GABRIELE NEPI SCRITTORE RACCONTO AMENO SUL PARROCO DI TORCHIARO

RIGHETTO, PILLUCCU, QUARANTO’ E LE OCHE
Di giorno in giorno la vita si snodava con semplicità, nel lavoro, senza forti emozioni o rivelazioni; il palcoscenico paesano non mancava certo di presentare personaggi curiosi, vivi, parlanti, come: Quarantò; Righetto, un uomo pittoresco; Pilluccu, il poeta; Cucciulì.
Quarantò era un personaggio caratteristico; la parte più espressiva era il suo volto dal colorito sui generis, occhi volutamente un po’ socchiusi per risultare indecifrabili, amletici, naso a civetta e due baffoni a volte arricciati, a volte lisci, che coprivano labbra sottili. Il suo umore poteva leggersi proprio dai baffi; quando erano arricciati significava nervosismo, irritabilità, frecciate, chiasso, voglia di attaccar brighe; quand’erano lisci: buonumore, disponibilità, calma.
Un altro tipo curioso, emblematico era Pilluccu; si diceva poeta mancato, deluso, convinto che la sfortuna l’aveva preso di mira con avversità ed ostacoli; altrimenti … Passeggiava quasi sempre con il soprabito, cappello ed ombrello come un lord, guanti, anche se le sue scarpe lasciavano intravedere vita grama.
Righetto era un altro tipo simpatico e sornione; Cucciulì invece arguto, anche se malaticcio. Aveva delle battute salaci, pungenti; lo vedremo…
Nel paese non mancavano piccole storie di prepotenza, di invidiucce, di qualche infedeltà ben mascherata, ma anche di cose buone e schiette.
Don Costanzo organizzava momenti di svago. Ripeteva che il cristiano non è un “musone” non è chiuso in se stesso, non è disponibile solo al colloquio con Dio, ma, al contrario, sa esternare agli altri i suoi sentimenti, sa partecipare alla vita di chi sta accanto a lui, sa ridere con chi ride, come, condividere il dolore di chi piange.
A tal proposito scomodava addirittura Seneca citando il passo che “giova più alla società chi ride che chi piange” (Tranquillità dell’animo, XV, 3).
A Torchiaro si viveva il Carnevale con divertimento, con gioco, con gli scherzi; gli addobbi delle sale da ballo avvenivano con festoni e drappi spesso presi dalla sacrestia e che la confraternita con il permesso del parroco dava volentieri.
Il primo ad essere presente era proprio Don Costanzo che, anche lì, sapeva ricordare di non offendere il Signore: “Oh Pè, non strigne troppo!” “Dome, sarà meio che te reposi? Me pare che stai su de corda!” “Lui setta te converrà a de dà lu cambiu a sòrata?”.
Tutti pazientemente ubbidivano e le ardenti speranze o l’avida spavalderia si tramutavano in sorrisi, in sommessi borbottii o atteggiamenti prudenti.
“Poco cervello e troppo cuore combinano guai” ripeteva Don Costanzo alle giovani romantiche e svolazzanti sognatrici, che in mille modi cercavano motivi di attrazione.
“Semplici come colombe, prudenti come serpenti” questo dev’essere il vostro agire… ma spesso la giovinezza impaziente ed ardente non ascoltava le sue parole.
C’era poi il rigore purificante della quaresima; il mercoledì quanta cenere benedetta spargeva generosamente sul capo, soprattutto di alcune donne!
Era il suo modo elegante per dire di calmare le voluttà, per dare una tirata d’orecchi, per fare capire che lui certe cose le veniva a sapere, sempre. Le poverette, molto a disagio, cercavano di coprirsi il più possibile con veli e fazzoletti i capelli inceneriti al massimo.
* * *
Ricordo il buon profumo di pane fatto in casa dalle perpetue, che saliva fino all’aula scolastica e solleticava il mio buon appetito giovanile!
Sopra le belle pagnotte rotonde, troneggiava un bel segno di croce come per ringraziare il buon Dio di quel sacro dono e guai, se lo dimenticavano! C’era sempre una profumata pagnotta per me, il maestro, accompagnata dall’esortazione del buon curato: “Mangia, sei giovane hai bisogno di forza”.

