LO STATUTO MEDIEVALE DI MONTELPARO (FM) NEGLI STUDI DI GIUSEPPE CROCETTI E NOTIZIE DEI SECOLI XIV E XV

                                    GLI ANTICHI STATUTI COMUNALI DI MONTELPARO

   Nel medioevo ogni libero comune o Terra si governava a norma di statuti o leggi comunali proprie. Dalle pergamene montelparesi relative al sec. XIII si rileva che le nobili famiglie dei signori rurali, incastellandosi, dovevano assoggettarsi in tutto ai propri statuti; parimenti i Podestà a Montelparo dovevano giudicare attenendosi agli statuti locali. Questi riferimenti indicano che Montelparo fin dal suo essere costituito a Comune aveva un atto notarile di norme e consuetudini scritte, raccolte insieme dai residenti. Come avviene solitamente, col passar degli anni, mutano e cambiano le abitudini degli abitanti, e ci sono leggi antiche che cadono in disuso, altre divengono imperfette, altre debbono essere adeguate al regime generale in vigore presso lo Stato della Chiesa, per cui il Comune di Montelparo riunito in Consiglio Generale, al tempo del legato Egidio d’Albornoz il 17 gennaio 1559, festa di S. Antonio, conferiva solenne incarico di aggiornare i quattro libri dei vecchi statuti a quattro giuristi del luogo, un esperto giurisperito per ogni libro normativo: il Libro I: Il regime <governativo> et i pubblici offici al sig. Giovanni Tommaso Squarcia; il Libro II: le cause civili al sig. Mariano Poliziani; il Libro III: I reati (Malefici) al Sig. Angelo Poliziani; il Libro IV: I Danni Dati al Sig. Orfeo Lorenzini. Nel contempo dava incarico a tre notai di affiancarsi ai suddetti per la stesura finale del testo: ser Troiano Roselli, ser Bartolomeo Cifarelli e ser Giulio Rampecon. Il nuovo volume sulle leggi e i diritti municipali della Comunità e delle persone della Terra di Monte Elparo, scritto in lingua latina: «Leges ac iura municipalia Communitatis et hominum terrae Montis Elpari», è diviso in sei libri: I = Gli offici pubblici 143 rubriche (r.); II l. = Le Cause Civili r. 57; III l. = Le Causis Penali (Criminali) r. 115; IV l. = Le Cause straordinarie r. 79; V l. = Gli Appelli r. 11; VI l. = I Danni dati r. 37.

   Il tutto fu approvato l’anno seguente, 1560, invocando il nome di Dio Onnipotente e della Beata Vergine Maria e protestando fedeltà ed obbedienza alla Santa Romana Chiesa, al Papa Pio IV ed al Governatore Generale della Marca Anconetana, Mons. Loreto Lauri di Spoleto. Veniva reso esecutivo per conservare nel benessere di salute e porre nei retti comportamenti il popolo montelparese: Lo si diede alle stampe, la prima volta nel 1570, per i tipi di Adolfo De Grandis di Ancona, e la seconda volta nel 1781, nella tipografia fermana di Giuseppe Agostino Paccaroni.  Notiamo alcune cose essenziali. Il primo libro sancisce norme per il culto divino e l’autonomia amministrativa del Comune. Ricorda che si celebravano le feste dell’Assunta, dell’Annunciazione, e della Visitazione della B.V. Maria, del protettore Sant’Angelo, di S. Pietro e S. Giovanni, con maggior solennità delle altre, dato che erano i santi titolari dei quattro quartieri in cui era divisa la popolazione del paese e del territorio e creavano armonia tra i rioni.

   Il magistrato al completo che riuniva il Podestà, i Priori e gli Officiali accompagnati dai balivi nella festa dell’Assunta (15 agosto) si doveva recare nella Chiesa di S. Maria de Lavognano (= de Abbagnano o de Mercato) al centro del paese, dove, nell’assistere alla santa Messa offriva un cero del peso di una libra; similmente faceva nella festa della Annunciazione (15 marzo) nella chiesa di S. Maria Novella e nella festa della Visitazione (2 luglio) nella chiesa di S. Maria delle Grazie; sita fuori delle mura dalla parte di Porta di Catigliano; nella festa di S. Pietro offrivano il cero nella omonima chiesa sita nei pressi della Porta del Sole; e per la festa di S. Giovanni si recavano nella propria chiesa, sita in contrada Montecchio. Nella festa della Purificazione (2 febbraio) un cero nella chiesa di S. Maria de Laudo; mentre il martedì dopo la Pentecoste si recavano nella chiesa di S. Maria della Misericordia. Queste chiese rimasero diroccate nel terremoto del 1703; le ricorda un affresco traslato nella cripta di S. Angelo.

   Inoltre, affinché la popolazione di Montelparo fosse difesa e protetta dalla S. Croce e da Sant’Angelo, il 3 e l’8 maggio, il magistrato, oltre i ceri, offriva due ‘palli’ di seta, i migliori

che si trovavano, del valore di 100 soldi e 10 libre di moneta corrente, rispettivamente nelle chiese monastiche di Sant’Agostino e Sant’Angelo in Castello. Detti palli restavano esposti nel coro per otto giorni, e in seguito, erano conservati come buon ricordo. Infine, facevano l’offerta di 10 lire «per sussidio delle tonache» ai frati di Sant’Agostino, nella festa del Titolare della loro Chiesa (28 agosto). Tra i frati di detto Convento veniva incaricato il predicatore annuale per le feste di Avvento e di Quaresima con retribuzione di tre ducati a carico dell’erario comunale. Essi predicavano in chiesa nei giorni festivi nelle Domeniche, a Natale con i due giorni successivi, inoltre nelle solennità e feste liturgiche, come Circoncisine, Epifania, Venerdì Santo e tutti i venerdì di marzo, Pasqua con i due giorni seguenti, Ascensione, Pentecoste con i due giorni seguenti, Corpus Domini, Purificazione, Concezione, Natività, Annunciazione e Assunzione della B.V. Maria, S. Giovanni Battista. Nello statuto si indicavano anche altri giorni: dei 12 Apostoli, dei 4 Evangelisti, dei 4 Dottori della Chiesa, Invenzione ed Esaltazione della S. Croce, S. Michele (8 maggio e 29 settembre), S. Antonio Abate, S. Antonio di Padova, S. Lorenzo, S. Sebastiano, S. Rocco, S. Martino, S. Nicola da Tolentino, S. Caterina di Alessandria, S. Lucia, S. Maria Maddalena, S. Maria de Camurano (1 agosto). Per le prime feste era vietato ogni tipo di lavoro, tenere botteghe aperte, trasportare cose con animali. I contravventori pagavano una multa di 25 soldi, il basto bruciato. Si faceva eccezione in occasione della fiera che si teneva nella Festa dell’Assunta, per i rifornimenti alimentari, per chi rientrava da un paese forestiero, per la vendita di frutta, uova, formaggi, polli, pesci e agnelli. Nelle feste minori era consentito trasportare pietre e mattoni, legna e prodotti agricoli e, se c’erano abbinati fiere o mercati, era consentito l’accesso di forestieri con le loro mercanzie, ma l’apertura delle botteghe e la vendita era consentita solo dopo la celebrazione dei divini uffici. Era consentito fare lavori per riattare strade e i lavori per il Comune, o per le Chiese, se urgenti e necessari, con licenza del Podestà. Si precisa che la giornata festiva era di 24 ore, dalla sera precedente a quella seguente, quando in cielo incominciavano ad apparire le stelle. Per le festività minori si faceva obbligo al Podestà di farle preannunciare dal banditore nella sera avanti, «al suono della tuba e della campana».

