Le Istituzioni di carattere assistenziale educativo a Fermo. Scheda di TASSI EMILIO

LE ISTITUZIONI BENEFICHE DI CARATTERE ASSISTENZIALE-EDUCATIVO  A FERMO di Emilio TASSI edito in “Quaderni dell’Archivio storico arcivescovile di Fermo” n.  52

A conclusione dell’articolo comparso nel numero 51 della rivista “Quaderni dell’archivio storico arcivescovile di Fermo”, dedicato ad illustrare l’attività delle istituzioni assistenziali di carattere sanitario esistenti nella città di Fermo, si faceva notare che non è possibile aver conto delle molteplici iniziative di assistenza e beneficenza messe in atto a Fermo tra il sec. XV e il XVIII secolo, senza trattare delle importanti iniziative messe in atto per accogliere l’infanzia abbandonata e per curarne la formazione e l’educazione avviandoli ad un mestiere.    Paolo Siniscalco in un suo ricco e motivato studio che tratta de cammino della Chiesa primitiva, dedica un ampio paragrafo a tracciare una sorta di “geografia” dell’assistenza da essa praticata fin dai primi secoli della sua storia.[1]

1 – Fondazione ed evoluzione di una importante istituzione assistenziale a scopo educativo.  Nel sinodo diocesano celebrato dall’arcivescovo di Fermo card. Carlo Gualtieri nei giorni 6,7,8 giugno 1660, nel capitolo dedicato ai Luoghi Pii si legge: Esimiae pietatis opus huius civitatis Hospitalis S. Mariae Charitatis nuncupatum, in quo infantes expositi recipiunturatque educantur.[2] L’ospizio chiamato di Santa Maria della Carità è un’opera di ottima pietà di questa città di Fermo, in esso gli infanti “esposti”sono accolti e sono educati.        La formula usata nello scarno testo legislativo evidenzia chiaramente il duplice scopo dell’importante istituzione: quello cioè dell’accoglienza dei bambini detti “esposti”, ossia abbandonati dai genitori e quello della loro educazione e dell’avviamento al lavoro.       Nel contempo il cardinale Gualtieri ne riconosce, usando l’aggettivo eximium la grande utilità ed importanza, facendone intuire implicita­mente anche l’antichità.          In effetti un importante documento fa risalire all’anno 1341 l’iniziativa di un gruppo di nobili cittadini fermani che avevano costituito una confraternita intitolata a S. Maria della Carità, conosciuta in città come “la Fraternità”, chiedendo nel contempo al vescovo  Fermano fra’ Giacomo da Cingoli (1334-1349) di poter erigere un “hospitale” pro commoditate debilium ac pauperum Jesu Christi undequaque degentium … et ipsum exstruere ac munire congrui set necessariis pro ipsorum pauperum et debilium substentatione ac etiam quiete ut ibi generalis hospitalitas teneatur. (Per comodità dei debilitati e dei poveri di Gesù Crito, in qualsiasi parte degenti, costruire e dotare l’ospizio-ospedale  del necessario per il loro sostentamento e anche per la tranquillità, e qui si pratichi una ospitalità generale).   Non si tratta, come si vede, dell’accoglienza riservata ai bambini e bambine abbandonati, ma di una struttura destinata all’accoglienza dei poveri e dei pellegrini. Lo stabile sorgeva in contrada S. Bartolomeo e la dotazione dell’ente era costituita da alcune generose donazioni; e i confratelli chiedevano al vescovo fra’ Giacomo la facoltà di poter accettare altre eventuali donazioni per incrementare il patrimonio e ut possit peti et conservari et distribui in augmentatione dicti hospitalis et necessitate pauperum et debilium personarum et acquirenti per civitatem et extra panem et alia cum sacculo et pera sive pro vita et substentatione ipsorum pauperum et in hospitale iacentium concedere et licentiam impertiri.[3] I beni richiesti, conservati e distribuiti per migliorare l’ospedale, per le necessità delle persone povere e debilitate  si voleva fossero procurati raccogliendoli dentro e fuori la città, con il sacco, la bisaccia o senza questa.

Pertanto all’atto della costituzione il pio ente aveva come finalità quella di essere un “ospitale” destinare a praticare l’accoglienza e l’assistenza nei confronti dei poveri, degli inabili e dei pellegrini. Su questa linea l’ospitale vide accrescersi più ampie licenze e privilegi concesse dai successori di fra’ Giacomo: i vescovi Bongiovanni (1349-1363) e Nicolò Marciari (1370-1374).[4]

Un cospicuo incremento di proprietà l’ospitale lo ebbe nel 1417, allorché Matteo di Buonconte, nobile fiorentino signore del feudo di Massa e proprietario dei beni del castello di Monte Varmine, lasciò per testamento all’ospitale di S. Maria della Carità di Fermo tutti i possedimenti esistenti in detto castello.[5]

Il 14 settembre 1431 papa Eugenio IV unì allo stesso ospitale i beni e il monastero di S. Angelo in Piano che sorge vicino al fiume Aso sul lato nord della piana vero cui degrada il colle sul quale sorge il castello di Monte Varmine (Comune Carassai).[6]

Niccolò V nel 1445, confermando la detta unione, aggiunse al patrimonio dell’ospitale i beni appartenenti alle due chiese di S. Pietro esistente all’interno del castelli e di S. Luca sita poco più ad ovest di esso.[7] E’ da ritenere pertanto che per tutto il sec. XV l’ospitale di S. Maria della Carità abbia mantenuto la specificità e le finalità che l’ente aveva avuto fin dalla fondazione.