GIOCONDE SERATE INVERNALI
Quando la nebbia fitta, la pioggia fredda, il vento impetuoso e proibitivo non mi permettevano il rientro in Vespa al mio paese, c’era pronto un letto per passare la notte.
Come poter dimenticare quelle lunghe ma allegre, gioconde serate invernali, trascorse giocando a carte, nella cucinona annerita, talvolta densa di fumo, della canonica?
Era un intreccio di odori più strani: lardo soffritto, salvia, rosmarino, odor di sigaro, odor di resina e di formaggio pastoso, invitante, che stuzzicava l’appetito; non mancavano grappoli d’uva un poco appassiti e pomodorini pendenti dalle travi del soffitto.
Ai vetri della credenza spiccavano santi, fotografie e ricordini vari.
Don Costanzo amava fare una partita; c’era poi la rivincita, ancora la rivincita della rivincita… e si andava per le lunghe…fino alle ore piccole.
Ogni tanto, si ricaricava sorseggiando vino cotto della Messa o fumando il suo sigaro toscano.
Una sera venne a trovare il curato un giovane del paese, che per ragioni di lavoro e di bisogno si era trasferito altrove. Sembrava scaltro, aveva imparato a rinnegare la miseria paesana ed ostentava cultura, interesse per i problemi più seri, specialmente religiosi verso i quali però manifestava dubbi e perplessità.
Il discorso andò a finire proprio sul mistero della Trinità. Don Costanzo si accalorava, gesticolava, spiegava: così, colà, perché, in fin dei conti… ma quello ostinato non riusciva a convincersi. Ad un certo punto dovetti per forza sollevare gli occhi dal giornale che stavo leggendo, perché il curato, con la sua solita spontanea inverosimile filosofia esclamò: “Ma senti un po’. Che gli devi passà a magnà tu alla Trinità?”
Una sonora risata dei presenti pose fine all’interminabile discussione, che ebbe come la conclusione di sempre, una bella bevuta di vino cotto.
* * *
Quando il fumo ed i fumi erano abbastanza, allora automaticamente sbottonava la tonaca nera, il più delle volte impadellata, lasciando intravedere una di quelle pesanti maglie di lana che, sinceramente, solo a guardarla, mi suscitava in tutto il corpo una sensazione di solletico e di prurito, che mi faceva ridere … a crepapelle.
Non ero un buon giocatore, per questo Don Costanzo ripeteva… con la sua voce nasale: “Sarai bravo, intelligente, però a giocare a carte sei una schiappa”!.
Spesso ricordava e raccontava fatti ameni, spassosi che lo avevano avuto come protagonista sagace ed astuto.
*
Un giorno, insieme, dovevamo raggiungere Ancona. La conversazione si snodava sulla mia esperienza scolastica, sulla produttività degli alunni, sul clima sociale della classe.
Don Costanzo, sull’esempio di don Milani, mi esortava a non aver fretta nel finire il programma, nel riempire i quaderni; mi diceva insomma di non spingere forte l’acceleratore, perché quello che contava non era tanto e solo l’efficienza, il fare, ma il prestare molta attenzione alla persona dell’alunno, perché ogni bambino era un mondo straordinario, sorprendente, ricco di idee, interessi, bisogni, aspettative e l’educatore doveva offrirgli giusti stimoli.
Proprio in questa circostanza mi raccontò una storia il cui protagonista era un bambino, mio alunno, una storia toccante ma semplice, che richiama quell’esortazione evangelica di essere “semplici e fiduciosi come bambini”.
Don Costanzo al catechismo aveva ripetutamente parlato all’angelo custode che protegge, illumina, guida. Parafrasando una poesia, forse della sua infanzia, aggiunse pure che l’angelo mangia nello stesso piatto, sta nello stesso banco….
Durante la notte, mentre cercava nel sonno restauratore sollievo alla stanchezza, (e ne aveva tanto bisogno, perché era andato e tornato da Roma) sentì squillare il telefono. Pensava già di dover uscire forse per una unzione degli infermi, quando dall’altra parte una vocetta un po’ assonnata gli chiede: “Ma curato l’angelo custode sta a destra o a sinistra?” “Ma chi sì?” “So’ Mariolino de…”. “Figliu de bona donna, proprio adesso te de’ venuto su problema? Non potevi spettà domani…”?