   Per il Podestà e per i giudici del Comune, oltre alle suddette feste, erano considerati tempi di ferie i periodi dal 20 dicembre al 7 gennaio, dal Sabato delle Palme alla Domenica dopo Pasqua, la festa di S. Benedetto (21 marzo), S. Domenico, S. Pietro Martire, S. Francesco, S. Tommaso d’Aquino, S. Gioacchino, S. Giuseppe, S. Anna, i tempi della mietitura e della vendemmia. Per le attività del tribunale, non erano validi eventuali processi svolti in detti giorni e periodi; e le sentenze emesse erano considerate nulle.

       L’Amministrazione Comunale era articolata in organici elettivi, presieduti ed assistiti da persone con mansioni specifiche che duravano in carica per determinati periodi. Il Podestà, con funzioni di «Pretore», era il vero capo e «Rettore» di tutta l’amministrazione Comunale, per sei mesi, era garante di libertà presso tutti; nell’espletamento delle sue funzioni era coadiuvato dal Notaio forense e dal Camerario, o Cassiere. All’avvicinarsi delle scadenze dei rispettivi mandati, trenta giorni dalla scadenza, 12 elettori, tratti a sorte dal Consiglio dei Cento, tre per ogni quartiere, dopo aver prestato giuramento nella chiesa di S. Agostino, facevano la graduatoria di tre nominativi di persone forestiere, esperte in diritto e idonee per ognuno dei suddetti incarichi, dandone immediata comunicazione agli interessati.

   Al Podestà, dottore in legge, era corrisposto in tre rate uno stipendio complessivo di 60 fiorini. Ne riceveva 50, o 40 se era soltanto legisperito o esperto giusperito. Ogni giorno di buon mattino, eccettuate le feste ed i giorni feriati, doveva recarsi al proprio ufficio, «al banco del diritto», per amministrare la giustizia. Mediante giuramento era impegnato a proteggere chiese, orfani, vedove, poveri. Egli istruiva e definiva cause civili, criminali e miste; osservava e faceva osservare tutte le norme degli Statuti Comunali; imponeva e riscuoteva multe e contravvenzioni, sulle quali era consentito percepire una percentuale. Tutte le cause dovevano essere istruite e decise nel termine di 40 giorni.

   Per le sentenze non pienamente convincenti, nei primi tre secoli si fece appello ai giudici del Presidato Farfense; nel secolo XVI, per espressa concessione fatta al comune di Montelparo dal papa Leone X il 9 giugno 1513, gli appelli alle cause civili e miste, inferiori a 10 fiorini, giudicate dal Podestà, potevano essere riesaminate dal Cancelliere, o dal Segretario Comunale, con processo sommario, secondo giustizia. L’indulto fu motivato dal fatto che Montelparo distava più di 30 miglia dalla Curia Generale della Marca di Ancona, che aveva sede in Macerata. Per gli appelli delle cause penali il foro competente era la Curia Generale, tramite le sedi distaccate, o presidati.

Alla fine del mandato, Podestà, Notaio e Cassiere forensi dovevano sottostare al sindacato del loro operato da effettuarsi nello spazio di tre giorni.

   Il Notaio Forense faceva parte della curia podestarile, fungeva da segretario, redigeva gli inventari, riceveva denunce, scriveva le sentenze del Podestà, redigeva copie autentiche di atti con autorizzazione del Podestà o dei Priori, sorvegliava l’igiene pubblica, i pesi e le misure, controllava la retta manutenzione delle strade, compilava il registro delle tasse, registrava multe e contravvenzioni. Era responsabile dell’archivio podestarile. Aveva l’obbligo di continua residenza in Montelparo; per eventuali assenze non autorizzate, o inadempienze, erano previste severe multe da detrarsi dal suo salario, che per sei mesi era di 40 fiorini.

   Il Camerario svolgeva funzioni di «cassiere» ed «esattore» generale delle imposte (collette e dative) del Comune e delle multe e contravvenzioni fatte dal podestà e suoi ufficiali. Nei pagamenti ed esazioni superiori a 12 soldi era necessaria la presenza di due testimoni; doveva redigere due registri: uno per sé e l’altro per il Sindaco. Nel Palazzo Comunale aveva una stanza riservata per la custodia dei pegni consegnati da coloro che non avevano moneta per pagare dative, multe o condanne. Trascorso un certo tempo i pegni erano venduti mediante asta pubblica, legalmente bandita ed eseguita all’aperto lungo la loggia o sulle scale del Palazzo Comunale. Il plusvalore ricavato era restituito. Inoltre aveva l’incombenza di presiedere ai lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria delle mura e delle strade comunali, dei fossi, dei ponti e delle fontane. Custodiva i pesi e le misure adottate dal Comune, «secondo il pesare della Città di Ascoli» e vigilava, con l’assistenza di esperti, sulla mattazione di animali grossi e sulla vendita delle carni.

   Il Camerario era assistito da un Notaio per redigere verbali e rilasciare ricevute; ogni due mesi doveva dare il resoconto delle entrate e delle uscite al Consiglio di Cernita. Per eventuali inadempienze riscontrate dagli inquisitori sul suo operato al termine del mandato era multato con trattenute del suo salario che ammontava a 30 fiorini per 6 mesi.

   Il Sindaco era il legale rappresentante del Comune, inteso come persona giuridica, o ente morale. Perciò interveniva nei negoziati con altri Comuni, negli atti di compravendita, nei contratti di mutui, di incastellamenti; nella scelta dei Rettori delle chiese (sulle quali il Comune aveva il giuspatronato) per l’opportuna presentazione dell’eletto alla competente superiore autorità ecclesiastica; rappresentava il Comune nelle cause civili, criminali e miste se lo interessavano come procuratore speciale, designato con delibera dal Consiglio Generale.

   Era responsabile della manutenzione delle proprietà comunali: palazzo civico, fogne-fossi (regalitias), rote, molini, terre, prati e selve. Ogni anno doveva fare la ricognizione dei confini del territorio con l’assistenza di un notaio e quattro uomini. Degli oggetti mobili del Comune doveva curare un aggiornato inventario. L’incarico era a tempo indeterminato; senza compenso, tranne la diaria se inviato in missione fuori del territorio; al termine del mandato, doveva fare il rendiconto ai rappresentanti dei quartieri, detti «raziocinatori».

   Fondamento al potere legislativo del Comune era il Parlamento Generale che doveva essere convocato almeno una volta all’anno, o più volte, se necessario; era composto da tutti i capifamiglia con età superiore ai 25 anni, iscritti nel ruolo della tassa del «fumante», o focatico. Le riforme approvate a maggioranza dal Parlamento non potevano essere modificate da nessuno dei tre Consigli inferiori.

   Tutta l’amministrazione operativa del Comune faceva capo a tre distinte organizzazioni consiliari.

.a.   Il Consiglio Generale dei Cento, formato da 100 consiglieri, o anche in numero inferiore scelti in numero 25 per ciascuna delle quattro contrade, uomini stimati, di buona forma, amanti del progresso e della pace nel paese, di età superiore a 25 anni. In caso di morte, durante il mandato, il figlio sostituiva il padre, il fratello maggiore era sub rogato dal minore, oppure dal più degno della contrada. Ogni Consigliere eletto doveva prestare giuramento con cerimonia solenne nella chiesa di S. Agostino. Il Consiglio Generale era convocato dal Consiglio di Cernita, non dal Podestà, per discutere proposte o riforme di leggi e consuetudini di maggiore importanza.