Una prima iniziativa tendente a disegnare un nuova finalità all’istituzione si coglie all’inizio del secolo XVI allorché in un Consiglio di Cernita del 1529 viene avanzata e discussa una proposta complessiva tendente a mettere ordine nel settore dell’assistenza e beneficenza e si introduce nuovi criteri nell’organizzazione e nella gestione delle varie iniziative, individuandone di nuove emergenti dai mutamenti avvenuti nella vita sociale.

In una serie di sedute viene approvato un nuovo sistema: vengono eletti due cittadini deputati a organizzare la raccolta dei fondi a favore dei due ospedali già esistenti, deputati alla cura dei malati, alla ospitalità dei pellegrini e all’assistenza dei poveri. Ne vengonoeletti altri due con l’incarico di raccogliere contributo a favore dell’ospitale di S. Maria della Carità che si dovrà occupare in modo particolare dell’accoglienza dei fanciulli e delle bambine abbandonate ed esposte in tenera età dai genitori, a nutrirli, a provvedere alla loro educazione e all’inserimento nel mondo delle attività.[8]

Conferma del buon esito dell’operazione la troviamo in un documento conservato nell’archivio della Curia arcivescovile, particolarmente im­por­­tante per la sua solennità e ufficialità: Gli atti della Visita apostolica  compiuta a Fermo per ordine di Pio V nel 1573.[9]

2 – Sviluppo ed struttura dell’istituto.  Proprio in occasione di tale ispezione il Visitatore apostolico, recandosi nell’ospitale di S. Maria della Carità, riconobbe la bontà della nuova finalità assegnata all’antica istituzione e raccomandò in particolare di disporre la norma che i bambini accolti in tenera età fossero trattenuti nelle case delle balie affidatarie fino all’età di cinque anni, perché se fossero vissuti fin dall’inizio nel conservatorio avrebbero rischiato di ammalarsi.

La nuova finalità assegnata all’antico ospitale è del resto attestata dall’iscrizione su una lapide apposta alla porta del fabbricato nel 1576 che così recita: Suscipit hic pietas quos abjecere parentes. Accoglie qui la pietà quelli che sono stati abbandonati dai genitori. (Rota degli esposti in via don Ernesto Ricci, divenuto istituto Artigianelli).

Una prima testimonianza di come fosse organizzato l’ospedale “dei proietti” la possiamo trovare negli atti di Visita dell’arcivescovo mons. Pietro Dini (1621-1625).[10]

La Confraternita  che gestiva l’ospedale era composta da 50 tra i più nobili ed illustri cittadini di Fermo. Quattro di questi, eletti dall’assemblea generale, governavano l’ente e curavano in particolare che i bambini accolti venissero nutriti dalle balie, allevati ed educati nonché avviati ad un mestiere: il primo era chiamato “il banchiere” e ne curava l’amministrazione generale; il secondo, detto “cancelliere”, redigeva i decreti e le ordinanze e rogava gli atti in qualità di notaio; gli altri due erano costituiti dall’ospedaliere e da sua moglie e soprintendevano al nutrimento, alla cura e all’educazione dei proietti maschi e femmine. La cura spirituale era affidata ai religiosi Carmelitani della Congregazione di Mantova.[11]

L’organamento della “Fraternità” restò immutato fino al 1699, come si può leggere nella Visita del card. Ginetti. Ma già negli ultimi decenni del sec. XVII la situazione andava sensibilmente modificandosi: l’istituzione si era sensibilmente ingrandita e di conseguenza lo stato economico e finanziario appariva seriamente compromesso. Lo si viene a conoscere da un esposto inviato dall’arcivescovo mons. Giannotto Gualtieri all’Uditore generale del papa nel 1673. Egli comunica che essendo l’ospedale dei proietti l’unico esistente in tutta la Marca Fermana  per lo che dalle diocesi di Ascoli, di Ripatransone, di Montalto, di Loreto, di Macerata e molto spesso anche da quelle di Osimo e di Iesi continuamente vi si portano creature, onde l’esito è sì grande che da molti anni in qua, ancorché li Capi che governano esso ospedale abbiano diminuito le provisioni delle Balie, habbino tolto la provisione del maestro di leggere e scrivere e altre che si davano ai maestri arteggiani perché insegnassero l’arte alli Proietti, e che nel companatico spendino non più di un quattrino a testa il giorno, nondimeno con l’intrata non possono eguagliare l’esito e perciò si trova gravato di qualche debito.[12]

Egli aggiunge che la situazione è aggravata da alcuni abusi che si verificano qua e là nel luoghi dove l’ospedale possiede le sue proprietà.[13]

Alla fine del sec. XVII pertanto le condizioni economiche della pia istituzione risultavano talmente precarie che i responsabili avevano dovuto ridurre i servizi necessari per l’assistenza degli esposti, limitando il numero delle nutrici, coartando le retribuzioni del personale e riducendo al minimo l’attività di educazione e di formazione.

Un altro grave inconveniente era determinato dal fatto che, mentre le bambine potevano rimanere nel conservatorio fino ai venti anni di età, i maschi, una volta che erano stati riconsegnati dalle balie, potevano essere trattenuti soltanto per altri cinque anni, dopo di che dovevano essere dimessi e, se non avessero trovato qualche persona caritatevole, che ne assumesse la cura, vagavano chiedendo l’elemosina e restavano esposti ad ogni pericolo.

