o non riescono a comporre periodi completi. Dante nella “Vita nova”e nel “Convivio” ci ha dato i primi saggi di una prosa complessa, ma l’impostazione ideale o dotta dell’i­spirazione nelle sue    opere, impedisce al suo linguaggio di articolar­si con varietà essendo costretto a procedere con andatura solenne e mae­stosa. Il Boccaccio, che conosce bene la prosa classica latina ed è espertissimo del dialetto toscano,  come è espertissimo dogli atteggiamen­ti linguistici delle più svariate classi sociali, ci ha dato una prosa che per la complessità e la regolarità dalla struttura del periodo, formato come quello latino, di svariate proposizioni secondarie che illustrano i concetti secondari e con la adesione agile e duttile alle forme del linguaggio vivo, riproduce in pieno quel tono realistico ed elegante nello stesso tempo che abbiamo notato anche nella sua ispirazione. Il Boccaccio, dunque, è considerato come padre della prosa italiana, per­ché egli fu il primo che seppe modellarla secondo le vere esigenze de­gli atteggiamenti spirituali più svariati, conservando sempre una strut­tura solida che ha garantito la logicità e la chiarezza della espressio­ne. Dopo il Boccaccio, nella seconda metà del ‘400 e per tutto il ‘500, molti altri scrittori hanno composto in prosa, ma nessuno di essi ha saputo come lui essere agile e solido nello stesso tempo: la prosa uma­nistica in volgare pecca di sostenutezza, di pomposità eccessiva; è ric­ca di modi dotti e classicheggianti, ma è povera di vivacità e di spi­gliatezza.

Il Bembo agli inizi del ‘500 proporrà la lingua del Boccaccio come lingua ideale per la prosa allo stesso modo che proporrà come lingua ideale per la poesia quella del Petrarca.

Il Vocabolario della Crusca che sarà compilato alla fine di ‘500 rac­coglierà molti modi linguistici del Boccaccio.

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