   Nella discussione erano ammessi solo quattro «arrengatori» (parlavano dal luogo detto dell’arringa), eccezionalmente sei, col consenso del Podestà e del Consiglio di cernita. Ogni decisione o delibera era presa con voto pubblico, per alzata o seduta, oppure con voto segreto con immissione di fave o pallottoline nel bussolo bicolore: cassetta rossa per il ’Sì’, bianca per il ’No’; aveva valore legale, se non risultava contraria agli Statuti Comunali.

Il Consiglio Generale dei Cento, d’intesa col Consiglio Priorale e quello di Cernita, convocava il parlamento Generale per decidere su problemi di maggiore importanza riguardanti riforme legislative e gravi condanne.

.b.   Il Consiglio di Cernita, formato da 32 uomini scelti dal Consiglio Priorale, 8 per quartiere, con incombenza di eleggere quattro uomini saggi, esperti nelle leggi, da affiancare ciascuno al gruppo della propria contrada. A questo Consiglio non potevano essere ammessi uomini rissosi, scandalosi, perturbatori della pace comune, gli infami, i condannati per furto, falsità e sacrilegio. Il Podestà doveva far ricerca circa i requisiti di idoneità di ciascuno, sotto pena di 25 lire.

   Questo Consiglio di Cernita era convocato con ordine del giorno preparato dal Consiglio dei Priori: deliberava fino alla spesa di 11 lire di moneta corrente, e non di più in ciascuna seduta. Per somme superiori era competente il Consiglio Generale dei Cento. Le decisioni sulle spese erano valide solo a lavori ultimati, o a negoziazioni condotte a termine, secondo un precedente patto concordato. Era fatto divieto al Segretario ed Economo del Comune di dare acconti di qualsiasi genere. Ogni consigliere era vincolato al segreto di tutto ciò che fosse stato riferito nelle riunioni consiliari, col vincolo del segreto imposto dal Podestà o dai suoi officiali.

.c.   Il Consiglio di Credenza o dei Signori Priori era formato da 8 persone, due consiglieri per ogni quartiere, durava in carica solo due mesi. All’inizio dell’anno amministrativo si formava il bussolo per un biennio, cioè si arrotolavano pallottole di carta in cui avvolgevano cartucce per il nome dei singoli abbinamenti per ogni contrada, (unendo dotti con meno dotti); dette pallottole, sigillate, venivano immesse in una cassetta, detta bussolo, custodita nella cassaforte del Comune, chiusa con due chiavi, una custodita dal Sindaco e l’altra dal priore dei PP. Eremitani di S. Agostino.

   Otto giorni prima della scadenza bimestrale, convocato il Consiglio Generale dei Cento, nella sala del Palazzo Comunale, presenti il Sindaco, l’Economo, il Notaio ed i Signori Priori, un messo Comunale recava il bussolo nella sala, e con un rito pubblico e solenne lo apriva, ne estraeva a caso una pallottola, la consegnava nelle mani del Podestà, o chi per lui (Notaio o Camerario), il quale la dissigillava, la apriva e leggeva ad alta voce i nomi dei Consiglieri iscritti, facendone redigere apposito verbale. I Consiglieri di Credenza, detti comunemente Signori Priori, dopo aver prestato solenne giuramento, entravano in carica effettiva al 1° giorno del mese del loro bimestre. Ogni giorno, di prima mattina, (ore 6), dovevano sedere al banco dove il Podestà amministrava la giustizia, fino alle ore 9; recandosi al loro ufficio dovevano rigorosamente indossare abiti neri, o almeno mantelli o cappe nere. Loro compito era di ascoltare le richieste della popolazione, le denunce di danni o di molestie. Inoltre avevano il compito di provvedere con sollecitudine a tutte le necessità ed incombenze, riguardanti l’amministrazione del Comune, autorizzare tutte le spese previste dagli Statuti; per quanto non previsto potevano disporre liberamente fino alla somma di 100 soldi. Per le spese straordinarie, fino alla somma di 11 lire, dovevano convocare il Consiglio di Cernita, e per quelle superiori il Consiglio Generale.

   Mentre erano in carica godevano dell’immunità personale e familiare; ma erano vincolati al segreto di quanto ascoltato al banco di giustizia. Il Pastori riferisce che nell’ultimo quarto del Settecento si mantenevano i tre Consigli, ma era ridotto il numero dei componenti. Il Consiglio dei priori era composto di 12 Consiglieri delle Famiglie Nobili; il secondo grado ed il terzo si componeva ciascuno di 12 Consiglieri scelti da altre famiglie, onde in numero di 36 formavano il Consiglio Generale; in alcune occorrenze si convocava ancora il Parlamento Generale. Il Magistrato che si rinnovava ogni due mesi, era composto dal Gonfaloniere e da due Priori. Il Podestà non era più eletto dalla comunità, ma inviato dalla Sacra Consulta.

   Il Comune per svolgere la sua funzione amministrativa aveva bisogno di entrate e di impiegati stipendiati. Le entrate erano costituite dalle rendite dei beni posseduti in proprio, case e terreni, e concessi in affitto; dal focatico, o tassa del «fumante»; dal Terratico, o imposta sui terreni in base all’estimo registrato nel catasto comunale. Inoltre ogni semestre, al tempo del rendiconto podestarile, se risultavano passività di rilievo, il Consiglio Generale deliberava una speciale imposta detta «colletta» o «dativa», per portare il bilancio a pareggio. Detta imposta era applicata in modo proporzionale: per due terzi era ritratta dall’allibramento al valore catastale, e per un terzo dal registro della tassa del «fumante» che era pagata per intero dal nucleo familiare che possedeva beni stimati 7 lire; per metà, un terzo o un quarto, proporzionalmente, se l’estimo era inferiore.

   La «dativa» doveva essere riscossa dal Massaro o Cassiere del Comune, nei termini del tempo deliberato; il ricavo doveva essere impiegato e speso unicamente per saldare il debito per cui era stata richiesta l’imposta. Per le spese relative alla manutenzione dei molini e stipendio dei mugnai era in vigore l’imposta «per bocca», cioè per ogni abitante, eccettuati i bambini con età inferiore a tre anni. Nel caso che il Comune fosse impegnato a far fronte a riscatti, foraggiamenti di truppe, imposizioni violente a tutela della libertà, per ricavare la somma richiesta, detta comunemente «taglia» si dovevano far quattro partite. Una gravava sul raccolto (frutti), una si ricavava dall’estimo catastale, una dal registro del fumante, e la quarta si ricavava dalla tassa sul bestiame: buoi, porci, pecore e capre.

   Chi acquistava terre o case aveva l’obbligo di fare l’iscrizione al catasto dentro un mese. Se il padrone che aveva affittato case o terreni a terzi, avesse trascurato il pagamento della «dativa», l’affittuario era tenuto a corrispondere la somma dovuta, con diritto di rivalsa sul proprio padrone, per la ‘rata’. Tra gli impiegati del Comune sono da ricordare ancora:

Il Cancelliere, o Segretario Comunale, legisperito, con compiti di verbalizzare le Adunanze Consiliari, ordinare l’archivio, trascrivere documenti ed autenticarli, stendere il testo delle ambasciate, e altro.

