Giacomo LEOPARDI appunti dalle lezioni del prof. Mancini don Dino a Fermo

GIACOMO LEOPARDI     (1798-1837)

Spiritualità del Leopardi:

Possiamo definirla spiritualità pessimistica.

Che cosa è il pessimismo ? Consiste nel concepire l’esistenza come male. Quindi il pessimismo non è da confondersi con la tristezza, con la malinconia, con la disperazione. Io posso concepire la vita come male e fare del tutto nello stesso tempo per godere fino a quanto dura questo male.

   Il pessimismo è una concezione filosofica, non è un sentimento, e perciò un pessimista può essere di umore allegro e un altro può essere di umore nero.

   Scritti da cui risulta che il Leopardi concepisce le vita come male: ossia è pessimista:

– dallo “Zibaldone”: “tutto è male…..non vi è altro bene che il non essere”.

– dal “Canto di un pastore errante”: “se la vita è sventura perché da noi si dura ? A me la vita è male. Forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è  funesto a chi nasce il dì natale”.

– dall’”Ultimo canto di Saffo”: “ tutto è arcano fuorche il nostro dolor”.

– dalla “Palinodia a Gino Capponi: ”infelice in qualsivoglia tempo, e non pur né civili ordini e modi, ma della vita in tutte l’altre parti, per essenza insanabili, e per legge universale, che terra e cielo abbraccia, ogni nato sana”.

Fasi del pessimismo leopardiano.

1)- Momento del pessimismo personale (1817-1821)

   In questo momento il Leopardi è convinto che la natura abbia destinato lui a soffrire, mentre ha concesso agli altri mortali la possibilità di svaghi e di gioie serene.

   Questa persuasione è chiaramente espressa nelle “Sera del dì di festa”: “l’antica natura onnipossente mi fece all’affanno. A te la speme nego, disse, anche la speme; e d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto”.

   Questo crudele destino egli lo attribuisce alla cattiveria e all’arbitrio della divinità.

Nell’”Ultimo canto di Saffo”, dopo aver deplorato che la natura, la quale ha diffuso e quasi sprecato tanta bellezza nell’universo, l’ha negata soltanto a lei, Saffo si domanda per quale motivo le sia stato inflitto un destino così nero: ha forse lei peccato prima di nascere o quando era ancora bambina, per essere punita con un corpo brutto e con una sensibilità destinata a chiudersi in  “furor d’implacato desio” ?

   Giove ha sbagliato e sbaglia: infatti dà “eterno regno nelle genti ai belli e destina all’oscurità, chiudendole in un corpo disadorno, le anime belle per bontà e per ingegno”: ma Saffo  rimedierà al “crudo  fallo del cieco dispensatori dei casi” con il suicidio.

   Lo stesso concetto è espresso, in forma anche più violenta, nel “Bruto Minore”: Bruto, eroe della libertà repubblicana, disfatto sui campi di Filippi, è costretto a suicidarsi: i sostenitori della tirannide, i cesariani, sono vittoriosi. Dunque Giove difende i malvagi e colpisce i pii: “dunque degli empi siedi, Giove, a tutela ? E quando lanci il fulmine, proprio contro i pii lo scagli ?”. Anche qui si rimedia all’errore e alla cattiveria del destino con il suicidio.

   In “Nozze della sorella Paolina” malinconicamente afferma: “l’empio fato nega agli uomini virtuosi aure soavi e il corrotto costume dei nostri tempi ha posto un contrasto netto tra la virtù e la fortuna”.

   Vediamo brevemente i motivi di questa nera disperazione del giovane Leopardi:

a)- il cattivo stato della salute (nel 1817 fu  sul punto di morire e perdette quasi completamente la vista): ebbe da natura un fisico scadente che fu reso ancora più misero dall’eccessivo lavoro a cui egli lo sottopose nella fanciullezza e nella adolescenza. Un corpo di quel genere proprio a 20 anni si mostrava del tutto incapace a rispondere alle esigenze di un’anima ardente come quella del poeta. Di qui lo sdegno contro la divinità che gli aveva dato un corpo così misero.

b)- la sensibilità di cui lo aveva fornito la natura e che la malattia aveva reso più acuta. Più tardi egli invidierà gli animali i quali, pur soffrendo, non avvertono la loro miseria.

c)- l’inesperienza della vita. Il Leopardi visse la sua adolescenza e la sua giovinezza sempre chiuso nel suo studio e per ciò non ebbe contatti con la vita; e come tutte le persone inesperte egli sognò e sperò assai più di quanto la vita possa dare.

   Le persone che hanno pratica con gli uomini e con gli eventi umani, cioè le persone pratiche, difficilmente si illudono e quindi vanno immuni da delusioni; mentre le persone poco pratiche della vita sono fatalmente destinate a soffrire quando vengono a contatto di essa.

d)- lo studio dei classici. Il Leopardi adolescente aveva conosciuto la vita solo attraversi i libri, e precisamente  attraverso i libri dei classici, nei quali tutto suole essere presentato in forme idealizzate. Egli si era convinto che sul serio all’uomo fosse possibile nella vita realizzare con pienezza il sogno dell’amore, dell’attività e della gloria.

e)- l’influsso degli scrittori dell’Illuminismo enciclopedistico che egli lesse appassionatamente nella adolescenza. Quegli scrittori  gli insegnarono a pensare spregiudicatamente, a guardare in faccia alla dura realtà della vita ridotta a puro fenomeno della materia; e a criticare con linguaggio “aperto e franco” (come dirà nella “Ginestra”) i principi della religione intesi come favole.

f)- le delusioni giovanili.  Il Leopardi avanzò verso la vita con l’animo pieno di sogni mirabili: basta leggere “A Silvia”: “lingua mortal non dice – quel che io sentiva in seno.- Che pensieri soavi, che speranze, che cori ! – Quale allor ci apparia la vita umana e il fato”. Nelle “Ricordanze” che egli giovanetto aveva sognato arcani mondi, arcana felicità per il suo vivere. Egli aveva chiesto troppo alla vita e questa in verità gli aveva dato troppo poco. A venti anni si vede ridotto all’inerzia a causa della cattiva salute e quindi sfuma la speranza di una attività da cui possa trarre decoroso sostentamento e fama.

   Poca comprensione in famiglia, nessuna fuori di famiglia: è reputato orgoglioso ed antipatico dagli estranei, a causa del suo modo di vivere appartato, è trascurato dalla madre impegnata nella cura del patrimonio domestico; è  guardato con sospetto dal padre ai cui occhi di reazionario egli appare come un pazzo rivoluzionario per le sue idee liberali. Non trova affetti da parte di alcuna donna: eppure egli è tanto bisognoso di affetto.

   Ecco cosa trovò appena uscito di adolescenza: lo dirà nelle “Ricordanze”: “né mi diceva il core che l’età verde sarei dannato a consumare in questo natio borgo selvaggio intra una gente zotica e villana…. che mi odia e fugge per invidia non già, che non mi tien maggior di sé…. Qui passo gli anni abbandonato, occulto, senza amor, senza vita; ed aspro a forza tra lo stuol dei malevoli divengo: qui di pietà mi spoglio e di virtudi, e sprezzator degli uomini mi rendo, per la greggia che ho appresso: e intanto vola il caro tempo giovanile; e più caro che la fama e l’allor, più che la pura luce del giorno, e lo spirar: ti perdo senza un diletto, inutilmente, in questo soggiorno disumano, intra gli affanni o dell’arida vita unico fiore”.

   Ben si può dire, dunque, che al Leopardi fu negata la giovinezza: “agli anni miei anco negaro i fati la giovinezza”.