Nel secondo decennio del ‘700 l’arcivescovo Alessandro Borgia, trasferito (da Nocera Umbra) a Fermo da papa Benedetto XIII, così descrive la situazione: Una norma del regolamento del Conservatorio prevede che i bambini esposti e gli orfani, accolti in gran numero anche dalle vicine regioni, venissero dimessi dopo cinque anni di permanenza. Descrive poi le tristi condizioni in cui sono costretti a vivere e i gravi pericoli che corrono, e continua: Nell’anno 1734 ho affrontato tale problema e ho disposto che l’Arcidiacono della Metropolitana raccogliesse questi ragazzi e anche altri che erano orfani e provvedesse a mie spese a vestirli, a nutrirli e ad affidarli a esperti artigiani affinché li formassero all’esercizio di un mestiere secondo il loro desiderio in modo da preservarli dal chiedere l’elemosina e che venissero educati nella dottrina cristiana dai rispettivi parroci. Nell’anno 1734 ne feci raccogliere tredici.[14]

Il Borgia quindi con una lodevole iniziativa personale cercò più che di risolvere, di indicare una pista per superare questa grave situazione. L’iniziativa da lui presa appariva molto limitata ed insufficiente; bisognava infatti affrontare il problema alla radice; era cioè necessario ampliare gli scopi e l’azione del Brefotrofio attraverso una riforma degli statuti e l’ampliamento dei fondi disponibili. Ciò appariva impossibile realizzare proponendo l’iniziativa alle finanze dello Stato anche a causa del dissesto finanziario seguito alla morte di Benedetto XIII. L’iniziativa del Borgia proseguì, restando molto limitata e circoscritta.

A risolvere il problema intervenne la umile e provvidenziale iniziativa di un caritatevole laico, Luigi Antonini di Monte Rinaldo, campanaro della Cattedrale di Fermo. Egli diede principio alla vera fondazione di un brefotrofio maschile, separato dal conservatorio femminile, dove raccogliere i ragazzi abbandonati perché vi fossero ospitati, educati e avviati ad un mestiere fino agli anni venti. Cominciò quindi ad accogliere nella sua abitazione della torre del duomo alcuni bambini abbandonati, anche malati. Poiché il numero cresceva sempre di più, per poter continuare la sua opera si diede a cercare aiuto elemosinando nella città.

Poiché le risorse si rivelarono insufficienti, al fine di non abbandonarli mise in atto il coraggioso progetto di portare i ragazzi a Roma per farli ricoverare nell’ospedale di S. Gallicano che Benedetto XIV restaurò ed ingrandì nel 1757. Durante il papato di Clemente XIII, mentre arcivescovo di Fermo era l’influente cardinale Paracciani, riuscì  a coinvolgere e ad ottenere che a Fermo sorgesse un Conservatorio maschile. Il progetto trovò l’attuazione dopo la morte dell’Antonini, avvenuta nel 1799. All’inizio del pontificato di Pio VI, nel 1776, il card. Paracciani fu dal papa incaricato di provvedere alla istituzione del nuovo conservatorio procedendo ad una ristrutturazione degli antichi ospedali funzionanti nella Città; ma la morte dell’arcivescovo impedì che si iniziasse il progetto. Egli tuttavia iniziò l’ampliamento del fabbricato del Conservatorio femminile.

La ferma volontà e l’azione svolta da Luigi Antonimi, mobilitò i responsabili dell’Ospedale di S. Maria della Carità. Fu così che l’arcivescovo mons. Andrea Minucci, succeduto al Paracciani, approvò l’istituzione di un ospitale dei proietti e nel 1779 ne approvò le costituzioni assegnandogli la sede nel vecchio Ospedale di S. Giovanni che nel frattempo era stato trasferito in quello di S. Maria dell’Umiltà; in tale circostanza esso fu ampliato e restaurato. Si provvide in tal modo alla necessità di non abbandonare i bambini maschi nei primi anni dell’adolescenza e provvederli di un opportuno luogo di accoglienza in cui potessero ricevere una cristiana e civile educazione almeno fino agli anni venti. D’altro canto si evidenziava la necessità di ampliare il luogo di accoglienza delle bambine abbandonate. Tale impresa fu iniziata dall’arcivescovo card. Paracciani, ma l’opera fu interrotta a causa della sua morte avvenuta nel 1777.

Il successore mons. Andrea Minucci portò a termine la fabbrica del conservatorio delle femmine e adattò l’edificio per i maschi nell’antico ospedale di S. Giovanni.

Arduo però appariva il compito di costituire una sicura base economica e finanziaria per il buon funzionamento delle due istituzioni. L’arcivescovo, considerando che i beni della Chiesa sono anche i beni dei poveri, chiese ed ottenne dal papa Pio VI di chiamare a concorrere tutti i monasteri, le confraternite, le parrocchie e i luoghi pii della vasta arcidiocesi. Ne fa fede il Breve emanato dal papa il giorno 12 febbraio 1780.[15] Vi si stabiliva una imposta straordinaria “una tantum” a tutti i luoghi pii della diocesi e una contribuzione ordinaria annuale agli stessi luoghi pii a vantaggio del Conservatorio. Ciò fruttò dalla contribuzione “una tantum” 20.258 scudi e 743 rubbie di grano, e grazie alla contribuzione ordinaria, scudi 2341,26. In più vennero assegnati all’ente Conservatorio i beni della soppressa Confraternita dei Bergamaschi e quelli della pia eredità Incastri.

