NEPI Gabriele Notizie sulla sagra dello ‘scacciare la pica’ dei Piceni riferimenti a Luigi Centanni. I preparativi del venerdì e del sabato prima di Pentecoste. Presentazione di Alvaro Valentini

NEPI Notizie sulla sagra dei Piceni “Scaccio la pica” notizie desunte dagli scritti di Cantanni Luii 1903 e 1927
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LA FESTA DELLA STORIA PICENA A Monterubbiano. E’ una delle cittadine picene che con amore e gelosia ha saputo custodire le sue tradizioni più significative. Ha voluto ridonare tutto l’antico splendore alla sua festa di Pentecoste… Tra le antiche mura monterubbianesi, così, è passato quest’ anno, più vistoso e solenne del solito, un antico corteo. Cioè è passata un po’ della storia picena in una cavalcata che non è soltanto folklore e non è soltanto spettacolo; ma è il ricordo di un’età in cui «tutto il popolo era cavaliere» e nascevano l’industria, la libertà, la democrazia dei Comuni italiani in un clima di religiosità tanto vivo che, cristianizzando le consuetudini persistenti del paganesimo, santificava il lavoro e dava agli uomini l’orgoglio di operare per sé e per gli altri in collaborazione feconda.” Scritto da ALVARO VALENTINI
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Le feste di Maggio, ricordo ed imitazione delle antichissime e celebri Floreali, furono continuate dopo la decadenza dell’impero romano, nei tempi del basso medioevo ed in seguito, per tutta Italia. Il primo del mese (Calendimaggio) al levar del sole uscivano i giovani a frotte dalle case, e al suono di flauti e di zampogne, correndo gioiosamente e danzando, si recavano nei campi; là coglievano rami verdi appena fioriti, per intrecciarsene ghirlande e sradicavano arboscelli che andavano a piantare dinanzi alla porta di amici, di parenti, di innamorate.
In città poi le corporazioni delle arti e mestieri facevano processioni solenni, e la festa finiva la sera con danze e canti e suoni attorno a un albero piantato per l’occasione, detto ’Maggio’ in un tripudio di fiori e di profumi. Era l’inno primaverile della giovinezza in onore del rinnovarsi della vita.
Il Cristianesimo in tal modo aveva cercato di valorizzare queste usanze pagane con il riannodarle alle proprie solennità religiose. Di fatto rivissero specialmente in occasione delle feste dei santi Patroni locali, perdendo talora la data di ricorrenza del mese dei fiori, maggio. Restarono tuttavia nella bella stagione. Citiamo nel Piceno la festa della Croce a Belmonte Piceno e in Offida, il Sant’Emidio in Ascoli e la famosa Cavalcata di mezzo agosto a Fermo.
Le nostre feste di Pentecoste non godettero di minore rinomanza. Vuole una tradizione che in un giorno di Pentecoste, in antico, la terra, per intercessione della Madonna del Soccorso, fosse liberata dal Tiranno (?). Perciò la Comunità fece voto di festeggiare, tutti gli anni ed in perpetuo, solennemente tale data.
Otto giorni prima veniva inalberata sulla torre del Comune la bandiera rossa della franchigia e da quel dì il sole della libertà allietava per mezzo mese la fronte dei cittadini. Veniva meno ogni rigore dell’autorità politica, nessuno poteva essere molestato a causa di debiti. I mercati andavano esenti da dazi e gabelle.
Intanto per provvedere all’ordine e alla pubblica sicurezza si era costituita l’ARMATA: quaranta (talvolta più) baldi giovani in smaglianti divise, ricche di gala di trine e di frange di oro, armati di spada e di alabarda, scelti dieci per ciascuna delle quattro Corporazioni cioè artisti, mulattieri, bifolchi e zappaterra e comandati da quattro rispettivi Capitani delle Arti. A tutti presiedeva il Capitano d’Armata, che incedeva pomposamente a cavallo stringendo in pugno la mazza del comando.