Il Massaro o Economo del Comune.

Gli Ambasciatori, o Oratori, inviati a patrocinare presso città e paesi, presso gli uffici giudiziari e Superiori gli interessi del Comune, erano designati dai Signori Priori, ricevevano un mandato scritto con memoriale di quanto deliberato dai diversi Consigli. Se la missione si svolgeva in giornata con cavalcatura ed aveva per meta Santa Vittoria, Monteleone, Sant’Elpidio Morico, Montalto o simili. Il compenso era di 16 soldi; il doppio se si doveva pernottare: per missione in luoghi più lontani, nell’ambito della Provincia, il compenso era di 50 soldi al giorno. Se nei luoghi circonvicini vi si recava a piedi il compenso era ridotto a 6 soldi, e 24 soldi per ogni pernottamento. Per le ambasciate a cavallo fuori della Marca il Consiglio dei Cento, di Cernita e di Credenza decideva di volta in volta d’accordo con gli interessati. Ogni spesa di missione doveva essere documentata; ogni ambasciatore doveva riportare le ricevute delle spese fatte. L’uso degli ambasciatori era assai frequente, poiché Podestà, Segretari, Economo, Priori e Consiglieri avevano l’obbligo di residenza continuata nel tempo che restavano in carica. Solo il Sindaco si poteva assentare, come procuratore del Comune, per atti che interessavano la Comunità.

   Due baiuli (balivi), annualmente erano nominati a sostegno delle funzioni dei vari officiali; uno di essi, detto Trombetta, fungeva da banditore, dava avvisi e pubblicava a suon di tromba le ordinanze delle autorità comunali, inoltre bandiva avvisi ed aste pubbliche a richiesta dei privati. Lo stipendio annuale era pattuito tra le parti; però ogni ‘bando’ aveva un compenso suppletivo di due denari, se richiesto dal Comune, di 6 denari, se richiesto da privati. L’altro era a disposizione, fungeva da guardia, riferiva e multava i contravventori, riceveva denunce e alle norme statutarie, verificava i danni arrecati. Quanto riferito dalla guardia era ritenuto per vero. Suppliva il Trombetta quando questi era inviato presso altre Curie o Uffici Giudiziari. Dovevano andare disarmati in territorio di Mont’Elparo. Potevano essere rieletti, ma solo dopo cinque anni. In ogni modo, se utile e necessario, potevano essere confermati con delibera del Consiglio Generale.

   Il Palazzo Comunale al tempo della compilazione degli statuti era sito nel piazzale antistante la chiesa di S. Angelo. Era una costruzione eminente, isolata. Nessun forno, officina e scuola poteva attivarsi all’intorno se non alla distanza di 6 canne, di 5 piedi per canna; equivalente a m. 12,75. Doppia distanza doveva osservare ogni privato che voleva elevare nei paraggi una sua casa, con altezza non superiore a quella del Palazzo Comunale. Il Palazzo, riservato agli Uffici Civici e alla residenza del Podestà e degli officiali con le loro famiglie, non poteva essere venduto per nessun motivo; solo le stanze ricavate nel piano inferiore potevano essere affittate. Sopra il muro che era a fianco della scala anteriore del palazzo si suggeriva la costruzione di un locale idoneo alla conservazione, dentro apposito armadio, di tutti i registri, gli atti ed i carteggi del Comune; la chiave di questo archivio si riteneva dal Sindaco o dal Massaro; l’apertura doveva essere autorizzata dal Podestà, o dai Consiglio Generale. La visione del carteggio era consentita previa licenza dei suddetti.

   Podestà e Consiglieri dovevano mettere gran cura nella manutenzione ordinaria e straordinaria del Palazzo Comunale e delle mura di cinta. Tra gli obblighi fatti ad ogni Podestà c’era quello di far costruire nel semestre due canne di scarpata lungo le mura di difesa del Comune, pari a m. 8,5 con facoltà di cooptare con ogni mezzo la collaborazione dei montelparesi per mezzo delle ben note giornate obbligatorie. Il Comune interveniva nella spesa per l’acquisto dei materiali. Coloro che erano stati autorizzati ad elevare la propria casa vicino alle mura di cinta a capo della ripa e nelle vicinanze, dovevano munirle ed ornarle di buoni ed idonei merli, propugnacoli per la difesa.

Presso il Comune erano registrati tutti coloro che avendo ricevuto armi, archibugi, loriche e coscialetti erano obbligati a prendere le armi in caso di difesa; in altro registro erano elencate le persone esentate. Le armi avute in consegna non potevano essere consegnate ad altri. Altre armi erano in deposito presso il Palazzo Comunale.

Il Podestà, il suo Notaio ed il Cassiere, entrando in carica, dovevano far dono al Comune di un archibugio del valore di 3 fiorini.

La custodia diurna e notturna delle porte di accesso al paese era affidata a quattro clavigeri con incarico annuale, durante il quale erano esentati dalle tasse e godevano di immunità personale. Di notte potevano aprire solo col consenso del Podestà. Solo dopo tre anni potevano avere nuovo incarico. Dalle case costruite lungo le vie pubbliche era proibito far sporgere terrazze e balconi. Ogni costruzione all’interno dell’abitato doveva essere approvata dalla competente autorità, con apposizione dei termini alla presenza dei confinanti. Fuori della porta di casa, lungo le vie più larghe, era consentito porre una panca di legno o cippo in pietra larga 45 cm.

   Nel medio evo ed anche più tardi, fino alla Rivoluzione Francese, fu tenuto in gran conto il diritto di precedenza, sia tra il clero e gli ordini religiosi, come tra le diverse categorie di cittadini. Gli Agostiniani, per esempio, avevano la precedenza sul Terz’Ordine Regolare di S. Francesco. Gli statuti di Montelparo, onde evitare discussioni, nella penultima rubrica del primo libro prevedono la seguente graduatoria da seguire nelle manifestazioni pubbliche e rapporti privati: la prima preferenza era per i dottori in Legge e Medicina e in pari grado, se dottori, per i Capitani dello Stato Pontificio, dell’imperatore e delle libere città; seguivano i giurisperiti, i notai, gli anziani e le persone oneste delle nobili famiglie. Poi si faceva la graduatoria degli artisti: i lanai precedevano aromatari (= farmacisti), pittori, orefici; indi seguivano calzolai, clitellari e sellai; fabbri e legnaioli, tessitori e sarti.

   Gli agricoltori aprivano il corteo per l’offerta del cero in occasione della festa di Sant’Angelo e Sant’Antonio; indi procedevano gli altri in ordine inverso; in quanto i più degni dovevano essere più vicini al Magistrato che, stando dietro, chiudeva il corteo il clero con il resto della popolazione.

Quanto riferito è contenuto nel primo libro degli Statuti, particolarmente importante per la ricostruzione della organizzazione amministrativa del libero Comune.

 –   Il Secondo Libro, detta norme per i processi giudiziari e lo svolgimento delle cause civili (57 rubriche).

