Il Mulino sul fiume Tenna Belmonte Piceno

VENTI SECOLI DEL MOLINO AL FIUME TENNA A BELMONTE (FM)

Dino Fattoretta

Belmonte Piceno

 Gennaio 2022

GRAZIE a chi ha dato le notizie qui raccolte.

Ogni mulino vuole la sua acqua

Ognuno tira acqua al proprio mulino

Porta acqua al mulino dell’amico

Nell’antico paese

A Belmonte Piceno il mulino sul fiume Tenna esiste da venti secoli e negli ultimi due secoli è stato gestito dai mugnai Valori fino al 1902 poi dai Carnevali.

   In prossimità del fiume Tenna, non lontano dal bivio delle due strade provinciali, una verso il paese e l’altra lungo la riva destra dello stesso fiume, c’è un antico mulino ad acqua che è di proprietà delle famiglie belmontesi di Antonio ed Ettore Carnevali. Nelle carte topografiche e “tavolette” si legge “Molino Valori”. Per un altro molino che era nei pressi del fiume Ete si leggono notizie nel libro di Franco Giampieri che racconta la vita nella vallata dell’Ete. Giampieri scrive che i fiumi, sia piccoli che grandi, sempre sono stati alleati degli uomini ed anche nei momenti di magra hanno speso ogni loro goccia per soddisfare le persone, gli animali e le piante.

   Di fatto vicino ai fiumi sorsero i più grandi insediamenti storici e fin dalle epoche protostoriche risulta che le loro acque furono utilizzate per la forza motoria perché questo sistema energetico è certamente economico, efficiente, poco costoso, molto produttivo in varie applicazioni. Non per nulla, nel secolo XIX con la dinamo, per mezzo delle turbine ad energia idraulica è stata prodotta l’energia elettrica. Il geografo e storico greco Strabone, nel primo secolo avanti Cristo, ebbe a descrivere i molini ad acqua.

   Proprio nei primi decenni dell’era cristiana sorse il primo insediamento del mulino belmontese, in questo luogo della pianura del fiume Tenna, che era nell’ambito del territorio Faleriense (da Falerio colonia romana, oggi Piane di Falerone). Avvenne allora che vennero mandati a riposo dall’imperatore Augusto nel Piceno i veterani degli eserciti romani sia di Cesare che di Pompeo. Ogni luogo abitato in ambiente rurale era chiamato dagli antichi romani con il vocabolo “Villa” dove essi svolgevano pressoché tutte le attività produttive. Presso l’abitazione padronale c’erano diversi edifici e locali, come l’edicola, le officine, le capanne, i magazzeni, le cantine, la grotta, le stalle per allevamenti, il frantoio o pistrino e nei pressi del fiume un molino ad acqua, in modo tale che i lavoratori provvedevano alle comuni necessità.

   Cominciò ad esistere in epoca augustea il primo mulino a Belmonte Piceno presso il fiume Tenna (Tina divinità). In seguito alla decadenza di Roma e dell’impero romano nel quinto secolo, con l’arrivo e l’insediamento di popoli emigrati da fuori dall’Italia, i nuovi abitanti si stabilirono sulle alture, dove ancor oggi vediamo molti paesi. Le attività di macinazione dei semi e delle granaglie prevalentemente si fecero nelle abitazioni, immettendoli in una pietra incavata e sovrapponendo un’altra pietra che veniva girata con ogni metodo possibile di molitura.

   Nei frantoi si usavano le macine (o mole) di pietra che erano girate o con le braccia, o con animali, o con pale sull’acqua corrente. Nel secolo VIII con la venuta dei monaci benedettini in questo territorio, le attività nelle pianure nelle vallate di fiumi ripresero intensamente e i molini si potenziarono. I monaci benedettini Farfensi con il programma di pregare e lavorare, furono i più operosi imprenditori agricoli, anche mugnai, nel Piceno.  Sapevano anche pacificare le popolazioni. A questi subentrarono, con i Longobardi e con Franchi, i signorotti vassalli che ebbero il dominio sullo sfruttamento delle terre e delle acque, continuando l’uso dell’energia idraulica. Gli edifici per i molini erano anticamente costruiti con pietre e con mattoni in un modo staticamente solido, con muri spessi, come si può ancor oggi notare dove gli edifici permangono. Dovevano resistere anche ai pericoli di incursioni nemiche, oltre che all’usura nel tempo.

   Dal XIII secolo alcuni comuni riorganizzarono l’amministrazione e crearono mulini comunali sparsi nel corso di uno stesso fiume dato che l’acqua che scorrendo dava energia in un posto, non perdeva per questo la sua quantità scorrendo verso altro mulino.