Mariolino però aveva fatto una scommessa con i compagni e se l’avesse vinta sarebbe stato felicissimo; in gara c’erano 100 figurine. “Bella gatta da pelà me so trovato” pensò il curato, che non sapeva come rispondere; poi sentendo il suo cuore battere un po’ più forte del solito (vuoi per la stanchezza, vuoi per essere stato svegliato) rispose “Tu dove hai il cuore? Beh, l’angelo sta a sinistra, dalla parte del cuore…”.
Aveva scommesso bene Mariolino, che esultante ringraziò, pensando alle figurine che avrebbero completato il suo album.
“Vedi?”, commentava Don Costanzo, “la spontaneità, la virtù della semplicità interiore dei bambini! È straordinaria!”
*
Ricordare poi un altro episodio ugualmente significativo. Durante la settimana santa si usava rappresentare, sulla piazzetta avanti alla Chiesa, la scena del processo a Gesù, scena vivace e toccante…
C’erano le pie donne, i soldati romani, Pilato, Caifa, tutti nel costume dell’epoca. C’era Gesù con la corona di spine e la canna in mano… Certo non era Oberhammergau, cittadina tedesca dove per voto fatto per la guerra nel 1634 si ripetono le scene della passione di Gesù, ogni dieci anni. Eppure tutto il paese assisteva con animo partecipativo, sospeso, attento.
Unna volta, mentre iniziava il processo a Gesù ed uno del Sinedrio indignato gli dava uno schiaffo (come da copione), la scena fu talmente reale e commovente, che un bambino, saltato sul palco, con pugni, calci, graffiate e morsi si avventò contro lo schiaffeggiatore gridando “Gesù è buono, Gesù è buono non lo devi bastonare”. Ci volle del bello e del buono per convincerlo che era soltanto una rappresentazione, un rievocare l’avvenimento.
Anche da questa circostanza il curato traeva motivo per ricordarmi di coltivare negli alunni il sentimento, di entusiasmarli per far vibrare le corde del cuore, che, diceva, facilitano nei ragazzini l’emergere di motivazioni, percezioni ed atteggiamenti buoni, che rimarranno per tutta la vita.
Voleva veramente bene ai piccoli e quando non poteva accontentarli ne soffriva incredibilmente, come quella volta che un bambino, figlio di una ragazza madre, gli chiese se Gesù gli poteva far conoscere il suo papà… visto che compiva miracoli, considerando che lui veniva più spesso a servire la Messa.

IL BURLONE
Ad un Don Costanzo educatore, sensibile, ricco di nobili sentimenti, debbo però associare l’altro Don Costanzo, quello burlone e macchiettista, che in alcuni momenti ti regalava buon sangue, con le risate che suscitava. Una sera si trovava a transitare sul rettilineo Cupra Marittima – Grottammare; un po’ la fretta, un po’ la fame Don Costanzo premeva l’acceleratore…
Un fischio lo richiama al dovere… La polizia stradale … Nessuno gli avrebbe tolto la contravvenzione per eccesso di velocità. Cosciente della colpa, con voce quasi supplichevole, prega i poliziotti di capirlo… quelle donnine ai bordi, sono una vera tentazione… la carne è debole… bisogna fuggire le occasioni… correre…
I poliziotti si guardano, sorridono, poi lo lasciano andare… mentre don Costanzo dice a se stesso “Per questa volta è andata!”.
In un’altra circostanza vidi il curato segnarsi ripetutamente col segno della croce; meravigliato, perché d’intorno non c’erano né chiese, né cimiteri, né statue di santi, chiesi spiegazione. Mi indicò allora un deposito di auto rotte, incendiate aggiungendo, “è il cimitero delle macchine figlio mio, non vedi?”.
*
Un racconto ricorrente nelle conversazioni del curato era il compito che aveva affidato alle oche; il loro starnazzare un tempo a Roma aveva salvato il Campidoglio; il loro starnazzare poteva ancora salvare il salvabile… (almeno lo sperava).
