La necropoli di Belmonte Piceno reperti archeolgici della preistoria. Di BRUGNOLINI Adriana

BRUGNOLINI ADRIANA

LA NECROPOLI DI BELMONTE PICENO

Nel consultare la bibliografia riguardante la necropoli di Belmonte Piceno ho constatato a quale alto livello di importanza culturale e storica sia stata posta dagli studiosi italiani e stranieri questa stessa necropoli.

Purtroppo nessuno ha compiuto a tutt’oggi un lavoro scientifico d’insieme, così che le notizie sono ancora disperse e frammentarie. Inoltre la maggior parte del materiale, che vi si era trovato, è andato perduto, a causa di un bombardamento aereo che danneggiò il Museo di Ancona ove esso si conservava.

Essendo perciò questa civiltà così poco conosciuta e così poco documentata, mi accingo a raccogliere tutto quanto è stato detto e ad illustrare tutto il materiale che vi si rinvenne al fine di definirne gli aspetti più importanti e più caratteristici.

STORIA DEGLI SCAVI E BIBLIOGRAFIA

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L’esistenza di una necropoli preromana sulle alture del piccolo comune di Belmonte Piceno fu per la prima volta resa nota letterariamente e scientificamente da una pubblicazione di Silvestro Baglioni edita nell’anno 1901 in Notizie degli scavi (pagg.227-238).

Belmonte Piceno è un comune del circondario di Fermo. Sorge sul dorso di una collina che si eleva, dal lato nord, quasi a perpendicolo sul fiume Tenna, a 310 m sul livello del mare e dista dalla riva dell’Adriatico Km. 25 circa. Il suo territorio è tutto a colline e collinette, elevazioni e ondulazione del suolo senza un’ampia distesa di terreno in pianura.

La località che si è mostrata ricchissima di antichità preromane è il versante dolcemente declive di una collina a sud-ovest dell’abitato. Abbraccia più di un chilometro quadrato di superficie. Qui erano stati eseguiti scavi dai rispettivi contadini che coltivando il terreno si erano imbattuti in diversi scheletri umani ed oggetti preistorici. Da essi il Baglioni acquistò gli oggetti che formarono il tema delle sue notizie edite nel 1901 e che vengono conservati nel Museo Preistorico di Roma tra il materiale preromano delle Marche.

La località rappresentava indubbiamente un’antica necropoli, perché il materiale raccolto era stato rinvenuto costantemente insieme con ossa umane. Gli scheletri risultarono giacere in un terreno argilloso, alcuno alla profondità di qualche metro, altro a fior di terra, altro persino posto a nudo dall’acqua piovana. Posavano sul fianco sinistro con la faccia verso levante, con le ginocchia ripiegate e con le mani poste sul bacino. Questa è la posizione cosiddetta “rannicchiata”, come di persona naturalmente dormiente, oppure come del feto nell’interno dell’utero materno, come è spesso usata dalle popolazioni primitive e che fu generalmente in uso in Italia e in altri Paesi durante l’età neolitica.

Non si rinvennero vestigia di cassa di legno o d’altro, né alcun segno di riconoscimento esterno della tomba, ma non si può escludere che esistessero e fossero state disperse da lavori agricoli.

Secondo le misure prese dal Baglioni il cranio è eminentemente dolicocefalo, con fronte stretta compressa ai due lati, mascella inferiore robusta e pronunciata prominenza del mento.  Questi ed altri caratteri anatomici lo avvicinano molto ai crani rinvenuti nella necropoli di Este e descritti dal Canestrini e dal Moshen” (v. Notizie degli scavi, 1901, pag.228).

La suppellettile funebre delle dieci o dodici tombe rinvenute, ammonta a duecentoventi reperti, numero rilevante se si considera il modo irregolare con cui avvennero gli scavi.

In seguito a questa segnalazione, l’importanza della necropoli di Belmonte Piceno attrasse l’attenzione di numerosi studiosi ed archeologi italiani e stranieri, cosicché possediamo oggi una ricca raccolta di materiale e di notizie scientifiche pertinenti ad essa.

Nel 1903 Edoardo Brizio, allora direttore del Museo di Bologna, e dal quale dipendevano gli scavi nelle Marche, nel descrivere alcune tombe ed oggetti rinvenuti nel territorio di Montegiorgio situato quasi di fronte a Belmonte sulla sinistra del fiume Tenna, la ricordava più volte allo scopo di paragonare alcuni oggetti tipici scoperti in entrambe le necropoli (v. Notizie degli scavi, 1903, pagg. 84-91).

Nello stesso anno egli pubblicò (v. Notizie degli scavi, 1903, pagg. 101-105) un rendiconto della suppellettile femminile che aveva acquistata, con mediazione del Baglioni, per il Museo di Bologna, nonché la descrizione e l’interpretazione di una stele funebre con iscrizione sepolcrale, venuta alla luce all’incirca verso il 1895 a poco più di un chilometro dall’abitato, segnalata a lui dal Baglioni ed ugualmente acquistata per il Museo di Bologna.

Nel 1904 il Baglioni riferì alla Società Antropologica di Gottingen e Iena su un’ulteriore ricca raccolta di oggetti preistorici ancor più importanti da lui rinvenuti nello stesso sepolcreto poco tempo prima. Detta comunicazione fu pubblicata nel 1905 nello “Zeitschritft fur Ethnologie” fascicoli 2 e 3. Dapprima egli stabiliva i caratteri generali della necropoli: si trattava esclusivamente di tombe piatte non troppo profonde, senza segno esteriore di pietre né di sarcofagi di legno, dove ogni scheletro giaceva nell’accennata posizione, cioè orizzontale su un fianco con le gambe ripiegate sul corpo. Poi l’autore ha fatto una dettagliata descrizione di questi nuovi reperti consistenti in ornamenti normalmente femminili di particolare interesse.

Nel trattato “La civilisation primitive in Italie, Italie Centrale (col. 759-760, aa. 1904-1910) il Montelius inquadra la scoperta della necropoli di Belmonte fra le importantissime scoperte effettuate ad est degli Appennini e soprattutto studia la suppellettile di questi scavi e riproduce disegni di cinque oggetti che più la caratterizzano. Circa la posizione degli scheletri e delle tombe, riporta letteralmente le frasi iniziali della pubblicazione del Baglioni dell’anno 1901.