Gli alabardieri, tutti i pomeriggi fino alla vigilia della festa, salivano sulla torre del Comune e in mezzo al frastuono delle campane, delle trombe e dei tamburi, sparavano replicati colpi di archibugi, quasi ad avvisare i lontani che il gran giorno s’appressava. La Terra così si veniva a popolare di un’infinità di pellegrini, che arrivavano a torme, cantando laudi, a visitare il Santuario di Santa Maria del Soccorso, parato a festa e sfolgorante di ceri.
E il dì della vigilia, gira il banditore per le contrade ad avvertire che tutte le vie e le case siano ripulite ed adornate e che tutti l’indomani accorrano in Santa Maria de’ Letterati, da dove si avvierà la processione.
La domenica fin dal mattino il paese rigurgita di popolo; le strade scintillano al bel sole di Primavera in una vivacità di colori, festoni, fiori, drappi e stendardi; i suonatori piovuti d’ogni intorno fanno un chiasso ridondante, e i canterini lanciano gioconde maggiolate alle belle.
Terminata la Messa solenne, mancando circa una ora al mezzogiorno, l’eccellentissimo Potestà, dalla Loggia, prima di cedere i poteri al Capitano d’Armata, dà lettura della Rubrìca II del Libro I del patrio Statuto, che riguarda il modo come si doveva celebrare la festa. Il testo tradotto dal latino dice:
«Poiché Iddio clemente viene onorato con l’omaggio ed il culto dei Santi ed in particolare affinché per la intercessione della Beatissima Vergine Santa Maria del Soccorso, la nostra Città di Monterubbiano continui ad essere assistita dalla fortuna, cresca in dimensione, aumenti in prosperità, stabiliamo che annualmente — arrivando la festa — i Magnifici Priori, insieme con il Potestà, provvedano la sera precedente a rendere noto, nelle consuete località e con i soliti modi, che tutti, sia maschi che femmine, si raccolgano la mattina seguente nella Piazza Maggiore di Santa Maria de’ Letterati per poi procedere, com’è costume, in solenne processione per andare nella Chiesa di Santa Maria del Soccorso insieme con i Magnifici Priori, il Potestà, i Salariati del Comune, i Sacerdoti, i Chierici, i Frati e i loro pari grado. E il “Monterubbiano d’argento” sarà portato da un famiglio, ed ognuno porterà delle candele accese che verranno offerte in elemosina alla Chiesa del Soccorso.
Per di più in detta processione oltre ai già citati, schierino i capitani delle Corporazioni – dei bifolchi, dei mulattieri e di tutte le altre arti – con la solita procedura, con grandi ceri accesi, uno per arte, e con una candela per ciascuno di essi da offrire umilmente alla sullodata Chiesa; e mentre vi si dirigono squillino tutte le campane della Città, sparino secondo il solito le artiglierie; la Compagnia assista alle Messe che in detta Chiesa devono essere celebrate; dopo di che, faccia ritorno in Città.
Provvedano anche, il giorno precedente, il Potestà e i Magnifici Priori, a rendere noto che le vie pubbliche cittadine vengano nettate da ogni immondizia, siano ornate e rese adeguatamente adatte: i contravventori di una sola delle disposizioni precedenti siano puniti a discrezione del Potestà e dei Magnifici Priori.
Per solennizzare maggiormente la ricorrenza si tengano delle fiere, si corra l’anello e si curino le istituzioni tradizionali, secondo la secolare consuetudine della nostra Città ».
Dopo di che comincia a muovere lentamente il corteo, mentre tutte le campane suonano a distesa e rimbombano i colpi delle artiglierie. Lo aprono un battistrada a cavallo e i donzelli municipali in divisa; seguono le i Religiosi delle Fraterie, i Chierici, i Sacerdoti, tutti gli Impiegati del Comune (medici, maestri, cancellieri, ecc.); un famiglio (balivo) che porta in una guantiera il ‘Monterubbiano d’argento’, e poi il Magistrato in pompa magna, cioè il Magnifici Priori e l’eccellentissimo Potestà.
