MIOLA GABRIELE DOCENTE BIBLISTA spiega ” Figure di giovani nell’Antico Testamento” edito in Firmana nn. 35-36 a. 2004

FIGURE    DI     G I O V A N I   NELL’ANTICO TESTAMENTO
di Gabriele Miola

Premessa

L’articolo riprende una conversazione fatta con il gruppo di “Pastorale giovanile” di Azione Cattolica. Non vuol essere esaustivo; l’esposizione manterrà lo stile del dialogo riportando in nota spiegazione di termini non usuali per quanti hanno una conoscenza comune dell’Antico Testamento.

Troviamo nell’AT figure giovanili e insegnamenti riguardanti i giovani e la loro educazione. Per lo più sono figure maschili, ma non mancano anche figure fem­minili (p.e. Dina figlia di Giacobbe, Myriam sorella di Mosé e di Aronne, Tamar sorella di Assalonne, Giuditta ed Ester figure create nella letteratura di tipo apocalittico ecc), sebbene quella biblica sia una società, come tutte quelle del Vicino Oriente Antico, secondo il modo di vedere di oggi, maschilista, dove il soggetto principale della vita sociale, politica e religiosa è direttamente l’uomo e non la donna. Ci fermiamo solo su alcuni giovani, che hanno avuto un ruolo rilevante nella storia della salvezza.

Presenteremo prima i personaggi e poi faremo qualche cenno sull’educazione dei figli e dei giovani.

Giovane si può dire in rapportò allo stato sociale e in rapporto all’età. In rapporto allo stato sociale, nella Bibbia, uno è giovane fino a quando non costituisce una sua famiglia con l’assunzione di tutte le responsabilità connesse. Il racconto di Gen 3 sulla creazione dice chiaramente che ’adam, l’uomo è solo fino a quando non forma la coppia ’islo-’isshah, allora è un uomo completo. Il matrimonio dei giovani era combinato dalle famiglie e i giovani si sposavano abbastanza presto: i giovani intorno ai venti anni e le ragazze tra i 15-16 anni. Riguardo all’età anche l’uomo sposato si considerava giovane in rapporto agli anziani del clan o della tribù[1] [2].

Figure di giovani. Tratteggeremo alcune figure più note seguendo l’ordine del canone biblico[3]

1.1 Isacco

   È il figlio promesso e tanto desiderato, avuto in tarda età solo come dono di Dio, che ha concesso alla coppia sterile Abramo-Sara di avere il figlio perché si realizzasse la promessa fatta al capostipite d’Israele: farò di te un grande popolo (cfr. Gen 12, 2). Isacco, come indica il nome stesso[4], ha portato il sorriso nella coppia ed è il segno dell’inizio di quella discendenza numerosa come le stelle del cielo promessa da Dio al patriarca (cfr. Gen 15, 5). Sull’adolescenza e la gioventù di Isacco il testo biblico non ci dà notizie. Il momento significativo è quello del “sacrificio d’Isacco” di Gn 22, in cui il personaggio principale non è tanto il giovane Isacco quanto il padre Abramo, cui Dio chiede: Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio, che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò. Abra­mo risponde: Eccomi[5] [6]. La fede di Abramo è grande e sentirà lo strazio nel cuore quando il figlio Isacco, carico della legna che portava e che doveva servire per il suo sacrificio, domanda al padre: Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto? La fede di Abramo però ha un corrispettivo nel figlio: Isacco è umile, silenzioso, pronto a sottomettèrsi a quel che comporta la fede del padre, la risposta del padre Abramo a Dio.

Il racconto biblico di Gn 22 si è ampliato nella tradizione ebraica e nella letteratura midrashica6 si è sviluppata un’ampia riflessone sulla figura di Isacco ed è sorta una festività chiamata Aqedah che significa “la legatura” cioè di Isacco. Riporto un brano del dialogo tra Isacco e satàn[7] che vuol sviare Isacco dall’obbedienza al padre. Dopo aver fallito con Abramo, satàn attacca Isacco: “Quando il satàn vide che le sue insinuazioni non giovavano a nulla, prese le sembianze di un giovane e si avvicinò ad Isacco dicendogli:

– Dove vai? –

–  A studiare la Torah[8].

–  In vita o dopo la morte?

–  C’è forse qualcuno che studia dopo la morte?

–  O infelice, figlio di una madre infelice! Quanti digiuni, quante preghiere ha fatto tua madre prima che tu nascessi e ora questo vecchio, diventato pazzo, ti porta a morire!

–  Nonostante ciò non voglio violare il comando del mio Creatore e quello di mio paure.

–  Dunque tutti i più bei vestiti, che tua madre ha preparato, passeranno in ere­dità ad Ishmaele? E tu non ci pensi?

A volte, se un’insinuazione non riesce completamente, riesce almeno in parte. Isacco si voltò verso il padre e gli disse:

–  «O padre mio! Vedi cosa mi dice costui?»

– Non gli dar retta! – rispose Abramo.

Quando satàn vide che non si lasciavano persuadere, si tramutò in un gran­de fiume. Abramo entrò nell’acqua che gli arrivava alle ginocchia e poi disse ai suoi uomini: «seguitemi». Ed essi In seguirono. Giunto a metà del fiume, l’ac­qua gli arrivava alla gola. Allora Abramo si volse verso il Cielo e disse:«Signore del mondo! Tu mi hai eletto e ti sei rivelato a me dicendo: «Io sono uno e tu sei uno: per tuo mezzo sarà conosciuto il mio nome nel mondo, offri Isacco tuo figlio in sacrificio dinanzi a me» ed io non ho indugiato e stavo appunto adem­piendo al tuo comando, ma acqua è giunta sino al capo minacciandomi di morte” (Sai 69,2). Se io o Isacco affogheremo, chi osserverà i tuoi comandi? per mezzo di chi il Tuo nome sarà proclamato unico?». Gli rispose il Santo, bene­detto Egli sia: «ti giuro che, per tuo mezzo, il mio nome sarà conosciuto nel mondo!».

Il Signore ammonì il fiume, esso si seccò e così passarono all’asciutto”[9].

Questo midrash è un commento che esalta la figura di Isacco come giovane di fede, mette in evidenza la forza della tentazione, che arriva a gettare il discredito sul padre, che vien fatto passare come un vecchio pazzo, ma ancor più esalta la forza della fede di Isacco, che respinge le insinuazioni di satàn, e la forza della preghiera di Abramo, che si affida a Dio e gli ricorda la fedeltà alle sue promesse.

Il racconto del sacrificio di Isacco nell’economia del disegno biblico vuol insegnarci due cose: primo che in Israele sono proibiti i sacrifici umani, che purtroppo erano usuali, come ci attésta la storia del Libro dei Re perché vi si narra che due re empi offrirono in sacrificio i loro primogeniti: Acaz (cfr. 2 Re 16,3) e Manasse (cfr. 2 Re 21,6); e secondo che il vero culto a Dio non passa attraverso i sacrifici e le cose materiali, ma attraverso la fede, che è obbedienza a Dio. In que­sto la figura di Isacco è di grande attualità: è il giovane che ha maturato una grande fede, che è centrato sulla sua interiorità, sui valori fondamentali della vita, pronto a dare tutto se stesso.

La Genesi ci offre un’altra pennellata su Isacco giovane. Il cap. 24 è dedicato al matrimonio di Isacco, ma di per sé nel racconto Isacco è una figura assolutamente secondaria. E Abramo che manda il suo servo Eliezer a trovare una sposa per il figlio perché non vuole che Isacco sposi una donna locale, cioè cananea. Tutto il capitolo evidenzia il piano della Provvidenza che già ha preparato una moglie per Isacco e che il servo Eliezer riconoscerà nella giovane Rebecca della famiglia da cui Abramo era partito per rispondere dia chiamata di Dio. Il lungo capitolo, ricco dei colori tipici del mondo orientale, si conclude con una sola frase che riguarda Isacco: Il servo raccontò ad Isacco tutte le cose che aveva fatte. Isacco introdusse Rebecca nella tenda che era stata di sua madre Sara; si prese in moglie Rebecca e l’amò. Isacco trovò conforto dopo la morte della madre (v. 67). Il narratore dice poco di Isacco, non dice nulla sul calore-di un incontro di due giovani che vanno al matrimonio, anzi ci presenta un Isacco quasi mesto, solitario, pur in attesa del ritorno del servo e dell’esito dell’ambasciata che gli era stata affidata, scrive infatti: Isacco uscì sul far della sera per svagarsi in campagna e, alzando gli occhi, vide venire i cammelli (v. 64), cioè la carovana del servo Eliezer che tornava.

Il racconto tende a sottolineare più il fatto del matrimonio che i sentimenti che l’accompagnano, che sono ben condensati in quella espressione “e l’amò”. Una sottolineatura importante per i giovani di oggi, che vivono in una società e in una cultura che danno valore assoluto ai sentimenti e poco all’istituzione, tanto che sentimenti anche vaghi e passeggeri possono mettere in crisi senza problemi la sta­bilità del matrimonio.

Isacco nell’insieme della Genesi è una figura di passaggio tra Abramo e Gia­cobbe, è più esaltato nella tradizione ebraica e cristiana che nella Bibbia: per la tra­dizione ebraica è il giovane ubbidiente e forte; la tradizione cristiana ha visto inve­ce in Isacco una “figura” di Gesù, che offre se stesso nell’obbedienza della fede.

1.2 Giuseppe

Anche Giuseppe è un figlio atteso e desiderato. Giacobbe l’ha avuto dalla moglie amata e preferita, Rachele, che per lunghi anni dopo il matrimonio non ave­va dato figli al marito, al contrario di Lia, l’altra moglie di Giacobbe, sorella di Rachele, che subito gli aveva partorito figli. Giuseppe è il figlio più amato dal padre perché l’aveva avuto a tarda età, a confronto degli altri figli, nati da Lia e dalla due schiave che Rachele e Lia dettero a Giacobbe[10].

La storia di Giuseppe comincia col capitolo 37 e abbraccia tutti i capitoli della Genesi dal 39 al 50. E la più lunga nel libro della Genesi e il racconto più compiu­to nell’intreccio degli eventi del protagonista Giuseppe con la figura del padre Giacobbe e dei fratelli, che proprio per mezzo di Giuseppe sussisteranno come capo- stipiti delle dodici tribù, che fermeranno il popolo d’Israele. Qui presupponiamo la conoscenza del testo, non facciamo esegesi, ma sottolineeremo solo alcuni punti della figura del giovane Giuseppe, procedendo scena per scena[11].