Nel 1910 viene pubblicato il primo articolo riassuntivo delle scoperte verificatesi nel luogo, ad opera ancora di Silvestro Baglioni: “La necropoli di Belmonte”, in “Picenum”. Da questo sappiamo che nell’ottobre del precedente anno, una frana, dopo un periodo di pioggia torrenziale, mise allo scoperto un’altra tomba arcaica ricchissima di suppellettile ed occasionò l’inizio di scavi eseguiti con metodi scientifici. Il risultato di questi portò al rinvenimento di tali e tanti oggetti preistorici da desiderarne non solo la prosecuzione, ma anche l’intensificazione sino alla completa esplorazione della necropoli.

Si constatò che i morti venivano seppelliti con quanto possedevano o avevano potuto acquistarsi in vita, prova questa d’immenso rispetto e venerazione per essi, nonché forse di mancanza di ogni pretesa fondata sul diritto d’eredità da parte dei figli.

Gli oggetti consistevano in armi, oggetti di ornamento personale variamente disposti sopra lo scheletro, suppellettile funebre raccolta ai piedi e presso il capo del morto; e possono essere distinti nelle categorie di manufatti indigeni e di oggetti importati da altri popoli più evoluti.

Da essi il Baglioni dedusse che la necropoli ebbe probabilmente vita dall’XI o X secolo al V o al IV sec. a. Cr. di modo che può rispecchiare tanto una civiltà molto arcaica di mille anni avanti Cristo, quanto una molto più recente.

In un articolo dal titolo “Ancora a proposito della situla calcidese di Leontini” (edito nel 1912 nel B.P.I. pagg. 168-175) l’Orsi parla di situle rinvenute nella necropoli di Belmonte Piceno, “la più ricca e la più vasta forse di tutta la regione” (p. 170). Esse sono da lui attribuite ad una corrente, industriale paleogreca che ebbe dal secolo VIII in poi un’influenza preponderante sulla civiltà Picena, e valgono a indicare la persistenza di un tipo di vaso fabbricato dai Greci ed esportato per uso delle genti italiche.

Gli oggetti di Belmonte che più hanno assunto forme fastose e barocche (lebeti, situle, bacinelle col labbro decorato con rilievi, fibule in forme ingrandite e colossali) sono considerati dall’Orsi opere degli industriali Greci che lavorarono per conto dei ‘barbaroi’, cioè rappresentano la trasformazione di oggetti di tipo e creazione greca in oggetti di gusto barbarico. Ma egli riconosce inoltre quale grandissima parte abbia avuto, in questa necropoli belmontese, anche l’industria locale.

Nello stesso anno il Rellini  (“Osservazioni e ricerche sull’etnografia preistorica nelle Marche”, B.P.I., a. 1912 -) formula all’augurio che venga presto illustrato l’importante materiale di recente apparso nella necropoli Belmonte perché possa fornire nuovi significativi dati sull’origine della popolazione Picena, che “se fu guerriera, conobbe anche tutti gli allettamenti dell’arte e del lusso”. Purtroppo questo augurio è rimasto soltanto tale.

Nel 1915 venne pubblicata la “Guida illustrata del Museo delle Marche in Ancona” di Innocenzo Dall’Osso, che dedica alla necropoli di Belmonte più d’una sessantina delle sue pagine. Per quanto la trattazione sia piuttosto fantasiosa e non rivesta alcun carattere scientifico, pure è interessante leggerla per conoscere come si svolsero gli scavi e quale materiale vi si rinvenne. Dice il Dall’Osso: (pag. 35): “Da molti anni a valle di una collinetta che prende nome dal vicino fiume Tenna , a circa due chilometri dal paesello di Belmonte Piceno, alcuni coloni nei lavori agricoli venivano scoprendo scheletri umani con armi di ferro e oggetti di ornamento di bronzo e di ambra […..] Questa suppellettile veniva da essi offerta in vendita agli antiquari di Montegiorgio, di Fermo e anche di Ancona. Fu appunto da uno di questi antiquari che nella primavera del 1909 la Direzione del Museo acquistò un piccolo gruppo di tali oggetti e seppe che essi provenivano da un fondo di Belmonte il cui colono faceva di essi un proficuo commercio vendendoli agli antiquari col consenso del proprietario”.

“ Nell’autunno dello stesso anno, in seguito ad un ben ordinato servizio di vigilanza sul detto fondo, questa Sovrintendenza fu informata che in quella stessa località, a causa dei dilavamenti prodotti dalle dirotte piogge autunnali, era venuta allo scoperto la parte superiore di una ruota di ferro. Recatomi prontamente sul posto – continua il Dall’Osso – insieme con un funzionario addetto agli scavi, feci praticare un largo sterro intorno a detta ruota e rimisi in luce la prima grande tomba la quale, per copia e ricchezza del corredo funebre, non ha confronto con nessun’altra esplorata in appresso”.

“Dopo tale scoperta gli scavi continuarono ininterrottamente per i tre anni successivi, profittando sempre del periodo di maggiore secca – dal luglio all’ottobre –  in cui il livello delle acque di infiltrazione è sempre più basso. Gli scavi di Belmonte fruttarono al Museo di Ancona la suppellettile di oltre trecento tombe, la maggior parte delle quali offrì corredi considerevoli, giacché è un fatto innegabile che la necropoli di Belmonte, per la sua importanza e la sua estensione, restituì il maggior numero di corredi funebri, di gran lunga superiori per abbondanza e ricchezza a quelli di tutte le altre necropoli, non esclusa quella di Novilara”.

“ Tutto il prodotto degli scavi fu poi trasportato al Museo (di Ancona) e distribuito in più sale, tenendo conto della successione topografica dei diversi gruppi”.

In ciascun gruppo si osservarono tombe ricche e povere mescolate insieme: forse il popolo Piceno non ebbe mai un qualche ceto di aristocrazia né militare né civile né religiosa. Le tombe, fittissime, erano disposte senza alcun ordine, né vi era traccia alcuna di sepolcreto di famiglia.

Da ciò che si è ritrovato è lecito supporre che i morti fossero seppelliti col vestito che usavano in vita e che è perciò facile ricostruire.

Gli uomini dovevano indossare una pesante tunica lanosa: sul petto portavano – e a volte così li abbiamo ritrovati – a guisa di corazza un intreccio di fibule di ferro di tipi diversi, di diverse dimensioni, sì da formare una fitta rete. Insieme con le fibule usavano portare pochi altri ornamenti: alcune catene pendenti dal collo e collane ritorte a guisa di torques. Erano circondati da numerose armi di difesa e di offesa; a volte ad esse si aggiungevano i carri di battaglia.