   Una vicenda di guerriglia fu causata nei dieci anni dal 1537 al 1547, quando ci fu un nuovo governatorato chiamato Stato Ecclesiastico nell’Agro Piceno con capoluogo Montottone, della famiglia Farnese del papa Paolo III, emarginando Fermo, da secoli capoluogo.  Per la riscossione delle tasse furono causati dissidi. Di fatto, presso il fiume Tenna, gli utenti del pascolo della pianura di ricco pascolo, detta “Boara” frequentata in gran parte dai Montegiorgesi, anche dei comuni circonvicini, si trovarono concitati gli uni contro gli altri causando con rappresaglie, incendi e distruzioni dei rispettivi mulini. Dopo la morte del papa Farnese, con lo scopo di pacificare, la pianura “Boara” fu data (come resta) nel territorio del comune di Fermo.

   Il sito del predetto mulino belmontese presso il Tenna in collegamento dei percorsi stradali, era poco distante dal fiume, per non essere esposto ai pericoli delle esondazioni ed era costruito in modo solido e sicuro. L’acqua per l’energia necessaria a dare movimento alla mola (macina) ruotante era prelevata in un punto un po’ più elevato di ‘colta’ dal fiume, e attraverso il canale di presa (o gora), l’acqua si accumulava nella parata (o roggia) che era come un grande pantano con paratia per l’uscita (“reffota”) e arrivava a far girare le ‘pale’ nel luogo (detto margone). Seguitava a scorrere in altro canale (detto pescaia) per ritornare allo stesso fiume.    Una saracinesca regolabile sulla paratia serviva a accrescere o diminuire la quantità di immissione dell’acqua anche per evitare i danni occasionati dai forti temporali, che immettevano molta melma e frasche secche trasportate dal fiume. Questa struttura aveva necessità di manutenzione assidua in relazione all’impeto dell’immissione. Per macinare erano indispensabili due mole (o macine) di pietra, non una soltanto, in posizione orizzontale, una sovrapposta parallela all’altra, e la distanza tra loro era manovrabile per mezzo di una leva esterna. La mola inferiore era fissa mentre l’altra mola superiore era ruotante.

   Il sito del predetto mulino belmontese presso il Tenna in collegamento dei percorsi stradali, era poco distante dal fiume, per non essere esposto ai pericoli delle esondazioni ed era costruito in modo solido e sicuro. L’acqua per l’energia necessaria a dare movimento alla mola (macina) ruotante era prelevata in un punto un po’ più elevato di ‘colta’ dal fiume, e attraverso il canale di presa (o gora), l’acqua si accumulava nella parata (o roggia) che era come un grande pantano con paratia per l’uscita e arrivava a far girare le ‘pale’ nel luogo (detto margone). Seguitava a scorrere in altro canale (detto pescaia) per ritornare allo stesso fiume.    Una saracinesca regolabile sulla paratia serviva a accrescere o diminuire la quantità di immissione dell’acqua anche per evitare i danni occasionati dai forti temporali, che immettevano molta melma e frasche secche trasportate dal fiume. Questa struttura aveva necessità di manutenzione assidua in relazione all’impeto dell’immissione. Per macinare erano indispensabili due mole (o macine) di pietra, non una soltanto, in posizione orizzontale, una sovrapposta parallela all’altra, e la distanza tra loro era manovrabile per mezzo di una leva esterna. La mola inferiore era fissa mentre l’altra mola superiore era ruotante.   All’esterno dell’edificio si notavano i ricoveri d’alloggio e stalle per gli animali come le pecore, la cavalla o il cavallo, i maiali, i conigli, e il pollaio. Non lontano dal mulino c’era anche il forno per cuocere il pane e le focacce. L’acqua era utilizzabile nelle coltivazioni di ortaggi. La moglie del mugnaio (‘molenara’) preparava e faceva cuocere le pizze e le focacce, fruibili dai familiari e, a richiesta, dai clienti. Nelle vicinanze non mancava il pozzo di acqua potabile.  Ascoltando il racconto dei nonni riceviamo i ricordi di quando andavano al mulino. Arrivati, scaricavano i sacchi e vicino al portone d’ingresso c’era la Stadera per la pesa dei quantitativi. Al momento di venir macinate le granaglie erano immesse nel cassone sopra alle macine, poi si procedeva a molare. Secondo la vicinanza maggiore o minore delle mole il macinato poco affinato per semola e tritello, o più affinato come fiore di farina. Talora il mugnaio (molinaro) accumulava nel pavimento del piano superiore il grano nel magazzeno che da un pertugio (o boccarola) faceva scendere direttamente sul mulino. Preparava la farina da trasportare a vendere. 