Prima scena: l’invidia dei fratelli e i sogni di Giuseppe. La preferenza del padre per il figlio Giuseppe diciassettenne suscita l’antipatia dei fratelli maggiori, l’anti­patia diventa rifiuto e disprezzo quando Giacobbe fa una veste nuova per il figlio a maniche larghe. Ma c’è un motivò più profondo che scatena l’odio dei fratelli contro Giuseppe perché questi riferisce al padre i “pettegolezzi sul loro conto”. Così la traduzione della Bibbia CEI, forse da intendere col testo originale: riferi­sce “che non si comportavano bene”. Giuseppe infatti lavorava con i fratelli, li aiu­tava nel pascolare le greggi con piccoli servigi. L’odio verso Giuseppe diventa acca­nito quando Giuseppe racconta i due sogni che ha fatto: nel primo racconta ai fra­telli di aver visto durante la mietitura che il suo covone stava in mezzo dritto men­tre quelli dei fratelli stavano intorno e si prostravano; nel secondo racconta al padre e ai fratelli di aver visto il sole, la luna e undici stelle che si prostravano davanti a lui. I fratelli reagiscono dicendogli: “ Chi pensi di essere? Pretenderai di diventare nostro re?”  Anche il padre lo sgridò.

In questa prima scena ci si mostra un giovane di diciassette anni semplice e schietto. Semplice perché non ostenta la predilezione che il padre ha per lui, può sembrare quasi ingenuo, e schietto perché non copre il comportamento sbagliato dei fratelli, non tollera il male, non teme ritorsioni, mostra di avere dinanzi un ideale di vita onesta, sobria.

Seconda scena: Giuseppe, venduto dai fratelli ad alcuni mercanti, finisce schiavo in Egitto. Giacobbe manda il figlio giovane da Hebron a Sichem per rendersi conto di come stesero i figli e le greggi. Giuseppe risponde con la parola dell’obbedienza: “Eccomi” e parte per andare dai suoi fratelli; è una bella distanza da Hebron a Sichem di circa ottanta chilometri, dal Neghev alle zone centrali della ter­ra di Canaan. Arrivato a Sichem non trova i fratelli e, mentre è in cerca, un uomo l’informa che li ha sentiti dire che sarebbero andati a Dotan. Giuseppe riparte e fa circa altri trenta kilometri verso nord. Quando i fratelli lo vedono da lontano arrivare, riconoscibile per la sua veste variopinta e a maniche lunghe, si dicono: ecco il sognatore! Uccidiamolo, vediamo se i suoi sogni gli servono! Interviene Ruben, il primogenito di Giacobbe, che sventa la macchinazione ed ottiene che non sia ucci­so, ma gettato in una cisterna vuota aveva l’intento di liberarlo. Ma al passaggio di una carovana di mercanti che vanno in Egitto con le loro mercanzie, Giuda pro­pone agli altri di non macchiarsi di un delitto uccidendo il fratello, ma di venderlo ai mercanti. La carovana dei mercanti è detta una volta di Ismaeliti (37, 25) e un’altra volta di Madianiti (37, 28); Forse il redattore ha fuso due tradizioni: una si rife­riva a Ruben e a mercanti Ismaeliti e un’altra a Giuda e a mercanti Madianiti. Giuseppe viene venduto; i suoi fratelli col sangue di un capretto tingono la veste del fratello e la mandano al padre facendogli dire: vedi se è di tuo figlio! Il testo sottolinea lo strazio del padre, che riconosce la tunica del figlio Giuseppe, e conclude dicendo che Giuseppe in Egitto fu venduto come schiavo e comperato dal nobile Potifar, consigliere del faraone e capo delle guardie.

La scena si svolge tra il silenzio assoluto di Giuseppe e il complotto dei fratelli: possiamo ipotizzare, anche se il testo non lo dice, una preghiera intensa di Giuseppe, che si affida alle mani del Dio di suo padre Giacobbe, che era stato liberato da tanti pericoli procuratigli dal fratello Esaù e dallo zio Labano. Ci si rivela un giovane legato alle tradizioni familiari e fermo, stabile in un atteggiamento di fede. Forse nei barlumi di umanità che trapelavano dalle parole di Ruben e di Giuda, che l’avevano sottratto alla morte, intravede un filo di futuro e di speranza. Il racconto insegna ai giovani di non perdere mai la fede in Dio, la speranza che il bene trionferà sul male, a mantenere salde le buone tradizioni ricevute, ad affrontare la sofferenza senza smarrirsi.

Terza scena: dalla casa di Potifar al carcere e a vizìr del faraone.

Giuseppe, schiavo a casa di Potifar, è un giovane laborioso e intraprendente tanto che il padrone lo pone come amministratore della sua casa. La moglie di Potifar invaghitasi di lui tenta di sedurlo, ma Giuseppe non vuol tradire la fiducia del suo padrone. La donna perfidamente tramuta il suo tentativo in accusa contro Giuseppe, che nell’impossibilità di difendersi viene gettato in carcere. La buona condotta di Giuseppe e il suo saper fare gli conciliarono il favore del carceriere, che gli affidò la cura e la sorveglianza dei carcerati. Qui Giuseppe si trova insieme a due accusati della corte del faraone: il coppiere e il panettiere. Interpretando i sogni che que­sti avevano fatto annunzia al coppiere l’assoluzione e la liberazione, al panettiere invece la condanna e la morte. Al primo chiese solo di ricordarsi di lui quando fra tre giorni sarebbe stato libero. Avveratasi l’interpretazione dei sogni, Giuseppe rimane in carcere fino a quando il faraone fa i sogni delle sette vacche grasse che vengono divorate da altre sette vacche insecchite e il sogno delle sette spighe belle e turgide che vengono essiccate da sette spighe rugginose. Di fronte all’incapacità degli indovini e maghi d’Egitto d’interpretare i sogni del faraone, il coppiere ricorda Giuseppe ancora in carcere. Fatto chiamare dal faraone dà l’interpretazione dei sogni del faraone, che stupito della conoscenza e delle capacità di Giuseppe lo pone come vizìr, secondo dopo il faraone,’per far fronte ai sette anni di abbondanza e ai sette anni di carestia. Giuseppe, che ormai aveva trent’anni (41,46), si sposò con Asenat, da cui ebbe due figli: Manasse ed Efraim.

Questo quadro ci fa toccare il senso morale fermo del giovane Giuseppe, non tradisce la fiducia accordatagli a costo di finire in carcere. I sogni interpretati ai due compagni carcerati gli fanno percepire che Dio è giudice e che farà riconoscere la sua innocenza. Il suo modo d’agire, in qualunque situazione si trovi, è retto, profondamente morale perché solo la giustizia trova ricompensa.

Senza seguire gli sviluppi del racconto: l’arrivo dei fratelli di Giuseppe che in tempo di carestia vengono ad acquistare grano in Egitto, le prove cui Giuseppe sottopone i fratelli per saggiarne le intenzioni, andiamo alla scena dell’ultimo incon­tro, quando Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli. Giuseppe allora non è più gio­vane, ma ha portato a pienezza quella linea morale che ha contraddistinto la sua vita fin da adolescente; ma anche i fratelli erano cambiati, vedono nei malanni che li avevano colpiti la giusta punizione di Dio per il loro peccato (42,21). Riuniti i fratelli e fatti uscire tutti i presenti, Giuseppe, profondamente commosso, tra le lacrime, dice loro: Io sono Giuseppe, il vostro fratello che avete venduto per l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita… Non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio ed Egli mi ha stabilito padre per il faraone… governatore di tutto il paese d’Egitto…{43,5-8)

Atteggiamento sublime, parole alte quelle di Giuseppe. Non parla nemmeno di perdono, ma prospetta ai fratelli il disegno che Dio ha compiuto per la vita loro e per una posterità grande. Giuseppe fissa lo sguardo lontano, sembra che abbia dinanzi le promesse, di cui era portatore Giacobbe, suo padre, ma anche i suoi fratelli. Sono pagine che preludono all’annunzio di Gesù, che ci ha fatti tutti fratelli. Viene riscoperta la vera fraternità, che era stata prima incrinata e poi rotta dalla gelosia e dall’odio, ora ritrovata perché questa fraternità ha altre radici, proviene dal piano di Dio, che ora si è svelato. Il racconto, anche se non lo nomina, esalta il perdono e quasi anticipa l’insegnamento di Gesù che chiama i fratelli a perdonare anche i nemici e a pregare: rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Questo è il mondo nuovo di cui abbiamo bisogno: tra giovani, in famiglia, nella società, tra popoli diversi[12].

13 Mosè

La storia di Mosè è a tutti nota, sottolineo solo alcuni aspetti, che caratterizzano il periodo giovanile della sua vita. Mosè nasce da una famiglia della tribù di Levi, i cui genitori, Amram e Iochebed (Es 6,20), per il genocidio degli Ebrei ordi­nato dal faraone, furono costretti a lasciare il bambino, messo in una cesta, sulle acque del Nilo mentre la sorella Myriam seguiva l’evolversi della cosa. Raccolto dalla figlia del faraone, affidato, dietro l’offerta di Myriam, alle cure della propria madre, appena svezzato crebbe alla corte del faraone. L’educazione egizia ricevuta a corte, un’educazione che lo poneva ai vertici dell’amministrazione, non gli fecero dimenticare le sue origini.

Un simpatico midrash racconta che a corte il bambino era benvoluto da tutti e che il faraone, cioè il nonno, “lo abbracciava e lo baciava e il bambino prendeva la corona del faraone e se la metteva in testa. Ma i maghi egiziani, che erano alla pre­senza del re, osservarono: per questo gesto noi temiamo che questo ragazzo sia proprio quello che è destinato a toglierti la corona. E perciò alcuni proponevano di ucciderlo, altri di gettarlo nel fuoco”[13]. Il racconto biblico è molto scarno. Dice così: Cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò i lavori pesanti da cui erano oppressi.

Vide un egiziano, che colpiva un ebreo, uno dei suoi fratelli. Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’egiziano e lo seppellì nella sab­bia. Il giorno dopo uscì di muovo e, vedendo due ebrei che stavano rissando, disse a quello che aveva torto: Perché percuoti il tuo fratello? Quegli rispose: Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di uccidermi come hai ucciso l’egiziano? (Es 2, 11-14).