La situazione poteva considerarsi risolta in maniera definitiva, se non fosse sopravvenuta la demaniazione ordinata dal regime napoleonico. Il successore di mons. Minucci, il card. Cesare Brancadoro (1803-1837) così descrive la situazione venutasi a creare dopo l’ordinanza dal Regno Italico: La cessazione dell’esenzione dai dazi e dalle imposte, il malcostume cresciuto costituirono un lucro cessante ed un danno emergente <tale> che ne risultava un’annua progredente passività, che <rac>chiudeva il germe della totale distruzione del pio istituto.[16]

L’intervento del card. Brancadoro determinò un cambiamento radicale della base economico-finanziaria della istituzione; infatti proprio nel 1828, ottenne dalla Congregazione del Buon Governo l’approvazione del nuovo regolamento per un annuo contributo a cui tutti i Comuni che usufruivano dell’accoglienza degli esposti provenienti dai vari luoghi erano sottoposti in proporzione all’utile che ne ritraevano ed alle necessità del luogo pio.

Così si giunse fino al 1864 allorché con Decreto Reale L’Ospedale di S. Maria della Carità fu affidato alla Congregazione di Carità. Gli sviluppi successivi è storia recente che si è chiusa con una lenta agonia fino alla definitiva soppressione. Ed è una storia tutta da ricostruire!

3 – Aspetto istituzionale ed organizzativo.

Quanto all’aspetto organizzativo e statutario a noi non interessa esaminare gli statuti della “Fraternità”, quanto piuttosto tener presenti le regole che governavano le attività del conservatorio degli esposti. Abbiamo breve­mente visto che esse si fanno risalire al momento del riconosci­mento della nuova finalizzazione dell’ente, alla fine cioè del sec. XVI (1573), all0rché il visitatore apostolico mons. Maremoti stabilì ed approvò i nuovi statuti dell’istituzione di accoglienza degli esposti.

Nuove e più dettagliate norme, specialmente per quanto concerneva l’ammissione, vengono fissate nel 1660 nel Sinodo celebrato in quell’anno dal card. Carlo Gualtieri.[17] Le norme ivi fissate tendevano a regolare e disciplinare l’afflusso e l’accoglienza degli esposti, segno evidente che il problema destava preoccupazione in quanto a Fermo venivano portati bambini e bambine da diverse città di varie diocesi delle Marche. Le principali disposizioni erano:

a)      nessun bambino che avesse superato i due anni, poteva essere accolto

b)      non poteva essere accettato nessun esposto originario da un’altra diocesi e conseguentemente nessun diocesano si sarebbe potuto prestare a presentare al conservatorio tali bambini, a meno che non intervenga esplicita approvazione data dall’assemblea della Fraternita;

c)      non potevano essere presentati figli nati da genitori legittimi e nel caso in cui i genitori fossero miserabili, la loro accoglienza era consentita solo per uno speciale decreto della Fraternita;[18]

d)      se qualche genitore facoltoso fosse costretto per vergogna a consegnare alla porta del conservatorio un bambino illegittimo, era tenuto in coscienza, anche in modo anonimo, a rifondere al brefotrofio il necessario per il mantenimento dell’esposto;

e)      tutti i parroci e i confessori erano tenuti ad avvertire tutti i cristiani e imporre a tutti coloro che fossero stati nelle condizioni previste, l’osservanza delle disposizioni date sotto pena di incorrere in una colpa grave

Le disposizioni adottate nel sinodo del 1660 furono in buona sostanza confermate nel 1771 dal card. Urbano Paracciani in occasione della visita pastorale da lui eseguita.[19]

In tale occasione egli delegò il sign. Michele Leli, probum hominem et rerum eiusdem hospitali usum habentem (persona per bene e pratica dell’uso dell’ospizio), ad adeguare le vecchie norme alle nuove esigenze.

Veniamo così a sapere che il governo del Conservatorio subì una radicale trasformazione strutturale. La direzione dell’istituzione non era più esercitata dalla Fraternità di S. Maria della Carità, ma veniva affidata a due distinti gruppi di persone: un comitato formato da 18 cittadini eletti dal Consiglio di Cernita del Comune e un gruppo di sei persone scelte dalla corporazione dei mercanti. Potremmo dire che la “governance” del brefotrofio subisce un sorta di trasformazione strutturale per il fatto che essa viene, almeno parzialmente, laicizzata, pur rimanendo sempre sotto il controllo dell’autorità ecclesiastica. Si tratta infatti del cambiamento della struttura del comitato direttivo formato da un gruppi di 24 persone designate da istituzioni fondamentali della Città. L’assemblea generale di detto comitato eleggeva annualmente tre dei quattro deputati al governo esecutivo dell’ente, mentre il quarto membro era colui che aveva presieduto il gruppo dei quattro “Capi” in carica nell’anno precedente. Le consorti degli uomini componenti questo ristretto collegio erano investite responsabilità della direzione della sezione femminile del conservatorio.

Evidentemente tali norme dovevano dare la garanzia di imparzialità e di buon governo dell’ente.[20]

Un altro interessante documento che attesta lo stato in cui versa il Brefotrofio è la Relatio ad Limina apostolorum redatta dal card. Paracciani dopo la Visita pastorale del 1771.[21]