Anche dell’aspetto della donna picena tra il VII e il VI secolo a. C. possiamo farci un’idea abbastanza precisa, a giudicare dagli avanzi di vesti femminili che si sono trovati nelle tombe più ricche insieme con le relative guarnizioni. Sembra che gli scheletri femminili (v. Dall’Osso pag.51) fossero avvolti in un grande mantello di lana, un pallio, che doveva coprire tutta la persona e scendere fino alle ginocchia. Esso era decorato fino al ginocchio con borchiette di bronzo e con piccoli cerchietti di vetro, d’avorio e di ambra. Sotto il manto doveva essere indossata una tunica il più delle volte con maniche. Oltre la miriade di borchie e cerchietti applicati sul manto, era una profusione di oggetti di ornamento, come fibule, spilloni, pendagli, pettorali, armille, diademi, anelli.

La suppellettile consiste in oggetti di terracotta, di bronzo, di ferro, di ambra, di vetro e di avorio. Questa suppellettile funebre venne rinvenuta ai piedi e al capo del morto. Quella consistente in oggetti d’armi e di ornamento personale era variamente disposta sopra lo scheletro, per lo più in corrispondenza del bacino.

Nelle tombe femminili sono abbondanti gli oggetti di ornamento, usati anche a scopo apotropaico, cioè per proteggere la donna mediante splendore e crepitio contro il malocchio.

A profusione si sono rinvenute le fibule. Sappiamo che la fibula fu oggetto molto in auge presso le donne dell’antichità: Eliano ci dice che le donne non usavano cucire la loro tunica dall’omero alla mano, ma ne tenevano insieme i lembi mediante fibule d’oro e di argento. Queste in particolare dovevano avere scopo apotropaico: e forse per questo motivo in una sua tomba di Belmonte se ne rinvennero più di cento. Si trovarono sparse sopra e a fianco dello scheletro, perfino in tombe dei bambini: sono di forme svariate delle più diverse dimensioni. Grandiose sono alcune di bronzo nel cui arco si trovano inseriti grossi nuclei di ambra. Altre sono ad arco semplice, ad arco sormontato da tre bottoni o da tre anatrelle, e a navicella; abbiamo inoltre fibule tipo Certosa, fibule da cui pendono pendagli svariati, fibule serpeggianti, nonché una fibula di tipo rarissimo con tre volute come ornamento della staffa.

Ammirevoli sono i pettorali formati per lo più da placche rettangolari e trapezoidali di bronzo, talvolta della larghezza di circa 50 centimetri, decorate da borchie a sbalzo. Dalla base di queste placche pendono numerose catenelle più o meno grosse di bronzo e di ferro dalle quali, a varie altezze, pendono altri pendagli di specie diversa; e ai capi di ciascuna sono attaccati pendagli più grossi, per lo più terminanti in sferette di ferro e di bronzo.

Le torques sono una verga massiccia, di notevole peso, con le estremità per lo più a foggia di anforetta o di pigna. Le collane sono formate da vaghi di bronzo, di pasta vitrea, di avorio, di legno, di osso, di bronzo e di conchiglia, a forma di bulle, di ghiande, di perline, di tubetti, di anfore, di sferette, di conchiglie, di losanghe, e simili. (Dall’Osso pag.42).

Numerose sono anche le armille, che figurano di solito in numero di due in una tomba; eccezionalmente ne sono raccolte dodici in una tomba sola. Sono per lo più a verga massiccia di bronzo oppure di lamina di bronzo con le estremità sovrapposte, ovvero di grosso filo di bronzo a più giri.

Graziosi sono gli orecchini costituiti nella maggior parte dei casi da due o tre paia di dischi o rotelle d’ambra con foro al centro; in alcuni dei quali si trova ancora infilato il cerchiello di filo di bronzo che serviva per appenderli.

Ma la vera specialità delle tombe di Belmonte è nei pendagli di diversa materia e forma. I più cospicui sono quelli di ambra o di avorio lavorati in bassorilievo con figure di animali solo o a gruppi di tipo orientalizzante. I pendagli di bronzo sono a forma di animale (cane, cavallo, giovenca, scimmia) e raramente anche a figura umana. Caratteristici del luogo sono i pendagli a doppie protomi di bue e di ariete. Sono due teste per lo più rozzamente abbozzate e stilisticamente rappresentate, in cui sono però evidenziate le corna col paio anteriore delle zampe accoppiate insieme col dorso, da cui si solleva  l’eminenza forata dell’attaccagnolo. Di dimensioni talora notevoli, ne recavano sul corpo qualche volta cinque, dieci e più esemplari (v. Baglioni, “Picenum”, pag.12.).

Abbiamo pendagli a forma di tubetti, di anforette, di piccole armille, di lance, di frecce, di asticelle piene con nodi, di cerchielli, di conchiglie cypree talvolta con rivestimento di filo di rame, di dischi traforati, di bulle.

Sono presenti inoltre nelle tombe femminili oggetti di vario genere: statuette, amuleti d’avorio, fusaiole di terracotta stagno e bronzo, curaorecchi sormontati da figurine schematiche, balsamari, anelli, spilloni, palettine, ed altri oggettini per la cura del corpo.

Notevole è il fatto che due grandiose tombe femminili, certo di donne guerriere, contenevano armi e il carro da guerra, cioè oggetti eminentemente maschili, oltre un corredo composto di lussuosi e numerosi oggetti di ornamento personale. Il Dall’Osso (pag.42) crede di poter paragonare le due donne alle Ammazzoni dell’epopea, che pure combattevano sul carro, e le crede perciò guidatrici di schiere. Ma essendo queste, nel Piceno, le uniche tombe femminili del VI secolo nelle quali compaiono armi, è invece possibile che le due donne fossero mogli dei capi guerrieri i quali rendevano onore alla loro memoria collocando queste armi e questi carri da guerra, e insieme volevano che il loro ricordo rimanesse distinto dopo la morte (V. Dumitrescu, L’età del ferro nel Piceno, pag.12)

I corredi maschili sono ordinariamente assai scarni di oggetti di ornamento. I pochi che vi figurano consistono in fibule di bronzo e di ferro, in collanine di vaghi d’avorio, di bronzo e di pietra vitrea, in torques pesanti. Caratteristici del luogo sono anelloni a quattro o a sei nodi equidistanti fra loro, del peso complessivo che talvolta sorpassa i due chilogrammi. Non si conosce con precisione l’uso di questi anelloni, essendosi essi trovati sul petto e sul bacino. Si sono ritenuti pendagli sospesi alle vesti, fermagli di fascia (Allevi), dischi piatti portati nelle processioni come simboli del culto solare, oggetti musicali (Coritano), ornamento alle caviglie del piede; infine strumenti atletici o di pugilato, armi nel combattimento e corona nella vittoria (G.Speranza, Il Piceno dalle origini alla fine di ogni sua autonomia sotto Augusto, pag.181).