 –   Il Terzo Libro tratta dei malefici (reati) commessi, ossia dei delitti pubblici e privati, del relativo processo e condanna, o pene da comminare. Qui c’è da notare che i legislatori per Montelparo, forse, furono influenzati dall’asprezza dei tempi del brigantaggio e nel Piceno esso si incrementava favorito dal banditismo. Ciò farebbe giustificare le draconiane e barbare sanzioni penali, compresa la pena di morte, sancite dallo Statuto, mentre la legislazione del vicino Comune di Santa Vittoria, compilata un secolo prima, esclude la pena di morte ed assegna pene più miti e mirate alla correzione del delinquente. Come prova, vanno sottolineate alcune rubriche:

Rubrica 34. Per quelli che formano una setta <mafiosa>: chiunque ha incitato il popolo,e ha indotto qualche gente contra i Reggitori di Monte Elparo … sia punito con la pena capitale lui stesso e i suoi seguaci … con la confisca dei beni.

R. 42 Per gli omicidi: sia tagliata la loro mano destra.

R. 44 Per gli assassini. Siano tagliate prima la lingua e una sola mano loro, poi siano impiccati alla gola.

R. 48 Per chi percuote una femmina pregnante. Sia tagliata loro la testa dalle spalle.

R. 49 Per chi somministra una bevanda nociva. Venga bruciato in modo tale che muoia.

    Solo negli statuti di Monte Monaco si riscontrano analoghe sanzioni. La nostra sensibilità prova un profondo sgomento soprattutto per la esacerbata ricerca di barbari modi nella applicazione stessa della pena di morte. Non avendo prove dirette della esecuzione effettiva delle accennate sanzioni, siamo inclini a pensare che fossero state sancite solo come deterrente. Inoltre per la esecuzione della pena capitale si richiedeva l’exequatur del Rettore della Marca.

 –   Il Quarto Libro tratta argomenti vari di diritto civile, amministrativo e penale, come l’osservanza dei giorni festivi, lo svolgimento di fiere e mercati, l’orario di apertura delle botteghe. Vi si leggono anche sapienti provvedimenti per la pulizia dei pubblici macelli, per lo spaccio delle carni, per i forni, le fontane, per le strade interne e territoriali; norme di polizia urbana, e di pubblica igiene che destano ammirazione ai moderni cultori di tali discipline: non si potevano gettare acque, specialmente le immonde, dalle finestre, né far girare liberamente animali neri.

 –   Il Quinto Libro riguarda gli appelli delle Cause Civili: su quelle inferiori a 10 fiorini, giudicate dal Podestà, si poteva ricorrere al Segretario Comunale. È un libro che trae origine dal privilegio di Leone X, ricordato sopra.

 –   Il Sesto Libro tratta dei danni dati, sia per opera di uomo, sia per danneggiamento causato da bestie. Per queste cause il Consiglio Generale nominava, ed il Comune stipendiava un giudice col nome di Ufficiale Maggiore.

   Attraverso la lettura del testo, sempre molto preciso, esplicito e concreto, emerge viva l’immagine della vita del Comune di Montelparo nell’arco temporale compreso tra il XIII e XIX secolo. In quelle norme, pregne di senso umano, religioso e di realismo pratico, si riflettono comportamenti ed abitudini, virtù e passioni, indole e carattere degli antenati.

                                  EVENTI STORICI A MONTELPARESI VICINANZE NEI SECOLI XIV E XV

                                 Montelparo nella storia della prima metà del Trecento

   Uno studio completo degli avvenimenti storici della Marca di Ancona relativi al secolo XIV con il contesto storico italiano, ancora non è stato pubblicato. Agli inizi del secolo, il processo di consolidamento dei liberi comuni fu turbato dal risveglio delle fazioni ghibelline che mettevano in subbuglio i pacifici ordinamenti comunali e politici nello Stato della Chiesa e altrove, a motivo, tra l’altro, del trasferimento del papa e della corte pontificia in Avignone.

   Si può ricostruire un sommario racconto storico locale, tracciando le linee fondamentali attraverso lo studio delle numerose pergamene montelparesi che riferiscono piccoli e grandi avvenimenti, relativi a questo periodo; con opportune integrazioni ricavate dai documenti giacenti in altri archivi, specialmente quelli Capitolare e Comunale di Santa Vittoria in Matenano.

   Nel 1303 il Comune incastellò la famiglia di un tal Giacomuccio con obblighi e diritti conseguenti. Negli anni successivi, 1307 e 1311, sono documentate sentenze di condanne perché i suoi abitanti hanno creato disordini in Monterinaldo, oppure, insieme con altri Comuni, si sono ribellati agli ordini del Rettore della Marca. Nella primavera del 1320 Montelparo fa solenne promessa di prestargli aiuto e di spedire tre uomini a cavallo, armati, spesati e foraggiati; nel maggio del 1323 il papa stesso, Giovanni XXII, loda e ringrazia i montelparesi per la loro fedeltà e per i servizi prestati alla santa Sede contro i Fermani ed i Fabrianesi.

   Nel 1325, per questioni di confini tra Monteleone e Monterinaldo l’esercito dei Fermani si accampò sul colle Lardone, ad est di Montelparo, allora tutto il Parlamento locale accorse per parlamentare col capitano, Tarlantino da Pietramala, e sottoscrivere un pubblico atto di amicizia ed incolumità. Si faceva promettere il risarcimento di ogni danno fatto dai soldati, e a loro montelparesi fu consentito di muoversi liberamente nel territorio, nella città di Fermo ed in tutto il suo Stato. Nell’agosto 1331 il comune pagava una multa di 50 lire per aver dato ricetto a Marchetto e Giovanni, ex-Signori di Rovetino, messi al bando dalla Curia Generale del Rettore della Marca.

   Nel quadriennio 1329-1333 si fecero diversi atti notarili di mutui finanziari con forestieri ed ebrei locali; per la restituzione di 600 fiorini a tal Gentile da Penna S. Giovanni, per cui il Comune fu costretto a vendere alcune terre. Nel documento non è esposto il motivo di sì grande indebitamento; probabilmente si dovettero consolidare le mura di cinta per stare al riparo dalle incursioni delle soldatesche del signorotto fermano, Mercenario da Monteverde e di altri.

   Il 14 aprile 1338 la Comunità, dichiarava di sottomettersi al giudizio dei giudici per aver arrecato danni in territorio di Montalto con la cattura di alcuni uomini e per aver opposto resistenza contro il Giudice del Presidato Farfense e i suoi familiari. E veniva assolta dal Rettore della Marca in considerazione dei danni subiti ad opera dei ribelli contro la Chiesa, ed anche perché erano andati incontro a molte spese in occasione della custodia di Montalto contro gli assalti degli Ascolani, affidatagli dal Rettore stesso.

   L’anno seguente la Comunità di Montelparo è condannata a pagare 60 fiorini d’oro per aver disobbedito al Rettore della Marca non spedendo i soldati richiesti per far l’esercito contro il castello di Apiro. Oltre a Montelparo, allora non inviarono soldati per la formazione dell’esercito contro Apiro anche i comuni di Offida, Ripatransone, Porchia, Rotella, Castignano, Force, Santa Maria in Lapide (= Montegallo), Montemonaco ed Arquata; ad essi fu data analoga condanna, proporzionata al numero dei soldati richiesti; tuttavia poi si fece una speciale transazione fu rimessa ogni pena per le molte benemerenze ed atti di fedeltà di dette Terre.

   Non si hanno notizie montelparesi in merito alla grande pestilenza che colpì l’Italia negli anni 1348-49, dimezzando la popolazione. Esistono comunque informazioni nelle cronache di Fermo e di altri comuni, tra cui Amandola e si viene a sapere che il numero delle vittime fu così grande che si dovette ridurre il numero dei componenti il Consiglio Generale del Comune che comprendeva i rappresentanti deputati dei castelli del contado.