Come Silvia, dopo l’adolescenza si trovò di fronte al vero, cioè di fronte alla fredda morte e ad una tomba ignuda, così anche il Leopardi dopo i grandi sogni dell’adolescenza si sentì invecchiare spiritualmente a causa dell’inaridimento di tutti i suoi ideali.

   “Amore, amore assai lungi volasti dal petto mio, che fu sì caldo un giorno, anzi rovente. Con sua fredda mano lo strinse la sciagura, e in ghiaccio è volto nel fior degli anni”.

   E nel “Sogno” afferma: “giovane son, ma si consuma e perde la giovinezza mia come vecchiezza; la qual pavento, e pur m’è lungi assai, ma poco mdi vecchiezza si discorda il fior dell’età mia”.

   Quel che preoccupa il Leopardi giovane  non è tanto il dolore quanto l noia, cioè l’aridità del cuore, l’inerzia di tutte le facoltà dello spirito per mancanza di emozioni.

Scrive nel 1819 nella lettera al padre: “Ella lasciava per tanti anni un uomo  del mio carattere o a consumarsi affatto in studi micidiali, o a seppellirsi nella più terribile noia e per conseguenza malinconia derivata dalla necessaria solitudine e dalla vita affatto disoccupata….. voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi; tanto più che la noia, madre per me di mortifera malinconia, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo”. E nella canzone “Ad Angelo Mai” afferma: “Men grave e morde il mal che n’addolora del tedio che n’affoga. O te beato, a cui fu vita il pianto ! (si rivolge al Petrarca) . A noi le fasce cinse il fastidio; a noi presso la culla immoto siede, e sulla tomba il nulla”.

       Quali sono le risorse del Leopardi giovane per superare la sua disperazione?

a)-anzitutto la speranza. Nell’idillio “Alla luna” egli afferma che alla distanza di un anno la sua vita è ancora ferma allo stesso punto: i suoi occhi tremolano di pianto come lo scorso anno: “Travagliosa era mia vita: ed è, né cangia stile”; ma il corso dei ricordi, cioè la vita trascorsa, è breve, mentre il corso delle speranze è lungo: può darsi che  vengano giorni migliori.

b)-In secondo luogo egli cerca di evadere con i suoi pensieri e coi suoi affetti dal piccolo e pungente guscio di Recanati: gli riesce talvolta di naufragare nel dolce mare dell’Infinito che egli sa creare nel suo spirito.

c)- In terzo luogo egli segue con passione le vicende politiche dell’età sua. Ha la sensazione di vivere quando si sente provocato dalla miseri morale e politica dei suoi contemporanei e sfoga contro di essi il suo sdegno (In Nozze della sorella Paolina – Sopra il monumento di Dante – Ad Angelo Mai) oppure quando si accende nel suo intimo lo slancio eroico (All’Italia).

   Le composizioni nelle quali è svolto il motivo del pessimismo personale sono le seguenti (L’Ultimo canto di Saffo – Alla luna – La sera del dì di festa – l’Infinito – Il sogno – La vita solitaria – Bruto minore).

2)- Momento del pessimismo storico (1821-1823).

   Varcata la soglia dell’adolescenza, entrato nella giovinezza, il Leopardi si sente spiritualmente invecchiato, si sente oppresso dalla noia. Ripensando alla sua adolescenza egli nota che in quegli anni fortunati era beato perché viveva sotto l’influsso del “possente error”, cioè della illusione. All’apparire del velo le illusioni sono cadute; e la vita che in sé è arida e che si riveste di verde e di fiori solo nel sogno, è apparsa nella sua cruda realtà. Scomparse le illusioni, sono venute meno le emozioni, sono caduti gli entusiasmi, è sottentrata la morte spirituale, cioè la noia.

   Nel “Risorgimento” parlerà di questo passaggio dalla fioritura all’inaridimento del suo spirito: “Mancar gli usati palpiti, l’amor mi venne meno e irrigidito il seno di sospirar cessò: piansi, spogliata  esanime fatta per me la vita; la terra inaridita chiusa in eterno gel…….chiedea l’usate immagini la stanca fantasia…. giacqui: insensato attonito non dimandai conforto: quasi perduto e morto il cor si abbandonò”.

   Neanche il dolore veniva più a scuotere il suo spirito:  “querele e lacrime sparsi al nuovo stato, quando al mio cor gelato, prima il dolor mancò…. fra poco in me anche quell’ultimo dolore fu spento, e di più far lamento valor non mi restò”.

   Ecco in breve riassunto quello stato: “Qual dell’età decrepita l’avanzo ignudo e vile io conducea l’Aprile degli anni miei così”. Venuto meno anche il desiderio di morire: “Desiderato il termine avrei del viver mio; ma spento era il desio nello spossato sen”.

   Ad inaridire la sua vita erano intervenuti ”il fato, la sventura, l’infausta verità”.

   Il Leopardi viene così ad individuare un contrasto insanabile fra sogno e realtà, fra adolescenza e giovinezza, l’età dei sogni e l’età matura, tempo delle esperienze e delle delusioni.

   Citiamo alcuni passi della canzone “Ad Angelo Mai” nella quale è particolarmente espresso questo concetto, che pur si ritrova in quasi tutti i canti. In questa canzone si rivolge ad Angelo Mai, scopritore del “De Republica” di Cicerone: “Tu, o grande – gli dice – stai rinnovando con le tue scoperte l’età rinascimentale, quell’età in cui si scoperse tanto e si sperò tanto; ma quali risultati sono derivati da tali scoperte ? Un solo risultato: la noia”. Il mondo che prima appariva così vasto alla fantasia degli uomini che non lo conoscevano e quindi lo sognavano, è diventato piccolo, piccolo: “Ahi, ahi, ma conosciuto il mondo non cresce, anzi si scema, e assai più vasto l’etra sonante e l’alma terra e il mare al fanciullin, che non al saggio appare”.

   Così è stato spogliato il verde alle cose: “ di vanità, di belle fole e strani pensieri si componea l’umana vita: in bando li cacciamo: or che resta ? …. Ecco tutto è simile, e discoprendo solo il nulla si accresce”. Dirà in uno dei suoi pensieri: “il fanciullo vede il tutto nel nulla, l’adulto vede  il nulla nel tutto”.

   Appena si scopre il mondo sognato, viene meno il sogno, viene meno, quindi, dice il Foscolo “lo spirto” (cioè la forza vitale) della nostra anima: “A noi ti vieta il vero appena è giunto, o caro immaginar; da te s’apparte nostra mente in eterno…. e il conforto perì dei nostri affanni”.

   Il poeta applica questa considerazione relativa al rapporto tra sogno e verità, tra vita piena di opere e felice, e vita spiritualmente decrepita, alla storia dell’umanità.

   Anche le generazioni umane hanno avuto la loro infanzia, la loro adolescenza, la loro giovinezza: in questa età hanno sognato, hanno popolato di divinità benigne i mari, i fiumi, i monti, i boschi ecc. Alla fantasia di quelle generazioni, sembrava tutto vivo: “vissero i fiori e l’erbe, vissero i boschi un dì” (“Alla Primavera”).

   Gli uomini vivevano nello stato originale, stato di naturalità pura, come quella dimostrata dal Rousseau: pensavano poco, ragionavano poco, sognavano soltanto, e il sogno li rendeva felici.

   La natura, che il poeta in questo periodo chiama ancora “santa”, “materna”, “vaga” (“Alla primavera”), ha inventato un mezzo per rendere felici i mortali: il sogno. Ma i mortali hanno procurato a sé stessi una sventura irreparabile, cioè la noia, attraverso le scoperte successive con cui sono venuti a conoscenza del reale. All’età d’oro la cui felicità era garantita dalla inesperienza e dal sogno,  è successa l’età della miseria in cui con la ragione, con la scienza abbiamo inaridito tutto.