La brevità del testo lascia spazio a supposizioni: potremmo pensare che con il suo grave gesto Mosè forse voleva tentare di svegliare una coscienza sopita e fiaccata tra i suoi fratelli oppressi, forse voleva far intravedere una prospettiva nuova ai suoi. Non è capito, tanto che quando vuol metter pace tra due ebrei che rissava­no, proprio quello che aveva torto gli rinfaccia l’omicidio commesso e Mosè si sen­te scoperto e quindi anche braccato dalla polizia faraonica. È costretto a fuggire e si rifugia fuori dall’Egitto nella terra di Madian.

Questo primo quadro mette in evidenza un giovane Mosè, che, nonostante la sua posizione sociale e politica, non si sente separato dai suoi fratelli. Mostra un forte senso di solidarietà e di giustizia. Forse accarezzava un progetto, una sua prospetti­va di liberazione o almeno di giustizia e cerca di realizzarlo con le sue forze, un ten­tativo generoso, però incompreso e quindi fallito. Due cose la figura del giovane Mosè ci mette davanti: primo, un forte attaccamento alla tradizione, ai valori di cui si scopre portatore perché membro del suo popolo oppresso; e, secondo, una forte idealità di progettazione, di compromettersi nella realtà, potremo dire di rischiare, anche se forse in maniera spregiudicata perché vuol agire con le sue sole forze.

Esaminiamo un altro tratto della figura di Mosè giovane, quello della sua vocazione e della sua missione, anche se ormai, dopo la fuga dall’Egitto, è ospite preso Ietro sacerdote madianita, db cui aveva sposato la figlia e dalla quale aveva avuto il figlio Gherson. Possiamo considerare questa pagina biblica di Es 3-4 come ripresa dei progetti giovanili di Mosè, ma questa volta non sarà suo il progetto, ma quello che Dio gli affida. Il racconto metterà in risalto le obiezioni che Mosè presenta a Dio per esimersi dal compito che gli viene affidato. E il momento di una forte esperienza religiosa di Mosè, ma anche di una nuova riflessione che lo riporta alle sue origini, al suo popolo schiavo in Egitto e al progetto di una liberazione.

Il primo momento è la percezione della presenza di Dio: Mosè s’è inoltrato nel deserto, è arrivato al monte di Dio, l’Oreb[14], vede un roveto che arde e non si con­suma. Si avvicina a vedere lo spettacolo insolito ed entra in colloquio con Dio, ma il colloquio non è altro che un ricordare, riflettere, rivedere e capire in una luce nuova la realtà della schiavitù del suo popolo e sentire con una nuova modalità il progetto della liberazione, vagliarne le difficoltà e risolverle alla luce di un missione che gli viene affidata da Dio; la liberazione d’ Israele non sarà opera di Mosè, ma di Dio che lo manda.

Il ricordo che Mosè ha di tutte le sofferenze del suo popolo si rafforza con la voce di Dio che ha osservato quelle sofferenze e vuol mantenere la promessa di portare il suo popolo alla terra dei padri e quindi ingiunge a Mosè: Ora va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo. Ed ecco la prima obiezione di Mosè, come ricordando il fallimento di allora: E chi sono io per andare dal faraone? Quasi a dire: perché mandi proprio me? E la risposta di Dio suona, ma è anche la coscien­za nuova di Mosè: Io sarò con te, quasi Mosè dicesse a se stesso: non sono solo, c’è con me il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. Mosè tenta una seconda obiezio­ne: Ma se loro mi chiederanno: come si chiama colui che ti manda? E la risposta di Dio: Io sono colui che sono, questo è il mio nome! “Io sono colui che sono” o nella terza persona, quando noi parliamo di lui: “Egli è colui che è”, è nome che indica una presenza, un esserci, un essere accanto, chiarifica e rinforza la risposta alla prima obiezione: “Io sarò con te!”. Colui che è: JAHWEH è il nome santo di Dio per sem­pre[15]. Mosè ancora dubita non di se stesso, ma del popolo cui è mandato: è vero che Jahweh sarà con me, ma i miei fratelli dubiteranno di me, mi crederanno? E quindi presenta una terza obiezione: Ecco essi non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce. Questa volta Dio risponde con dei segni straordinari: il bastone di Mosè, che diventa serpente, la sua mano che diventa lebbrosa, e acqua che diventa sangue. Sono segni che confermano la volontà della missione che Dio gli affida e saranno segni per i suoi connazionali, quasi a dire! se non crederanno alla tua parola, vedranno i segni che farai nel mio nome e ti crederanno, Mosè sente la difficoltà della missione e avanza un’altra obiezione, la quarta: Mio Signore, io non sono un buon parlatore, non lo sono mai stato! E la risposta di JIEWEE Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire. Mosè non vuol andare e non si da per vinto e ancora, per la quinta volta, obietta: Perdonami, Signore mio, manda chi devi mandare! quasi a dire: lascia­mi in pace, manda un altro più capace di me. Il testo allora nota: La collera del Signo­re si accese contro Mosé, Dio non smentisce la sua chiamata e dà a Mosè un aiuto nella persona di suo fratello Aronne (cfr. Es 3,1-4,17).

Lasciamo da parte le questioni critiche di individuazione degli strati redazionali di questi capitoli, andiamo al significato spirituale di queste pagine fondamentali. Potremo fare questa lettura: Mosè ormai giovane adulto da una parte non dimentica il suo popolo sottoposto a schiavitù e ad un genocidio totale; lui è in salvo, ma sente l’obbligo della solidarietà con i suoi; vuol andare e riprendere il progetto di liberazione, ha capito che esso rispondeva a quelle che erano le promesse di cui il suo popolo era portatore, promesse fatte da Dio ai suoi padri; si fa tutte le obiezioni possibili e si deciderà solo quando sperimenterà nel suo cuore e nella sua mente la presenza di JHWH, che gli assicura che quel progetto non è più suo, ma del Signore e che la realizzazione di esso, al di là delle sue amare esperienze di fallimento, coinvolge la persona e la potenza di JHWH, suo Signore. Possiamo dire: è il trionfo della fede sulle debolezze e le obiezioni umane. Da questi racconti ci vengono insegnamenti grandi: tutti, ma specialmente i giovani devono vagliare i propri progetti e rapportarli ai disegni di Dio (il bene, la verità, la libertà, la solidarietà con gli ultimi, il servizio, la famiglia e la vita nella sua dignità e bellezza, l’onestà, la schiettezza e la purità del cuore, Gesù e il suo vangelo ecc.) e viverli con fede, realizzarli sotto la presenza di Dio con costanza superando ogni dubbio e obiezione che possano sorgere nel cuore, poiché il Signore è con i giovani per la vita dell’uomo.

Il libro dell’Esodo è il canto, il poema della libertà, che solo Dio può donare, trova la sua pienezza nei capitoli, che non sono oggetto del nostro incontro: i capp. dell’alleanza che Dio offre all’uomo (capp. 19-24) e della potenza del perdono di Dio che rinnova la vita con la sua presenza di Padre “pietoso, misericordioso, tar­do all’ira, ricco di grazia e di fedéltà” (Es 32-34, specificamente 34, 6)[16].

1.4 Samuele

Samuele è una figura di rilievo nella storia del popolo eletto perché guida il pas­saggio dal periodo dei giudici a quello della monarchia in un momento critico per Israele, a cavallo tra il sec. XI e X a. C., quando le diverse tribù furono attaccate dai Filistei, popolo nuovo stanziatosi nella costa sud della terra di Canaan (più o meno, per dare un riferimento, l’attuale striscia di Gaza). Israele allora sentì il bisogno di una maggiore unità per affrontare un nemico agguerrito e forte. Samuele fu saggio nel favorire il sorgere di una figura di re che desse unità, ma spogliando la persona del monarca di quei caratteri di sacralità e divinizzazione tipici del mondo pagano. Samuele di fatti sta all’origine della monarchia in Israele con la scelta del primo re, Saul, della tribù di Beniamino, ma poi, dinanzi all’incapacità di Saul di creare unità e alla gelosia persecutrice di questi contro il valente David, percepito come concorrente, favorì la scelta e l’ascesa di quest’ultimo, che divenne il re ideale, il consacrato[17] per eccellenza, riferimento per tutta la storia d’Israele.

Faremo una breve presentazione solo del momento giovanile di Samuele, ulti­mo dei giudici e primo dei profeti, la cui storia attraversa tutto il primo libro, che porta il suo nome.

Come di ogni grande personaggio della storia biblica, anche di Samuele si narra una nascita straordinaria che prelude a un disegno di Dio sulla persona. Elkana ed Anna sono una coppia legata da profondo amore, ma Anna non ha figli, mentre Peninna, l’altra moglie di Elkana ha dato figli al maritò[18]. Anna è desolata e piange, il marito la consola e le dice: Anna, perché piangi? Perché è triste il tuo cuore? Non sono forse io per te meglio di dieci figli? (1 Sam 1, 8). Anna sfoga il suo dolore dinanzi a Dio nel tempio a Shilo presso Parca dell’alleanza e Dio le concede di avere un figlio, cui mette nome Samuele, che significa “Dio ascolta”. Quando il bimbo è svezzato, Anna lo porta al tempio e lo consacra a Dio affidandolo al sacerdote Eli.

Qui è inserita l’attività giovanile di Samuele. E ancora un giovinetto quando il Signore lo chiama. Il racconto è noto (cap. 3): Samuele sente una voce che lo sve­glia: Samuele! Il giovinetto Risponde: Eccomi, si alza e corre da Eli, ma Eli gli dice: non ti ho chiamato. Torna a dormire, E questo avviene per tre volte, finché Eli, che ha capito che si tratta di una voce straordinaria, gli dice: se ti si chiama ancora, rispondi: Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta. Così accade e Samuele rice­ve un messaggio di condannai per Eli e i suoi figli perché questi non si comporta­no bene e il padre non li ha ripresi. L’acme del racconto sta nel significato che l’au­tore da alla narrazione quando Commenta: Samuele acquistò autorità poiché il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole (v. 19). Il racconto è un espediente letterario per far risaltare la figura di Samuele. Potremo usa­re per caratterizzarlo questa espressione: Samuele è uditore e facitore della parola.