Sotto la canonica, infatti, c’era un orto, ma vicinissima si innalzava una vegetazione folta, un boschetto tranquillo, dove talvolta, nottetempo, sostavano coppiette di innamorati. L’amore, si sa, non conosce località, è vivo non solo nelle grandi città, ma anche nelle piccole modeste località; nessuno sfugge alle frecce di Cupido!.
Solo che, mentre nelle metropoli il caos, la vita frenetica, il non conoscersi tutti, permettono maggiore libertà di movimento, d’incontro, di anonimato, in un piccolo paese tutti sanno o vengono a sapere, tutti guardano, commentano, giudicano, scoprono.
Abbracciarsi, baciarsi nell’immediata vicinanza della canonica, era ritenuto, ieri, quasi un piccolo scandalo, quindi Don Costanzo pensò bene di servirsi delle oche. Le perpetue, servendosi di una brava chioccia, fecero covare diverse uova, che, schiuse, aprirono la vita a sei o sette ochette.
L’espediente originale ed ingegnoso fu di sistemarle proprio vicinissime al boschetto, così i poveri innamorati erano spesso disturbati e, credendo che arrivasse qualcuno, scappavano a gambe levate.
In realtà, qualche volta, Don Costanzo richiamato dallo starnazzare, controllava dalla finestra del suo studio e se i colpevoli venivano riconosciuti, ricevevano lavate di capo o buoni consigli, a seconda del caso.
*
Un giorno Don Costanzo venne chiamato al capoluogo di Regione; era una chiamata urgente e, dato che la vecchia auto Balilla, dove si rifugiavano le galline durante la canicola estiva per godere di un po’ d’ombra, era dal meccanico, vi andò con la corriera.
Era una di quelle corriere mastodontiche e maestose; fungeva da tram tra i vari centri della zona; fermava alla stazione ferroviaria di Civitanova e al capoluogo di Regione.
Don Costanzo con la veste pulita, nuova fiammante, salì sull’automezzo. Era affollato e la conversazione verteva sulla campagna elettorale in atto e sulle prossime elezioni.
Qualcuno sonnecchiava; qualcuno fumava. Vi era però tra i viaggiatori una donna molto disinvolta e tremendamente ciarliera. Ce l’aveva con tutti, col Governo, con l’Amministrazione comunale del suo paese, con la cognata, ecc., ecc… Allorché il discorso cadde sulle elezioni, squittì:
“Oggi non sono molti quelli che votano per la D.C., anzi sono pochi o per meglio dire poche: le monache e le prostitute”.
Don Costanzo la guardò, ma non disse nulla. La osservava e da tutto il contesto si vedeva che aveva dei requisiti non dubbi da essere collocata e con sicurezza, tra le donnine allegre; il suo atteggiamento, il suo modo di vestire, il comportamento la indicavano come tale. Certissimamente non era una suora.
Giunti vicino alla stazione, prima di scendere, Don Costanzo, con fine ‘savoir faire’, la guardò, si levò il cappello e rivolto a lei: “Grazie signora per il voto che darà alla Democrazia Cristiana”.
Gli astanti si guardarono l’un l’altro. Don Costanzo, serio, scese.
Lei… capì e come, l’antifona, ma finse di non aver recepito la portata della frecciata ed esclamò: “Che strani questi preti! ”.
*
Un’altra volta Don Costanzo dovette salire sulla corriera, al ritorno dalla capitale al suo piccolo centro. Erano le belle e sfreccianti corriere, che in quattro ore allacciavano Roma alla zona del Fermano.
Verso la metà del viaggio, salì una signora sulla quarantina, sofisticata, impomatata con aria di sussiego. Appena si accorse del prete fece un certo tipo di scongiuri. Don Costanzo se ne accorse e non aspettò a dire la sua. “Signora, le disse, sapevo che il rosso faceva male ai tori, ma non sapevo che il nero faceva male alle vacche .”
I viaggiatori si voltarono; molti che avevano notato il gesto della “venere” salita poco prima, si guardarono e ammiccarono divertiti. La vipera, colpita, sprofondò più che poté nel sedile senza aggiungere parola.

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