                                           Aspirazioni autonomistiche del clero montelparese

   In tutta la prima metà del Trecento continuavano le agitazioni del clero montelparese che era riluttante alla piena sottomissione al priore del Monastero Farfense di Santa Vittoria. Avvenivano anche soprusi. Il 13.4.1301, i rettori delle chiese di S. Maria de Alvagnano e di S. Angelo in Gajanello, Fra Bonaventura, nominato da Jocerando (1296-1311) (sedicente abate di Scandriglia di Rieti che si qualificava Vicario dell’Abate di Farfa nelle chiese farfensi delle Marche), per tale atto illegale erano costretti a rinunciare la loro rettoria nelle mani del Priore di Santa Vittoria il quale, il 5 maggio seguente, nominava D. Matteo di Tebaldo di Montelparo, rettore della chiesa di Gajanello.

  Il 13 nov. 1303, il Priore di Santa Vittoria, Marcoaldo, ordinava a D. Giovanni di Gualteriolo di Giso, cappellano di S. Angelo in Castello di presentare, dentro il termine perentorio di otto giorni, gli istrumenti pubblici mediante i quali aveva ottenuto il godimento della prebenda di S. Biagio de Teramo (in Comunanza), e di quelle unite di S. Angelo, S. Maria de Roncone e S. Severino di Montelparo, la cui nomina era di competenza del Priore e del Capitolo farfense di Santa Vittoria. Ma, poiché il suddetto D. Giovanni non ottemperava alla richiesta ingiuntiva, il 3 dicembre 1303, il Priore di Santa Vittoria ordinava ai rettori-curati di S. Angelo in Castello e di S. Maria Novella di pubblicare che il sedicente, D. Giovanni di Gualteriolo, fruitore di molte prebende, che era scomunicato. Anche per la nomina del rettore e dei prebendati della chiesa di S. Benedetto nascevano interferenze e vertenze per favorire il medesimo D. Giovanni di Gualteriolo; ma energicamente il Monastero di Santa Vittoria fa ricorso al papa Benedetto XI, asserendo che ogni diritto di nomina e di destituzione gli spettava «ab immemorabili», certamente da più di 30 e 40 anni.

   Da una relazione del 1327, fatta da Fra Tommaso di Giacomo da Santa Vittoria, Vicario dell’Abate di Farfa nelle Marche, si ha notizia che tutti i rettori delle chiese di Montelparo dovevano dare al Monastero di Santa Vittoria due parti delle decime loro ed un annuo censo «in segno di sottomissione, obbedienza et riverenza»;  per l’«omaggio» personale si dovevano recare nella chiesa di detto Monastero il mercoledì delle Ceneri di ogni anno, perché le loro chiese erano state istituite e fondate dagli abati farfensi ed erano considerate come membra del Monastero di Santa Vittoria.

   Nell’Archivio Capitolare della Collegiata di Santa Vittoria si conservano molte pergamene attestanti il pacifico diritto di nomina dei rettori-curati e dei cappellani delle chiese di Montelparo e di Montefalcone, relative alla prima metà del Trecento. Ma, pietra di scandalo in Montelparo continuò ad essere l’intrigante chierico Giovanni di Gualteriolo il quale, il 26 febbraio1321, fu colpito da scomunica da parte del Vicario Farfense nelle Marche, Fra Claudio, proposto di Monte Cretaccio, perché, accusato di convivere con una donna scostumata, non si era presentato per discolparsi. Contro costui altra scomunica fu inflitta dallo stesso Vicario il 15 marzo seguente, perché aveva fabbricato un oratorio, o cappella nel quartiere di S. Maria per seppellirvi la salma di Gualteriolo di Rinaldo, in pregiudizio della chiesa di S. Maria de Alvagnano. Altri documenti dicono che il D. Giovanni Gulateriolo si sottomise solo dopo una sentenza emessa dal Giudice del Presidato Farfense e che, divenuto cappellano della chiesa montelparese di S. Pietro di Catigliano, ivi fece seppellire la salma di Gualteriolo di Rinaldo del Colle. Poi, nel gennaio del 1334, le sue ossa e quelle di altri bambini, già sepolti nella detta chiesa di S. Pietro, furono esumate per essere seppellite nella chiesa di S. Angelo in Castello, perché non fossero pregiudicati i diritti di questa chiesa. Infine, il turbolento sacerdote montelparese fu trasferito alla chiesa di S. Maria in Muris, in territorio di Belmonte.

   Altre vertenze riguardarono la riscossione di alcuni censi e porzioni di decime, dovuti dal clero montelparese al Monastero di Santa Vittoria, per cui si registrano frizioni e frequenti ricorsi alle autorità superiori da ambedue le parti contendenti. L’Abate di Farfa, Giovanni IV di Rieti, nell’aprile del 1334, riconfermava ufficialmente al Monastero di Santa Vittoria alcune possessi per il mantenimento dei monaci, tra cui «tutte e singole le chiese e le cappelle site nel castello di Monte Elparo, cioè: la chiesa di S. Angelo in Castello, la chiesa di S. Maria ‘de Alveniano’, la chiesa di S. Maria Novella, la chiesa di S. Angelo de Gajanello et generalmente tutte le altre site nel distretto di Monte Elpero e nel suo territorio» ( G. COLUCCI, Ant. Pic., vol. XXIX, p. 179).

   Lo stesso Abate, il I maggio 1337, dava facoltà ai montelparesi di edificare la chiesa di S. Maria de Laude e concedeva particolari indulgenze per i visitatori in certe solennità dell’anno. Anche in Santa Vittoria, qualche anno prima, era stato eretto un oratorio sotto lo stesso titolo. L’appellativo «de Laude» indica un luogo ove la gente si raccoglieva per preghiere particolari in onore della Vergine Maria con la recita delle «Laudi» (come le Litanie Lauretane).

   Il 6 maggio 1337, su richiesta del Comune di Montelparo, il medesimo Abate spediva da Rieti una bolla con cui esentava la chiesa di S. Angelo in Castello dalla soggezione del Monastero di Santa Vittoria e vi istituiva una comunità monastica, osservante la Regola di S. Benedetto, con assegnazione di quattro religiosi ed un Priore. Incaricava il monaco Farfense, Fra Giacomo, priore di Rotella, di provvedere a vestire come monaci i rettori e i cappellani delle altre chiese e di dar possesso della vacante chiesa parrocchiale di S. Angelo in Castello a D. Francesco Agnone, già rettore della chiesa di S. Maria Novella, proclamandolo Priore della nuova comunità monastica, la quale, in segno di sottomissione all’Abate di Farfa, nella festa di S. Michele (29 sett.), avrebbe dovuto pagare un censo annuo di cinque fiorini d’oro buono.

   Detta bolla, però, non conseguì il suo effetto esecutivo. Ci sfugge il motivo di ciò; forse per le agitazioni guerresche, forse per l’opposizione non documentata del Priore di Santa Vittoria. Certo è che i rettori delle chiese montelparesi l’anno seguente rifiutavano al Monastero di Santa Vittoria in censo, le decime e le altre prestazioni tradizionali, per cui, fino al 1341, dinanzi alla Curia Generale del Rettore della Marca Anconetana si facevano cause, promosse dall’una e l’altra parte con appelli e contro appelli. I rettori delle chiese di Montelparo si videro rigettata ogni loro richiesta con l’obbligo confermato di dover continuare a corrispondere censi, decime e prestazioni al Monastero vittoriese nella seguente misura per ciascun rettore e chiesa: S. Angelo in Castello 3 salme di grano, pari a Kg. 485; S. Maria de Alvagnano: 7 quarte di grano pari a Kg. 190; S. Angelo in Gajanello: 7 quarte di grano e una torta; ma S. Maria Novella: nulla.