   Quel che è peggio è che, a causa del progresso, abbiamo inaridito anche le fonti del vivere ideale, dell’azione magnanima, del culto appassionato delle cose più belle.

Solo chi vive di sogni e di illusioni è capace di azioni grandi; mentre chi ha contratto l’abitudine al ragionamento ed al calcolo freddo, non conosce che il proprio interesse e quindi si lascia condurre solo dall’egoismo. Le generazioni moderne sono morte a qualsiasi affermazione ideale. Ne sono incapaci perché vivono nel vero.

   Di qui la deplorazione dei costumi della società moderna, costante nelle composizioni giovanili del leopardi. Nella canzone “In nozze della sorella Paolina” afferma: “ahi troppo tardi, e nella sera delle umane cose, acquista oggi chi nasce il moto e il senso”: la sera delle umane  cose è la vecchiaia morale dell’umanità.

   Nella canzone “Ad Angelo Mai” afferma:, rivolgendosi ai grandi antichi: “Anime prodi, ai tetti vostri inonorata, immonda plebe successe: di vostre eterne lodi né rossor più né invidia; ozio circonda i monumenti vostri; e di viltade siam fatti esempio alla futura etade”.

   Quando natura parlò ai grandi padri “senza svelarsi” gli italiani erano “sdegnosi d’ozio turpe e nel nostro suolo fervean le opere della civiltà”: oggi “il grande e il raro ha nome di follia…. or di riposo paghi viviamo e scorti da mediocrità”.

  Eco dunque il significato di pessimismo storico: le generazioni moderne sono irrimediabilmente  condannate alla noia e alla miseria morale perché sono nate nella fase decrepita della storia umana e, quindi, sono incapaci di sognare e, quindi, ancora, sono incapaci si sentire e di operare altamente.

   La sostanza di questa meditazione sul pessimismo storico si ritrova nella “Storia del genere umano” (la prima delle operette morali). Giove creò dapprima la terra compatta ed accessibile in tutti i suoi punti: gli uomini la percossero e la scoprirono con estrema facilità e celerità; e così caddero nella noia. Si lamentarono allora con Giove e minacciarono di suicidarsi.  Giove rimpastò la terra: divise le varie zone, disponendo catene di montagne e oceani immensi, onde rendere difficile l’accesso dei mortali ad esso. Ma gli uomini, benché con sacrifici inauditi, riuscirono a scoprire la terra anche questa volta, e ricaddero nella noia con conseguente lamentazione e minaccia di suicidio. Giove, allora, per tener desto lo spirito umano mandò sulla terra alcune bellissime donzelle: (gli ideali della bellezza, dell’amore, della gloria ecc.) con l’ordine di correre sempre, così da non essere raggiunte dai mortali. Anche gli ideali furono guardati con occhio realistico, e da quel giorno perdettero qualsiasi attrattiva. Ma Giove stufo del comportamento degli uomini non trovò alcun altro rimedio alla noia umana: lasciò i mortali nel loro stato. Questo è lo stato degli uomini moderni.

3)- Momento del pessimismo universale (1823-1837).

      Nelle due fasi precedenti della sua meditazione il Leopardi ha concluso che la natura ha destinato al dolore ed alla noia sia lui personalmente sia tutte le generazioni moderne.

   Nel 1826 scriveva così al conte Pepoli: “L’acerbo velo, i ciechi destini investigar delle mortali e delle eterne cose; a che prodotta, a che d’affanni e di miserie carca l’umana stirpe; a quale ultimo intento lei spinga il fato e la natura, a cui tanto dolor diletti e giovi; con quali ordini e leggi; a che si volva questo arcano universo; in questo specular gli ozi traendo verrò”.

   La triste verità

   Conclusione di questa meditazione fu la seguente: “tutto è male; cioè tutto quello che è, è male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male, l’ordine e lo stato delle leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male. Non vi è altro bene che il non essere…Non gli individui solamente ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente, ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto, ma tutti gli esseri al loro modo. Non gli individui, ma la specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi”.

   Per risolvere i problemi che si pone in questa terza fase della sua meditazione il Leopardi si richiama alla filosofia del materialismo enciclopedista: sono stati gli enciclopedisti, infatti, secondo lui, che hanno avuto il coraggio di guardare in faccia alla realtà e dire apertamente il vero.

   Nelle “Ginestra” rimprovera sdegnosamente il suo secolo di aver abbandonato “il calle in sino allora del risorto pensier segnato…. il pensiero solo per cui risorgemmo dalla barbarie in parte e per cui solo si cresce in civiltà… il lume che fe’ palese dell’aspra sorte e del deserto loco che natura ci dié”.

   Ecco in breve i concetti  fondamentali chiarificati in questa terza meditazione (essi sono contenuti in bella sintesi nella operetta morale “Dialogo tra un Irlandese e la natura”).

     Tutta la realtà è materia mossa, incessantemente e secondo leggi  ferree, da una forza interiore. Questa forza, antica e indomabile, spietata e irresistibile, si chiama natura. La natura opera ovunque anche nei luoghi ove nessuno la osserva; e quindi non è vero che essa sia stata incaricata di dare spettacolo di fronte agli uomini per consolarli e per elevarli.

   L’unico compito che lei svolge è quello di conservare tutte le forme della materia, facendole passare incessantemente attraverso perpetui cicli di creazione e di distruzione. Da pianta nasce pianta, da animale nasce animale, da uomo nasce uomo; e siccome ogni pianta, ogni animale, ogni uomo ha un ciclo di esistenza molto breve , per perpetuare la specie vegetale, animale e quella umana, è necessario che la natura rinnovi di continuo le cose: così essa distrugge e crea di continuo ogni cosa, senza posa, unicamente preoccupata di conservare in essere tutte le forme della materia.

   “Tu mostri- dice la natura all’Irlandese – di non aver posto mente che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e  distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo, il quale, sempre che cessasse l’una o l’altra di loro, verrebbe parimenti in dissoluzione. Pertanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento”.

   L’uomo ingranato com’è  nella mastodontica e terribile macchina dell’universo, come tutti gli altri esseri nasce per morire: breve è il suo ciclo e doloroso: “vecchierel bianco, infermo mezzo scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle… corre via, corre anela….. senza posa o ristoro… in fin che arriva colà ove la via e dove il tanto affaticar fu volto: abisso orrido immenso, ov’ei precipitando il tutto oblia”.

   Dopo una vita misera e penosa, dunque, il nulla. Il Leopardi non crede alla immortalità dell’anima. Esplicitamente nello “Zibaldone” dice: “Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà. L’ordine naturale è un cerchio di distruzione e di riproduzione…. il vero fine dalla natura  è la conservazione della specie, e non la conservazione cioè la felicità degli individui”.

   Due illusioni:

a)- L’uomo si illude che la natura e la divinità pensino a lui.

    Questa è la verità: non l’Universo è stato fatto per l’uomo, bensì l’uomo per l’Universo. Eppure gli uomini si illudono che l’Universo sia stato fatto per essi, anzi favoleggiano che gli dei stessi siano scesi in mezzo a loro.

   Nelle “Ginestra” ride amaramente degli uomini che “astuti e folli” (cattolici) tentano di illudere sé stessi e gli altri favoleggiando che la stirpe umana sia stata data “signora e fine a tutto e che in questo oscuro granel di sabbia, il qual di terra ha nome  per cagion degli uomini, scesero gli autori delle universe cose e conversarono sovente e piacevolmente coi mortali”.

   La realtà è ben diversa: “negletta prole nascemmo al pianto e la ragione in grembo ai celesti si posa” (dall’”Ultimo canto di Saffo”).

   Nel “Canto di un pastore errante”, il poeta si domanda a chi giovi l’infinito ed eterno moto dell’universo e risponde così: “Questo io conosce e sento, che degli eterni giri, che dell’esser mio frale, qualche bene o contento avrà altrui; a me la vita è male”.