A proposito del Brefotrofio l’arcivescovo fa notare che le norme emanate dal card. Gualtieri nel 1660, a lungo andare, si erano dimostrate inefficaci specialmente per la necessità di frenare un eccessivo afflusso di bambini esposti; di conseguenza l’istituzione non era più in grado di sostenere le spese di esercizio enormemente aumentate. Da parte sua il cardinale aveva tentato di porre un freno all’afflusso dei bambini provenienti a da altre diocesi, specialmente le più lontane, ma si era reso conto che avrebbe commesso un gesto disumano operando tali discriminazioni. Per questo ardisce avanzare al papa una richiesta che avrebbe consentito di risollevare le condizioni finanziarie del conservatorio e venire incontro alle esigenze sempre crescenti degli esposti che chiedevano di essere accolti[22]: Chiediamo pertanto che un sufficiente numero di beni e di redditi che appartengono ad altri pii enti religiosi e di beneficenza di essere autorizzati ad assegnarli a questa nostra così necessaria istituzione, affinché essa non deperisca lentamente e la nostra società non sia privata da una così utile opera benefica. E’ chiaro che il Paracciani aveva previsto bene la soluzione del problema: esso non consisteva nel limitare e frenare l’attività di accoglienza del brefotrofio, ma quello di ampliarne la base economica e finanziaria; si evidenziava inoltre l’esigenza di prolungare il periodo di permanenza degli esposti maschi fino al ventesimo anno di età in modo da avviarli alla vita sociale e di ampliare l’edificio destinato all’accoglienza delle bambine.

La morte del Paracciani nel 1777 impedì la realizzazione del suo progetto; ne aveva però ottenuto l’approvazione da parte del papa Clemente XIV nel 1773 e aveva impostato il programma per accorpamento dei beni e iniziato i lavori di ampliamento del fabbricato destinato alle ragazze.

L’intero progetto fu realizzato dal successore del Paracciani che prese possesso della diocesi nel 1799, dopo due anni di vacanza della sede fermana.

In data 12 febbraio 1780 Pio VI inviò a mons. Minucci un Breve apostolico con il quale lo nominava Commissario e Visitatore apostolico per il buon regolamento e augumento delle rendite del ven. Ospedale di S. Maria della Carità delli Proietti.[23] Le facoltà pontificie concesse erano molto ampie e prevedevano l’adeguamento degli statuti e delle regole sia della sezione maschile che di quella femminile; il potere di assegnare all’ospedale i benefici di alcuni enti ecclesiastici, di imporre a tutti i luoghi pii della diocesi e a tutte le comunità civili delle località da cui provengono i bambini abbandonati e esposti presso l’ospedale un contri­buto adeguato al servizio del conservatorio.

L’arcivescovo compie una approfondita ispezione tra il 1780 e il 1781 al fine di aver un quadro preciso della situazione reale dell’ospedale.[24]

Nell’introduzione mons. Minucci dichiara di voler portare a compi­mento il progetto appena iniziato dal suo predecessore special­mente per ciò che riguarda la sistemazione dei due edifici destinati uno all’accoglienza dei maschi e l’altro a quella delle femmine, precisando onde tanti abbandonati proietti e proiette potessero in avvenir, in due ben comodi e disciplinati conservatori ricevere una cristiana educazione ed apprendere quelle arti alle quali fossero più inclinati e rendersi in tal modo utili alla società.[25]

La prima disposizione presa fu quella di ribadire la proibizione di accogliere gli esposti provenienti dalle località fuori dalla giurisdizione diocesana, con la comminazione di severe pene detentive contro i contravventori; non possiamo peraltro dire con quanta efficacia, visto che l’accoglienza continuò in maniera identica.

Mons. Minucci mise mano anche ad una seria riforma della “governance” dell’ente: ferma restando l’assemblea generale composta da 18 membri di Cernita e di 6 nominati dalla corporazione dei Mercanti, i “capi” furono ridotti a due e si estese il periodo del  loro mandato che divenne di tre anni, in modo che potessero dirigere con maggiore esperienza l’importante istituzione.

L’assemblea generale dei 24 divenne il principale organo di controllo che si riuniva mensilmente per rivedere la contabilità e conoscere i problemi; la gestione dei beni immobili posseduti dall’Ospedale e la riscossione dei censi attivi fu affidata ad una persona con la funzione di economo generale, coadiuvato in loco da due agenti agrari che soprintendevano ai possedimenti agricoli: il primo con residenza a Rocca Montevarmine con il compito di seguire i possedimenti esistenti ivi e nel castello di Acquaviva; il secondo a Fermo con l’incarico di seguire l’amministrazione dei beni esistenti a Fermo, a Torre S. Patrizio e a Montottone. A quest’ultimo spettava anche l’onere di esigere i crediti e i censi imposti dal decreto alle singole comunità e agli altri enti pii.

La direzione del conservatorio maschile fu affidato al cappellano, di quello delle ragazze fu data ad una donna dette “la Priora” scelta tra diverse persone già approvate dall’arcivescovo.

Le maestre poi venivano elette dall’assemblea generale e non potevano essere meno di cinque.

A mons. Minucci non sfuggì la necessità di inserire negli statuti norme che già erano state pensate dai vescovi antecessori Ginetti e Paracciani. Stabilì infatti che il baliatico, cioè il periodo nel quale i bambini venivano affidai alle balie, fosse aumentato fino ai nove anni, ma affrontò in modo definitivo il problema dell’accompagnamento delle femmine e dei maschi fino al raggiungimento della maggiore età. I)n particolare stabilì che le ragazze rimanessero in istituto fino ai venti anni (cosa già prevista nei vecchi ordinamenti) e per i maschi previde che essi restassero in conservatorio fino alla stessa età delle ragazze. Queste poi, all’atto di sposarsi dovevano essere provviste, a carico dell’ente, di una dote di 40 scudi, oltre al corredo che esse si erano venute preparando con il loro lavoro. I maschi venivano dimessi al compimento dei venti anni e l’amministrazione doveva assegnare ad ognuno la somma di almeno tre scudi per acquistarsi gli strumenti del mestiere a cui si erano preparati.[26] Per quanto riguarda il problema della stabilizzazione finanziaria l’arcivescovo, dopo averne ricevuto esplicita autorizzazione dal papa, impose a tutti gli enti religiosi e ai luoghi pii della diocesi una duplice tassa: la prima aveva la caratteristica di contribuzione  “una tantum”, rapportata al bilancio di ogni ente; la seconda era invece una tassa annua e perpetua, rapportata alle disponibilità degli enti e dei luoghi pii, da liquidare in due rate: il 24 giugno, festa di S. Giovanni Battista e il 27 dicembre, festa di S. Giovanni evangelista. Abbiamo già detti l’importo delle due contribuzioni alle casse dell’Ospedale della Carità; a questo si deve aggiungere il fatto, non meno importante che mons. Minucci decise la soppressione di alcuni enti religiosi e luoghi pii, considerati inutili, e l’accorpamento dei rispettivi beni immobili al conservatorio dei proietti. Il decreto fu integralmente approvato dal papa con un suo Chirografo il 22 gennaio 1782 ed entrò immediatamente in vigore.[27]

