Belmonte Piceno Santa Maria in Muris chiesina protoromanica

SANTA MARIA IN MURIS o San Simone a  BELMONTE PICENO

L’edificio di santa Maria in Muris, sul colle, a 263 metri di altitudine, di fronte al centro urbano belmontese, in prossimità della strada verso le Morrecini (resti romani di nicchie per urne cinerarie o “colombari”)  a metà del percorso che congiunge i monti Sibillini al litorale Adriatico, è monumento nazionale insigne per antichità e per rara originalità come opera della prima arte romanica del secolo X. La costruzione è rimasta isolata nella sua posizione panoramica e strategica, con una visuale per ampio raggio attorno. E’ caratteristica per  la maestosa torre che fa da facciata e svetta come una vela alzata per percorrere il mare della storia dei comuni della provincia di Fermo.

Santa Maria in Muris (sulle mura) è il nome cristiano dovuto al riutilizzo delle mura già esistenti all’epoca romana. Si notano i reperti archeologici come la pietra in marmo incastonata nella facciata, che è un’urna cineraria a tabernacolo. L’epigrafe dice che fu fatta da Florio Ottato da vivo per sé, e per la moglie Rufria Prima. Nel praticare l’incinerazione, i Romani antichi riponevano le anfore con le ceneri in nicchie (come alle Morrecini) oppure in tabernacoli (come qui), mettendovi l’iscrizione dei nomi. Trent’anni prima della nascita del Cristo, dopo la battaglia (31 a. C.) vinta ad Azio, Cesare Augusto per la pacificazione, mise in pensione i veterani di Cesare e di Pompeo e diede loro le terre nel Piceno.

Il famoso fisiologo, docente belmontese, Silvestro Baglioni appassionato studioso delle antichità picene, osservò, in un angolo della torre, una pietra con foro tondo, usata per pressare nel torchio per spremere le olive o l’uva. Si vedono, inoltre, sulle mura esterne, alcuni marmi scolpiti, uno con ali (S. Michele arcangelo era il protettore dei Longobardi), altri due con sculture di volute riferibili all’arte longobarda del secolo IX.

L’entrata della chiesetta è molto originale perché è un arco prolungato a tunnel fino a due terzi della torre sovrastante, è murato con pietre porose. Prosegue il piccolo portico interno sotto la torre:  una rarità pressoché unica rispetto a tutti gli altri edifici romanici del genere.  Nel giugno 1951, nel mensile ‘Santa Vittoria Astro dello Stato Farfense’ Giovanni Settimi e Annibale M. Ferretti ne apprezzavano questa chiesa, in riferimento al Chronicon Farfense (ed. BALZANI, U. Roma 1903 vol. I p.31,15) .   Gli elementi  materiali sono una testimonianza storica chiara  dello stile altomedievale, come lo sono le piccole finestre arcuate a tutto sesto caratteristiche dell’arte romanica.

Le mura dell’edificio del primo secolo avanti Cristo era di un’edicola costruita dai veterani romani, messi in pensione  dopo le lunghe guerre servili, civili, orientali, galliche. Qui, come a Falerone, costruirono, nelle terre assegnate, le loro abitazioni dette ville. In una posizione più alta, visibile dalla via pubblica, usavano costruire l’edicola per le urne cinerarie dei famigliari defunti. Queste edicole dopo la  fine dell’impero romano, ebbero continuità e permanenza come chiesine cristiane. Nel 386 l’imperatore Teodosio, con un editto da Milano (Roma era stata abbandonata) stabilì che i luoghi sacri pagani fossero resi cristiani.

Le ville romane d’insediamento sparso, erano aziende agricole, centri abitativi, forniti di tutto quanto occorresse alle persone per le loro attività ed esigenze, abitazione, acqua, laboratori, magazzini e l’edicola.

Le chiese cristiane furono costruite con l’abside rivolta ad oriente, come in questo edificio. Dall’entrata principale ad ovest, si accede nell’aula assembleare, con orientamento volto ad est, dove sorge il sole, perché Cristo immolato e risorto a Gerusalemme è il sole che illumina ogni persona che a lui rivolge  la mente.

Dopo la decadenza di Roma, attorno al 580 giunsero qui i Longobardi, nuovi dominatori dei quali si conserva una testimonianza nella vicina  Falerone dove è una rara epigrafe longobarda di Falerone, di un sepolcro datato al tempo del loro re Desiderio, nell’anno  770.

Era uso germanico costruire una torre nella facciata dei loro edifici pubblici, come si vede in questa chiesina che echeggia il modello tipico dell’arte longobarda come dimostrano le costruzioni dell’ottavo secolo della Germania. Questo  stile particolare costituisce un legame particolare con il nord Europa. I Longobardi insediatisi in Italia si convertirono al cristianesimo, e furono generosi donatori di proprietà immobiliari ai monaci. Nel Piceno ci sono alcune altre chiese appartenuta ai monaci nell’alto medioevo che hanno la torre in mezzo alla facciata tra cui segnaliamo la chiesa rurale di san Marco a Ponzano.