   Nella “Ginestra” invita colui che “ di esaltar con lodi il nostro stato ha in uso a constatare sulle  pendici del Vesuvio (ove paesi fiorentissimi furono un tempo annientati dalle lave) quanto è il gener nostro in cura all’amante natura”.

   “Non ha natura al seme dell’uomo più stima o cura che alle formiche” (“Ginestra”): come, talvolta, infatti, un laborioso popolo di formiche è schiacciato da un pomo che per eccessiva maturità si stacchi dall’albero, così le popolazioni umane sono travolte, senza riguardo, insieme alle loro opere, da spaventosi cataclismi, spietatamente scatenati dalla natura.

   Non vengano gli scienziati o i teologi a ricordare che nell’universo è tutto ordinato: il poeta risponde che è un “ordine destinato al male”, anche la ghigliottina è una macchina perfetta, ma è nota a tutta la sua spietata funzione.

   L’universo è un immenso pullulare di vite, ma destinate a soffrire, un immenso ospedale, un immenso cimitero; la storia umana è un succedersi incessante di sventure: la natura guarda impassibile questo orribile spettacolo, preoccupata come è di condurre a termine il suo compito: “così dell’uomo ignara ‘sta natura ognor verde.  Caggiono i regni, passan genti e linguaggi: ella non vede”.

   Nel “Dialogo tra Irlandese e la natura”, quest’ultima parla così: “immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra ?  Ora sappi n che nelle fatture degli ordini e nelle operazioni mie sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o alla infelicità…. se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie io  non me ne avvedrei”.

   Questa è la verità: colpevole di tutti i  mali che affliggono l’uomo è la natura “che di mortali madre è di parto e di voler matrigna” (“La ginestra”).

   Anche nel canto “A sé stesso” il poeta fa capire che la vera responsabile di tutti i mali è però la natura: dietro a questa egli pone “il brutto poter che ascoso, a comun danno impera”, cioè la divinità.

   “A chi piace o a chi giova codesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno  e con morte di tutte le cose che lo accompagnano ?” (”Dialogo fra un Iralndese e la natura”). E ci vien fatto di pensare alla ampia affermazione che si ritrova nel “Bruto Minore”: “forse il cielo, i casi acerbi e gli infelici affetti giocondo agli occhio suoi spettacol pose”.

   Così proprio nel tempo che il Manzoni pubblicava “I Promessi Sposi”, in cui è presentata l’opera della Divina Provvidenza nella storia umana, il Leopardi accusava la divinità di aver fatto il mondo “non in servizio degli uomini ma di averlo fatto e ordinato espressamente per tormentarli” (“Dialogo fra un Irlandese e la natura”).

b)- L’uomo si illude di essere eterno.  

   Se gli uomini conoscessero fin dai primi momenti della esistenza la cruda realtà del loro destino, rifiuterebbero sdegnosamente la vita.

“T’ho io forse pregato di pormi in questo universo ?… Di tua volontà e a mia insaputa, tu stessa, con le tue mani, mi vi hai collocato; non è dunque tuo dovere, se non tenermi lieto in questo tuo regno ameno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia ? E questo che dico di me lo dico di tutto il genere umano, lo dico degli altri animali e di ogni creatura” (“Dialogo fra un Irlandese e la natura”).

   Per spingere gli uomini a compiere il piccolo giro della loro vita la natura li gioca con mirabile perfidia.

1)- Anzitutto infonde in essi una insaziabile brama di vita, con la quale li spinge a superare pericoli, malattie che potrebbero distruggere la lor stirpe. Così, pur avendoli condannati a morte, nell’atto stesso di metterli alla vita li abbarbica alla terra. Penserà poi lei stessa a staccarli forse nel momento in cui essi berranno più avidamente la vita.

   I mezzi di cui si serve per inchiodare l’uomo alla esistenza, sono di per sé mirabili: il sogno e la speranza.

   Perché i fanciulli, gli adolescenti e i giovani sognano la bellezza, l’amore, l’attività, la gloria, e sono persuasi di conquistare tutto il mondo ? Perché li illude la natura , la quale ha bisogni di abbarbicarli alla vita, salvo a schiantarli, talvolta, nella pienezza dei sogni , come è avvenuto a Silvia e a Nerina.

   Il sogno, dunque, così bello e così amabile in sé stesso, è un mezzo maligno di cui si vale la perfida natura per giocarci ai suoi fini; e il poeta si dispiace che proprio realtà così belle, quali l’amore, la gloria, la bellezza ecc. debbano servire alla natura per la beffa suprema contro di noi.

2)- In secondo luogo, anche quando le illusioni sono venute meno perché le ha successivamente dissolte tutte la crudezza dell’esperienza, la natura riesce a spingere innanzi giorno per giorno quel nudo tronco che è l’uomo invecchiato, con la speranza.

   Per capire questo concetto basta leggere il “Dialogo fra un rivenditore di almanacchi e un passeggiere”. Il venditore di almanacchi rappresenta l’uomo che per esperienza ha compreso l’impossibilità di un miglioramento del vivere. Secondo il passeggero, infatti, ogni uomo è così carico di pene che nessuno vorrebbe tornare a vivere alcuno degli anni già passati: “Il caso, fino a tutto quest’anno ha trattato tutti male….. nessuno vorrebbe rinasce alla condizione di riavere la vita di prima”. Ma lo stesso passeggero, pur così pessimista e sfiduciato, riconosce che l’uomo è insanabilmente malato di speranza. “ quella vita che è una cosa bella non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura”. E con sorriso malinconico ed ironico insieme conclude:

con l’anno nuovo il caso incomincerà a trattare bene voi, me e tutti gli altri e si principierà la vita felice. Non è vero?” Nell’anno venturo si dirà male anche di questo anno felice.

   Così, nell’impossibilità di farlo felice nel presente, la natura induce l’uomo a rimandare la sua felicità al futuro; e nel futuro, presto o tardi, si troverà di fronte alla tomba, precipitando nella quale, finirà la tragica illusione della vita: ma la natura avrà ottenuto il suo scopo, cioè quello di far vivere, per un certo tempo, una forma della materia.

   Così illusioni e speranze sono mezzi di cui si vale la perfida natura per indurre l’uomo a compiere la sua dolorosa e insignificante funzione di piccolo ingranaggio, nella spaventosa macchina dell’universo.

3)- Infine, la natura, per indurre l’uomo a vivere ha inventato il piacere. Non si tratta di un piacere positivo, bensì di un piacere puramente negativo. La temperatura del dolore è sempre alta; talvolta la natura la fa discendere un pochino, ed allora l’uomo ha la sensazione del piacere. Talvolta la natura è anche più furba e maligna, eleva in modo pauroso la temperatura del dolore in modo che riabbassandola al grado normale, dà al paziente un senso di sollievo.

  “Quindi il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario” (“Zibaldone”).

   E nella “Quiete dopo la tempesta”, parlando del sollievo che si prova dopo aver toccato i limiti della morte a causa del ciclone, afferma: “piacer figlio di affanno; gioia vana che è il frutto del passato timore…. uscir di pena è diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; il duolo spontaneo sorge; e di piacer, quel tanto che per mostro e miracolo talvolta nasce da affanno, è gran guadagno”. E commenta con amarezza: “umana prole cara agli eterni ! Assai felice se respirar ti lice d’alcun dolor: beata se d’ogni dolor morte risana”.

Conclusione.

   Ecco, dunque, il quadro fosco della vita degli uomini e di tutti gli esseri: “l’uomo, e così gli altri animali, non nasce per godere della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedono per conservarla. Né esso, né la vita, né oggetto alcuno di questo mondo è propriamente per lui; ma al contrario esso è tutto per la vita. Spaventevole ma vera proposizione e conclusione di tutta la metafisica”.