L’iniziativa di Minucci non si limitò a regolare il settore amministrativo e finanziario, ma affrontò con decisione anche l’aspetto organizzativo e pedagogico dei due istituti. Egli infatti concluse il suo impegno con il regolamento del conservatorio femminile e con la realizzazione ex novo di quello maschile.

Val forse la pena offrire alcuni elementi delle regole che erano in vigore e che guidavano la vita delle ragazze.

L’entrata effettiva nel collegio femminile venne posticipata e fissata ai 9 anni e ciò per rendere più agevole l’impegno di lavoro delle ragazze più anziane.

Dopo la levata le fanciulle dovevano accudire alla propria pulizia personale per mezz’ora per poi recarsi nella chiesa per recitare le preghiere del mattino e partecipare alla messa.

Dopo aver consumato la colazione, si scendeva nel laboratorio dove iniziava il lavoro: durante la prima ora le ragazze dovevano recitare a turno e ad alta voce le formule della dottrina cristiana, dopo di che si poteva dialogare sottovoce.  Il pranzo avveniva in silenzio mentre veniva proposta la lettura della biografia di qualche santo o brani della regola del Conservatorio. Sia dopo il pranzo che dopo la cena era concessa mezz’ora di ricreazione, che veniva raddoppiata nei giorni vestivi allorché era prevista il tempo per una passeggiata in zone meno frequentate e con l’assistenza delle maestre.

Interessanti le norme che regolavano il lavoro e la retribuzione prevista. Innanzitutto veniva escluso ogni lavoro per il personale dirigente o di sorveglianza.

Il tipo di lavoro non veniva scelto e imposto dalla Priora (direttrice), ma veniva fissato in base alle tendenze e alle capacità delle singole ragazze. Per questo la Priora era tenuta ad informarsi dalle donne a cui esse erano state consegnate fino all’età di nove anni, sulle capacità e le preferenze mostrate; tutte però dovevano imparare a eseguire i lavori tipici femminili come accudire la casa, tessere, fare la calza, rammendare, preparare il desinare.

Le attività poi per il buon andamento del collegio venivano esercitate a turno da tutte le collegiali; ciascuna poi sceglieva l’attività artigianale che preferiva. I lavori fatti ad uso del conservatorio tanto maschile che femminile veniva eseguito senza alcuna retribuzione e veniva considerato come contributo al proprio sostentamento.

I lavori eseguiti per conto terzi venivano retribuiti nella misura di un terzo del prezzo di vendita e il ricavato doveva servire per prepararsi il corredo personale.

Le regole prevedevano poi una stretta e severa clausura nella vita ordinaria del collegio; i casi eccezionali di visite all’interno venivano esplicitamente e tassativamente previsti e regolati.

A regolare il caso del collocamento delle ragazze nel matrimonio, esistevano norme ben precise: lasciando integra la libertà delle giovani, di norma non era consentito il matrimonio prima di aver raggiunto l’età di 24 anni. Tuttavia, a giudizio dei Capi e su indicazione della Priora, erano consentite eccezioni.  Allorché veniva avanzata una richiesta di matrimonio, la congre­gazione disponeva di prendere le opportune informazioni per conoscere non soltanto sui buoni costumi e sulla saviezza del soggetto richiedente, quanto anche sulla sufficiente idoneità per mantenere la famiglia [28].

Come si vede, era evidente una duplice preoccupazione: quella di dare in sposa le ragazze a gente onesta che le rispettasse e non le maltrattasse, e quella di assicurare a loro un avvenire tranquillo e il più possibile sereno; è fatta anche la raccomandazione di non concedere le ragazze ad uomini troppo anziani. I deputati del conservatorio dovranno interessarsi delle condizioni delle ragazze anche dopo il matrimonio. Quanto alla dote assegnata ad ogni giovane all’atto di sposarsi, era fissata in scudi 40.

Come onesto e possibile collocamento delle donne era comunque prevista anche la loro adozione con norme precise e stringenti.

Le regole emanate da mons. Minucci nel 1782, si aprono con una premessa significativa che evidenzia l’esigenza di istituire un vero conservatorio maschile che accompagnasse la crescita degli esposti maschi che costituivano un vero grave problema sociale. Essi infatti, come si è detto,  venivano abbandonati a sé stessi dopo il periodo del baliatici e dopo appena altri cinque anni di collegio. Il caritatevole campanaro del duomo Antonini aveva in qualche modo individuato una possibile strada; il Borgia aveva creato una piccola struttura di accoglienza; il Paracciani aveva considerato una soluzione permanente, ma solo mons. Minucci portò a compimento l’opera e ne tracciò il regolamento.[29]

L’ammissione dei ragazzi al conservatorio era automatica nel senso che erano le stesse balie che, al compimento dei nove anni, consegnavano i fanciulli ai dirigenti della Fraternità della carità che ne deliberavano la loro ammissione e la loro permanenza si protraeva fino ai venti anni.