Verso la fine del secolo ottavo i Longobardi furono sopraffatti dall’esercito di  Carlo Magno che stabilì il nuovo dominio dei suoi  Franchi. Si costituirono allora le Marche, i governi locali: ‘marka’ è una parola carolingia per dire zona a confine con altri popoli. I governatori erano detti conti marchesi (conti  significava compagni dell’imperatore).

Il conte Silvestro  ebbe la proprietà del colle e nelle terrei tenne la sua azienda rurale durante l’alto medioevo  e fece ampliare questa chiesina. La madre Albagia, con atto pubblico, ne fece donazione all’abate di Farfa che risiedeva allora sul monte Matenano dove (nel 934 circa) l’abate fece trasportare  da Monteleone Sabino le reliquie di Santa Vittoria martire. Da qui il nome del castello.

Questa donazione fu amministrata dal priore locale di Santa Vittoria in Matenano, come risulta dalla conferma fatta nel 1152,  da parte dell’abate di Farfa a favore del  priore santavittoriese di nome Alberto.

Sono andati perduti nel Fermano come altrove quasi tutti i documenti scritti anteriori al secolo X. Alcuni  di essi furono scritti di nuovo, secondo le notizie tradizionali, come avvenne per le carte che si leggono nella cronaca (chronicon) e nel Regesto di Farfa. Qui troviamo le prime notizie su S. Maria in Muris. Altre del secolo XIII si leggono nelle pergamene di Santa Vittoria in Matenano.

L’edificio stesso di Santa Maria in Muris è un documento di costruzione  leggibile della storia dell’architettura. Gli storici notano che la prima arte romanica, del secolo X, era semplice, funzionale e poco ornata. Dalla metà del XI e successivamente il romanico ebbe vari elementi decorativi. L’elemento distintivo, in ogni fase, era l’arco a semicirconferenza, a tutto sesto.

S. Maria in Muris  ha  rarità originali romaniche nel piccolo portico interno che allarga l’arco d’ingresso da metà lunghezza della torre. Nel catalogare l’arte romanica marchigiana si nota che le abbazie, le pievi, le chiese parrocchiali e le cattedrali risentono di molti stili ed elementi, come lombardi o bizantini  a motivo delle maestranze che ricostruirono o abbellirono i manufatti preesistenti.

Lo stile romanico belmontese non fu rimaneggiato, è raro per la genuinità originaria, a testimonianza dell’arte dei Farfensi del secolo X  che furono abili costruttori di chiese e monasteri.

Nella loro azienda belmontese (presso la chiesa) i monaci fecero costruire, nel secolo XIII, nuovi locali per gli ospiti, per le riunioni, per la scuola, per l’infermeria. Il monaco cappellano praticava l’istruzione dei ragazzi nel leggere e scrivere e nel fare i calcoli aritmetici.

Secondo una testimonianza, una volta venne in visita a questa chiesa l’abate  di Farfa con il suo accompagno e qui si fermò, ospitato. Erano gli ultimi decenni del secolo XII, attorno al 1185-1190, allora fu creato un nuovo insediamento di case lungo il pendio del vicino colle ai lati della strada fermana. Vi fu costruita la chiesa del SS. Salvatore che esiste, rinnovata nel 1770.

Il nuovo centro urbano del secolo XII ebbe il nome che gli diedero i proprietari, che erano venuti dalla Sabina, precisamente dalla località Belmonte al seguito dell’abate. Nacque da loro Belmonte nel Piceno.

Il luogo panoramico era strategico per avvistare gli incursori saraceni e si racconta che  le sentinelle, in caso di pericolo, accendessero il fuoco sopra la torre per trasmetterne il segnale a distanza.

Nel 1159 Federico Barbarossa fece uno scisma perché nominò l’antipapa Vittore IV, dato che il papa autentico favoriva i Comuni, nemici dello stesso imperatore. Di conseguenza l’antipapa nominò altre persone ad amministrare i beni ecclesiastici, come le chiese. Il pievano di Falerone ottenne abusivamente questa chiesa assieme con i suoi beni dalla fazione imperiale, tramite il priore di san Pietro Vecchio di Fermo. Allora si avviò la questione per la nomina del cappellano di Santa Maria in Muris.

I contrasti tra guelfi e ghibellini, nel secolo XIII, erano aspri e portarono a vertenze giudiziarie anche a tempo di Federico II imperatore. La controversia fu discussa in tribunale nel 1221. Vennero riconosciuti legittimi i cappellani nominati dal priore santavittoriese e fu ratificato con una sentenza.