   Si chiama tramoggia l’apertura del cassettone svasato costruito sopra le macine, come un imbuto a ricevere il grano da macinare e farlo scendere tra le due macine con un passaggio regolabile per mezzo della leva della macinazione. Nel frattempo che il funzionamento dei meccanismi della molitura ultimasse il servizio al cliente, per curiosità egli andava all’aperto, a guardare il moto rotatorio, come l’acqua muoveva le eliche, sotto il molino: una ruota aveva infisse le pale a forma di cucchiaio poste in linea in modo che il flusso dell’acqua corrente le colpiva e faceva ruotare il perno verticale (ritrecine), poggiato su una base di ferro (ragnola). Il perno che girava, per mezzo di un meccanismo con leva, veniva innestato nella ‘macina’ (mola) ruotante. Il “molenaro” con la leva faceva sollevare o abbassare il perno per muovere più velocemente oppure per rallentare il movimento rotatorio secondo l’immersione più o meno profonda delle pale nell’acqua.    Nella stanza delle mole si vedeva scendere la farina macinata, convogliata in modo da farla cadere in un capiente cassone di legno. Allora si diffondeva nell’aria un intenso profumo di farina che era mossa dall’aria tanto da sbiancare lo spazio circostante, anche le ragnatele. Ne è venuto il proverbio: «Chi va al molino s’imbianca di farina».

   Il mugnaio inoltre controllava l’altra leva che alzava o abbassava la mola rotatoria in modo da creare una farina più o meno grossa oppure sfinata. I bambini che accompagnavano i genitori al mulino si incantavano a guardare questo complesso di misteriosi meccanismi che accompagnavano il ritmo e il rumore della mola e lo sciabordio dell’acqua. Per soddisfare la propria curiosità facevano domande al mugnaio quando stava fermo davanti al cassone a guardare la fuoruscita del macinato.   Il lavoro del mugnaio era solerte e da esso riceveva il compenso di circa quattro chili di farina per ogni quintale di grano immesso alla molitura. L’impianto del mulino richiedeva un’attenta e laboriosa manutenzione oltre che per ripulire il canale e l’invaso della paratia, anche per rinsaldare o sostituire le pale (eliche) innestate fermamente nella ruota immersa del ritrecine, per regolare le saracinesche di discesa dell’acqua incanalata, per controllare la presa d’acqua dal fiume e il suo ritorno al fiume, soprattutto per ribattere periodicamente la dentatura scolpita nelle macine, lavoro questo che avveniva dopo che erano stati macinati circa tredici quintali di granaglie. Questa dentatura sulla superficie della mola era una scanalatura che faceva accostare la farina macinata ai bordi della mola in modo che poi scendesse.

   Un molino ben attrezzato macinava mediamente tra i due e i tre quintali di grano al giorno, secondo le varie possibilità dell’operatore e dell’immissione dell’acqua. I mulini presso il fiume Tenna avevano a disposizione l’acqua continuativamente in ogni mese dell’anno, grazie alla portata per lo più sufficiente del fiume Tenna, mentre il fiume Ete soffriva sistematicamente la discontinuità per la siccità estiva. La gente di passaggio arrivava dal mugnaio, anche senza portare grano, in qualsiasi giorno, semplicemente per soffermarsi a discorrere sulle recenti notizie, per scambiarsi opinioni sui lavori della gente e, all’occasione, la “vergara”, moglie del “molinaro”, preparava e serviva le focacce.  

   L’industrializzazione del secolo XIX ha recato radicali trasformazioni nel metodo e nei mezzi della molitura con nuovi meccanismi, a cominciare dai comuni del Nord, per arrivare a diffondersi nel Piceno a metà del ventesimo secolo. Allora alla forza motrice idraulica è subentrata quella elettrica. Pertanto moltissimi molini vennero traslocati, sistemandoli nella periferia dei centri urbani collinari delle Marche, mentre pochissimi mulini idraulici rimasero quasi tutti inattivi.

   Chi è attento alle farine sa che sono diverse per grossezza e qualità, come fior di farina, tritello, fecola, crusca. Anche i colori delle farine sono vari: bianco, nero, giallo, secondo la varietà delle granaglie scelte.

   La famiglia di Valori Giuseppe tenne questo molino belmontese sul fiume Tenna sino al 1902, poi è subentrata la famiglia di Eugenio Carnevali (Carassai 1837- Belmonte P. 1918, già mugnaio a Ortezzano). La secnda moglie Re Brigida (Amandola 1855- Belmonte 1945) è ricordata novantenne quando trasportava la farina con un’asina alle famiglie e ai negozi. Erede Antonio (Carassai 1862 – Belmonte 1935) figlio di Eugenio. Il nipote Igino nel 1950 introdusse l’uso dell’energia elettrica per la molitura, poi nel 1956 egli acquistò il molino elettrificato da Brunelli Quinto esistente nella periferia del centro urbano belmontese, dove i figli Antonio ed Ettore hanno continuato a macinare fino al secolo XXI.

                                     Dino Fattoretta

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