Il giovane ha notato le aberrazioni della condotta dei figli di Eli, ha osservato la tolleranza, che diventava o poteva diventare connivenza del padre, che invece doveva essere in Israele, come giudice, il garante della legge di Dio. Il giovane si sente investito di una missione ardua, Samuele non si tira indietro, affronta direttamente la situazione, forte della parola di Dio, che risuona nella sua coscienza e in quella del popolo. Primo obbligo religioso non è il culto, ma l’obbedienza a Dio. Samuele è già pronto per dire un giorno al re Saul, che ha trasgredito la legge divi­na: Il Signore forse gradisce gli olocausti e i sacrifici come obbedire alla voce del Signore? Ecco, obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è più del grasso degli arieti (1 Sam 15, 22). Il giovane Samuele ha intuito che il vero senso del rapporto dell’uomo con Dio è dato dalla fede, cioè dall’obbedienza perché la ribellione è atto di idolatria (cfr. v. 23). Questa alta visione della vita e della religione è stato il valore fondamentale del giovane Samuele, la sua linea di condotta per cui il commento dell’autore del libro è preciso: “Samuele non lasciò andare a vuoto una sola delle parole di Dio”.

Il giovane Samuele lascia un grande insegnamento ai giovani di oggi e di sem­pre: il senso della ribellione morale dinanzi all’ingiustizia, la coerenza, la fermezza nel portare avanti una parola che proviene dalla coscienza retta e dalla legge di Dio, il rifiuto di una tolleranza connivente col male, una testimonianza di vita che di per sé diventa rifiuto e condanna silenziosa di una vita decadente, una visione della religione che non si basa sulla ritualità ipocrita, ma sul rapporto con Dio in “spirito e verità”, come dirà Gesù alla donna di Samaria (Gv 4, 23).

1.5 David[19]

La figura di David è centrale nella storia d’Israele per il redattore deuteronomista dei due libri di Samuele; vi occupa un ampio spazio, va da 1 Sam 16 fino a tutto 2 Sam. Potremo delimitare il periodo giovanile dall’inizio fino a quando David viene riconosciuto re da tutte le tribù d’Israele. Scrive l’autore: “David aveva treni’anni quando fu fatto re e regnò quarant’anni” (2 Sam 5, 4). Il deuteronomista raccoglie e unifica narrazioni che forse circolavano alla corte di David e ne esaltavano il valore e la figura morale e religiosa. Certamente i racconti hanno un sapore encomiastico, sono la legittimazione della casata regnante. In questa storia così ampia, i momenti che caratterizzano la figura di David sono tanti, ne richiamere­mo solo alcuni.

Il Sam 16 narra l’unzione di David giovinetto, ultimo dei figli di Jesse della cittadina di Bethlehem. Il racconto, come per Funzione di Saul, non vuol riferire un fatto, ma mettere in evidenza che David è un giovane su cui c’è un disegno di Dio. Viene presentato poi alla corte di Saul come suonatore di strumenti, che solleva Saul da momenti di depressione.

Il Salmo 17 narra la vittoria di David sul gigante filisteo Golia. Questo potente soldato filisteo, armato di tutto punto sfida David apostrofandolo: sono forse un cane, perché tu venga a me con un bastone? Fatti avanti e darò le tue carni agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche. David invece, che non porta armi, ma solo la fionda, risponde: Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d’Israele, che tu hai insultato. All’appressarsi del gigante, David gira la fion­da, scaglia la pietra e colpisce in fronte Golia, che cade subito a terra. David gli sal­ta addosso e con la sua stessa spada gli stacca la testa. Un episodio celebrato dagli artisti più famosi: da Donatello a Michelangelo, da Bernini a Caravaggio.

Il Sal 18 racconta l’insorgere della gelosia di Saul nei confronti della popolarità di David tanto che tenta di ucciderlo senza riuscirci. Saul prende anche occasione dal fatto che la sua figlia minore Mikal si sia innamorata di David per ten­dergli un’insidia per farlo perire, ma David supera brillantemente la prova.

I Sal 19-20 ci fanno vedere da una parte la gelosia furente di Saul verso David e la volontà di eliminarlo perché ormai lo vede solo come un antagonista che gli vuol usurpare il regno; dall’altra parte invece narrano la protezione di Mikal verso il marito e quella di Gionata, figlio di Saul, che si è legato a David da profonda ami­cizia ed affetto e lo aiuta per scaíjápare alla persecuzione di suo padre.

1 Sal 21-26 narrano diversi episodi della persecuzione aperta di Saul contro David: David passa con i suoi uomini, raccolti per difendersi, a Nob dove si trova l’arca dell’alleanza sotto la custodia del sacerdote Abimelek e questi rifocilla David e i suoi con i pani sacri, che era dedito mangiare solo ai sacerdoti[20] e Saul venutolo a sapere fa strage dei sacerdoti di Nob (cap 21-22); in due occasioni David ha la possibilità di eliminare Saul, ma se ne astiene perché Saul è sì suo nemico, ma è anche il consacrato del Signore (capp. 24 e 26). Del resto è un atteggiamento molto intelligente perché un atto simile gli avrebbe alienato il favore di cui godeva presso il popolo.

I Salmi 27 e 30 riferiscono una scelta intelligente, si potrebbe dire furba di David: egli si mette a servizio con i suoi uomini del re filisteo Achis di Gat. In questa maniera ha le spalle coperte dalla persecuzione di Saul e inoltre David sa volgere a suo vantaggio l’ordine che Achis gli aveva dato di tenere a distanza le tribù del deserto che da là penetravano nel suo territorio; David con il bottino che ricava dalle sue scorrerie contro gli Amaleciti si fa amici i capifamiglia della sua gente, mettendo le premesse per un suo riconoscimento presso la tribù di Giuda, cioè la sua tribù di provenienza.

Il Salm 29 racconta che gli altri re filistei obbligano Achis a licenziare David perché non partecipi, lui ebreo, allo scontro decisivo contro l’esercito di Saul. David ne è contento perché qualunque esito avrà la battaglia lui ne esce sempre pulito senza alcuna compromissione.

I Salm 28 e 31 narrano il dramma di Saul (cap. 28) e la sua sconfitta nella battaglia contro i Filistei presso i monti di Gelboe

. . Il Salm 1 riferisce che un giovane amalecita arriva presso David dal campo di battaglia e racconta che ha dato l’ultimo colpo a Saul gravemente ferito e morente, che ha portato via la sua corona regale per consegnarla a David. David, che non vuol creare nessun sospetto nei propri confronti, fa uccidere il giovane amalecita e intona un canto di cordoglio per la morte di Saul e Gionata.

. . I  Salm 2-4 narrano che David viene proclamato re dai suoi della tribù di Giuda e che si ferma nella città principale della tribù, ad Hebron, che diventa sua capita­le; raccontano poi come finiscano nel nulla i possibili concorrenti di David: Abner dopo un inutile tentativo di far riconoscere dalle tribù del nord come re Ish-baal, figlio di Saul, offre a David1 di prenderne l’eredità; David esige che gli sia riportata sua moglie Mikal, figlia di Sàul, certamente perché in questa maniera avrebbe legittimato in qualche modo la sua successione a Saul, ma Abner viene ucciso da Joab, capo delle truppe di David, che né teme la concorrenza; Ish-baal viene ucciso da due manigoldi mentre dormía e ne portano la testa a David, ma questi per evita­re ogni mala voce fa eliminare i due criminali. Ormai il campo è sgombro per un riconoscimento di David come unico re di tutto Israele.

. . Il Salm 5 narra il convenire presso David dei capi tribù del nord che offrono a David la corona e David viene consacrato re e unisce nella sua persona le due corone: quella della tribù di Giuda e quella delle tribù del nord, che fu di Saul. Per essere assolutamente indipendente da ogni condizionamento David occupa la città fortificata di Gerusalemme, ancora in mano ai Cananei, non appartenente quindi ad alcuna tribù d’Israele e la fa sua capitale. Comincia da qui la lunga storia di Gerusalemme, siamo all’anno mille a. C. Sconfigge poi definitivamente i Filistei.

. . Il Sam 6 narra il trasporto dell’arca dell’alleanza a Gerusalemme. E un’abile mossa religiosa e politica fatta da David. L’arca dell’alleanza era il simbolo dell’u­nità delle dodici tribù d’Israele e della presenza del Dio dei padri in mezzo al suo popolo. Con questo David rafforza l’unità attorno a sé e convoglia sacerdozio e popolo verso Gerusalemme.

. . Il Salm 7 è rappresenta l’acme dell’ascesa di David. In cambio del progetto di David di costruire una casa, cioè un tempio, in onore del Signore, riceve da Dio per bocca del profeta Natan la promessa che è il Signore invece a costruirà una casa, cioè una casata a David assicurandogli che dopo di lui ci sarà sempre un suo successore sul suo trono. Di per sé la parola di Natan non è che la legittimazione religiosa del regno di David, ma inizia anche da qui l’attesa del mashiah, cioè del consacrato discendente davidico, che sarà ripreso dai profeti specialmente da Isaia.

Questo excursus attraverso i libri di 1-2 Samuele ci serve ora a sottolineare alcuni tratti della figura di David giovane, fino all’età di trent’anni, che potremo considerare età giovanile, anche se le fasce d’età come maturazione di vita non corrispondono alle nostre.

.a.   Umanamente David ci si presenta come un giovane volitivo e intraprendente. Entra a servizio della corte di Saul; affronta con coraggio la lotta contro il filisteo Golia, lo sconfigge e lo uccide; non rifiuta di imparentarsi col re sposandone la figlia, anche se deve pagare un prezzo arduo con imprese militari; quan­do è perseguitato da Saul sa crearsi un corpo d’uomini che condividano con lui la vita e i pericoli della persecuzione; sa prevedere gli sviluppi delle situazioni e si prepara un futuro secondo un suo progetto quando si mette a servizio di Achis, uno dei re della pentapoli filistea, e compie scorrerie con il cui bottino si rende amici i capifamiglia della sua tribù; sa attendere l’evolversi della situazio­ne dopo la morte di Saùl, ne segue gli sviluppi e sa evitare ogni giudizio negati­vo sul suo conto[21]. Certamente è un giovane determinato a perseguire un suo ideale e un suo progetto, non si ‘sfiducia davanti ai pericoli e ai rischi, ma li affronta con determinazione. Pur in questa decisa volontà di raggiungere una meta, non tradisce mai la sua coscienza, non diventa opportunista, ma osserva la legge morale e lo dimostra quando ha occasione di eliminare il suo nemico, ma lo risparmia perché per David giudice dell’agire degli uomini è solo Dio.