   Consegue che la “natura per necessità della legge di distruzione e di riproduzione e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente, regolarmente e perfettamente, persecutrice e nemica mortale di tutti gli individui di ogni specie e genere, che ella dà alla luce” (“Zibaldone”).

   La natura ha diffuso nell’uomo la brama dell’eterno e dell’assoluto; e per saziare questa brama ha creato tutte le cose caduche e finite; così l’uomo è un perpetuo assetato nell’impossibilità assoluta di dissetarsi.

   Ma appunto questa sete lo fa sognare e sperare. Sogni e speranze sono nullità, perché investono cose che non esistono ancora e non esisteranno mai, così l’uomo vive nutrendosi di nulla.

   “Tutti i piaceri sono illusioni e di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita”…..  “il piacere umano non è mai né passato, né presente, ma sempre e solamente futuro, perché non può esserci il piacere  vero e non è infinito e infinito non può mai essere benché ciascuno lo speri”….  “resta che non solo gli uomini e gli animali, ma nessun essere può essere o è felice; e la felicità è di natura sua impossibile, e che l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene ad essere una pura immaginazione degli uomini” (“Zibaldone”).  

Più felici degli uomini sono gli animali, benché anche questi, al loro modo, soffrono. E la ragione della maggiore felicità dell’uomo è nel fatto che questi è cosciente della sua condizione: “l’uomo, anche in natura è bene il più infelice degli animali per il fatto stesso che ha più vita, più forza e sentimento vitale che gli altri viventi” (“Zibaldone”).

   Nel “Canto di un pastore errante” afferma: “o greggia mia che posi, o te beata che la miseria tua, non sai ! Quanta invidia ti porto ! Non sol perché d’affanno quasi libera vai; ma più perché giammai tedio non provi”.

   E nel “Passero solitario” confrontando sé stesso con il “solingo augellin” “tu venuto a sera del viver che daranno a te le stelle, certo del tuo costume non ti dorrai; ché di natura è frutto ogni vostra vaghezza. A me….. quando muti questi occhi all’altrui core, e lor fia voto il mondo, e il dì futuro del dì presente  più noioso e tetro, che parrà di tal voglia ?”

   Tre osservazioni:

1)- Da quanto si è detto appare evidente che il Leopardi, anima sensibilissima fu tormentato, in modo ineffabile dalla sete dell’assoluto. Errò nel pretendere di poter saziare questa sua brama nobilissima con il godimento delle cose terrene, che sono tutte finite.

   L’assoluto è fuori delle cose: è Dio. Ma il Leopardi, aderendo alla filosofia materialistica, era nella impossibilità di giungere al vero assoluto.

2)- Da quanto si è detto, specie nei riguardi del pessimismo,  potrebbe apparire che il Leopardi sia stato avverso al progresso.

   Ecco ciò che dice egli stesso nei riguardi di questo problema: “io dimostro che l’uomo essendo perfetto in natura, quanto più si allontana da lei più cresce l’infelicità sua; nessuno stato sociale può farci felici, anzi tanto più ci fa miseri, quanto più con la pretesa sua perfezione ci allontana dalla natura… l’antico stato sociale stimato dagli altri imperfettissimo e da me perfetto, era meno infelice del moderno… so bene anche io che le antiche repubbliche che erano soggette a molte calamità, a molti mali, ma in proporzione erano molto più felici gli antichi; perché non conoscendo la natura vivevano a contatto di essa e si lasciavano suggestionare dai suoi sogni” (“Zibaldone”).

   Ecco dunque un punto fermo nella concezione leopardiana: l’uomo naturale è più felice dell’uomo reso più sensibile, più esigente, più realista, più incontentabile dal progresso.

   L’uomo evoluto sente di più l’amor proprio “l’amor proprio è primissimo ed essenziale principio e perno di tutta la macchina naturale… dato all’uomo l’amor proprio, la natura non ebbe da fare altro” (“Zibaldone”)

   L’amor proprio è fonte di azione, ma facilmente degenera in egoismo. L’amor proprio è naturale e quindi solo gli uomini nello stato di natura  lo sentono fortemente e da esso vengono spinti ad operare decorosamente. Nell’uomo che esce dallo stato di natura, in forza del cosiddetto progresso, viene meno l’amor proprio e si afferma l’egoismo, il quale non è affatto causa di progresso.

   Perciò il Leopardi sostiene che il vero progresso non è quello che ci allontana dallo stato di natura, bensì quello che utilizza simultaneamente il vigore della psicologia umana naturale e le forze del mondo fisico naturale: così la scoperta scientifica, che è affermazione sulla natura, riceve valore dall’uomo che rimane nella sua sanità primitiva.

   In un secondo luogo è da tener presente che il Leopardi concepì la vita umana come lotta contro la natura matrigna; e la società umana come organizzazione spontanea degli individui per resistere ai colossali attacchi della natura stessa.

   La natura aggredisce individui e popoli con malattie, con cataclismi ecc.: gli uomini realizzano il progresso scoprendo mezzi per respingere gli attacchi dell’avversario. A questo proposito, nella “Ginestra, parlando alla natura così dice: “Costei chiama nemica; e incontro a questa tutti confederati stima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, porgendo valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune”.

   E’ un bando di crociata contro i mali con cui la natura tormenta gli uomini; e quindi si tratta di una crociata di progresso.

3)- Ebbe il Leopardi una vera e propria filosofia ?

Molti dicono che Leopardi non fu filosofo.

Bisogna intendersi: non inventò un sistema filosofico originale, ma ebbe una concezione  organica e giustificata del reale.

   Fu un pensatore sistematico e quindi fu un filosofo. Sentiamo lui stesso: “nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia e i miei versi erano pieni di immagini…… Io ero bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapevo. Non avevo ancora meditato intorno alle cose e della filosofia non avevo un barlume.  La mutazione totale in me e il passaggio dallo stato antico al moderno seguì si può dire dentro un anno cioè nel 1819 dove, privato dell’uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, a riflettere profondamente sopra le cose…. a divenir filosofo di professione da poeta che io era” (”Zibaldone”).

   I concetti svolti nella terza fase della meditazione leopardiana si ritrovano nelle “Operette morali” e nei “Pensieri” composti dal 1823 al 1827. In questo  primo periodo il Leopardi avvertiva l’impossibilità di poetare, essendosi in lui inaridita la fantasia ed essendo ancora confuso il suo stato d’animo.

    Era necessaria una chiarificazione filosofica del suo pensiero; e in seguito a questa anche il suo sentimento si sarebbe rinvigorito; il Leopardi è un poeta pensatore, nel senso che in lui i sentimenti sgorgano dalle convinzioni, come era avvenuto per Dante, per Petrarca, per Foscolo, per Parini e come, al suo tempo, si verificava per il Manzoni.

   La chiarificazione filosofica si ritrova appunto nelle due opere in prosa citate. In modo più chiaro e talvolta più crudo gli stessi concetti contenuti nelle “Operette morali” e nei “Pensieri”, si ritrovano nello “Zibaldone”, cioè in una raccolta di appunti sparsi, ordinata dall’autore stesso  e pubblicata dopo la morte di lui (sono appunti cominciati nel 1817 e condotti fino al 1832.

Motivi della poesia leopardiana dopi il 1827.

   Il periodo 1823-1827 viene chiamato anche periodo apoetico dell’attività artistica del Leopardi, nel senso che durante quegli anni non compose versi.

   Tuttavia è da notare che le “Operette” e i “Pensieri” hanno anche essi la  loro poesia. La lirica risorge con l’anno 1828. La ripresa è segnata da una canzonetta metastasiana intitolata “Il Risorgimento” in cui il poeta, ristorato dal clima di Pisa, afferma che, dopo una fase di aridità e di morte spirituale, sente finalmente risorgere in sé stesso il dolore, le emozioni, la vita sentimentale insomma.