L’importanza del corredo maschile è data dalle armi. Abbondano le armi di difesa, tra le quali notiamo specialmente gli elmi. Alcuni sono del tipo Piceno, cioè a calotta sormontata da ‘Nikai’ schematiche, ed alcuni raggiungono enormi proporzioni a causa di una grossa treccia di paglia che ne imbottiva il giro interno. Vi sono anche esemplari di elmi di puro tipo Greco, e di tipo Corinzio e Illirico. Qualche tomba ne contiene più d’uno; ad esempio in una tomba lo scheletro era accompagnato da un elmo Piceno e da uno Greco, il che fa pensare che non usassero seppellire il guerriero soltanto con le armi che indossava, ma anche con armi altrui, forse quelle dei nemici che erano stati da lui vinti in battaglia.

Non si sono trovati scudi né vere corazze: abbiamo solo un’esemplare di corazza formata da due dischi collegati con cerniere, rinvenuto nella tomba più ricca, quella del condottiero. Probabilmente gli uomini di Belmonte usavano scudi e corazze di cuoio che il tempo non ha preservato e la cui presenza sarebbe rivelata da un denso strato di polvere color tabacco che era rimasto sul petto dei guerrieri. Frequenti sono i gambali di bronzo, alcuni dei quali giungono oltre il ginocchio, a volte rinvenute in numero di più di un paio per tomba.

Frequenti sono pure le armi di offesa; lance fino a nove tipi diversi, coi relativi sauroter talvolta rivestiti di lamina di bronzo; daghe di lunghezza svariata, anche colossale, giavellotti rotondi e quadrangolari, asce di ferro; più rare sono le bipenni di ferro che si sono ritrovate solamente  nelle tombe dei principali guerrieri; vi sono stati trovati anche rasoi lunati di ferro e di bronzo.

Ma l’interesse principale è costituito dai carri di battaglia, rinvenuti negli scavi governativi del 1909-12, e non mai in quelli occasionali. La presenza in Belmonte di questo importante ordigno di guerra conferisce alla necropoli una grande importanza. Altrove esso è stato rinvenuto soltanto a Cupramarittima nel Piceno, e solo in proporzioni ridotte. La biga, proveniente dall’Asia Minore, importata nella Grecia sin dai tempi della civiltà micenea, ripetutamente ricordata da Omero, consisteva in un carretto di dimensioni modeste, a due ruote basse, trascinato da due cavalli, su cui potevano trovar posto un guerriero in piedi e l’auriga. Le bighe rinvenute nella nostra necropoli sono esattamente di tipo greco; giacciono sopra lo scheletro, hanno ruote cerchiate di ferro coi tamburi dell’asse molto prominenti. Tutto il corredo della biga – tranne naturalmente i cavalli – era seppellito con essa: così costantemente si rinvengono anche due morsi di bronzo o di ferro dei cavalli (v. Baglioni, 1910 Picenum, pag.13). La forma delle bighe corrisponde esattamente alla descrizione dei carri omerici e a quelli che si vedono dipinti nei vasi arcaici greci, specialmente dell’acropoli ateniese.

Generalmente si è trovato un solo carro per ciascuna tomba: eccezionalmente se ne trovarono sei nella prima tomba scoperta, quella del condottiero. In complesso si rinvennero i resti di ben cinquanta carri.

Ricco e abbondante nelle tombe maschili il vasellame di bronzo e di terracotta; scarso invece nelle tombe femminili. In esso possiamo facilmente riconoscere i manufatti indigeni della popolazione Picena, diversi per la monotonia dei motivi e la semplicità dell’esecuzione, dagli oggetti importati da popoli più evoluti, ordinariamente greci.

Interessanti sono i vasi, purtroppo in buona parte distrutti dalla soluzione calcarea che abbonda in quel terreno e dall’acqua di infiltrazione; sono caldaie e lebeti con manico di ferro, bacini ad orlo piatto con decorazioni a treccia incisa, ciste a cordoni, ciste con zone di animali schematici a sbalzo, kinochoai, situle dovute ad una sicura corrente industriale paleogreca (v. Orsi, B.P.I., 1912, pag. 175). Di minori proporzioni sono le olle, le bacinelle, le patere baccellate, le barchette, le ciotole, le capeduncole. Anche i manici sono di forme notevoli, terminano cioè in protomi di cavalli, di leoni, di cani.

I vasi di terracotta sono in numero più rilevante. Fra quelli di sicura produzione locale possiamo annoverare i vasi di bucchero d’impasto nerastro o d’argilla rossastra, nonché i vasi d’argilla non perfettamente depurata, dipinti a decorazione geometrica; le forme che predominano sono quelle delle coppe ad alto piede, delle olle biconiche con anse a bugna, degli askoi. Oltre queste forme, abbiamo tipi grecizzanti, cioè imitazioni ad opera degli artisti locali di tipi importati: tazze con piede, tazze senza piede, kantharoi, kylikes, kinocoai, schyphoi. Alcuni esemplari di vasi di importazione sono di tipo precorinzio e corinzio, alcune kylikes, alcuni lekythoi del V secolo, e diversi crateri pugliesi di tipo messapico con orifizi imbutiformi.