.b.  Ma David è anche il fedele jhawhista, cioè attaccato alle tradizioni con una fede ferma, incrollabile. E personaggio in cui il progetto di Dio è il suo progetto perché gli eventi David li legge e li vive alla luce di una fede viva, accogliendoli e assecondandoli non fa che sviluppare il disegno che Dio ha su di lui. Del resto è sempre vero che l’azione di Dio entra nelle vicende e nella realtà delle persone per cui la vita vissuta alla luce della presenza di Dio è vicenda umana e divina insieme. Di fronte alla sfida col gigante Golia non si affida solo al proprio corag­gio, ma dice: Tu vieni a me con la spada… Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti (1 Sa 17,45). Dinanzi alla persecuzione di Saul non reagisce con vio­lenza, ma con intelligenza e con fede; dirà a Saul: Se il Signore ti eccita contro di me, voglia accettare il profumo di un’offerta. Ma se sono gli uomini, siano male­detti davanti al Signore, perché oggi mi scacciano lontano impedendomi di parte­cipare all’eredità del Signore (1 Sam 26,19). Nel portare l’arca dell’alleanza nella sua città è pieno di gioia, il testo biblico ci presenta un David che tripudia, balla, suona, canta dinanzi al Signore e alla moglie Mikal che lo rimproverava quasi avesse ecceduto dinanzi al popolo risponderà: Ho fatto festa dinanzi al Signore!. Per questo nella tradizione biblica David sarà considerato il cantore di Dio e gli attribuiranno la maggior parte dei salmi[22] e spesso nell’iconografia cristiana è rappresentato con la cetra in mano. Ci siamo fermati a David giovane, ma il rac­conto biblico ci presenta anche un David, che nel pieno della sua gloria, si mac­chia di peccato, peccato grave di adulterio e di omicidio, ma insieme un David pentito, che riconosce il suo misfatto e dice: Ho peccato contro il Signore (cfr. 2 Sam 11-12) per cui è stato scritto, che David è stato grande nel peccato, ma anche grande nel pentimento e la tradizione biblica gli ha attribuito per questa vera, profonda conversione il salmo 51, che esalta il perdono e la grazia di Dio.

 

1.6 Geremia

Geremia è il profeta che vive avvallo tra la fine del sec. VII e l’inizio del VI, tra il 640 e il 586 a.C., in un periodo che è il più torbido e il più tragico della storia di Gerusalemme. Chiamato al ministero profetico molto giovane nel 627 svolge la sua missione fino al .586, cioè fino alla distruzione di Gerusalemme e alla deportazione degli Ebrei in esiliò a Babilonia. Svolse il suo ministero sotto tre re: Giosia, Joiaqim (Joiakin regnò solo tre mesi e fu portato in esilio a Babilonia con la prima deportazione) e Sedecia. Diamo prima un rapido sguardo alla storia tragica di questo periodo.

Geremia fu chiamato al ministero profetico nel 627 al tredicesimo anno del re Giosia, re che dal 622 al 609 portò avanti una radicale riforma religiosa. Il nonno Manasse e il padre Amon del re Giosia si erano allontanati dalla fede dei padri, avevano portato Gerusalemme ad un collasso religioso introducendo culti pagani e un ampio sincretismo religioso. Il padre Amon fu assassinato dopo appena due anni di regno da una congiura di ufficiali, ma il popolo elesse il suo figlio Giosia, che aveva appena otto anni. La narrazione biblica non dice nulla di Giosia fin all’età di 26 anni, cioè fino al 622 quando il re sulla base di un rotolo scritto ritrovato nel tempio[23] iniziò una profonda riforma religiosa che ripristinava il vero culto. Questo rotolo prevedeva l’accentramento del culto in un solo luogo, cioè al tempio di Gerusalemme[24] e l’eliminazione di tutti gli altri templi e luoghi di culto, imponeva la celebrazione delle feste tradizionali d’Israele in questo unico tem­pio e l’affidamento del sacerdozio solo ai sacerdoti della tribù di Levi. Giosia allargò la riforma a tutto il territorio d’Israele, che, approfittando della crisi dell’impero d’Assiria, aveva riconquistato ricostituendone l’unità come al tempo di David. Il contenuto di tutta la riforma portata avanti da Giosia sulla base del rotolo, si pensa oggi dagli studiosi, sia stata trasmessa nei capp. 12-26 del libro del Deuteronomio[25]. In questo periodo di riforma e di unità territoriale e religiosa non risultano interventi di Geremia, che dovette appoggiare con favore, ma in silenzio la riforma portata avanti dal re.

Il re Giosia morì in uno scontro frontale a Meghiddo con il faraone Necao che risaliva il territorio per portare aiuto all’Assiria, la cui capitale Ninive era già stata occupata dai babilonesi, e Giosia, alleato di Babilonia, voleva sbarrargli la strada. Morto Giosia, il faraone impose come re il figlio di lui Joiaqim. Costui in un pri­mo momento fu soggetto all’Egitto, ma dopo che il Faraone e l’Assiria furono sconfitti nel 605 a Karchepiish da Nabucodonosor, passò sotto il potere del nuovo impero di Babilonia, che impose gasanti tributi.

Gerusalemme in questi anni è lacerata da forti lotte intestine politiche e religiose tra due partiti che si opponevano: quello filoegiziano, che sperava in un aiuto dell’Egitto contro Babilonia, e quello filobabilonese, che non si faceva illusio­ni pensando alla incapacità dell’Egitto di far fronte ormai allo strapotere di Babilonia Geremia apertamente predicava di sottomettersi a Babilonia e per questo fu osteggiato, perseguitato dagli oppositori, ma soprattutto Geremia predica la conversione, di ritornare a JHWH, perché il re aveva reintrodotto il sincretismo religioso, i culti pagani. Questo fa capire che, non soltanto della riforma di Gioisia, non era maturata una vera concezione religiosa monoteista, né negli alti ranghi della società, né tra i sacerdoti del Tempio, né tra la popolazione. Il sincretismo religioso prolifera e invadere lo stesso Tempio di Gerusalemme. Joiaqim, spinto dal partito filo egiziano si ribellò al Nabucodonosor e non parlò più di tributi. Questi intervenne e mise l’assedio a Gerusalemme, nel frattempo Joiaqim muri e divenne re il figlio Jiiakin, che si consegnò al re di Babilonia e fu portato in esiliò nel 597 insieme con la parte migliore della popolazione di Gerusalemme.

Nominato re Sedecia, Gerusalemme rivisse la stessa attenzione: in un primo momento rimase soggetta a Babilonia e poi, nonostante la predicazione di Geremia, ebbe il sopravvento il partito filo egiziano. Ci fu di nuovo l’assedio di Gerusalemme, il re Sedecia tentò la fuga, fu riacciuffato e portato dinanzi a Nabucodonosor, che gli uccise i figli di presenza e gli fece cavare gli occhi, lo incatenò e lo portò prigioniero a Babilonia. Gerusalemme pretese di resistere e fu occupata e distrutta nell’agosto del 586 e tutta la popolazione fatta prigioniera fu portato in esilio a Babilonia. Geremia fu trattato con riguardo dai capi dell’esercito per la sua nota posizione filobabilonese. Chiese ed ottenne di rimanere in Giudea con i rimasugli della disgraziata popolazione, ma ribelli estremisti con inganno con violenza lo presero e fuggirono trascinandolo in Egitto. Così Geremia chiuse i suoi occhi in terra straniera.

La Bibbia di tutti questi tragici eventi fa 1 lettura religiosa. Continuamente ripete che i re “fecero ciò che è male agli occhi del Signore” e che “l’ira del signore s’accese contro Gerusalemme”per tutte le nefandezze religiose morali commesse fin dal tempo di Manasse e che Gerusalemme fu data in mano ai nemici e il tempio distrutto, come punizione di Dio.

Dal libro di Geremia è molto difficile trarre una cronologia attraverso la quale cogliere lo sviluppo della personalità, del pensiero del profeta e della sua esperienza religiosa, ancor più difficile delimitare gli oracoli profetici e gli interventi di Geremia giovane. Cercheremo di cogliere solo qualche tratto della sua personalità di giovane.

Geremia per sua stessa indole mite, amante della tranquillità e della pace, si trovò nella bufera religiosa e politica di quegli anni torbidi sopra descritti. È giovane, però non si sottrae all’impegno e giudicando con chiarezza la situazione sia religiosa che sociale politica, nonostante le difficoltà, non rifiuta di entrare in campo, di offrire luce e di richiamare ai veri valori di cui Gerusalemme è portatrice.

L’inizio del libro è molto bello. Il profeta rilegge la sua missione, la vede alla luce di Dio e, forse in un momento di prostrazione, risente la parola di JHWH che gli dice: Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo; prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni. Ripensa le sue difficoltà giovanili e ricorda di aver risposto: Ahimè, Signore, ecco io non so parlare perché sono troppo giovane, ma si rafferma nella sua missione perché il Signore gli aveva risposto: Non dire: sono giovane, ma va’ da coloro a cui ti manderò…Non temerli, perché io sono con te per proteggerti. Trova la forza per la missione solo nel Signore, che fa sì che la parola di Geremia diventi un giudizio forte sulla società. Il profeta, per descrivere la sua missione e la forza della parola di Dio, usa sei verbi, quattro negativi, presi due dall’ambito agricolo: sradicare e distruggere, e due dall’ambito edilizio: demolire ed abbattere; ed usa due verbi positivi: piantare e edificare. Ed ecco Dio lo ha mandato: Per sradicare e demolire, per distruggere ed abbattere, per edificare e piantare (cfr. 1,4-10). Questa è la forza della parola di Dio: accettarla significa creare il nuovo, rifiutarla cadere nel buio.

Un intervento del giovane profeta, forse fatto prima della riforma di Giosia, ricalcando tematiche care ad Osea, ci svela da una parte la tenerezza e il profondo senso religioso di Geremia e dall’altra la sua sofferenza nel vedere lo smarrimento religioso della popolazione. Osea aveva parlato dell’alleanza tra Dio e il suo popolo come di un rapporto sponsale, aveva chiesto ad Israele di tornare a quell’amore schietto e genuino del primo incontro con il Dio della salvezza, cioè al periodo del deserto: “la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2, 16) aveva detto Dio per mezzo di Osea un secolo prima. Con più forte intensità si esprime Geremia. Ecco alcune righe: Mi ricordo di te, dell’affet­to della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto (2, 2). Dio esp rime anche il suo rammarico rimproverando: Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non contengono l’acqua (2, 13). Nel rimprovero è insito la punizione perché nel deserto, nel deserto del­la vita, rimanere senz’acqua significa andare incontro alla morte. Ma Israele è incapace di percepire il richiamo, corre dietro alle divinità della fecondità e della fertilità, senza più calcolare il suo sposo. Dice il Signore: Giovane cammella leg­gera e vagabonda, asina selvatica abituata al deserto: nell’ardore del suo deside­rio aspira Varia; chi può frenare la sua brama? Quanti la cercano non devono stancarsi: la trovano sempre nel suo mese. Bada che il tuo piede non resti scalzo e che la tua gola non si inaridisca! (2, 33-35). E un rimprovero anche per la società cristiana di oggi: dimentica del suo sposo, del Signore Gesù, corre bramosa ansi­mando dietro ai suoi idoli, alle cose che l’attirano, ma nel suo prostituirsi non disseta la sua brama, anzi la sua gola inaridisce. E ancora con sofferenza il Signore grida: Perché il mio popolo dice: Ci siamo emancipati, non faremo più ritorno a te? Si dimentica forse una vergine dei suoi ornamenti, una sposa della sua cintura? Eppure il mio popolo mi ha dimenticato per giorni innumerevoli. Come sai scegliere la via in cerca di amore!” E vero, dice Geremia, l’uomo cerca amore, ma lo cerca per vie sbagliate. Come l’uomo di oggi: si è emancipato, non gli serve più l’amore di Dio, cerca altri amori, ma sono amori infecondi.