In tempi più recenti si aggiunsero nuove Confraternite. Ultime schierano in lunga fila le quattro Corporazioni, guidate da’ Capitani e preceduta ciascuna dal labaro con la insegna dell’arte e dal grande cero adorno a gara di nastri e di fiori. Qua e là intramezzati alla colonna suonatori di pifferi, tamburi, cetre, violini, che intonano motivi tradizionali.
Chiudono la sfilata gli Zappaterra, richiamando l’attenzione per una costumanza caratteristica ed esclusivamente monterubbianese.
Un contadino vestito di guazzarone e in berretto rosso sostiene in mano un giovane ciliegio, tagliato a bella posta e decorato di fiori e di primizie della stagione, su un ramo del quale è assicurata con una cordicella una pica: gli sono ai fianchi due altri uomini nella stessa uniforme e con cappello di paglia, di cui uno porta la zappa e l’altro una canna e una borraccia a tracolla.
Al ritorno dal tempio di S. Maria del Soccorso verso la città, si ammira uno spettacolo curiosissimo. Lo zappaterra che porta il ciliegio, dove vede più fitta la folla accorre e finge di piantare l’albero; il compagno fa mostra colla zappa d’incalzarlo e va invece a rasentare le scarpe delle allegre villane, che danno indietro e fanno piazza; mentre il terzo, scaccia con la canna il povero uccello e grida «Sciò la pica!», e all’improvviso sbruffa dalle labbra sulla folla il vino della borraccia. E la baraonda si ripete più e più volte lungo il percorso tra il fuggi fuggi delle donne, le audacie de’ giovanotti e lo scoppiettar delle risa.
La rozza e semplice costumanza ha sapore di qualcosa di primitivo e allude esplicitamente ad una reminiscenza delle feste antichissime che celebravano i Piceni in onore dell’uccello sacro che, secondo il mito, li aveva condotti nella nostra regione. Le testimonianze più illustri sono state scritte dagli storici Festo e Strabone.
La leggenda aggiunge che il picchio sacro, svolazzando d’albero in albero, ed alternamente riportandosi sulle insegne dei Sabini in marcia, segnava la via da seguire: ed ebbe quiete solo quando, goloso com’era della robbia, una pianticella dalle bacche rossastre, ne trovò in abbondanza sul colle monterabbianese; dopo poco scomparve ed i Sabini si stabilirono nella zona. (Parrebbe che il nome Monte-rubbiano nasca dalla robbia, tant’è che essa figura nell’emblema del Comune.)
Gli zappaterra provvedono a spostare il -giovane ciliegio, finendo sui piedi del popolo in festa, mentre la pica resta legata al ciliegio della festa. Con la canna si invita l’uccello a che si muova: «Sciò la pica!» e usando la borraccia allude all’onore per la genesi della stirpe picena, forte e alacre, con lo sbruffo del vino sincero, segno d’abbondanza, motivo d’allegria.
Infine dietro agli Zappaterra, tra la ressa dal popolo che s’accoda al corteo, sfila un simbolico esercito di piccoli Sabini, quasi una scorta armata che in origine vigilava sulla “Primavera Sacra” e che, nel corso elei secoli, assicurava l’ordine durante le Sagre.
Non va altresì dimenticato che la sfilata impegna nella memoria le generazioni trascorse, a ritroso, dal milleduecento al primo medioevo, alla migrazione sabina; ed il circuito è chiuso con la saldatura dei Sabini venuti per primi, con gli ultimi, cioè i contemporanei.
Rientrati in paese e accompagnato il MAGISTRATO in Palazzo, le ARTI si recano nella Chiesa di San Francesco dove un sacerdote procede al sorteggio dei nuovi Capitani per l’anno venturo. Quindi torna ciascuna alla propria sede, che accoglie tutti i soci a fraterno banchetto, in tavoliate abbellite di verde e di fiori, festino rallegrato da suoni e da brindisi di popolari poeti improvvisati. Nel frattempo è stato prolungato all’aperto il baccanale “SCACCIO LA PICA”.

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