Il sacerdote che dirigeva il collegio e il suo assistente assumevano le opportune informazioni sul carattere e il temperamento di ognuno e valutavano con attenzione le inclinazioni e le predisposizioni che rivelavano nel settore lavorativo che intendevano intraprendere e venivano quindi indirizzati nelle varie botteghe artigianali esistenti nella città. Da parte sua il Brefotrofio possedeva due  botteghe al suo interno, date in affitto ad artigiani della città allo scopo di addestrare esclusivamente i ragazzi che non avevano trovato posto nei laboratori cittadini. A coloro che non lavoravano nel laboratorio interno, il regolamento prevedeva la dazione di un paolo al giorno.[30]

Dopo la levata, le preghiere e la colazione, “i ragazzi si anderanno disponendo per andare val lavoro in bottega e sortendo dal conservatorio modestamente a due per due in fila, accompagnati sempre dal prefetto e dal correttore, si porteranno nelle rispettive botteghe nelle quali con tutta l’attenzione ed assiduità lavoreranno ciò che dal proprio maestro gli verrà ordinato. Mezz’ora prima del pranzo verranno tutti raccolti dal prefetto e dal correttore e, posti in fila, con lo stesso ordine e la stessa modestia ritorneranno in conservatorio per pranzare.[31]

Nel pomeriggio, dopo un breve periodo di svago, ritornavano alle botteghe per continuare il loro lavoro di apprendistato. Al ritorno serale le regole prevedevano un’ora durante la quale veniva insegnata dal sacerdote la dottrina cristiana; mentre un’altra ora era dedicata all’insegnamento del leggere e dello scrivere: maestri erano il sacerdote rettore, il prefetto e il correttore ed anche i ragazzi più grandi già istruiti. Nei giorni festivi era previsto un maggior tempo da dedicare alla preghiera e alla partecipazione alla messa festiva.

La normativa che si riferiva al lavoro e all’apprendistato dei ragazzi così si esprimeva: “Tutti i figlioli del nostro Conservatorio dovranno essere applicati ad una qualche arte meccanica tanto per schivare il pestifero ozio, sorgente di ogni male, quanto per apprendere una professione dall’esercizio della quale, divenuti adulti ed esclusi che saranno dal Conservatorio, possino detrarre il di loro sostentamento con il sudor della propria fronte”.[32] A questo fine il sacerdote rettore era tenuto ad individuare le tendenze e i gusti dei giovani ed assegnare ad essi i mestieri più confacenti.

Le arti  a cui si dedicavano erano le più comuni: calzolaio, sarto, falegname, fabbro, tintore barbiere e quant’altro.  E’ molto significativo che non era escluso che qualcuno fosse indirizzato, se mostrava una particolare propensione e evidenti capacità, agli studi superiori per l’esercizio di qualche professione. In tal caso “si faccia ciò noto al rettore acciocché il medesimo, dopo li maturi esami ed esperienze, possa riferire alla Congregazione generale e a Noi [l’arcivescovo] il caso preciso per prendere in seguito sopra quel figliolo gli opportuni espedienti per coadiuvare, per quanto sarà possibile, a coltivare l’inclinazione del medesimo”.[33]

Per quanto riguarda la retribuzione dei ragazzi le regole prevedevano la stipula di un vero e proprio contratto di apprendistato con gli artigiani che li assumevano nelle loro botteghe; essi dovevano versare an­nualmente all’economo del Conservatorio la retribuzione pattuita. I giovani ricevevano un terzo della paga, mentre i due terzi venivano trattenuti dall’istituto come contributo al loro mantenimento.

Al momento dell’uscita dal Conservatorio di ogni ragazzo ventenne, l’economo forniva gratuitamente gli arnesi necessari a svolgere l’attività appresa, affinché potesse subito iniziare a lavorare per proprio conto.

L’azione riformatrice di mons. Minucci, come brevemente si è accennato sopra, aveva garantito all’istituzione una base economica sufficientemente solida.

La situazione cambiò radicalmente, durante la dominazione napoleonica, con il decreto regio di demaniazione e di soppressione delle congregazioni e degli enti religiosi. Ciò fece in modo che il Conservatorio degli esposti subisse gravissimi danni a tal punto che, in seguito alla Restaurazione, al momento della sua ricostituzione l’ente si venne a trovare con un credito  (entrata) non più esigibile di 13.000 scudi.[34]

Inoltre erano decadute tutte le esenzioni dalle gabelle fondiarie; intervenne poi una diffusa pratica di mala amministrazione dei beni fondiari. Per questo il card. Brancadoro, non potendo più fare assegnamento per una saggia amministrazione sulle dilapidate sostanze della Chiesa e degli enti religiosi, nel 1828 emanava un nuovo regolamento e chiedeva alla Congregazione del Buon Governo l’autorizzazione di richiedere che i Comuni i quali usufruivano dei servizi di assistenza agli esposti un congruo contributo che consentisse l’espletamento dei compiti dell’istituzione.

In tal maniera il Conservatorio poté andare avanti fino al 1864, allorché in forza di un regio decreto l’amministrazione dell’ospizio venne affidata alla Congregazione di Carità e quindi alla pubblica am­mi­nistrazione.


[1] P. SINISCALCO, Il Cammino di Cristo nell’impero romano, Roma-Bari 2009, pp. 119 ss., 123 ss. e 183-184.