Un cenno alle sofferenze di Geremia. Il profeta trova un’accanita opposizione sul piano religioso e in quello politico. Geremia ha una più chiara visione politica, a confronto dei suoi avversari, sulla situazione internazionale del tempo, capisce che è impossibile opporsi a Babilonia e che la fiducia riposta nell’Egitto non solo non solleverà Gerusalemme dai pesanti tributi da versare a Babilonia, ma farà correre il rischio di passare sotto un altro esoso dominatore, l’Egitto per l’appunto. Geremia predica la sottomissione a Babilonia, vede nel giogo babilonese lo strumento della punizione di Dio per il peccato del suo popolo, ma da un punto di vista religioso Babilonia lasciava libertà di culto e quindi Geremia si riprometteva che i capi comprendessero e la popolazione accettasse di tornare alla vera tradizione dei padri, a JHWH, al Dio dell’alleanza del Sinai. La sua predicazione religiosa fu volutamente travisata e rovesciata in prospettiva politica, trovò non solo una forte opposizione, ma fu considerato traditore, nemico di Gerusalemme, subì la tortura e il carcere.

In questa situazione il temperamento mite, dolce, sensibile di Geremia fu duramente messo alla prova. Desolato, il profeta cominciò a dubitare di se stes­so, della sua vocazione e della sua missione, cominciò a interrogare Dio: Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia: perché le cose degli empi prosperano? Perché tutti i tra­ditori sono tranquilli? (12,1). Aveva visto la morte del re giusto, Giosia, e l’aveva sconvolto e dinanzi all’imperversare degli odi e degli attacchi nei suoi confronti, si lamenta: Me infelice, madre mia, che mi ha partorito oggetto di litigio e di contrasto per tutto il paese (15,1) e rivolto al Signore prega e interroga: Nella tua clemenza non lasciarmi perire, sappi che io sopporto insulti per te. Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità: la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore, perché io portavo il tuo nome, Signore, Dio degli eserciti. Non mi sono seduto per divertirmi nelle brigate dei buontemponi, ma spinto dal­la tua mano sedevo solitario, poiché mi avevi riempito di sdegno (15, 15b-.17). Ma dopo il lamento passa anche all’accusa: Perché il mio dolore è senza fine e la mia piaga incurabile non vuol guarire? Tu sei diventato per me un torrente infido dal­le acque incostanti (v. 18). In maniera drammatica il profeta richiama l’immagine dell’uomo, il nomade, o di un animale, la cerva per esempio, che nel deserto va verso il torrente da cui spera trovare acqua e non ve la trova, non ci si può fidare di esso; così, dice Geremia, è il mio rapporto con Dio: ho perso la fiducia! Accusa grave, vicino alla bestemmia, quasi Dio sia diventato infido per il profe­ta! Ma nel suo cuore il profeta sente subito la risposta del Signore: Se tu ritorne­rai a me, io ti riprenderò… sarai la mia bocca. I tuoi nemici non potranno prevalere (vv. 19-20). Ancora più drammatico è un altro passo. Il profeta si rivolge a Dio: Mi hai sedotto, Signore, e mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso (20,7). La forza d’attrazione di Dio e della sua parola per il profeta è sta­ta irresistibile, come una seduzione, ma, dice il profeta, è stato un inganno, come a dire: ci sono cascato, ma non ci cascherò più, mi hai attratto, mi hai fatto vio­lenza con la gioia e la bellezza che venivano dalla tua parola, ma ho trovato solo scherno e beffe! Il profeta non teme di insistere su questa lettura della sua vita: Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!». Ma nel mio cuore c’era un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa, mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo (v. 9). L’opposizione esterna, accanita da parte dei suoi nemici si riflette nel suo interiore e porta il profeta a maledire la sua straziata vita: Maledetto il giorno in cui nacqui, il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia benedetto (v. 14). Il giovane Geremia è costretto a porsi tanti interrogativi, si domanda: Perché mai sono uscito dal seno materno, per vedere tormenti e dolore e per finire i miei giorni nella vergogna? (v. 18), ma il dovere di denunziare il traviamento di Gerusalemme, il peccato invasivo, che rovina ogni convivenza e ottenebra la mente dei capi e del popolo, è più forte del suo dolore, sente dentro di sé il fuoco della parola di Dio che lo manda e non può sottrarsi.

Un aspetto tipico della missione di Geremia: la lettura che il profeta fa della situazione gli fa intravedere distruzione, morte, macerie e allora il Signore gli ordina di non sposarsi, perché avere una famiglia, dei figli, significa generarli solo per mandarli incontro alla morte? Geremia non si sposa e diventa dinanzi agli occhi di tutti come un simbolo. Osea era stato un simbolo con il suo matrimonio e i suoi figli, Geremia lo sarà col suo celibato. Non sposarsi era cosa non solo insolita, ma grave, quando la paternità e la maternità erano la prima benedizione di Dio, per cui Geremia viene additato a vista e schernito, ma la sua risposta doveva sconcertare: me lo ha ordinato il Signore perché, per la vostra ostinata empietà, è imminente la fine di Gerusalemme, la distruzione di tutto e la morte. Era veramente un segno la vita di Geremia, che ammoniva tutti, ma anche questa parola fatta carne nella vita del profeta viene respinta (cfr. 16,1-13).

Evidentemente il celibato di Geremia non è basato sul valore della verginità in sé, come segno di consacrazione a Dio, ma certamente in Geremia è una scelta per una missione, quella di essere segno di un forte richiamo di Dio sul giudizio che incombe su Gerusalemme.

In sintesi possiamo dire che Geremia è un giovane di una grande sensibilità, mite, ma anche forte. Giovane di grandi capacità sia da un punto di vista religioso che sociale-politico: religiosamente è immerso nella più vera e forte tradizione d’Israele, che gli permette di condannare l’idolatria e il sincretismo religioso del suo tempo, di capire l’originalità della religiosità della tradizione, come religione del cuore e non dei riti, socialmente e politicamente perché ha saputo leggere con acu­me critico le situazioni internazionali, il grave pericolo cui andava incontro Geru­salemme che si affidava all’Egitto, potenza ormai in declino. Nella maturità vede purtroppo realizzate le sue minacce, vede la prima deportazione del re Joiakin con la popolazione migliore della città e dieci anni dopo vede la distruzione di Geru­salemme e l’esilio di tutta la popolazione. Ma Geremia non si è esaltato, anzi ha partecipato a tutto il dolore dei suoi connazionali ed ora dirà solo parole di confor­to, e con la stessa certezza che la parola del Signore gli aveva dato per abbattere e distruggere, ora dirà con la stessa forza le parole del rinnovamento, del perdono, del ritorno e della nuova alleanza (cfr. cap. 31).

Impariamo da Geremia la fede e la coerenza con i grandi ideali. Nonostante le fragilità umane e tutte le difficoltà, la fede rende stabili, fermi, coerenti perché è basata sulla fedeltà assoluta di Dio. Di questi giovani hanno bisogno oggi la Chie­sa e la società.

  1. Alcuni riferimenti all’educazione dei giovani nei testi dell’AT

Sottolineeremo solo due aspetti della formazione dei giovani: da una parte l’at­tenzione al giovane in quanto vive un suo rapporto con la sapienza educatrice e dall’altro il giovane che cresce all’interno di una famiglia, che ha il compito di gui­darlo, e terzo l’amore dei giovani che li porta al matrimonio,

.a.   C’è una forza interiore che parla, illumina, guida, plasma e forma la vita del gio­vane. La Bibbia la chiama la “sapienza” di Dio. La rappresenta come una don­na amabile, gentile, che ti sta accanto, bussa alla porta della tua vita, ti invita a seguirla: da una parte dice che vuol essere tua ospite, vuol entrare per essere compagna fedele, sicura della tua vita; per un’altra parte invece ti invita alla sua casa, bella, nobile, ti vuole alla sua mensa per farti gustare i suoi cibi deliziosi. Ma nel giovane s’insinua un’altra figura, che è l’opposto della sapienza: i testi biblici la chiamano la “straniera”: in apparenza è bella e attraente, ma il suo cuo­re è perverso, lusinga e promette piacere, ma è infida, inganna, conduce lenta­mente alla morte.

A volte è il genitore che parla al figlio della sapienza, altre volte è la sapienza stessa che si rivolge al giovane. Il padre esorta il figlio a seguire la sapienza: Acquista la sapienza, acquista l’intelligenza…non abbandonarla ed essa ti custodirà, amala e veglierà su di te… a costo di tutto quello che possiedi acquista la sapienza. Stimala ed essa ti esalterà… Ti indico i sentieri della sapienza: attieniti alla disciplina, non lasciarla, praticala perché essa è la tua vita (Pro 4, 5- 13); viceversa il padre ammonisce il figlio a non seguire la straniera: Stillano miele le labbra di una straniera e più viscida dell’olio è la sua bocca; ma ciò che segue è amaro come assenzio… i suoi piedi scendono verso la morte… Per timore che tu guarda al sentiero della vita le sue vie volgono qua e là, non avvicinarti alle porte della sua casa (Pro 5, 3- 8). In altri brani è la sapienza in persona che si presenta e invita: Io, la Sapienza, possiedo la prudenza e ho la scienza e la riflessione. Temere il Signore è odiare il male: io detesto la superbia, l’arroganza, la cattiva condotta e la bocca perversa. Io amo coloro che mi amano e quelli che mi cercano mi troveranno. Presso di me c’è ricchezza e onore, sicuro benessere ed equità (Pro 8, 12-18).