   Dal 1828 al 1837 il poeta compone le liriche più potenti di tutta la sua produzione: dalle “Ricordanze” al “Tramonto della luna”.

   Questo periodo si può dividere in tre fasi a seconda dei luoghi in cui egli dimorò: fase recanatese (1829-30) – fase fiorentina (1830-33) -fase partenopea (1833-37).

   I motivi più importanti che ricorrono in questa produzione sono i seguenti:

a)- Il senso della miseria dell’Universo fermamente disciplinato dalla natura e ripieno di una infinità di esseri che vengo alla esistenza con una bramosa sete di vita e che, dopo un breve e dolorosissimo corso, precipitano di nuovo nel nulla.

b)- il senso della pietà per tutte le creature, particolarmente per l’uomo e tra gli uomini particolarmente per i giovani stroncati dalla natura nel pieno verdeggiare e fiorire dei loro sogni (Silvia e Nerina).

   Il Leopardi, in questo periodo, è costantemente col suo spirito di fronte all’universo; una profonda pietà lo accora; e sensibile come è  si avvicina a tutte le creature per consolarle affettuosamente della loro infelicità.

   In tutte le liriche, dal 1828 al 1837, lo vediamo solitario, di fronte allo spettacolo tragico dell’universo frustato dalla natura, con lo sguardo attento, col tono accorato, con l’ansia di far pervenire alle creature, specie alle più piccole, la sua parola di affetto e di pietà.

c)- Il senso dello sdegno contro la natura ed il destino, responsabili di aver strutturato  un universo così infelice e riprovevole per la loro insensibilità e crudeltà. Allorché il suo occhio trepido, nella miseria generale, scorge una visione più angosciosa, egli si sente ribollire nell’intimo una specie di furore contro la natura.

   Egli sa che il suo grido è  vano, però nel protestare e nel denunciare a tutti la nostra miseria e la malignità della natura, sembra trovare un conforto: anzi nella protesta e nella denuncia egli crede che consista la sua missione come pensatore e come poeta: “nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato e con franca lingua, nulla al verde traendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte…. e del suo dolor dà la colpa a quella che veramente è rea, che dei mortali madre è di parto e di voler matrigna” (“La ginestra”).

d)- Il senso dell’isolamento.  Il Leopardi si compiace di appartarsi dagli uomini che, pur nella reale miseria, vivono beatamente i loro poveri giorni.

   Perché questo isolamento ?

– Anzitutto esso non è generato da misantropia, bensì da una specie di istinto spirituale: nel Leopardi è nata la tendenza alla meditazione più che alla azione, e senza isolamento non è possibile il raccoglimento.

– In secondo luogo, una volta creato lo stato di isolamento, il poeta può avere innanzi a sé non questa o quella realtà soltanto,ma tutto il reale. Come nell’”Infinito” la siepe che esclude lo sguardo dal mondo sensibile, facilita l’evasione dello spirito negli spazi interminati e silenziosi dell’infinito, in cui è dolce all’anima naufragare, così la separazione dagli uomini e dalle cose, permette al poeta di osservare l’universo nella sua totalità e di riflettere su di esso.

– In terzo luogo, nella solitudine, è più facile al poeta sentire la miseria sua e quella di tutti i mortali, è più facile emozionarsi; e soprattutto egli sente l’ansia di venire a contatto affettuoso e intimo con le creature più infelici e quindi più vicine al suo cuore. Nella solitudine, infatti, ritornano le immagini più care e commoventi (Silvia Nerina, il passero solitario, la ginestra…) e i ricordi più significativi di una vita ingannata dalla natura (ad esempio: “Le Ricordanze”).

   Infine la solitudine gli permette di impostare la sua poesia nella forma del colloquio, forma che è la più adatta ad esprimere lo stato d’animo meditativo.

e)- Il bisogno di tenere occupato lo spirito per evitare la noia. Il cuore umano ha bisogno di nutrirsi sempre di qualche cosa. Veramente il suo nutrimento naturale dovrebbe essere l’Assoluto, a cui aspira bramosamente; ma essendo impossibile all’uomo raggiungere l’Assoluto, vale la pena distrarre il cuore  con la contemplazione di certe entità le quali hanno una straordinaria forza di suggestione: tali entità sono i sogni e i ricordi.

   Si può dire che la poesia del Leopardi sia la poesia di ciò che non è: il sogno è una creazione dell’anima che spera ciò che non è e forse non sarà mai; il ricordo è l’immagine di ciò che fu ed ora non è più. E doveva essere così: infatti ciò che è il reale sperimentato, si identifica con il vero; ed il vero è di per sé arido, incapace di emozionare.

f)- L’esaltazione della giovinezza come l’età dei sogni e quindi di intensa attività spirituale, e la deplorazione della vecchiaia come l’età dell’inerzia del cuore.

g)- La deplorazione del nostro stato di coscienza, in opposizione alla incoscienza degli animali. A questi, infatti, è concesso soffrire senza che se ne accorgano, e chiudere una esistenza misera senza rimpianti.

   Il passero solitario sciupa il tempo più bello della sua vita, ma “giunto a sera del vivere che daranno a lui le stelle, certo del suo costume non si dorrà”; ma il poeta si pentirà, e spesso, ma consolato, si volgerà indietro a rimpiangere lo sciupio dei beati giorni  della giovinezza.

h)- Infine, dopo la delusione seguita all’amore per la Targioni Tozzetti, il Leopardi accoglie un motivo che lo avvicina molto allo Schopenhaurer: lo sradicamento di ogni desiderio, l’accettazione dell’inerzia totale dello spirito, per evitare una buona volta di cadere vittima delle illusioni di cui lo pasce perfidamente la natura: “Or poserai per sempre stanco mio cor…In noi di cari inganni, non che la speme, il desiderio è spento…. Amaro e noia la vita, altro mai nulla…. Dispera l’ultima volta” (“A sé stesso”).

Motivi pessimistici nella spiritualità della generazione contemporanea al Leopardi.

   E’ stato detto che il secolo XIX soffrì della malattia della tristezza: il senso del dolore fu definito “Le mal du siècle”.

   Gli scrittori evidentemente sono stati gli interpreti e e più sensibili di questa spiritualità dolorosa.

   Vediamo le cause di questo stato d’animo diffusissimo nel secolo XIX, specie nella sua prima metà:

1)- Con l’Illuminismo la cultura esce dalle accademie  e prende contatto diretto con la vita. Mano mano che ci si avvicina all’età nostra si nota nella storia si questi due ultimi secoli, una vigorosa tendenza a prendere contatto sempre più diretto e veristico con la realtà: i veli della fantasia, della metafisica, della teologia, vengono eliminati, affinché sia possibile cogliere nelle cose quel che c’è e solo quello che c’è. Così gli ideologi del materialismo (Cabanis, Mattrie, Contorcet), alla fine del ‘700 , vedevano nell’uomo solo energia fisica e chimica; e negavano l’esistenza di Dio, l’Inferno, il Paradiso.

   Questo metodo spregiudicato di indagine piacque anche a coloro i quali non aderivano affatto alla ideologia materialistica: esso applicato alla vita portò a sgrondarla di ogni illusione e a vederla nella sua realtà: e nella sua realtà la vita è sofferenza.

   Di ciò si resero conto il Foscolo, Manzoni, il Leopardi, i quali aderirono al nuovo indirizzo culturale sostanziato di realismo. Dei tre il più spregiudicato è certo il Leopardi (basta leggere il “Bruto Minore” e “La ginestra”).

   L’indirizzo pratico, dunque, della cultura induce a cogliere nella vita i fenomeni reali; e tra i fenomeni reali quello più evidente è quello del dolore.