Da questa sommaria esposizione di oggetti si rileva che vario è il  materiale di cui essi sono formati. Predomina su tutti il bronzo, la cui lavorazione era opera locale; infatti in alcuni luoghi sono venuti alla luce anche i relativi stampi. Molto inferiori, numericamente, sono gli oggetti di ferro. Assai scarso è l’oro, rappresentato soltanto da tre verghette e da sottili lamine o foglie forse per rivestimento, segno evidente che a Belmonte la ricchezza era intesa con significato più ideale. Egualmente raro l’argento che figura solo in oggetti frammentari, in un ventaglio a forma di segmento lunare e in una scodella ornata da animali fantastici di stile orientalizzante. Si è trovato spesso il vetro, nonché l’osso, e il dente di animale. Anche l’avorio veniva usato, sia pure con parsimonia; rarissimi sono gli oggetti di pietra, perché questa popolazione non era più dell’epoca eneolitica.

La materia invece che, accanto al bronzo, è più largamente rinvenuta a Belmonte, è l’ambra. In una sola tomba, ad esempio, se n’è estratta una quantità così grande da poter riempire un grande bacino (Dall’Osso pag. 373). Molti archeologi ritengono che l’ambra sia un prodotto commerciale importato dalle rive del Baltico, poiché non si ha notizia di ambra trovata nel Piceno. Obietta però giustamente il Dall’Osso (pag. XLII) che, date le proporzioni in cui essa venne usata nel Piceno e a Belmonte in particolare, non si comprende con quali mezzi i Piceni avrebbero potuto acquistare una materia allora tanto apprezzata e tanto costosa. Sembrerebbe più logico pensare che l’ambra si trovasse in natura nel Piceno stesso, e concordare con Plinio che affermava: “in extremis Adriatici sinus rupibus in viis arbores stare, quae Canis hoc effunderent gummi” <esserci nelle estreme rupi del mare Adriatico, nelle vie, “alberi del cane” che emanano questo tipo di resina (o pece)>.

Non sappiamo in quale luogo abitassero le genti che lasciarono sulla collina belmontese i loro morti, ma la ricchezza del materiale trovato fa supporre che le abitazioni non fossero molto lontane dal sepolcreto. Pensiamo anche che vi vivesse una popolazione fissa, a giudicare dal fatto che venne scelto sempre uno stesso luogo per venerare coloro che si erano spenti.

Il Dall’Osso (pag. 110) narra di aver trovato resti di vasti capannoni di forma rettangolare, alcuni dei quali anche di metri 50 di lunghezza per 8 di larghezza, probabilmente divisi in vari ambienti da tramezzi di legno, al centro dei quali era per lo più un grande dolio destinato a raccogliere l’acqua piovana, una specie cioè dell’impluvium romano. Simili capannoni, ritrovati in numero rilevante, si estendevano lungo strade ricoperte da uno strato di ghiaia minuta, come le case rinvenute negli scavi presso Rodi e nelle isole pompeiane. In questi capannoni del Colle Tenna vennero trovati avanzi di oggetti di ornamento di vasellame, in parte simili e in parte diversi da quelli ritrovati nelle tombe. Il Dall’Osso sostiene la tesi che essi costituissero l’abitato di quella gente che ha lasciato ai posteri il sepolcreto; aggiunge poi che in un secondo momento, dopo la invasione dei Romani, in questo stesso luogo dovette sorgere la Falerione Romana.

Certo il problema non può essere discusso con dati di fatto, perché non furono mai intrapresi scavi scientifici in quella località, ma, pur con i pochi dati che sono in nostro possesso, le affermazione del Dall’Osso lasciano un po’ perplessi: anzitutto non possediamo alcuna riproduzione di questi capannoni; in secondo luogo, abitazioni simili sarebbero le uniche in tutta la nostra Penisola. Certamente non è possibile non rilevare anzitutto il numero considerevole di chilometri che separa la necropoli dalla presunta acropoli; inoltre bisogna ricordare che i Falerionenses nominati dal Dall’Osso vissero perlomeno tre secoli dopo il periodo in cui vissero gli abitanti di Belmonte. Faleria infatti fu città che visse e si sviluppò nell’epoca imperiale romana: fu colonia dedotta da Augusto dopo la battaglia di Azio, secondo il Mommsen (CIL, IX, pag.518). Per voler sostenere una simile tesi bisognerebbe non solo passar sopra alla distanza che esiste tra il due località, ma anche dimostrare che la necropoli non ebbe mai altra abitazione, e che i capannoni non ebbero mai altro luogo di sepoltura. Il tutto è un po’ artificioso. Lasciamo quindi in sospeso la cosa, sperando che per l’avvenire nuovi scavi, nuovi studi, e soprattutto la possibilità di decifrare la scrittura della pietra tombale che possediamo, ci illuminino su questo punto che ancora non è possibile chiarire.

Altra trattazione descrittiva è l’opuscolo di Pirro Marconi e Luigi Serra: “Il Museo Nazionale delle Marche in Ancona” (1924). Belmonte viene considerata come “ la più grandiosa e la più ricca necropoli della civiltà Picena, in cui la vita schiettamente indigena deve essere continuata per almeno cinque secoli, dall’VIII al III, con periodi di eccezionale fiore” (pag.24). Come nel resto della regione, è frequente in essa l’uso dell’ambra; caratteristi sono alcuni oggetti, come certe doppie protomi taurine in bronzo talora usate come pendagli e non prive di valore sacro <amuleti> o magico, e certi anelloni con nodi.

Accanto ad opere di indubbia arte locale, troviamo a Belmonte oggetti raffinati provenienti dalle arti straniere, come ad esempio taluni superbi bronzi e bellissimi vasi dipinti dovuti alla espansione culturale Greca: ma è escluso che in questa necropoli sia giunta un’influenza etrusca o apula. Altri oggetti non furono materialmente importati, né dovuti alla fantasia degli artisti locali, bensì creati ad imitazione dei modi stilistici estranei. Si legge in questo opuscolo anche una descrizione riassuntiva di tutti gli oggetti ritrovati e depositati presso il museo di Ancona.

Una pubblicazione di Giannina Franciosi dal titolo: “Di una stele Picena del Museo Civico di Bologna proveniente da Belmonte Piceno” (a. 1924) tratta della grande stele funeraria di Belmonte, cioè di quella già descritta nel 1903 dal Brizio. La Franciosi  ne dà una descrizione e un’interpretazione diversa dal Brizio e la segnala all’attenzione degli archeologi quale monumento originalissimo della primitiva civiltà Picena.