L’autore biblico sa che l’uomo è stato creato a “immagine e somiglianza di Dio” e quindi sa che nel giovane c’è un innato desiderio di bene, capacità di saper discernere e di seguire la voce e la via della Sapienza; ma sa anche che “la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo, e ne fanno esperienza (col male, il peccato) coloro che gli appartengono” (Sap 2, 24). Educare i figli, i giovani significa far prendere coscienza chiaramente del bene e del male che segna la coscienza e la vita di ogni persona, dell’impegno e della lotta che il bene richie­de per viverlo, dell’approvazione che viene dal bene ratificato sia dalla propria coscienza sia dalla tradizione della propria casa sia dalla società, tradizione che ha già selezionato, vagliato, approvato il bene e riprovato il male. Educare signi­fica allora tirar fuori, educere, il bene dal profondo del cuore o in altre parole insegnare a seguire la Sapienza, che ha posto i suoi insegnamenti nella Legge che Dio ha donato al suo popolo. Per questo alcuni libri sapienziali identificano la Sapienza con la Torah[26]. Il Siracide, dopo aver presentato la Sapienza come l’ar­chitetto di cui Dio si è servito per creare e ordinare tutte le cose, afferma che la vera sapienza dell’uomo è riconoscere Dio come l’unico, il santo, e amare la Legge che Dio ha dato all’uomo, scrive: Tutto questo è il libro dell’alleanza del Dio altissimo, la legge che ci ha imposto Mosé, l’eredità delle assemblee di Gia­cobbe (Sir 24,22) e Barak dice: Essa (la sapienza) è il libro dei decreti di Dio, è la legge che sussiste nei secoli; quanti si attengono ad essa avranno la vita, quan­ti l’abbandonano moriranno (4,1).

.b.   Il giovane nel cammino verso la maturità ha bisogno di essere sostenuto, guida­to e corretto quando sbaglia. I sapienti conoscono bene la forza del male, san­no che il giovane è fragile, che si lascia attrarre da quel che apparentemente sembra più piacevole e più facile, che non ha ancora una chiara capacità di discerni­mento e una volontà provata e rafforzata. Il genitore deve correggere il figlio e strumento di correzione è la punizione. Scrive il Siracide: Chi ama il proprio figlio usa spesso la frusta… Chi corregge il proprio figlio ne trarrà vantaggio e se ne potrà vantare con i suoi conoscenti… e al contrario: Chi accarezza un figlio ne fascerà poi le ferite, ad ogni grido il suo cuore sarà sconvolto. Un cavallo non domato diventa restio, un figlio lasciato a se stesso diventa sventato. Coccola il figlio ed egli ti incuterà spavento. Non concedergli libertà in gioventù, non pren­dere alla leggera i suoi difetti… (Sir 30,1-13). Con questo testo ci potremmo trovare più o meno d’accordo. Credo che tutti possiamo convenire sul dovere dei genitori e degli educatori di guidare, correggere il fanciullo, il ragazzo, il giovane. Forse meno sui metodi educativi: la punizione e la restrizione della libertà. Normalmente c’è il buon senso nell’atteggiamento educativo dei geni­tori, sostenuto dall’affetto verso i figli in rapporto alla punizione per guidare e correggere, ma non si può cancellare del tutto la punizione. Certamente la puni­zione non deve mai essere fine a se stessa, ma punire per lo sbaglio, la cattiva condotta, per un male fatto o arrecato è necessario, altrimenti si corre il rischio di rendere vana l’educazione, come una legge senza sanzione è vana. Si potrà forse discutere sulla misura e il tipo di punizione, ma non sulla necessità di essa. Ancor più oggi si presta a discussione la frase: Non concedergli libertà in gio­ventù. Oggi la libertà è reclamata da tutti, dovunque e sempre. Il testo parla evidentemente di una libertà nel senso della pericolosità per un giovane che ancora non è capace di tutta la responsabilità di decidere nelle sue scelte; una libertà eccessiva può metterà fischio non solo l’educazione, ma il futuro di un giovane. La libertà non é capriccio, né inutile o pericolosa sperimentazione, ma responsabilità decisionale di fronte alle proprie scelte, lì dove la libertà si bifor­ca: una libertà che costruisce e una libertà che distrugge e schiavizza, dove chiaramente la vera libertà non è quelle di farsi schiavo, ma quella di progetta­re secondo un disegno dalle forme più belle e varie, cioè libere, che realizzi il bene e la perfezione della persona e della società. L’adolescente e il giovane hanno bisogno di costruire questa loro propria libertà e lo potranno fare là dove maturino nelle convinzioni e nelle scelte più alte. Sta di fatto che oggi a lamentarsi di una libertà conclamata e pericolosa sono i genitori perché vedo­no vanificati gli sforzi di educare alla vera libertà da una società consumistica che spinge senza freni al capriccio, alla sperimentazione, alle novità vacue solo per finalità di lucro.

.c.   Un cenno sull’educazione di giovani all’amore. Dell’amore dei giovani la Bib­bia più che parlarne lo canta. L’attrazione, l’amore dei giovani è cosa talmente comune, naturale che bastava quanto aveva detto Genesi: “l’uomo lascerà suo padre sua madre e si unirà alla sua donna e saranno un carne sola” (Gen 2,24). La Bibbia parla spesso di matrimoni e di feste matrimoniali, ma non sente l’esigenza di affrontare il problema a livello educativo. In qualche modo indiretta­mente potremmo dire che se ne parla nel libro di Tobia, un bel racconto, scrit­to forse nel terzo secolo a. C., che vuol presentare una famiglia ebrea della dia­spora, che nonostante le difficoltà rimane fedele alla propria identità religiosa e il giovane Tobia convola a nozze con Sara con un matrimonio secondo la pro­spettiva e la legge ebraica pur vivendo in un mondo pagano.

Il testo più bello che parla dell’amore dei giovani è il “Cantico dei cantici”. Di questo breve libretto sono state fatte letture diverse, ci mettiamo nella prospettiva di considerare i due protagonisti, due giovani, che si cercano attratti dall’amore per una vita insieme[27]. Il Cantico è composto di canzoni profane d’amore, che sono state raccolte insieme e alle quali un redattore ha dato una certa unità drammatica, che si esprime nella ricerca vicendevole, nella perdita momentanea tra i due giovani per arrivare poi al rapporto sponsale. I diversi canti celebrano l’attrazione vicendevole dei due innamorati, fanno l’elogio del­la bellezza fisica della ragazza e del giovane, esprimono il desiderio di apparte­nersi l’un l’altro. Il corpo per la mentalità biblica ha una valenza positiva per­ché esso è opera di Dio, che l’ha plasmato dalla terra e a cui ha dato il suo sof­fio vitale; è attraverso il corpo elle passa lo stupore per l’affinità, la bellezza, la gioia di una ammirazione contemplativa vicendevole per cui l’uomo da sempre dinanzi alla donna che le sta di fronte come aspirazione e aiuto cui tendeva, può dire estasiato: “questa sì che è carne della mia carne e osso della mie ossa” (Gen 2,23)[28].

Leggiamo solo alcuni versetti[29]. Si commentano da soli.

Dice il giovane della sua ragazza: Quanto sei bella, amica mia, quanto sei bella / coi tuoi occhi da colomba, luminosi dietro al velo… Un nastro scarlatto son le tue labbra, parlano soavi / Spicchio di melagrana la tua gota che arrossisce die­tro al velo…// I tuoi seni son due cerbiatti, due gemelli di gazzella / che tra i gigli stanno a pascolare. // Quando rinfresca il giorno e sul suolo corrono le ombre, / sul monte della mirra voglio andare, sulla collina dell’incenso. // Tutta bella sei, amica mia, / tutta bella, in te non c’è difetto. // Mi hai rubato il cuore, sorella mia, mia sposa, / mi hai rubato il cuore con uno dei tuoi sguardi, con una gemma della tua collana. // Come sono dolci le tue carezze / inebriano più del vino, il tuo profumo più dell’essenza. //Favo stillante le tue labbra, e la tua lingua nasconde di miele e latte la dolcezza (4, 111).

Nella ricerca vicendevole il ragazzo s’appressa di sera alla casa della ragazza e bussa, ella esita un istante e poi -.Mi alzo, corro, voglio aprire all’amor mio, e stil­lano mirra le mie mani, / scende la mirra dalle dita sul paletto della serratura. // Apro infine all’amor mio, e l’amato mio è sparito, l’amato se ne è andato. / L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato, ma non ho avuto risposta… // Vi scongiuro, ragazze di Gerusalemme, se trovate l’amor mio, ditegli che sto morendo d’amore per lui (5,3-8).

E canta la ragazza del suo amato: Cos’ha di tanto amabile il tuo amato, donna di bellezza senza pari, / cos’ha di tanto amabile il tuo amato, che così tu ci scongiuri? // L’amato mio ha di latte e rose il volto, si distingue tra mille. // Il suo capo è d’oro puro, coi riccioli che son grappoli di palma, e come piume di corvo tanto son neri… //Le sue braccia son modellate in oro, tempestate di topazi. /Il suo petto è d’avorio, e vi brillano zaffiri. // Colonne d’alabastro son le gambe, su basi d’oro…// Al suo palato si colgono delizie, tutto in lui è meraviglioso. / Questo è l’amato mio, ragazze di Gerusalemme, questo è il mio amore (5,9-16). In questi canti non è mai nominati Dio, forse non ce n’era bisogno perché l’amore è progetto di Dio. Sono canti profani, ma non irreligiosi perché l’amore attinge il mistero della vita e in fondo al mistero della vita c’è Dio. Si nomina JHWH una sola volta, solo alla fine del Cantico quando a conclusione si afferma che l’amore è divino. Entrambi i giovani si dicono l’un l’altro: Tienimi sul tuo petto come un sigillo, mettimi come sigillo sulla mano, ché forte è l’amore come la morte, tenace la passione come l’abisso eterno. Le sue vampe son di fuo­co, fiamma di JHWH (8,6). L’amore è dono totale e unisce in maniera definiti­va, afferra con la stessa tenacia e forza della morte, ma il suo vincolo oltrepassa la morte perché vive per l’eternità. Potremmo concludere che anche per il Can­tico, per questi canti d’amore, c’è una dimensione ultima, vera misura dell’amore, cioè Dio stesso: l’amore sarà tanto più forte e vero quanto più è vicino alla fiamma d’amore, che l’ha acceso, cioè Dio. Del resto nel Nuovo Testamen­to S. Paolo dirà agli sposi: amatevi come vi ama il Signore, che ha dato la vita per la sua sposa, la Chiesa, cioè per voi (cfr. Ef 5, 21-33).