   Si realizzarono le novità dopo alcuni anni, e l’idea di istituire presso la chiesa di S. Angelo in Castello una comunità monastica maturò a tal punto che il Vicario Generale di Farfa unitamente al Priore di Santa Vittoria, il 22 gennaio 1348, richiesero al legato della Marca, il Card. Bertrando de Dencio l’erezione di un Monastero e Collegio di monaci presso la detta chiesa, evidenziando alcune condizioni particolari: Priore e monaci vestivano l’abito nero e praticavano la vita comunitaria sotto la Regola di S. Benedetto. Alla nuova chiesa Collegiata di S. Angelo in Castello erano aggregate la chiesa rurale di S. Angelo in Gajanello e quella di S. Maria de Alvagnano dentro la Terra, con tutti i precedenti diritti. In segno di sottomissione e riverenza ed in compenso delle due parti delle decime, il Monastero di Santa Vittoria ebbe la facoltà di imporre alla chiesa di S. Angelo l’annuo censo di 5 fiorini d’oro, da corrispondere nella festa dell’Assunta. Per Montelparo, la nomina del priore, la creazione dei canonici, la correzione e punizione rimanevano di competenza del priore di Santa Vittoria. (G. COLUCCI, p. 190). Il legato della Marca concesse il pieno effetto esecutivo.

                                      Avvenimenti della seconda metà del Trecento

   Nel settembre 1355 il Card. Egidio d’Albornoz, restauratore dello Stato Pontificio, convocò a Fermo i legali rappresentanti di tutti i liberi Comuni. Vi partecipò anche il Sindaco di Montelparo che consegnò le chiavi della sua Terra in segno di piena sottomissione al Rettore della Marca, Blasco di Fernando da Belviso, nipote del cardinale Egidio che emanò ordini categorici per impedire le frodi nel pagamento delle collette, come mostra l’apposta pergamena. Non si può dire quanto durasse quest’atto di sottomissione; certamente ci furono dissensi, dato che nel corso dell’anno 1359, avendo fatto combutta con gente di iniqua società, ribelle contro la Santa romana Chiesa, probabilmente la Comunità montelparese fu condannata per aver favorito incursioni, latrocini, uccisioni e saccheggi delle milizie del famigerato Monreale, e in tre rate pagò una sonora penalità, ascendente ad 800 ducati d’oro.

   Nella Descrizione della Marca anconetana in lingua latina, «Descriptio Marchiae Anconitanae», redatta al tempo dell’Albornoz, circa l’anno 1356, si ricava che Montelparo era una Terra che godeva della libertà ecclesiastica, direttamente dipendente da Santa romana Chiesa, faceva parte del Presidato della Abbazia Farfense, e agli effetti di ogni specie di collette e taglie le imposizioni si facevano su 200 fumanti. Pertanto si comprende che la popolazione complessiva si aggirava intorno ai mille abitanti.

   Il Comune era incluso tra le “città piccole”, perciò doveva mettere a disposizione della Curia Generale un baiulo (balivo), guardia con berretto rosso con ornamento delle chiavi incrociate; ogni anno a Pasqua pagava alla Camera Apostolica il censo di 34 lire, ed a maggio 10 lire «per affitto». Inoltre, per il mantenimento della corte e dell’esercito dell’Albornoz gli fu imposta una taglia annuale di 600 fiorini, da pagarsi in tre rate, per tutto il tempo del suo rettorato. Altre ricevute di taglie furono rilasciate nel 1362, 1369, 1372, 1373, 1390, 1391. Il 15 sett. 1369 pagò 80 fiorini per sua tangente nella guerra contro Perugia, ove mandò 20 soldati ben istruiti e 10 balestrieri bene equipaggiati.

   Nel 1373 lo Stato Pontificio, dovendo sostenere la guerra contro i Milanesi «perfidi ed iniqui nemici di santa Madre Chiesa», impose a Montelparo al pagamento di 382 fiorini; 370 ne aveva pagati l’anno precedente, secondo quanto stabilito nel Parlamento di Bologna, quando, essendo in atto la guerra tra Veneziani e Genovesi, lo Stato della Chiesa si armò per una maggiore sicurezza; poi, per varie circostanze continuò a pagare imposte straordinarie per la difesa dello Stato della Chiesa, fino al 1377.

   Poi nel Fermano imperversò l’azione militare del crudele tiranno Rinaldo da Monteverde che s’era impadronito del potere a Fermo nel 1376, turbando la tranquilla vita paesana negli anni 1378, quando il tiranno s’impossessava del castello di Bucchiano, accampando diritti ereditari su di esso, e vi inviava il fermano Fucaporo; in ciò fu favorito dalla presenza in Montelparo di alcune nobili famiglie, incastellate nel secolo precedente.

   Il Comune, sostenuto dall’altra maggior parte della popolazione, insorse, fece l’armata, ed il 25 marzo 1378 snidò il tiranno dal Castello di Bucchiano, mettendo al bando le famiglie che per lui avevano parteggiato. Fu allora che da Ripatransone il Vice- Rettore della Marca dette ordini perentori ai Comuni di S. Vittoria e Montelparo di radere al suolo il castello di Bucchiano dentro il termine di sei giorni, comminando la penale di 1000 ducati in caso di disobbedienza. L’ordine fu eseguito.

   Per conseguire la riconciliazione tra famiglie montelparesi ed assicurare nel paese una pacificazione salutare, il 19 dicembre 1378, si tenne un pubblico e generale Consiglio; e, due giorni dopo, fu inviato presso il Legato della Marca un cittadino per trattare la riconciliazione del Castello con lo stesso Rettore; infine, l’8 gennaio 1379 fu stipulato un istrumento di pace tra il Comune di Montelparo e gli esuli di detta terra, redatto in Ripatransone, alla presenza di Napoleone Orsini, Luogotenente del Rettore della Marca.

   Per tutte queste imprese il Comune, non solo fu risarcito dei danni subiti, ma il papa Urbano VI spedì ben tre bolle con le quali, in premio alla devozione alla Santa Chiesa Romana, il Comune fu esentato dal pagamento delle collette, dei sussidi arretrati di quattro anni e di quelli degli anni futuri; gli venne confermato il privilegio di Nicolò IV, riguardante la libera elezione del podestà e degli altri Officiali; e che tutte le prime istanze delle cause civili e criminali dovevano essere giudicate dal Podestà e suoi Officiali a Montelparo stessa, mentre nessuno poteva essere forzato dinanzi ad altro tribunale. Inoltre si fece grazia di ogni pena per i crimini ed i delitti in cui erano incorsi i cittadini, in considerazione delle guerre e delle altre calamità sofferte, nella fiducia di una sempre migliore condotta per l’avvenire.