Sempre nel 1924 in una relazione del Von Duhn , Reallexikon der Vorgerschichte” (in Erbert, Vol.1, pagg. 406 e segg.) Belmonte è tratteggiata a grandi linee quale il più importante luogo di scavi del Piceno. I cadaveri, deposti rannicchiati sul fianco destro (egli è l’unico che lo affermi – gli altri ritengono si tratti del fianco sinistro), giacevano su un sostegno di tavola con sopra una veste. Erano contornati da armi, oggetti d’ornamento e suppellettile funebre, forse avevano credenza nell’immortalità dell’anima e deponevano perciò nei vasi quei cibi che dovevano servire di sostentamento al morto durante il suo viaggio nell’aldilà: ciò si può rilevare da alcuni resti di un presumibile pasto funebre. La produzione locale è  caratterizzata da un sovraccarico barbarico di ornamenti che contrasta con la sobrietà degli oggetti d’importazione greca.

Nel 1927 Giuseppe Moretti pubblicò un articolo dal titolo: “Lo svolgimento della civiltà Picena dalla preistoria all’occupazione romana”. In esso, dopo aver brevemente scorso le teorie di illustri scienziati ed archeologi – fra cui il Colini e il Rellini – sulla origine del Piceni, traccia a grandi linee quelli che a suo avviso sono da ritenere i caratteri peculiari di questa civiltà arcaica. Di essi il primo e il più nobile è certamente quello di essere “sorta e di essersi mantenuta senza interventi stranieri, e di aver accettato solo quelle influenze che furono mezzo di avanzamento e di elevazione” (Moretti, pag.4).

La cultura Picena non fu toccata dai terramaricoli e dai palafitticoli che dall’Italia del Nord discesero per i due versanti dell’Appennino: essa rimase intatta, e incontaminato mantenne il rito funebre della inumazione “ col quale l’immagine del morto, nascosta ma non distrutta, rimaneva viva nella casa, fra i vivi” (Moretti, pag.5).

In questo persistere di usi e di riti è da considerare l’intimo carattere della vita spirituale, cioè la fermezza e la consapevolezza del valore delle proprie tradizioni. Nell’ambito di questa civiltà conservatrice, il sepolcreto di Belmonte occupa un posto a sé per i caratteri suoi specifici, e maggiormente ci illumina su tutto il Piceno per l’abbondanza degli oggetti che vi si rinvennero. Belmonte è “ una delle più vaste e multiformi necropoli scavate mai”; essa, “nella stretta valle del Tenna aperta a mare e senza sbocco a monte, offre le più autentiche distinzioni della nostra civiltà del ferro” (Moretti, pag. 13) fra le quali il Moretti annovera le potenti armature e i resti dei cinquanta carri che sono il più adeguato esponente della sua prima qualità, che fu la fierezza. Per quanto riguarda il suo patrimonio artistico egli riscontra, accanto ad elementi ellenici o comunque importati, meravigliose fioriture di prodotti della civiltà locale e dell’arte spontanea o semplicemente ispirata.

Nello stesso anno il Baglioni ha riassunto gli aspetti della necropoli belmontese di cui era stato il primo studioso pubblicista. Dopo aver rievocato gli scavi che vi furono effettuati, e la bibliografia che aveva trattato l’argomento, esamina nuovi aspetti e nuovi problemi connessi con il sepolcreto belmontese.

Anzitutto il nome e l’origine della popolazione. Il nome del luogo, Belmonte, non ha una storia né una tradizione nobile preromana, né romana. E’ menzionato nei documenti antichi connessi con Farfa (sec. XI), come castello che dapprima ebbe vita indipendente per passare poi sotto il dominio di Fermo (sec XIII).

Ma la popolazione arcaica, a giudicare dagli oggetti sin oggi rinvenuti, per il numero e per l’importanza, dové certamente avere un insediamento più grande dell’attuale castello. “Essa dovette essere indubbiamente una florida e potente città composta da agricoltori e da guerrieri – capaci di difendersi, ma non bramosi di conquistare -, amanti dello sfarzo, del lusso e degli oggetti artistici, che sapevano apprezzare e quindi ricercare ornamenti preziosi del corpo e della casa; aveva una letteratura, o per meglio dire possedeva l’arte della scrittura, molte professioni, quali quelli della fusione del bronzo, della manipolazione del ferro e di progredita ceramica. Di questa città Picena ignoriamo il nome (Baglioni,  bollettino ”Istituto Marchigiano di scienze, lettere ed arti”, a. 1927, pag.9).

La necropoli subì indubbiamente l’influenza della civiltà contemporanea greca: ne fanno fede sia la forma delle lettere dell’iscrizione che ricorda quella del greco arcaico, sia gli oggetti della ricca suppellettile delle tombe. Quest’influenza è lecito supporre sia dovuta al facile commercio esistente fra l’una e l’altra sponda dell’Adriatico per mezzo della navigazione.

Sempre nel 1927 è un importante trattato inglese su periodo della preistoria italica: ”The iron age in Italy” di D. Randall Mac Iver.  Nel capitolo dedicato ai Piceni (pag. 105), Belmonte figura in primo piano: viene definita come un sito ricchissimo e importantissimo, che ha fornito una così grande percentuale del contenuto del Museo di Ancona.  Per stabilire la cronologia, il Mac Iver ricorre alle fibule delle quali mostra una serie rappresentativa nella fig. 26 del suo trattato. Poiché le fibule serpentine di Novilara dell’VIII e VII secolo non figurano, poiché nessuna delle fibule che si trovarono è di prima del secolo VI e quelle di Certosa vi sono in preponderanza, poiché nella tomba 27 figura un balsamario protocorinzio del secolo VII, e poiché in altre tombe vi sono vasi greci dipinti del sec. V, le prime tombe a Belmonte sono circa del 650 a.C. e il cimitero continua almeno fino a 450 a.C. Esso ebbe grandi connessioni e affinità con i greci e specialmente con gli Ioni.

Il Mac Iver parla poi degli oggetti specifici del Piceno, tra i quali quelli di Belmonte figurano in primo piano. Abbiamo quindi descrizioni di torques, collane, braccialetti,  anelloni con nodi, doppie protomi di animali, armi, carri, vasi di bronzo, vasellame in genere. In generale possiamo dire che questo sepolcreto è quello che più ricorre nelle citazioni dello studioso inglese, il quale conclude quindi il suo capitolo con un paragrafo dedicato alle origini e alle connessioni della civiltà Picena.