 

 

Digitazione di Vesprini Albino. Grazie

[1] ‘adam di per sé indica l’essere umano, indistintamente maschio e femmina. Entrambi nella realtà di singoli sono incompleti, e hanno bisogno di un aiuto che gli stia di fronte (come dice letteralmente il testo biblico) o “un aiuto simile a lui” (come comunemente è tradotto), solo allora si completano nella dualità.

[2] Cfr. J. Pedersen, Israel. Its life and culture, Oxford University Press, London 1973 p. 60-81; R. De Vaux, Istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti, Torino 1987; Cfr. J. Jeremías, Gerusalemme al tempo di Gesù, Ed. Dehoniane, Roma 1989, B/XI La situazione sociale della donna.

[3] Si possono utilmente consultare due recenti pubblicazioni sui personaggi biblici: M. Bocian (a c.), Dizionario dei personaggi biblici, Piemme, Casale Monferrato 20 044; P. BEAUCHAMP, Cinquanta, ritrat­ti biblici, Cittadella, Assisi 2004

[4]  Isacco, in ebraico Yitschaq, significa “il Signore fa sorridere”. Nei due diversi racconti in cui si annuncia la nascita di questo figlio si sottolinea l’elemento del sorriso: in Gn 17,17 è Abramo che ormai vecchio dinanzi alla rinnovata promessa di Dio di dargli un figlio “rise e pensò: Ad uno di cen­to anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novanta anni potrà partorire?’, in Gn 18,12-15 si rac­conta che Sara, ormai vecchia, quando sentì dire che avrebbe avuto un figlio “rise dentro di sé” e poi­ché negava di aver riso il Signore le disse: Sì, hai proprio riso.

[5]  In ebraico: Hinneni, Eccomi: è la risposta della fede, della persona che si fida e si affida a Dio pron­to a fare quel che Dio chiede. È la risposta che mette i punti fermi di tutta la storia della salvezza da Abramo, Mosè (Es 3,4), Samuele (1 Sam 3,3-10), Isaia (Is 6,8) fino a Maria (Le 1,38). Anzi la lettera agli Ebrei pone questo “eccomi” in bocca al Figlio di Dio all’inizio di tutto il disegno di salvezza al momento dell’incarnazione: “Ecco, io vengo a fare la tua volontà” (cfr. Eb 10, 9).

[6]  Il midrash è un commento al testo biblico fatto in forma di racconto, i testi sono disseminati nella tra­dizione d’Israele raccolta nel Talmud. Questi racconti messi insieme formano la collezione dei midrashim.

[7]  Satàn è un termine che significa “tentatore, colui che frappone ostacoli”, in greco è stata tradotto con diàbolos: è una figura simbolica che viene introdotta nei racconti col ruolo di mettere alla prova le persone e di sviarle dalla realizzazione del piano di Dio. Nel libro di Giobbe è presentato come “uno dei figli di Dio”, un personaggio della corte celeste (cfr. Gb l,6s; 2,ls).

[8]  La Toràh è la legge o istruzione che noi chiamiamo Pentateuco, i cinque libri di Mosè: Genesi, Eso­do, Levitico, Numeri, Deuteronomio. La Toràh per l’israelita non è solo il libro di Dio, ma la stessa Sapienza di Dio, conoscerla, amarla è un precetto che equivale al primo comandamento (cfr. Sir 24, 22; Ba 4,1).

[9]  Ripreso da R. PACIFICI. I midrashim. Fatti e personaggi biblici, Marietti, Casale Monferrato 1986 p. 31-32. Per un approfondimento su la figura di Isacco e la tradizione d’Israele sul patriarca cfr. R. MARTIN-Achard, Isaac in “Anchor Bible Dictionary”, voi. 3.

[10]  La nascita dei dodici figli di Giacobbe e della figlia Dina è narrata in Gen 29,31-30,24; in Gen 35,16-20 è narrata la nascita di Beniamino. Giacobbe è il vero capostipite delle dodici tribù; i figli maschi sono tredici, ma Levi non avrà territorio nella terra promessa in quanto è tribù che Dio ha riservato per il culto.

[11]  Per un’analisi letteraria ed esegetica puntuale ed esaustiva rimando al volume di L. ALONSO SCHOEKEL, Dov’è tuo fratello? Pagine di fraternità nel libro della Genesi, (parte terza, ciclo di Giu­seppe pp. 301-380), Paideia, Brescia 1987.

[12]  Cfr. il commento di L. Alonso Schoekel, o. c. pag. 355-358 e la conclusione pag. 381.384.

[13]  Midrash Shem. R.l citato da R. Pacifici, Midrashim o.c. pag. 56.

[14]  È lo stesso che il monte Sinai. I due nomi sono dovuti a tradizioni narrative diverse.

[15]  Il testo biblico suona ehjeh ’asher ’ehjeh” tradotto: io sono colui che sono; nella terza persona “colui che è” suona: Jahweh. Il termine dio in un mondo politeista è nome comune, indica generica­mente la realtà divina: dio è ogni divinità p.e. Baal, Ashera nel mondo biblico, Zeus, Apollo, Venere, Demetra ecc. nel mondo greco-romano. JAHWEH è il nome che Dio si da e indica più che l’essere assoluto, una presenza stabile, sicura, di aiuto e sostegno permanente. E un nome che chiede fiducia, affidamento a colui che solo può salvare. In ebraico si scrive con le quattro consonanti: JHWH, ma questo nome santo nella lettura delle Scritture non veniva pronunciato e quando lo si incontrava lo si sostituiva con ADONAI che significa: Signore. Nel NT “Signore” è detto quindi sia di Dio, il Padre, di Gesù, il Figlio, e dello Spirito Santo. “Signore” è un termine che esprime la nostra fede.

[16]  Sono tanti i commenti di carattere critico o di lettura spirituale al libro dell’Esodo, segnalo solo un lavoro che in forma accessibile coniuga i due aspetti: A. NEPI, Esodo, voi. I (1-15), voi. II (16-40), EMP, 2002-04.

[17]  Il re viene consacrato con olio profumato (cfr. la consacrazione di Saul in 1 Sam 10,1 e di David in 16, 1-13) e “unto” nel senso di “consacrato” in ebraico si dice Mashiach, tradotto in greco con Christòs. Questi due termini in italiano non sono tradotti, ma, per il loro significato pregnante, sem­plicemente traslitterati in Messia e Cristo. Il Messia è una figura importante in tutto l’AT a partire dal­la figura di David cui fu garantita una stabilità nella sua discendenza (cfr. 1 Sam cap. 7).

[18]  La poligamia nell’AT era ammessa. Le diverse mogli di un uomo erano il segno del potere e del­le relazioni di lui perché spesso un contratto o trattato d’alleanza si concludeva con un matrimonio, quasi a sanzionare la stabilità del trattato stesso. La maternità era il segno della benevolenza divina perché la maternità è la prima benedizione di Dio.

[19]  Normalmente in italiano si trova Davide, ma la trascrizione più esatta è David.

[20] L’episodio è ricordato nel Vangelo di Matteo 12, 3s: Gesù difende i discepoli che, secondo i Farisei, avevano infranto la legge perché di sabato, passando per i campi, avevano colto delle spighe matu­re e sfregandole ne avevano mangiato i chicchi. Gesù risponde citando loro David cui i sacerdoti ave­vano dato da mangiare i pani sacri, che potevano essere consumati solo dai sacerdoti.

[21] Non meraviglia che alcuni storici ed esegeti vedono nella storia di David, come narrata dal deu-teronomi.’ ta, un velo che copre la realtà delle strategie e delle azioni di David. Cito, uno per tutti, un recente libro che senza veli parla di David addirittura come murderer, cfr. B. HALPERN, I demoni segreti di David, Paideia, Brescia, 2004, il cui capitolo 4° è intitolato: Re David, serial killer pag. 85ss.

[22]  Due terzi dei 150 salmi sono attribuiti a David: oggi la critica storica è propensa a dire che i salmi sono tutti posteriori al tempo di David.

[23]  Il testo biblico da questa versione: lo scriba Safàn trovò questo libro, lo lesse, lo fece leggere al re, si chiese un parere alla profetessa Hulda, che affermò che quella era la legge del Signore e che biso­gnava applicarla (cfr. 2 Re 22,3-17). Di fatto gli storici pensano che questo fatto del ritrovamento sia una pia fraus, un espediente per avallare la riforma.

[24]  Legge rimasta per sempre perché da Giosia in poi unico luogo di culto rimase, fatta qualche rara e considerata eretica eccezione, il tempio di Gerusalemme e sul luogo dove l’aveva costruito per la prima volta Salomone; questo andò distrutto con la fine di Gerusalemme di cui fu spettatore Gere­mia nel 586, ricostruito dopo l’esilio e ampliato da Erode al tempo di Gesù fu distrutto da Roma nel 70 d. C. e non è stato più ricostruito. Oggi sullo stesso luogo sorgono le moschee di Al-Aqsa e di Omar.

[25]  Il rotolo, chiamato codice deuteronomico o la Torah (cioè legge) di Giosia tocca tanti punti, parti­colarmente la proibizione dei culti stranieri e la revisione della celebrazione delle festività, ma anche leggi di carattere sociale, amministrativo; faceva obbligo al re di ridurre la sua corte, il suo harem, di non avere un grosso esercito e soprattutto di tenere presso di sé copia della legge e di leggerla ogni giorno.

[26]  Torah normalmente è tradotto con “legge”, ma meglio è tradotto con “istruzione”. Di.per sé quando si dice Torah o legge si intendono i primi cinque libri della Bibbia, che rappresentano la legge-istruzione perenne d’Israele, il dono che Dio ha fatto al suo popolo.

[27]  Rimando al bel testo con il commento L. ALONSO SCHOEKEL, Cantico dei cantici, Piemme, Casa­le Monferrato, 1993.

[28]  La frase è detta dall’uomo maschio e in questo tradisce una certa mentalità maschilista della società ebraica, ma quando Dio dice che “non bene che l’uomo sia solo” lo dice di ’adam, che di per sé indica duomo nella sua dualità uomo-donna. Perciò la frase è da considerarsi reciproca.

[29]  Riporto la traduzione di L. Alonso SCHOEKEL, o.c. distinguendo con la distinzione dei versi o emistichi.

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