Rifiorì il commercio perché Belmonte è un luogo mediano nel percorso dai Sibillini verso il mare, qui si praticarono fiere soprattutto in primavera, agli inizi di maggio. Un campo nei pressi della chiesa di S. Maria in Muris era detto del ‘Mercato’ e rimane ancora il toponimo Fonte del Mercato. La fiera veniva detta di San Simone il 28 ottobre, ricorrenza liturgica di questo santo.   La chiesina venne chiamata di San Simone forse a motivo della festa quando si celebravano le sante Messe.

Si sviluppò anche l’artigianato di fabbri, falegnami, sarti, muratori dai quali è pensabile che siano derivati il miglioramenti edilizi.  Furono coinvolti gli abitanti nel provvedere alle necessità delle strade, dei ponti, delle fontane, del mercato, del cimitero e a simili esigenze comunitarie, così sin dal secolo XII furono nominati i sindaci,  amministratori del territorio ed ecco sorgere per opera dei monaci il nuovo organismo dell’amministrazione comunale, rimasto nei secoli.

I signori locali diedero alcune terre per il mantenimento del cappellano. Si usava dire diritto di ‘patronato’ l’eleggere il prete che il priore poi nominava e mandava come cappellano. Si conoscono i seguenti nomi dei  cappellani: Giacomo, Alberto (senior), Nicola, Rinaldo, Alberto junior nominato nel 1239.

Per migliorare l’amministrazione e per assicurare le difesa contro le incursioni, i rappresentanti del comune belmontese nel 1263 fecero un patto di alleanza e di sottomissione con la città di Fermo. Esistono a Fermo due pergamene che testimoniano questi accordi.

Quando nel secolo XIV i papi andarono a risiedere ad Avignone, ci fu una decadenza del governo nello Stato Romano e molte proprietà ecclesiastiche furono svendute. Ci sono documenti che attestano che negli anni attorno al 1325 la nomina del cappellano di S. Maria in Muris fu fatta da alcuni signori. Poi nel 1334 l’amministrazione tornò al priore benedettino santavittoriese.

Nel 1632 cessò la presenza dei monaci farfensi a Santa Vittoria perché il papa vi stabilì una nuova amministrazione con i canonici. Allora essa passò sotto il controllo del capitolo metropolitano fermano che gli diede il titolo di S. Maria Bambina.

Negli atti dell’archivio arcivescovile risulta che nel 1715 era cappellano, rettore del beneficio, don Liborio Monti che restaurò la torre e sopra a questa fece collocare la campana con scritto il suo nome. Nell’abside collocò un dipinto su tela raffigurante la Madonna Assunta onorata da due santi.  La Madonna Assunta è titolare della cattedrale metropolitana e dell’intera archidiocesi fermana, solennemente festeggiata a ferragosto con riti sacri e con lo spettacolo del palio.

Il dipinto settecentesco dell’Assunta ci è pervenuto in condizioni precarie e necessita di restauro. E’ attribuito al pittore Giuseppe Liozzi di Penna San Giovanni per le somiglianze visibili al confronto con altre opere nella composizione e disposizione dei personaggi e nelle  conformazioni figurali.

Quando le proprietà ecclesiastiche furono requisite dai Savoia sopraggiunti a governare nel 1860, le dichiararono demanio e le vendettero ai signori. Allora Severino Squarcia nativo di Santa Vittoria in Matenano acquistò molti terreni e ne diede quelli a Belmonte al nipote Francesco Squarcia qui abitante.

Durante la seconda guerra mondiale morì sua figlia Santa e le fece la tomba in un ipogeo scavato sotto al pavimento di questa chiesolina di sua proprietà. Dopo la morte di Francesco i resti mortali furono trasferiti una cappellina apposita nel cimitero e le figlie di Francesco hanno affidato al comune belmontese questo antichissimo monumento che vediamo restaurato.

I belmontesi venivano qui, fino a mezzo secolo fa, il giorno dopo Pasqua quando si aprivano le chiese rurali e si andava a visitarle con il pensiero gioioso del Signore risorto. Vi tornavano con la processione delle “rogazioni” estive. E nelle serate del mese di Maggio, le famiglie della contrada qui pregavano il rosario della Madonna. Molti hanno ammiraroto la chiesa a torre perché venivano a parlare e pregare con la conosciutissima Giustina Sbaffoni, nella casa qui vicina.

Già nel 1953 sor Francesco aveva fatto rifare un nuovo dipinto, ad opera del pittore fermano don Giuseppe Toscani che ripeté le immagini della Madonna Assunta con due santi come era l’immagine nel dipinto del secolo XVIII. Questo stesso pittore fu impegnato dal parroco don Mattii, nel 1933, a dipingere il soffitto (vòlto) e le pareti della chiesa parrocchiale belmontese del SS. Salvatore, come si legge nell’iscrizione a lato del battistero.

L’edicola romana, la torre longobarda, la ricostruzione del conte Pandolfo, l’opera dei farfensi e dei fermani, la svendita sabauda, la proprietà Squarcia e il restauro attuale richiamano il senso storico della vita civile, religiosa e monumentale dei belmontesi, in un’opera di antica rara bellezza.

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