Altra opera di autore non italiano, ma scritta in lingua italiana, nella quale si è studiata ed descritta la cultura arcaica di Belmonte, è “L’età del ferro nel Piceno fino all’invasione dei Galli Senoni” di Vladimir Dumitrescu, edita a Bucarest nel 1929. È una trattazione chiaramente tipologica che raggruppa e descrive le varie categorie di oggetti rinvenuti nelle varie necropoli del Piceno, tra le quali è in primo piano quella di Belmonte.

Egli collega la cronologia di questo sepolcreto fra il VII e il V secolo a.C., a motivo della presenza di alcuni elementi del sec. V – tra cui i vasi greci d’importazione –  e di molti elementi del secolo VII – ad esempio alcuni vasi ed elmi corinzi. Vi rileva la presenza anche di elementi grecizzanti, specie nelle ambre e negli avori lavorati, dovuti all’influenza culturale greca .

Del 1933 è una pubblicazione di Pirro Marconi sulla rivista “Rassegna Marchigiana delle arti”: D’un bronzo di Numana e della cultura orientalizzante nel Piceno... Si può annotare come gli abitatori della regione Picena erano i Picentes; Piceno è un nome convenzionale che fu dato dai Romani alla V ‘Regio’. E noi usiamo proiettare in tempi più antichi un termine che ci è conosciuto per tempi storici. Il Marconi dice che il Piceno ricevette influenze da diverse culture e civiltà, conservando sempre la sua elementarità di vita sulle sue antichissime basi. Così nella vita del Piceno concorsero due correnti parallele, l’una di cultura propria, l’altra di afflusso di correnti civilizzatrici, senza che mai il l’una assorbisse sopraffacendo l’altra. Belmonte, ad esempio, oltre che avere un’arte e una cultura propria, è influenzata da una cultura proveniente dal bacino dell’Egeo, nel periodo che precedette il pieno definirsi degli stili greco ed etrusco, cioè la cultura praticata nel periodo cosiddetto “orientalizzante”.

Marconi afferma di non dover assolutamente ritenere Picene le migliori opere di Belmonte, come aveva invece creduto il Dall’Osso, ma di doverle attribuire a una tradizione schiettamente orientalizzante, a un’importazione dalla Grecia Ionica. Esse sono: bronzi incisi e sbalzati, ambre e avori scolpiti e incisi. Talune non sono genuine ma da attribuire a fenomeni di “attardamento” in un sito lontano dalle correnti d’importazione. Lo studioso riconferma inoltre come nessuna influenza culturale etrusca o apula sia penetrata nel coevo territorio di Belmonte.

Un’altra pubblicazione tedesca interessante per lo studio di questa necropoli è la “Italische Graeberkunde” di F. Masserschmidt e F. Von Duhn edita nel 1939. Consiste in una leggera amplificazione di quell’articolo del Von Duhn che fu edito nel 1924 e già ricordato.

Il Von Duhn (vol. II, pagg. 219-223) non dà alcuna importanza all’affermazione del Dall’Osso circa l’esistenza di un abitato di Belmonte, essendo esso non documentato. Considera il sepolcreto di Belmonte quale tipo esemplare del Piceno Sud, come Novilara lo è del Piceno Nord; e ne descrive succintamente la suppellettile.

Altra pubblicazione che riguardi Belmonte è “Vita dei Piceni“ di Pericle Ducati, edita nel 1942. Il Ducati passa in rassegna la vita dell’antico Piceno, il quale si evolvette passando attraverso tre stadi diversi di cultura e d’arte, e precisamente una prima fase arcaica di arte geometrica, una seconda d’arte orientalizzante e ionicizzante, una terza di arte atticizzante. Belmonte caratterizza la seconda fase. Dice infatti il Ducati che “i caratteri del popolo Piceno all’apice della sua potenza risaltano a linee nette, precise, dal sepolcreto di Belmonte (pag.8).

In esso, specie nella tomba del condottiero, si può rievocare l’aspetto di queste genti guerriere, giacché l’intima essenza dei Piceni fu la guerresca fierezza che rimase integra pur con gli innegabili influssi esercitati dalla Etruria e dalla Grecia che nel VII e nel VI secolo godevano di una più raffinata civiltà. Fu una civiltà rude, severa, questa di Belmonte. Basta pensare che vi fu ritrovata solo qualche sottile lamella d’oro, e confrontarla con la profusione che se ne riscontra invece in Etruria.

Caratteri fondamentali della popolazione furono fierezza e combattività: “dormivano l’ultimo sonno in grembo alla terra, raccolti nei loro ornamenti, nella loro armi difensive, con accanto le poderose spade, gli agili pugnali, le salde bipenni, le lance, i giavellotti. E nelle tombe di questi guerrieri, dei capi, erano i carri; talora in una sola tomba in numero di due, di tre, anche di sei (Ducati, pag.9).

Milizia superba rifulgente di metallo che andava alla battaglia su carri, come gli eroi di Omero, e discesa dai carri combatteva con foga impetuosa in duelli atroci, disperati. Anche la donna sarebbe stata talora un’ardente virago.

Scaturisce da queste tombe la visione di un mondo risonante di armi.

CONCLUSIONI

Non è possibile definire completamente gli usi, i costumi, l’età della gente di Belmonte, senza aver prima dato uno sguardo a quella popolazione confinante che visse nella zona aspra e impervia dell’Abruzzo montagnoso. Occorre stabilire quali rapporti siano esistiti fra la civiltà sabellica e la civiltà del Piceno meridionale, che abbiamo veduto rappresentata da Belmonte.

La civiltà sabellica è rappresentata da Alfedena sul Sangro: esaminando il materiale trovato nel vasto sepolcreto presso questa città, abbiamo l’impressione di trovarci a contatto con un popolo attaccato alle proprie tradizioni, popolo forte e fiero; in realtà la forza e la fierezza dei montanari guerrieri e pastori si rispecchiano nelle poderose cinta di mura poligonali, possenti nella loro durezza, che hanno un carattere di ostacolo, di impedimento ad eventuali invasori. In tutto ciò è la documentazione del selvaggio isolamento di questa aspra zona d’Italia: essa visse lontana dalle correnti civilizzatrici che agivano maggiormente sulle coste marittime, e subì soltanto lievi influenze estranee.