[2] Synodi Firmanae provincialis sub Ill.mo ac Rev.mo domino Sigismundo Zanettino et dioecesana sub em.mo ac rev.mo domino Carolo card. Gualterio archiepiscopis et principibus firmansi, Firmi 1662, cap. XXX, p. 134.

[3] ARCHIVIO BREFOTROFIO DI FERMO (A.B.F.) pergamena 1341, maggio 10 (non numerata); attualmente conservata in Arch. Di Stato di Fermo. La pergamena è stata in parte pubblicata da M. CATALANI, De Ecclesia Firmana eiusque episcopis et archiepiscopis commentarius, Firmi 1783, app. dipl. n.LXXXIII.

[4] M. CATALANI, De Ecclesia Firmana, cit., pp. 213-221.

[5] La donazione è attestata dal testamento di Matteo, rogato dal notaio fermano Giovanni di Biagio; cfr. A.B.F., Testamento di Matteo Buonconte, perg. Or. (non numerata). Il documento è stato pubblicato da G. MICHETTI in Rocca Montevarmine, Fermo 1971, app. dipl. n.I.

[6] Cfr. Ibidem; La chiesa monastica di S. Angelo in Piano, fino a qualche anno fa in stato di completo abbandono e gravemente lesionata, da circa un decennio è stata sottoposta a restauro, di cui, però non si vede il completamento.

[7] F. TREBBI – G. FILONI, Erezione della chiesa cattedrale di Fermo a Metropolitana, Fermo 1890, p. 199.

[8] Ibidem, pp. 200.

[9] ASAF, Serie Visite: Visita apostolica a Fermo ad opera di mons. Giovanni Battista Maremoti, vescovo di Ustica; Arm. II, O 17/18. Visita fatta all’ospedale di S. Maria della Carità.

[10] ASAF, Serie Visite, Visita pastorale di mons. Pietro Dini, II-X-2, cc. 41-58.

[11] Questi religiosi erano presenti in città fin dal 1491, chiamati dall’Amministratore apostolico di Fermo Francasco Todeschini Piccolomini, che aveva ad essi affidato la Chiesa di S. Maria della Carità. Questi religiosi lasciarono Fermo nel 1658 (cfr. M. CATALANI, De Ecclesia, cit. pag. 265).

[12] ASAF, Esposto a mons. Bottini, Auditore di Nostro Signore, Corrispondenza mons. Gualtieri, ms, fasc. non num.

[13] E’ il caso di spese superflue e ingiustificate avvenute in occasioni di feste a Torre S. Patrizio e a Grottammare (cfr. Ibidem).

[14] ASAF, Cronica sacrosanctae Firmanae Ecclesiae, ms. Arm. III, vol. I anno 1734, n. 9.

[15] ASAF, Breve del papa Pio VI e regolamento per il funzionamento del Conservatorio degli esposti, Fermo 1781.

[16] Proemio al Regolamento del cardinale Brancadoro pubblicato a Fermo, Bolis 1828.

[17] Synodus Firmanae provincialis et dioecenana em.mi card Caroli Gualterii …, Firmi 1662, cap. XXX.

[18] Il che significa che non si intendeva in alcun modo trasformare il brefotrofio in orfanotrofio.

[19] ASAF, Visita civitatis Firmi, II-R, Fermo, 1771, cc. n. n.

[20] Le fanciulle accolte nel brefotrofio erano circa un centinaio, mentre i bambini che erano affidati alle balie fino ai cinque anni di età erano ben 180. (Cfr. Ibidem, cit.).

[21] ASAF, Relativo ad Limina del card. U. Paracciani, sala A voll. 1-3.

[22] Evidentemente le modifiche alla “governance” del Brefotrofio erano state suggerite al cardinale da queste preoccupazioni.

[23] Decreti dell’Ill.mo e Rev.mo monsignore Andrea dei conti Minucci, arcivescovo e principe di Fermo approvati con speciale autorità della santità di N. S. Pio papa VI, felicemente regnante, Fermo 1782, pp. 3-7.

[24] Purtroppo non possediamo gli atti di tale ispezione; tuttavia il contenuto dei decreti emanati nel corso del 1781, ci fanno pensare a condizioni pressoché disastrose sia sul piano organizzativo sia su quello economico e finanziario.

[25] Ibidem, cit. pp. 8-10.

[26] Decreti dell’ill.mo e rev.mo mons Minucci…, cit. pp. 16-22.

[27] Decreti, cit., pt. III, p. 119.

[28] Ibidem, p.168.

[29] Così il Minucci scrive: La mancanza di un luogo sicuro in cui potessero i figliuoli proietti apprendere l’educazione cristiana ed attendere alle arti meccaniche, unico loro patrimonio onde vivere, ha fatto toccare con mano che era troppo necessario alla pubblica quiete e al buon costume di raccoglierli e di unirli in un Conservatorio ben disciplinato per far sì che in avvenire in luogo di aggravio divenissero utili alla società, in “Regole da osservarsi e mettersi in pratica nel Conservatorio dei figlioli maschi della città di Fermo, compilato ad ordine dell’illmo e rev.mo mons. Andrea dei Conti Minucci”, Fermo 1782, p. 224 ss.

[30] Ibidem, cit. pp. 245-247.

[31] Ibidem, cit., pp. 247-248.

[32] Ibidem, cit. pp. 253-254.

[33] Ibidem, cit., p. 254.

[34] Cfr. Proemio al Regolamento del card. Cesare Brancadoro pubblicato a Fermo nel 1828 per i tipi di Bartolini.Fermo 1828.

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