2)- La crisi generata dalla visone della realtà tale e quale veniva interpretata dalla ideologia materialistica e dalla reazione del cuore, che a quella visione non si adattava. Chi, come il Manzoni, riuscì a superare la crisi trovando l’Assoluto in Dio, insistette sul dolore umano, ma riuscì ad interpretarlo con un senso di sicurezza e di fiducia; chi, invece, come il Foscolo ed il Leopardi non aderì alla fede religiosa, interpretò il motivo della sofferenza con un senso di disperazione e di ribellione.

3)- La situazione storica della fine del secolo XVIII e agli inizi del secolo XIX.

Fu questa una età di grandi illusioni e di grandi delusioni. Con gli ideali di libertà, di uguaglianza, di fraternità, il giacobinismo illuse ed ingabbiò quasi tutti i popoli d’Europa. La reazione promise pace, libertà e progresso ai popoli durante la lotta contro il Bonaparte; ma una volta raggiunti i loro scopi,  i principi soffocarono nel sangue ogni aspirazione alla libertà (ricordare le aspirazioni dei moti liberali).

   Meditando su questi fatti alcuni spiriti superiori trassero la seguente conclusione: i cultori dell’ideale sono e saranno sempre dei poveri illusi, destinati a soffrire moralmente e materialmente; gli spregiudicati, i furfanti, avranno sempre la vittoria.

   Di chi la colpa di questa situazione ? Educati alla spregiudicatezza ed alla bestemmia dagli scrittori francesi, molti attribuirono la colpa di tutto alla provvidenza. Fra questi fu anche il Leopardi (confronta “Bruto Minore”).

La poesia del Leopardi.

   Leopardi definisce la sua poesia “poesia di sentimento”: “da principio il mio forte era la fantasia e i miei versi erano pieni di immagini….  io ero bensì sensibilissimo agli affetti, ma non sapevo esprimerli in poesia… nel 1819, privato dell’uso della vista e della distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso…. a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla…. allora l’immaginazione in me fu sommamente infiacchita; se io mi mettevo a fare versi, le immagini mi venivano a sommo stento, ma quei versi traboccavano di sentimento” (dallo “Zibaldone”).

   Il Leopardi, seguendo le orme del Vico, in un promo tempo, credette che poeta fosse chi pensa per immagini. In un secondo tempo egli avvertì che era poeta perché pensava attraverso il cuore. Questo è il senso del passo ora citato.

   Poesia di sentimento, dunque, quella del Leopardi, cioè una poesia che esprime uno stato d’animo commosso, generato da profonde intuizioni dell’intelletto. Non si tratta perciò di sentimentalismo: questo è sentimento creato artificialmente, di proposito e con sforzo; mentre il sentimento è frutto di profonde convinzioni.

   Il Leopardi, dunque è un poeta pensatore allo stesso modo dell’Alighieri, del Foscolo e del Manzoni.

Lo stile del Leopardi.

   Quale è la forma più adatta per comporre poesia di sentimento ?

E’ la forma immediata, cioè quel modo di esprimere lo stato d’animo che garantisce ai sentimenti la genuinità e il calore naturale. La forma immediata del Leopardi assume quel particolare indirizzo che si chiama “stile di parlare animato”; ossia espressione di sentimenti sincera, accorata e spontanea, come di chi confida il suo intimo a persona che lo comprenda.

   Nella canzone “All’Italia” e “Sopra un monumento di Dante” si sente ancora l’influsso della retorica, si notano immagini;  e perciò composizioni tali vengono considerate ancora come di tipo classicista. Però non si può negare che anche in esse  il vigore del sentimento domina sulle immagini, e che i passi più belli sono quelli in cui lo slancio sentimentale è libero e immediato.

   Dal 1819 in poi il Leopardi seguì lo stile che era suo: quello del parlare animato.

Troppo convinto e troppo appassionato della sue idee fu egli, per far passare i suoi stati d’animo attraverso la via indiretta della immaginazione e della descrizione.

   Così pensiero e sentimento sono una cosa sola; e l’immagine, la parola, il ritmo si riducono a puri mezzi, scelti a variati secondo l’opportunità, a servizio del cuore.

   Per realizzare in pieno lo stile del parlare animato, per impostare nel modo più adatto l’effusione immediata dei sentimenti, il Leopardi preferisce quasi sempre la forma del colloquio.

   Egli quasi in tutte le sue liriche, si rivolge sempre a qualcuno per confidargli le sue pene, le sue disperazioni, le sue maledizioni e le sue povere e compiante speranze. Nell’”Infinito” egli parla evidentemente al lettore – In “Alla Luna” e nel “Canto di un pastore errante egli si rivolge alla sua pietosa e comprensiva compagna delle sue meditazioni notturne. Nelle ”Ricordanze” si rivolge alle vaghe stelle dell’Orsa, alle speranze, a Nerina – In “A Silvia” alle segreta e dolce amica delle sue illusioni di adolescente – Nel “Passero solitario” si rivolge al solingo augellin tanto simile a lui nel costume- In “A sé stesso”, come in svariati passi di altri canti, procede per soliloquio.

   Insomma, non v’è quasi lirica del Leopardi in cui lo stile del parlare animato non venga impostato sulla forma del colloquio.

   Le immagini se capitano opportune per esprimere lo stato d’animo, vengono accolte; se non sono necessarie, il poeta non si sforza a crearle.

   Anche per quanto riguarda il linguaggio e la musicalità del ritmo, il Leopardi scegli i vocaboli più comuni e i ritmi più liberi a condizione che siano adatti ad incarnare il suo stato d’animo.

   La massima libertà e semplicità, dunque,  unite, però, alla precisione più rigorosa. Per la precisione delle parole egli è superiore anche al Parini, al Foscolo e, a differenza di questi, ha il merito di aver usato un linguaggio molto più semplice e comune.

   Nei riguardi della metrica, egli evita quasi sempre la rima, ma ottiene l’effetto musicale adeguato allo stato d’animo con una scelta sapientissima delle parole e con una ancor più sapiente collocazione di esse: così il discorso procede ora con tono accorato, ora tempestoso, ora iracondo, ora meditativo e sereno, ora freddo e disperato. Si tratta di una poesia nuova nella storia letteraria italiana. Fino ad allora si era pensato che non fosse possibile far poesia  senza la bella idealizzata descrizione, attingendo al solito repertorio di immagini e di frasi create dal classicismo.

   Il Leopardi insegna che si può far poesia parlando come parlano le persone comuni, a patto che si dicano cose che penetrano nell’anima e si usi un linguaggio preciso ed efficace.

   Uno stile di questo genere fu adottato in antico dai lirici come Callimaco, Tirteo, Saffo, Alceo, Ipponatte ecc.: le composizioni di questi scrittori, specie quelle di Saffo sono caratterizzate da una spontaneità ed immediatezza, che le fanno del  tutto simili al discorso di un’anima appassionata, intelligente e di buon gusto.

   E’ proprio per questa spontaneità, per questa naturalezza  genuina che, secondo il De Sanctis, il Leopardi chiamò “idilli” molti dei suoi canti.

      Li chiamò “Canti” in generale perché sono “voci dell’anima” che si esprime poeticamente; chiamò alcuni di essi “idilli” perché all’idillio tradizionale essi si avvicinano per l’ingenua naturalezza, per la freschezza, per la genuinità degli stati d’animo. Così il De Sanctis.

   Resta ora a vedere se il Leopardi debba essere classificato tra i classicisti o tra i romantici.

   Anzitutto notiamo che, come il Foscolo e il Manzoni, dal punto di vista poetico (non dal punto di vista critico) il Leopardi fa parte a sé.