Pure alcuni caratteri sembrano avvicinare gli abitanti di questa zona segregata a quelli di Belmonte e del Piceno meridionale, in genere. Identico il rito funebre, segno indubbio di fedeltà alle vetuste tradizioni che essi ebbero in comune. Anche il materiale presenta sensibili analogie, cioè il materiale che è di sicura produzione locale, essendo in Alfedena quasi assente ogni influenza greca. Troviamo nelle due città la stessa predilezione per tutti i fronzoli per ornare la persona, lo stesso sviluppo degli ornamenti di bronzo di dimensioni considerevoli, la stessa scarsezza di metalli preziosi. Spesso le forme degli ornamenti sono identiche: così accade per le torques. Ma notevoli sono le differenze, specie nella ceramica e nelle armi. Differenza di carattere generale senza dubbio quell’aspetto di rudezza e semplicità che emana dalle tombe di Alfedena, al confronto dell’arte e della finezza che gli oggetti più raffinati di Belmonte evocano. Pure la civiltà caratteristica del popolo alfedenese, fiero ed indomito, è simile alla parte più semplice e più schiettamente indigena della civiltà del Piceno meridionale; e se riflettiamo che relativamente difficili dovettero essere gli scambi con una zona isolata tra i monti, non possiamo non pensare che le somiglianze che abbiamo riscontrato fossero dovute ad un punto etnico comune che si mantenne integro e severo nel Sannio, mentre raggiunse nel Piceno un elevato grado di raffinatezza e di arte avendo, per la posizione geografica, agio di apprezzare più progredite civiltà e di fruirne l’influsso. La popolazione di Belmonte rimane dunque definita nei suoi caratteri in rapporto alle popolazioni coeve e confinanti. La discendenza comune proviene da un unico ceppo che si stanziò fin dai tempi anteriori nel Piceno e nel Sannio, e i cui caratteri fondamentali furono il rito funebre dell’inumazione e il carattere guerriero. Dal punto di vista archeologico: le tombe di Belmonte, per le forme della ceramica e per le suppellettili che le accompagnano, devono classificarsi assieme con le tombe di Montegiorgio e di Cupramarittima, e in genere con le tombe del Piceno meridionale, che ci presentano le forme di vita delle popolazioni della prima età del ferro e si manifestano di civiltà simile. Per certi aspetti particolari Belmonte si ricollega ad Alfedena, ma se ne distacca per la sua ricchezza e sfarzosità che non trova riscontro in Alfedena stessa. Per altri molteplici aspetti le tombe di Belmonte differiscono da quelle di Fermo e di Novilara più arcaiche, e da quelli di Numana, di Ancona e di Montefortino più recenti. I fatti esposti provano che la necropoli appartiene cronologicamente al periodo dell’età del ferro che va dall’VIII al V secolo.

Nessun oggetto autorizzerebbe a far iniziare la datazione della necropoli prima del sec. VII se non avessimo quella fibula ad arco di violino che ha originato tante discussioni. Molti si trovano d’accordo nel non darle valore alcuno, e tra questi è il Dumitrescu che la considera trovata lì per caso e non attribuibile al sepolcreto. Non si può certo spostare l’inizio della necropoli molto indietro nel tempo perché mancano altri dati per farlo, e il solo in nostro possesso, proprio per la sua unicità, ci fa pensare che appartenesse ad una stazione o ad una tomba alquanto più antica delle più antiche tombe del sepolcreto. Tutt’al più si può fare iniziare verso il secolo VIII.

Per il VII secolo abbiamo molti elementi sicuri, quali ad esempio la ceramica protocorinzia, una certa somma di stoviglie dipinte a imitazione dei modelli greci con linee rosse su fondo chiaro, gli elmi corinzi e  un balsamario protocorinzio. Infiniti sono gli elementi che ci dimostrano come l’abitato rispettivo abbia avuto una vita più intensa nel secolo VI: in special modo i vasi di bucchero che, secondo quanto sostiene il Montelius , appaiono nel 5° periodo dell’età del ferro – quindi conformemente alla cronologia sua nel VII secolo, e secondo la nostra cronologia nel VI secolo -; le fibule Certosa e derivate, l’abbondanza del materiale di ferro in rapporto a quello di bronzo e altri elementi, fra i quali pure i vasi greci d’importazione. Poi ben altri vasi greci del secolo V ci dimostrano come la necropoli sia stata usata pure durante questo secolo. Secondo  il Dumitrescu e il Mac Iver non avremmo nessun elemento per tentare di fissare una datazione anche posteriore al sec. V:

Belmonte sarebbe dunque coeva di Montegiorgio, di Cupramarittima, di Offida, di Atri e di Spinetoli; sarebbe posteriore a Fermo e a Monte Roberto ed alla parte più antica del sepolcreto di Novilara.  Terminerebbe prima di Numana e di Ancona.

I corredi delle tombe di Belmonte, spiccano, come si disse, per la loro ricchezza e per la loro varietà; che denotano una civiltà ben avanzata per quanto ancora amante delle forme fastose pesanti tipicamente barbare.

Fra i prodotti di sicura produzione locale figurano opere di diretta importazione dalla Grecia o di imitazione locale dei tipi e delle forme Greche; queste opere contrastano con le opere puramente picene per una sobrietà ed una finezza estranee all’arte locale picena. L’influenza Greca sarebbe la sola ad essere penetrata in Belmonte, ed attesterebbe un intenso commercio esistente tra la popolazione del luogo e quella Greca. Commercio, sebbene scarso, sarebbe esistito anche con l’Apulia, senza però che ne venisse una benché minima influenza artistica e culturale. L’influenza etrusca non si noterebbe in nessuno degli oggetti.

La magnifica ricchezza e fioritura d’arte di Belmonte era certamente messa in rapporto con la posizione geografica della necropoli, trovandosi essa sul fianco di una collina presso il fondovalle: valle lunga e ampia che dagli ultimi declivi dell’Appennino si apre fino al mare; l’abitato dovette essere perciò il punto di partenza e di arrivo di coloro che risalivano o scendevano i monti, l’ultima zona di pianura venendo dal mare; perciò fu certamente punto di traffico e di commercio. A ciò si aggiunge la vicinanza del fiume, che fu sempre ricercata dalle popolazioni arcaiche quale luogo di residenza.

Si ha pertanto un quadro di vita varia ed intensa di una delle genti le quali, sempre più accostandosi e fondendosi, davano gradatamente origine all’etnia italica.

Prof. Adriana Brugnolini

<digitazione di Albino Vesprini>

 

 

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