   Il 9 marzo 1390, il Vicario Generale della Marca ridusse una taglia da 330 a 280 ducati, perché la popolazione era diminuita, si era ridotto il raccolto a causa della carestia, mortalità e guerre; e l’imposta risultava non sopportabile. Durante lo scisma d’occidente, che turbò la Chiesa dal 1379 al 1417, Montelparo rimase sempre fedele al papa legittimo, per cui meritò diversi attestati di riconoscenza, sgravi fiscali e riduzioni di taglie. Generalmente tutti i comuni dell’area farfense rimasero fedeli, mentre a Fermo il vescovo Antonio de Vetulis, per aver aderito all’antipapa Clemente VII, nel 1385, fu deposto e scomunicato dal papa Urbano VI; per cinque anni si rifugiò nel castello di Montottone, fino alla riabilitazione ottenuta da Bonifacio IX nel 1390.

   Nell’Abbazia di Farfa avvennero mutamenti sostanziali; sotto gli ultimi due abati, Sisto I (1363-1387), originario di Force, e Nicola II (1387-1399), napoletano, quando i feudatari incominciarono a rifiutare pagamenti, regalie e servizi. Tra le conseguenze si ebbe che la vita monastica conobbe un rilassamento generale; cosicché sopravvenne la commenda che nel 1400, il papa Bonifacio IX fece per suo nipote, Francesco Tomacelli. In seguito, per tutto il secolo XV, l’ebbero in commenda vescovi e cardinali della nobile famiglia Orsini. Questo avvicendamento indebolì il rapporto di dipendenza tra l’Abbazia madre e tutte le prepositure e monasteri delle Marche.

   Nell’ottobre 1391, Andrea Tomacelli, fratello del papa Bonifacio IX, Rettore della Marca, per ordine pontificio rinnovò a Montelparo i privilegi concessi da Urbano VI; così fece con le altre Terre del Presidato al fine di cooptarle in una lega guelfa per combattere la lega ghibellina cui avevano aderito le città di Fermo, Ancona, Macerata e Camerino. Queste avevano assoldato il capitano di ventura Biordo de’ Micheletti, il quale, l’11 sett. 1393, nei pressi di Penna S. Giovanni, roccaforte dei Signori da Varano di Camerino, in una sortita contro la brigata del Conte di Carrara, che si era fatto fin sotto le mura, fece prigioniero il Rettore della Marca, Andrea Tomacelli e lo deportò a Macerata. Grande fu il dolore del papa. In una lettera al Comune di Santa Vittoria assicurava di aver provveduto subito all’invio di 1500 cavalli e molti fanti, capitanati dal fratello Giovannello e li invitava a continuare nella fedeltà e devozione da bene in meglio, esortando a ciò anche i comuni vicini, rimasti fedeli al papa. Tra questi, fra i primi, si deve includere Montelparo.

   Al movimento di riscossa per la riconquista delle città e per la liberazione del Tomacelli prese parte attiva il capitano Marino Marinelli di Santa Vittoria, il quale sconfisse il capitano Biordo nei pressi di (Monte) S. Giusto nel 1395, aprendo la via per la liberazione del fratello del papa, che successivamente poté rientrare nella città di Fermo, donde lo stesso Marinelli aveva scacciato i ribelli, capitanati da Antonio Aceti. A tutti questi avvenimenti, nonostante il silenzio dei documenti, con molta probabilità, presero parte anche i generosi montelparesi.

                         Alcune notizie di avvenimenti del sec. XV

   Le pergamene di Montelparo relative al secolo XV documentano quasi esclusivamente suppliche e concessioni per riduzioni di collette e taglie, quasi sempre a motivo di guerre, o di altre pubbliche calamità sofferte. Ve ne sono di argomento diverso, in particolare la misurazione del territorio e la formazione del «Catasto di Montelparo» fatta nel 1421 dall’agrimensore M° Contadino di Onofrio da Assisi; il cottimo dei terreni di S. Angelo Magno dati ai lavoratori del posto nel 1427; un concordato con il comune di Santa Vittoria dell’8 gennaio 1439 intorno ai beni della signora Sanzia Tiveri di Santa Vittoria, venduti ad Antonio Boldini di Montegiorgio; in una pergamena del comune santavittoriese del 15 maggio 1467 si legge un accordo per fissare i confini tra Santa Vittoria e Montelparo; un altro istrumento notarile servì a designare i confini tra Montelparo e Monteleone il 6 maggio 1479. Infine, risale al primo luglio 1539 la sentenza definitiva nella lite tra Montelparo e Monterinaldo per i confini ed i diritti sul castello di Bucchiano, pronunciata dall’Uditore del Legato della Marca, Mario Favonio di Spoleto, ed accettata con soddisfazione dalle parti, nonostante che Montelparo fosse privato di parte del territorio comprendente l’ex castello di Bucchiano e la chiesa di S. Maria di Montorso.

   Non si trovano fonti storiche da cui appaia che Montelparo fosse stata terra di conquista dei Signori Malatesta di Rimini, né dei Signori da Varano di Camerino, i quali nel primo quarto del secolo XV occuparono diverse Terre del Piceno. Certamente corse il pericolo di essere occupato dall’esercito del Conte Francesco Sforza di Milano quando nel 1433, sceso nelle Marche, occupò Jesi, Osimo, Macerata e Fermo. Però, fin dal 1432, il Giudice del Presidato Farfense, intravedendone il pericolo, aveva ordinato ai Comuni compresi nella sua giurisdizione, primo fra tutti Montelparo, di fortificarsi e mettersi alla parata contro qualunque assalto (Cfr. G. COLUCCI, op. cit., vol. XVII, p. 107). Il dominio dello Sforza, durato per più di un decennio, non fu mai pacifico, ma sempre contrastato. Tuttavia, solo nel dicembre 1443, quando le truppe del Piccinino erano impegnate a Montegranaro, i soldati dello Sforza, dopo aver sottomesso Montegiorgio, attraversarono il Tenna ed occuparono Santa Vittoria e Montelparo.

   Fu soppresso il «Presidato Farfense»; come luogotenente del Conte fu inviato un «giudice protettore ed esgravatore di molti affanni», il sig. Paolo da Orvieto; mentre il fratello Alessandro Sforza, dopo aver svernato con le sue truppe a Santa Vittoria, il’4 aprile 1444 partì per Montefortino, Force ed altri luoghi. Nell’estate del 1445, per far fronte ai Malatesta, lo Sforza fu impegnato a Pesaro. Allora ci fu la riscossa della bassa Marca col supporto del Piccinino che si mosse dalla città di Ascoli per liberare le Terre site più a nord. Il Comune di Montelparo riacquistò la sua libertà il 3 ottobre 1445; Santa Vittoria il giorno successivo, come documentato dalle convenzioni, o capitolati sottoscritti tra i rappresentanti comunali ed il Card. d’Aquileia, Camerlengo e Legato della S. Sede Apostolica (Cfr. COLUCCI, op. cit., p. 100; e vol. XXIX, p. 236), dove si sancisce la pacifica sottomissione allo Stato della Chiesa.

   Dopo questi avvenimenti lo Stato Pontificio acquistò maggiore stabilità come anche i grandi principati italiani. Le scelte autonome dei liberi comuni si adeguavano alle leggi generali, per cui dappertutto si attuava una certa uniformità e la storia di ogni Terra è diventata quella stessa della sua Provincia. Il libero comune nella vita civile era assorbito, come una goccia d’acqua, nel pelago dello Stato moderno. Così anche per Montelparo.

    Altri capitoli «Guida turistica ai monumenti di Montelparo» e “Personaggi illustri” danno notizie riguardanti i secoli successivi al XV.

BIBLIOGRAFIA

LE FONTI

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