   La perfetta poesia consiste nella ricchezza del pensiero e del sentimento (ispirazione) e nella immediata e precisa espressione dell’uno e dell’altro (forma). I grandi, appunto perché sono grandi, nei riguardi della forma riescono a congiungere costantemente la immediatezza e la precisione.

   Fu classico o romantico il Foscolo ? Fu romantico nell’”Ortis”, ove la immediatezza prevale sulla precisione; fu foscoliano nelle “Odi”, nei “Sonetti”, nei “Sepolcri” ove immediatezza e precisione si congiungono; fu classicista nelle “Grazie”, ove la precisione prevale sull’immediatezza.

  Per il Leopardi si può dire che seguì costantemente lo stile leopardiano: immediatezza accorata e precisione massima.

   Il Leopardi esplicitamente si dichiarò antiromantico e precisamente per due motivi:

a)- perché i romantici “per conservare la semplicità e la naturalezza e fuggire l’affettazione dei moderni (=neoclassici), che è stata purtroppo sostituita alla dignità, rinunciano ad ogni nobiltà”.

b)- perché le opere romantiche “essendo una pura imitazione del vero, colpiscono molto meno di quello che, insieme con la semplicità e la naturalezza conservano il bello ideale,  che rendono straordinario quello che è comune e produce quel sublime che innalza l’immaginazione, ispira meditazione profonda e muove il sentimento”.

   Tuttavia il Leopardi professò alcuni principi che costituiscono la sostanza della poetica romantica. Ecco alcuni di questi principi: “le leggi eterne e necessarie del bello non esistono” – “il poeta non imita la natura, ma esprime ciò che la natura dice dentro di lui.  Così il poeta non è imitatore se non di sé stesso.” – “l’imitare non è copiare”…  Perciò non è ragionevole l’uso della mitologia greca e latina nell’età moderna, giacché non abbiamo già noi con la letteratura ereditato anche la ragione. Gli scrittori moderni che usano le favole antiche alla maniera degli antichi, eccedono tutte le qualità della giusta imitazione”. – “la poesia sta essenzialmente in un impeto. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentimento suo proprio. Il sentimento che lo anima, ecco la sola Musa ispiratrice del vero poeta”.

   Ma il Leopardi è da inquadrarsi nell’età romantica, non solo perché ha professato questi principi, ma anche e soprattutto perché ha adottato lo stile della immediatezza, caratteristico della composizione romantica. La poesia del Leopardi, infatti, procede quasi sempre con lo stile effusivo, essendo poesia di sentimento e costante modo di “parlare animato”. Il procedimento figurativo idealizzato nella poesia del Leopardi è assai raro. La descrizione prepara sempre la meditazione e il colloquio effusivo; ovvero ritorna qua e là nel colloquio stesso, come immagine in cui si riposa, ovvero da cui è straziato l’animo accorato del poeta: si tratta di descrizione in funzione del sentimento.

   L’idealizzazione è fatta solo con note che si ritrovano nelle cose stesse, non con note tratte dalla immaginazione più o meno potenziata dalla cultura. Si tratta di note significative al sommo e colte ed espresse dall’animo con commozione.

   La parte descrittiva de’ “La sera del dì di festa”, de’ “La quiete dopo la tempesta”, de’ “Il Passero solitario” accoglie note comunissime, ma scelte con una precisione ed un gusto tali da soddisfare in pieno l’esigenza del particolare stato d’animo in cui si trova il poeta. Inoltre il Leopardi  compose sempre con la massima naturalezza, spontaneità e semplicità, riuscendo costantemente a commuovere, a causa della veemenza del sentimento e della espertissima precisione nel cogliere e nell’esprimere le note più emotive.

   Effusività immediata, aderenza al reale, naturalezza, spontaneità, senso migliore.

    Uomo intelligente e di buon gusto, quale era il Leopardi, giustamente respinse i difetti del romanticismo: la tendenza popolaresca nel pensare, nel sentire e nell’esprimersi – l’imprecisione e la approssimazione nelle immagini e nel linguaggio – la mania dell’esotismo e dell’emozionante – l’effusività clamorosa – l’oratoria tribunizia.

   Colse, dunque, dal romanticismo il pregio più garantito: l’immediatezza; e seppe unirlo con il pregio più garantito del classicismo: la precisione; evitò l’imprecisione del primo e la fredda erudizione del secondo. Immediatezza più precisione sono i pregi della grande arte e, quindi, li troviamo in tutti i grandi poeti i quali non sono né  classicisti né romantici, ma accolgono i procedimenti più pregevoli dell’uno e dell’altro indirizzo.

   Si può dire che il Leopardi sia stato il migliore interprete di tutto ciò che di buono vi è nel romanticismo. Basti pensare che il Leopardi è riuscito a commuovere il lettore svolgendo i motivi più comuni, nel modo più semplice, senza mai ricorrere alle idealizzazioni dotte, senza impegnarsi in sforzi di immaginazione: ed era proprio questo in sostanza il proposito dei romantici: creare una poesia che commuovesse  coloro che leggono e capiscono.

   Come già si è detto la poesia del Leopardi è sostanziata di naturalità, è idillio nel senso più alto della parola: ossia lirica intensa, genuina e semplice. Nel comporre il Leopardi provava la sua unica e vera felicità: “nel comporre ho passato il miglior tempo della mia vita e in esso mi contenterei di durare finché io vivo. Uno dei maggiori frutti che io spero dai miei versi, e che essi riscaldino la mia vecchiezza…..

in essi depongo il calore della mia gioventù, quasi in deposito. Nel rileggerli mi commuovo meglio che in leggere poesie d’altri”.

   Fu poesia di sfogo, dunque, quella del Leopardi: poesia essenzialmente lirica, nella quale egli ritrovava tutto il calore della sua spiritualità e nella quale i lettori di tutti i tempi ritroveranno interpretati, nel modo più mirabile e commovente, i motivi più gravi del loro spirito: il dolore e l’ansia dell’Assoluto.

Idilli maggiori e idilli minori.

   Le liriche raccolta del Leopardi nei “Canti” sono 41. Tra queste liriche alcune sono state chiamate da lui stesso idilli e divise in idilli maggiori e idilli minori. Idillio in generale significa quadretto naturale. Per quale motivo il Leopardi abbia chiamato così alcuni suoi canti non si sa con precisione, ma il motivo più probabile è forse il seguente: in alcuni canti egli prende lo spunto da un quadretto naturale per passare poi al consueto discorso sulla infelicità sua e di tutti gli esseri. Ed appunto “il quadretto naturale”, più evidente che in altri canti, ha indotto Leopardi a chiamare idilli quei canti in cui il discorso poetico si effonde tra costanti visioni di paesaggi.

   Gli idilli minori sono cinque: “L’infinito” – “Alla luna” – “La sera del dì di festa” – “Il sogno” – “La vita solitaria”.

   Gli idilli maggiori sono: “Il passero solitario” – “Il sabato del villaggio” – “A Silvia” -“Canto di un pastore errante” – “La quiete dopo la tempesta” – “Le ricordanze”.

   Gli idilli minori si ispirano al sentimento della infelicità personale e sono di struttura molto più vasta e complessa, di linguaggio più vario e più ricco. Il Giordani al Leopardi giovinetto dava questo consiglio: “Stile greco e lingua del ‘300”. Per quanto riguarda la lingua del ‘300 il leopardi non seguì il consiglio dell’amico, perché preferì adottare la lingua italiana di tutti i tempi scelta con gusto moderno. Seguì, invece, il consiglio relativo allo stile greco: e precisamente avvertì che per il suo stato d’animo era adatto lo stile di Saffo, della poetessa che parlava senza retorica, creando la poesia solo con la forza del sentimento, con la precisione dell’immagine e della parola, con la musicalità dolce, accorata, struggente.

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